TR-46
31.12.2021
In un teatro scoppiò un incendio dietro le quinte. Un clown uscì sul palcoscenico per avvertire il pubblico. Gli spettatori pensarono a uno scherzo e applaudirono divertiti. Il clown, in preda al panico, ripetè l’annuncio. I presenti gli risposero con risa ancor più scroscianti, certi di assistere a una semplice recita. È così, scrisse il filosofo danese Soren Kierkegaard, che il mondo rischia di giungere a distruzione: tra l’ilarità generale dei buontemponi, convinti che sia tutto un gioco.
Questa folgorante storia potrebbe benissimo riassumere la trama di Don’t Look Up, il film di Adam McKay che racconta con surreale comicità gli ultimi giorni del pianeta prima dell’apocalisse. In questo caso i clown sono due astronomi, interpretati da Leonardo DiCaprio e Jennifer Lawrence, i quali scoprono l’imminente impatto sulla Terra di una cometa dalle enormi dimensioni, in grado di provocare l’estinzione di ogni specie vivente. Il pubblico che ride del nefasto annuncio nel teatro di Kierkegaard è interpretato nel film dai potenti del mondo, dai grandi media al Presidente degli Stati Uniti in persona. Tale condizione di illusoria sicurezza è inoltre in gran parte assimilabile a quella di coloro che guardano il film e ritengono di riconoscere con la giusta dose di distacco la catastrofe raccontata sullo schermo come, appunto, messa in scena.
Quel che di cruciale rivela la storia dell’incendio nel teatro ha soprattutto a che fare con la tendenza, evidente nell’epoca contemporanea ma presente anche in altre civiltà e sistemi sociali del passato, di rimuovere la dimensione del dolore dai discorsi pubblici e dalle rappresentazioni collettive di una comunità. La nostra società ha una tale paura dell’abisso che il pensare la morte può generare che film come Don’t Look Up e, per ragioni diverse, House of Gucci di Ridley Scott risultano emblematici nelle scelte che adottano per schivare la radicalità di questo pensiero, declinando piuttosto la morte come grottesco gioco spettacolare o elemento narrativo all’interno di un impianto che trasfigura il dramma in parodia.
Come ben ripercorso da Davide Sisto in un articolo su Doppiozero, nel suo recente saggio intitolato La società senza dolore (Einaudi, 2021) il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han teorizza come l’impetuoso sviluppo tecnologico e la sempre più pressante richiesta di performatività in ogni ambito della vita siano fattori alla base di questa profonda rimozione del dolore. L’odierno sistema capitalistico, in nome del profitto e della continua necessità di soddisfare i propri bisogni, mal contempla la possibilità di mostrarsi vulnerabili e interrogarsi sugli aspetti irrazionali dell’esistenza. Questo consapevole rifiuto conduce l’umano a privarsi di ciò che più gli appartiene - il dolore, la miseria - e quindi a ritrovarsi soggiogato di fronte a imperativi logico economici all’apparenza ineludibili.
Se c’è un atteggiamento di fondo che la pandemia causata dal Covid ha portato alla luce è stato proprio questa incapacità contemporanea di affrontare la morte, indagarne gli scarti e comprenderne la natura. Sono ormai molti mesi che proviamo a convincerci di come la ripartenza sia già in atto e di quanto la rinascita sia visibile dietro l’angolo, a portata di mano, salvo poi fare i conti con le nuove cadute e i progressivi aumenti dei contagi. Quel che raramente abbiamo fatto però è stato riflettere sul perché ci siamo fermati e su cosa abbiamo perso nel periodo in cui siamo stati fermi. Questa riflessione rimossa non è altro che riflessione sul dolore e sulla morte. Davvero ci siamo ridotti così? Davvero neanche la notizia che il mondo sta per essere spazzato via ci interessa più? Questo si chiede il personaggio interpretato da DiCaprio in una scena di Don’t Look Up che sembra racchiudere il nostro tempo e domandarci ragione per la nostra distrazione e il nostro fantomatico desiderio di ripartire verso non si sa quale buio.
Due diverse morti sono il filo conduttore e il cuore delle narrazioni di Don’t Look Up e House of Gucci. Se il film di McKay ipotizza l’irreale, ovvero l’estinzione di tutto il genere umano, l’opera di Scott ricostruisce un vero fatto di cronaca, l’omicidio nel marzo del 1995 di Maurizio Gucci ad opera di due uomini assoldati dall’ex moglie Patrizia Reggiani. Se il primo profetizza una sorta di destino universale, il secondo rappresenta un dramma intimo e venato di morbosità. Ciò che, nonostante le differenze, accomuna questi racconti di morte rendendoli interessanti non è tanto la storia, ma la posizione disillusa e dissacrante che assumono nei confronti di essa. Entrambi questi film sembrano innanzitutto possedere la lucida consapevolezza del tempo a cui appartengono. In una società nella quale l’idea della morte è rinnegata, il conformista filone commerciale a cui queste opere si iscrivono per cast, budget e produzione non avrà che due possibilità se intende arrischiarsi nella sfida di dare forma al dolore: criticare più o meno aspramente il processo della sua rimozione sociale o esorcizzarne l’angoscia nel divertimento ludico e nel piacere derivato dallo slittamento della tragedia in farsa.
House of Gucci percorre questa seconda via trasformando la storia dei Gucci e del loro impero nell’industria della moda in un’epopea familiare dagli improbabili risvolti mafiosi. Da Jared Leto ad Al Pacino, da Adam Driver a Lady Gaga, tutti gli attori offrono interpretazioni a tal punto esagerate da diventare maschere di una stessa rozza desolazione. Si vuole fare un complimento al film quando gli si dice che non è brutto, ma più propriamente orrido e sgraziato, in quanto provoca repulsione per la sua disordinata classe, per la sua totale mancanza di garbo nella recitazione, misura nella scrittura e armonia fra le parti. In questo contesto, si capisce come l’evento dell’omicidio con cui si apre e conclude il film non svolga la classica funzione di apice drammatico, ma semmai, in quanto frammento fra gli altri di una narrazione che esibisce ripetutamente la sua maldestra volgarità, contribuisca invece ad attestarne la scomparsa.
Se in House of Gucci la morte è dunque elemento parodico e cattiva riproduzione di un’idea di dolore, in Don’t Look Up viene rappresentata come un castigo al limite del sovrannaturale che punisce l’umanità per la sua inadeguatezza.
Il film di McKay è scaltro e intelligente nello sfruttare l’arma del cinismo e i codici dell’iperbole satirica per puntare il dito contro un sistema culturale insano, una comunicazione mediale sempre più narcisistica e una classe politica superficiale e condizionata da interessi privati. Tuttavia, una critica del genere risulta tanto condivisibile quanto annacquata e priva di efficace carica sovvertitrice. Questo perché ancora una volta è lo spettacolo della morte a prendere il sopravvento sulla morte in sé, intesa come radicale domanda di senso. Don’t Look Up si toglie lo sfizio di deridere lo status quo ma si guarda bene dall’attaccarlo, così come descrive ripetutamente la morte come una terribile minaccia senza però mai esplorarne le voragini, delinearne i contorni o approfondire i significati concreti del dolore che porta con sé. Del resto non è quello il suo obiettivo. Di nuovo, non è tanto il rapporto che abbiamo con la morte a interessare queste opere, quanto la possibilità di tramutare quest’ultima in gioco, spettacolo, vignetta umoristica.
House of Gucci e Don’t Look Up non saranno probabilmente ricordati come i film più belli dell’anno, ma andrebbero forse considerati come quelli che meglio hanno saputo cogliere la peculiare sensibilità di questo momento storico così incerto e sospeso. Un’epoca in cui la sofferenza rimane una perdita di tempo e la morte il più inquietante dei tabù. Un’epoca in cui la farsa domina sulla tragedia, il teatro continua a essere in fiamme e a noi, così come al cinema, non resta che ridere sperando che sia davvero solo uno scherzo.
TR-46
31.12.2021
In un teatro scoppiò un incendio dietro le quinte. Un clown uscì sul palcoscenico per avvertire il pubblico. Gli spettatori pensarono a uno scherzo e applaudirono divertiti. Il clown, in preda al panico, ripetè l’annuncio. I presenti gli risposero con risa ancor più scroscianti, certi di assistere a una semplice recita. È così, scrisse il filosofo danese Soren Kierkegaard, che il mondo rischia di giungere a distruzione: tra l’ilarità generale dei buontemponi, convinti che sia tutto un gioco.
Questa folgorante storia potrebbe benissimo riassumere la trama di Don’t Look Up, il film di Adam McKay che racconta con surreale comicità gli ultimi giorni del pianeta prima dell’apocalisse. In questo caso i clown sono due astronomi, interpretati da Leonardo DiCaprio e Jennifer Lawrence, i quali scoprono l’imminente impatto sulla Terra di una cometa dalle enormi dimensioni, in grado di provocare l’estinzione di ogni specie vivente. Il pubblico che ride del nefasto annuncio nel teatro di Kierkegaard è interpretato nel film dai potenti del mondo, dai grandi media al Presidente degli Stati Uniti in persona. Tale condizione di illusoria sicurezza è inoltre in gran parte assimilabile a quella di coloro che guardano il film e ritengono di riconoscere con la giusta dose di distacco la catastrofe raccontata sullo schermo come, appunto, messa in scena.
Quel che di cruciale rivela la storia dell’incendio nel teatro ha soprattutto a che fare con la tendenza, evidente nell’epoca contemporanea ma presente anche in altre civiltà e sistemi sociali del passato, di rimuovere la dimensione del dolore dai discorsi pubblici e dalle rappresentazioni collettive di una comunità. La nostra società ha una tale paura dell’abisso che il pensare la morte può generare che film come Don’t Look Up e, per ragioni diverse, House of Gucci di Ridley Scott risultano emblematici nelle scelte che adottano per schivare la radicalità di questo pensiero, declinando piuttosto la morte come grottesco gioco spettacolare o elemento narrativo all’interno di un impianto che trasfigura il dramma in parodia.
Come ben ripercorso da Davide Sisto in un articolo su Doppiozero, nel suo recente saggio intitolato La società senza dolore (Einaudi, 2021) il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han teorizza come l’impetuoso sviluppo tecnologico e la sempre più pressante richiesta di performatività in ogni ambito della vita siano fattori alla base di questa profonda rimozione del dolore. L’odierno sistema capitalistico, in nome del profitto e della continua necessità di soddisfare i propri bisogni, mal contempla la possibilità di mostrarsi vulnerabili e interrogarsi sugli aspetti irrazionali dell’esistenza. Questo consapevole rifiuto conduce l’umano a privarsi di ciò che più gli appartiene - il dolore, la miseria - e quindi a ritrovarsi soggiogato di fronte a imperativi logico economici all’apparenza ineludibili.
Se c’è un atteggiamento di fondo che la pandemia causata dal Covid ha portato alla luce è stato proprio questa incapacità contemporanea di affrontare la morte, indagarne gli scarti e comprenderne la natura. Sono ormai molti mesi che proviamo a convincerci di come la ripartenza sia già in atto e di quanto la rinascita sia visibile dietro l’angolo, a portata di mano, salvo poi fare i conti con le nuove cadute e i progressivi aumenti dei contagi. Quel che raramente abbiamo fatto però è stato riflettere sul perché ci siamo fermati e su cosa abbiamo perso nel periodo in cui siamo stati fermi. Questa riflessione rimossa non è altro che riflessione sul dolore e sulla morte. Davvero ci siamo ridotti così? Davvero neanche la notizia che il mondo sta per essere spazzato via ci interessa più? Questo si chiede il personaggio interpretato da DiCaprio in una scena di Don’t Look Up che sembra racchiudere il nostro tempo e domandarci ragione per la nostra distrazione e il nostro fantomatico desiderio di ripartire verso non si sa quale buio.
Due diverse morti sono il filo conduttore e il cuore delle narrazioni di Don’t Look Up e House of Gucci. Se il film di McKay ipotizza l’irreale, ovvero l’estinzione di tutto il genere umano, l’opera di Scott ricostruisce un vero fatto di cronaca, l’omicidio nel marzo del 1995 di Maurizio Gucci ad opera di due uomini assoldati dall’ex moglie Patrizia Reggiani. Se il primo profetizza una sorta di destino universale, il secondo rappresenta un dramma intimo e venato di morbosità. Ciò che, nonostante le differenze, accomuna questi racconti di morte rendendoli interessanti non è tanto la storia, ma la posizione disillusa e dissacrante che assumono nei confronti di essa. Entrambi questi film sembrano innanzitutto possedere la lucida consapevolezza del tempo a cui appartengono. In una società nella quale l’idea della morte è rinnegata, il conformista filone commerciale a cui queste opere si iscrivono per cast, budget e produzione non avrà che due possibilità se intende arrischiarsi nella sfida di dare forma al dolore: criticare più o meno aspramente il processo della sua rimozione sociale o esorcizzarne l’angoscia nel divertimento ludico e nel piacere derivato dallo slittamento della tragedia in farsa.
House of Gucci percorre questa seconda via trasformando la storia dei Gucci e del loro impero nell’industria della moda in un’epopea familiare dagli improbabili risvolti mafiosi. Da Jared Leto ad Al Pacino, da Adam Driver a Lady Gaga, tutti gli attori offrono interpretazioni a tal punto esagerate da diventare maschere di una stessa rozza desolazione. Si vuole fare un complimento al film quando gli si dice che non è brutto, ma più propriamente orrido e sgraziato, in quanto provoca repulsione per la sua disordinata classe, per la sua totale mancanza di garbo nella recitazione, misura nella scrittura e armonia fra le parti. In questo contesto, si capisce come l’evento dell’omicidio con cui si apre e conclude il film non svolga la classica funzione di apice drammatico, ma semmai, in quanto frammento fra gli altri di una narrazione che esibisce ripetutamente la sua maldestra volgarità, contribuisca invece ad attestarne la scomparsa.
Se in House of Gucci la morte è dunque elemento parodico e cattiva riproduzione di un’idea di dolore, in Don’t Look Up viene rappresentata come un castigo al limite del sovrannaturale che punisce l’umanità per la sua inadeguatezza.
Il film di McKay è scaltro e intelligente nello sfruttare l’arma del cinismo e i codici dell’iperbole satirica per puntare il dito contro un sistema culturale insano, una comunicazione mediale sempre più narcisistica e una classe politica superficiale e condizionata da interessi privati. Tuttavia, una critica del genere risulta tanto condivisibile quanto annacquata e priva di efficace carica sovvertitrice. Questo perché ancora una volta è lo spettacolo della morte a prendere il sopravvento sulla morte in sé, intesa come radicale domanda di senso. Don’t Look Up si toglie lo sfizio di deridere lo status quo ma si guarda bene dall’attaccarlo, così come descrive ripetutamente la morte come una terribile minaccia senza però mai esplorarne le voragini, delinearne i contorni o approfondire i significati concreti del dolore che porta con sé. Del resto non è quello il suo obiettivo. Di nuovo, non è tanto il rapporto che abbiamo con la morte a interessare queste opere, quanto la possibilità di tramutare quest’ultima in gioco, spettacolo, vignetta umoristica.
House of Gucci e Don’t Look Up non saranno probabilmente ricordati come i film più belli dell’anno, ma andrebbero forse considerati come quelli che meglio hanno saputo cogliere la peculiare sensibilità di questo momento storico così incerto e sospeso. Un’epoca in cui la sofferenza rimane una perdita di tempo e la morte il più inquietante dei tabù. Un’epoca in cui la farsa domina sulla tragedia, il teatro continua a essere in fiamme e a noi, così come al cinema, non resta che ridere sperando che sia davvero solo uno scherzo.