L’importanza dei personaggi secondari
nel cinema dei fratelli Coen,
di Eduardo Bigazzi
TR-99
20.04.2024
Quando lo sceneggiatore Noah Hawley presentò la sua bibbia di serie per sviluppare Fargo (2014-2024), chiuse il documento con un’intera pagina su chi o cosa fosse Mike Yanagita. Scelta indubbiamente coraggiosa, che sottolinea tuttavia l’importanza di questo personaggio. Ma, in effetti: chi o cosa è Mike Yanagita?
Per chi non ricordasse, nel film Fargo (1996) Mike Yanagita è un ex compagno di scuola di Marge, la poliziotta protagonista interpretata dalla grande e irreprensibile Frances McDormand. I due si incontrano per la prima volta dopo tanto tempo e, in una scena tra l’imbarazzante e il grottesco, Yanagita le racconta che sua moglie è morta di cancro e per questo si sente disperatamente solo. 3 minuti di scena e fine della storia. Un paio di sequenze più tardi, però, Marge scopre che la moglie di Yanagita non è assolutamente morta, che non è assolutamente sua moglie e che lui è assolutamente uno psicopatico. La trama del film prosegue e di Mike Yanagita non si ha mai più notizia. Così, all’apparenza, la sua presenza risulta decisamente insensata e del tutto casuale. Quindi la domanda diventa: perché Mike Yanagita? Perché in un thriller con già molti personaggi e linee di trama intrecciate, esattamente a metà film si aggiunge Mike Yanagita che chiama la protagonista chiedendole di incontrarsi?
Il personaggio non si inserisce nelle logiche classiche della narrazione cinematografica, dove ogni elemento è un tassello necessario per costruire e sviluppare la trama. Anzi. Mike Yanagita è presentato come un qualsiasi episodio di vita comune: imprevedibile, circoscritto e fine a sé stesso. Accade e basta. Eppure il suo inserimento nell’economia del film non è per nulla casuale. Perché è solo dopo averne scoperto la vera storia che Marge si mette in dubbio: si rende conto che le persone sono capaci di mentire e che lei probabilmente è un’ingenua. Di conseguenza torna sui propri passi, interroga nuovamente un sospettato e innesca così la risoluzione di tutta la vicenda. La presenza di Mike Yanagita non serve quindi a creare mancanza di senso, ma a mostrare che il senso, nell'universo, è aperto a interpretazione. E questa è una chiave tematica fondamentale non solo in Fargo ma in tutta la filmografia di Joel ed Ethan Coen, meglio conosciuti al grande pubblico semplicemente come “fratelli Coen”.
Ma chi sono, questi fratelli Coen?
Nati in Minnesota con tre anni di distanza da una famiglia di ebrei Ashkenazi, appartenenza che influenzerà fortemente la loro filmografia, i due cineasti si sono sin da piccoli dilettati nel cinema ricreando i film che vedevano in televisione con la loro Super 8. E dopo gli studi, i primi lavori e la conoscenza di Sam Raimi, si sono ritrovati a voler fare il loro primo, vero lungometraggio. Certo realizzare un film non è cosa così semplice, soprattutto nei lontani anni ‘80 dove la tecnologia non permetteva di avere un accesso ai video veloce e di qualità come oggi. Quindi i due fratelli si sono rimboccati le maniche, hanno scritto la loro sceneggiatura e hanno girato un trailer, filmato da Barry Sonnenfeld (futuro regista e direttore della fotografia) e con Bruce Campbell (prolifico attore nonché feticcio del già citato Raimi) come protagonista. Per chi fosse curioso di come un trailer sia riuscito a far racimolare a due sconosciuti un milione e mezzo da spendere in un film indipendente, lo si può facilmente reperire online.
Certo, ci volle un anno di pazienza e continue proiezioni organizzate nei salotti della “società bene” per ottenere qualche finanziamento e convincere le persone giuste. Ma alla fine il budget per il primo lungometraggio si concretizzò e da qui nacque Blood Simple (Sangue facile, 1984). I due, per via delle regole imposte dalla Directors Guild of America (leggasi, la corporazione dei registi americani), non potevano però essere entrambi accreditati come registi e così decisero di dividersi i meriti: Joel venne accreditato come regista, Ethan come produttore, ed entrambi si accreditarono come sceneggiatori.
Questa formula venne mantenuta dai due fratelli per ben vent’anni, occasione in cui uscì Ladykillers (2004) e in cui la DGA decise di soprassedere alla regola e consentire la condivisione del credito. Ma nel frattempo tutti i film dei fratelli Coen sono stati diretti sia da Joel che da Ethan. A partire proprio da Blood Simple, i due hanno anche montato assieme gran parte delle proprie opere senza mai prendersi il credito, preferendo indicare come montatore il loro pseudonimo: “Roderick Jaynes”. Un personaggio inventato che ironia vuole sia stato persino candidato due volte agli Oscar… vincendone pure uno.
Così i Coen sono riusciti a creare negli anni un duo affiatatissimo in grado di proporre una visione unica, precisa e originale. La loro cifra stilistica non è tuttavia riconducibile ad una predilezione per un solo tipo di storie (come potrebbe essere per Martin Scorsese e i gangster movie), un determinato gusto nel framing (si pensi qui a Kubrick e la simmetria) o un feticismo ricorrente (impossibile non pensare a Tarantino e i piedi, se si parla di feticismi). I fratelli Coen hanno sì i propri “marchi di fabbrica”, ma nel corso della loro filmografia sono andati spesso oltre le convenzioni e hanno deciso di abbracciare, mescolare e rivoluzionare una moltitudine di elementi.
I loro film si alternano pertanto tra thriller, grotteschi, western, noir, comici, gialli, gangster, romantici e soprattutto dramedy. E ognuno di essi può essere girato con colori sgargianti, desaturati o persino in bianco e nero, può seguire narrazioni convenzionali, non lineari o anche a episodi, presentare intere sequenze musicali o essere addirittura senza colonna sonora. E se già questa varietà potrebbe definire il tratto autoriale dei due fratelli, c’è una caratteristica fondamentale che rende ogni loro film un “film dei Coen”: Mike Yanagita. Ovvero un personaggio di contorno tanto iconico quanto assurdo, eppure talmente essenziale da diventare inconsapevolmente la chiave di lettura non solo dei film, ma di tutto l’universo tematico del duo.
E già con Raising Arizona (Arizona Junior, 1987) i fratelli Coen esprimono questa peculiare cifra stilistica attraverso il personaggio del motociclista. Arriva dalle fiamme con l’epica colonna sonora di Carter Burwell in sottofondo, scarpette da bebé legate alla cintura, un sigarino in bocca come un vero cowboy, due fucili dietro le spalle e il tatuaggio “Mama didn’t love me” sul braccio sinistro. Leonard Smalls è il suo nome, ed è semplicemente “orribile”. Nonostante l’entrata ad effetto nel bel mezzo di una sequenza onirica, nello sviluppo della vicenda la sua presenza non ha alcun impatto effettivo. È l’Indiana Jones di Raising Arizona: senza di lui la trama va avanti ugualmente.
Eppure Leonard Smalls è un personaggio essenziale. Perché non è solo un uomo. È una forza. Una forza tanto inaspettata quanto inarrestabile che irrompe nella quotidianità senza lasciare tregua a nessuno, coinvolgendo indiscriminatamente chiunque si pari di fronte al suo cammino. È il Gaear Grimsrud di Fargo, lo Sceriffo Cooley di O Brother, Where Art Thou? (Fratello, dove sei?, 2000) o l’Anton Chigurh di No Country for Old Men (Non è un paese per vecchi, 2007): il Male fatto persona. E, in quanto tale, diviene la nemesi del protagonista. C’è infatti un altro particolare che caratterizza Leonard Smalls: sul braccio destro ha il tatuaggio di un picchio. Lo stesso identico tatuaggio, sullo stesso braccio, alla stessa altezza, lo ha anche il protagonista del film, H.I McDunnough. Un dettaglio che non riceve alcun tipo di sottolineatura, conseguenza e riscontro. Forse è stato inserito per prendersi gioco degli spettatori, forse per aumentare l’entropia della vicenda… o forse perché Leonard Smalls simboleggia ciò che H.I. potrebbe diventare.
Di fatto, il motociclista compare per la prima volta soltanto quando il protagonista torna ad essere un criminale, e scompare soltanto quando ritrova la retta via. Per poter sognare sereno e aprirsi la possibilità di una vita felice, H.I. deve dunque affrontare le sue paure e sconfiggere il suo incubo incarnato. Deve letteralmente uccidere la parte peggiore di sé. Il “centauro solitario dell’apocalisse” simboleggia così quell’ostacolo che non è necessario incontrare per proseguire la propria vita, ma che è essenziale superare per poter crescere. Inutile alla storia, fondamentale per il protagonista, Leonard Smalls è il momento in cui H.I. abbandona l’infanzia e diventa adulto. Il momento in cui il Bene sconfigge il Male.
Ma lo scontro tra il Bene e il Male non è espresso, nella filmografia dei fratelli Coen, con un’accezione da epica classica dove le due forze si battagliano in una lotta tragica sorretta da nobili scopi e grandi trame. Gli antagonisti possono sì essere il Male impersonificato ma gli eroi non sono cavalieri senza macchia. Affatto. Il Bene sono le persone comuni che si trovano dalla parte del giusto per via dei propri interessi, per pura casualità o perché costretti dalle circostanze. L’eroe del Bene non ha coscienza del suo ruolo e di conseguenza non aspira alla giustizia, alla gloria o al Bene stesso. Spesso aspira a cose semplici e a interessi materialistici: un lifting come in Burn After Reading (2008), una valigetta piena di soldi come in Hail, Caesar! (Ave, Cesare!, 2016) - e come in tanti altri film dei fratelli Coen, a pensarci bene - o una tipica vita da americano medio proprio come in Raising Arizona. Insomma, gli eroi coeniani rappresentano la banalità del Bene. Ed essendo spogliati dei loro topoi classici, il risultato delle loro azioni diviene così incerto.
In un film dei Coen, infatti, non è detto che il Bene vinca sempre e comunque sul Male. Anzi. Spesso lo scontro tra queste due forze è affidato al semplice caso. Un esempio clamoroso si può di fatto vedere nella stupenda scena del lancio della moneta di No Country for Old Men. Qui si confrontano il micidiale Anton Chigurh, interpretato da un iconico Javier Bardem, e un innocuo proprietario di una pompa di benzina, interpretato da Gene Jones. Il Male impersonificato contro il Bene più insignificante. La scena inizia con Chigurh che va a pagare il pieno all’auto, ma dopo un banalissimo commento del benzinaio diventa sospettoso, sta in allerta e si trattiene in negozio. I due hanno un dialogo teso e grottesco allo stesso tempo, e continuano a parlare finché Chigurh non lancia in aria una moneta: se la moneta atterra su un lato e il benzinaio sbaglia a indovinarlo, sarà condannato a morte certa.
Si accende così il vero conflitto della scena. Il benzinaio è un uomo comune, tranquillo e completamente estraneo alle vicende del film. Nonostante la sua innocenza e il desiderio di evitare qualsiasi coinvolgimento, però, si trova davanti ad una situazione più grande di lui, in bilico tra la vita e la morte. Ma scegliere un lato della moneta non gli può comunque garantire il successo: il risultato della scelta è del tutto aleatorio poiché il lancio della moneta lo è. L’unica cosa che può fare è quindi affidarsi ciecamente al fato. Così come Chigurh decide di demandare al fato la sua sete omicida, così il benzinaio deve accettarne l’incertezza e scegliere in modo arbitrario uno dei lati della moneta. E se il benzinaio sceglie correttamente e sopravvive, lo stesso non si può dire degli altri personaggi: alcuni compiono le scelte sbagliate e continuano a vivere, altri compiono le scelte giuste e ciononostante muoiono. Attraverso un personaggio senza nome in una scena ormai cult, ecco quindi che si delinea un leit motiv dei fratelli Coen: ogni scelta può portare le persone a sopravvivere o ad essere più vicini alla morte, ma cosa effettivamente accada dopo la scelta è soltanto una questione di fortuna… allo stesso tempo inevitabile e casuale.
L’incertezza della sorte è la chiave di lettura non solo di molti film del duo, ma anche e soprattutto di A Serious Man (2009). Seguendo il principio di indeterminazione, i registi suggeriscono allo spettatore che non si può mai sapere davvero cosa accada nel mondo, e così l’intero film viene presentato come se fosse un gigantesco gatto di Schrödinger. Il paradosso scientifico porta le persone a chiedersi: “il gatto è vivo o no?”, e allo stesso modo A Serious Man porta lo spettatore a chiedersi se ciò che sta vedendo sia vero: Larry ha una grave malattia o no? Clive Park ha provato a corromperlo o no? Il rabbino Marshak può davvero aiutarlo o no? La risposta che i Coen forniscono, ovviamente, è sempre incerta. O meglio, non c’è. Sta tutto nell’interpretazione dello spettatore, come il buon Mike Yanagita ci ha insegnato, e nel ricevere con semplicità tutto ciò che ci accade, come l’epigrafe del film stesso suggerisce.
Per meglio rappresentare questo concetto e spianare la strada verso un’ora e quaranta di incertezze, i Coen hanno deciso di introdurre il tema del film con un personaggio, inserito in un inusuale prologo totalmente sconnesso dagli eventi principali e ambientato un secolo prima in tutt’altra regione del globo. Protagonisti di questa sequenza d’apertura sono Velvel e Dora, due coniugi che vivono in uno shtetl dell’Europa orientale. Quando Velvel torna a casa, racconta a Dora di aver incontrato e invitato a cena un rabbino che l’uomo ha scoperto essere un conoscente della moglie: Traitle Groshkover. Peccato però che, secondo Dora, Traitle Groshkover sia deceduto. E che la persona con cui Velvel ha parlato sia pertanto un dybbuk, ovvero lo spirito maligno del morto. Entrambi i coniugi credono a ciò che sanno e hanno visto, ma la discussione viene presto interrotta da dei colpi alla porta… e Traitle Groshkover fa il suo ingresso in casa.
A prima vista, sembra in tutto e per tutto un uomo in carne ed ossa, ma Dora non perde tempo, rivela sin da subito i suoi sospetti e lancia le sue accuse. Ma, di fatto, man mano che la scena si sviluppa non ci sono prove che Groshkover sia un dybbuk, così come non ci sono prove che non lo sia. Così, per fugare infine ogni dubbio, Dora infilza una lama nel petto del rabbino…ma la verità sull’uomo non viene svelata. Perché dapprima Groshkover sembra illeso e ride (e ciò suggerisce che sì, lui sia un dybbuk). Ma dopo quasi un minuto la ferita comincia a sanguinare e Groshkover esce dalla casa (e ciò suggerisce che no, lui non sia un dybbuk). I due coniugi sono lasciati nell’incertezza, mentre Velvel afferma che “tutto è perduto”: se infatti Groshkover è un dybbuk, loro sono maledetti per averlo accolto in casa; ma se al contrario Groshkover non è un dybbuk, saranno comunque maledetti per averlo attaccato e chissà, forse anche ucciso.
Così i Coen portano sin da subito lo spettatore a vivere il paradosso del gatto di Schrödinger: Traitle Groshkover è un dybbuk o no? Restando completamente fedeli al mistero che avvolge la sequenza e l’intero film, la risposta a questa domanda non viene mai data: non solo l’episodio è circoscritto a sé stesso e non ha alcun diretto legame con il resto della trama, ma persino nei titoli di coda l’attore che interpreta il rabbino viene indicato come Dybbuk?, con tanto di punto di domanda. Con questo prologo, i Coen siglano il cuore tematico della pellicola e ancora una volta affermano la loro visione del mondo: non importa se tu sia una persona buona o uno spirito maligno, un rabbino che compie le scelte giuste o un campagnolo che prende un grosso abbaglio, ciò che ti capita è completamente fuori dal tuo controllo. La vita è caos.
“Accetta il mistero” è la soluzione che i due registi propongono di adottare dinanzi a questa irrisolvibile incertezza. Ma se Larry Gopnik, il protagonista di A Seriuos Man interpretato da Michael Stuhlbarg, non riesce proprio ad accogliere con semplicità le sventure che gli si abbattono e anzi lotta con tutto sé stesso pur di averne il controllo, altri personaggi del mondo coeniano sono invece in grado di abbracciare, più o meno coscientemente, questa filosofia di vita.
Si prenda ad esempio The Big Lebowski (Il Grande Lebowski, 1998). Nel film ogni personaggio è incredibilmente cult e memorabile: l’irascibile Walter Sobchak, l’inopportuno Donnie, il magnate Jeffrey Lebowski, il servizievole Brandt, la moglie-trofeo Bunny, l’artista Maude e il suo stravagante amico Knox, il proprietario di casa che fa performance a teatro, Larry e il suo mutismo selettivo (“È questo il tuo compito Larry?”), il pornografo Jackie Treehorn e il suo sketch con la matita, l’investigatore privato assolutamente fuori pista, il quartetto di nichilisti tedeschi, l’irascibile capo della polizia di Malibù, Saddam Hussein che compare in un trip e ovviamente l’indimenticabile rivale del bowling Jesus Quintana. Come Mike Yanagita, la loro funzione è apparentemente senza senso o a conti fatti inutile, ma complessivamente è necessaria per dipingere l’affresco di vita fatto di incontri casuali, scelte altrettanto casuali e conseguenze al di fuori del controllo umano. In poche parole, la visione coeniana del mondo.
E chi fra tutti riesce ad incarnare al meglio l’essenza e il significato di questo mosaico di personaggi è lo Straniero. Ovvero il narratore interpretato da Sam Elliott. Siamo di fatto abituati che quando c’è un narratore questi generalmente sia super partes o direttamente coinvolto nella vicenda, raccontandola in prima o terza persona. Non in The Big Lebowski. Qui il narratore è un elemento esterno che improvvisamente va in scena e diventa un attore delle vicende. Interagisce col protagonista ma resta sempre una mera comparsa. È onnisciente eppure divaga, sfonda la quarta parete ma si scorda cosa dire, fa confusione, regala battute, consigli non richiesti e frasi criptiche.
Insomma, il narratore è emblema del caos più totale, l’apice del nonsense della pellicola… eppure è proprio lui che ne tira le somme. Solo lo Straniero riesce infatti a cavare un significato dalle assurdità del Drugo e dare un senso alle sue vicende. Solo lui riesce a sottolineare il tema ultimo del film e definire così uno dei cardini fondamentali della filmografia dei Coen: non bisogna cercare una soluzione al mistero della vita, ma “prenderla come viene”. Ovvero, accettarla semplicemente così com'è. Anche se a raccontarla è un vecchio e smemorato cowboy coi baffoni.
Ma mentre “la dannata commedia umana procede e si perpetua” (sempre citando lo Straniero) l’insensatezza dell’esistenza può portare le persone a vivere una ripetitiva ciclicità. Come a dire, “non importa quanto ti impegni o cosa fai, tanto non cambia nulla”. Inside Llewyn Davis (A proposito di Davis, 2013) rappresenta al meglio questo aspetto della filosofia dei due registi. Il film segue le vicende di Llewyn Davis, un cantante folk che cerca di farsi un nome nella scena musicale newyorkese all’inizio degli anni ‘60. All’inizio della pellicola vediamo Llewyn suonare una canzone al Gaslight Café, venire chiamato nel vicolo sul retro del locale e qui essere preso a pugni da una losca figura. La trama si sviluppa e scopriamo che il protagonista, interpretato da Oscar Isaac, è al verde, senza dimora e fatica a trovare la sua strada. Dopo averlo seguito per una settimana nella sua vita, ecco che tutti gli incontri, scelte e situazioni che gli si parano davanti lo portano a suonare nuovamente al Gaslight Café, venire chiamato nel vicolo sul retro del locale e qui essere preso a pugni da una losca figura. Ma no, la scena iniziale non è un flashforward di quella finale. Le due scene sono di fatto ambientate in momenti distinti. Quindi, che significato hanno?
Durante lo svolgimento della pellicola, oltre a tutti gli incontri, scelte e situazioni, ci sono diverse opportunità che si presentano a Llewyn. Occasioni per migliorare la sua condizione e diventare quel nome della musica folk che tanto desidera essere. Occasioni che, però, lui rifiuta o che gestisce talmente male da farle andare in fumo… Ergo, in una settimana, Llewyn non fa alcun progresso. È sempre al verde, senza dimora e fatica a trovare la sua strada: tra l’inizio e la fine del film non cambia nulla. Llewyn è così destinato a ripetere lo stesso ciclo di fallimenti finché non deciderà, o riuscirà, a compiere un drastico cambio nella sua vita. E l’unico modo per farlo, forse, è arrendersi al fatto che la musica folk sia morta e la sua carriera da cantante finita prima ancora di essere iniziata. Non a caso, il titolo dell’ultima performance di Llewyn è proprio Fare thee well: “addio”.
In tutto ciò sembrerebbe però mancare un tassello, ovvero il Mike Yanagita di turno. Ma anche in Inside Llewyn Davis c’è. Compare all’inizio e alla fine del film, e non è il losco figuro che picchia Llewyn. È un altro cantante folk, che nella prima scena si intravede fuori fuoco sullo sfondo (eppure è già riconoscibile dai suoi capelli ricci e l’armonica a portata di mano) e che nel finale viene inquadrato appena più chiaramente. Ogni dubbio sulla sua identità viene fugato quando lo si sente cantare. Impossibile sbagliarsi: è Bob Dylan. Quel Bob Dylan. Ma perché inserire Bob Dylan in un film di finzione e relegarlo al ruolo di mera comparsa? Perché Bob Dylan diventa proprio il simbolo del fallimento ciclico di Llewyn. Mentre Llewyn, dopo tanti affanni e pene, si ritrova ad essere un fallito, un eterno fallito costretto a dire “addio” alla sua passione, Bob Dylan è… Bob Dylan! Un giovane cantante folk all’inizio degli anni ‘60 che riesce a farsi un nome nella scena musicale mondiale attraverso un genere considerato ormai morto. Magari, se Llewyn si fosse impegnato di più o avesse accolto a braccia aperte le opportunità poste sul suo cammino, sarebbe diventato il nuovo Bob Dylan. Magari. Tant’è che mentre Llewyn canta Fare thee well e chiude la sua esperienza musicale, Bob Dylan canta Farewell e inizia la sua carriera. Ancora una volta, l’ironia della sorte.
A conti fatti si può quindi affermare che la filosofia cinematografica dei Coen ruoti attorno al concetto di fato. Il fato che governa ogni nostro incontro ed ogni scontro, i risultati dei quali sono del tutto sconosciuti e non prevedibili. Da qui nasce un senso di impotenza e rassegnazione che trasforma il caso in caos: indeterminato, imperscrutabile e soprattutto imparziale. Una forza che aleggia sul mondo avvolgendo nel mistero ogni aspetto della vita terrena. E sebbene queste tematiche possano sembrare ostiche e avverse, o sicuramente meno accessibili rispetto agli happy ending cui la Hollywood classica ci ha abituato nel corso degli anni, la carriera dei Fratelli Coen, a partire proprio dal loro primo Blood Simple che gli valse importanti riconoscimenti sia al Sundance Film Festival che agli Spirit Awards, è costellata di successi critici e commerciali, diversi premi Oscar e film che sono entrati nel cuore delle persone come veri e propri cult.
I due fratelli del Minnesota sono infatti riusciti non solo a manipolare i generi cinematografici a loro piacimento, ma ad inserire in ognuno di essi un umorismo nero e un corollario di personaggi in grado di sfidare le aspettative del pubblico e creare così storie uniche. Certo è da dire che, da quando si sono separati, lavorando ognuno su progetti propri, i due fratelli hanno perso sia il loro carisma che il loro core narrativo. Macbeth (2021) di Joel e Drive-Away Dolls (2023) di Ethan non riescono a veicolare appieno le tematiche care al duo, né tantomeno a costruire film davvero convincenti. Sembra infatti che entrambi i lavori siano a metà, spezzati. Joel mette in scena una tragedia famosissima (e iper-rappresentata sul grande schermo), calcando la mano sugli aspetti più cupi della stessa, favorito da una fotografia in bianco e nero ed una scenografia essenziale simil-espressionista. Ethan invece scrive una commedia in stile buddy-movie, esagerando gli aspetti grotteschi della narrazione e enfatizzandone il tono attraverso una regia di genere ed un montaggio quasi cartoonesco.
Insomma, ognuno dei due sembra rappresentare una faccia della stessa medaglia. Mentre Joel vede il dramma nell’assurdità della vita, Ethan ne esalta l’aspetto comico. E se questa dualità ha funzionato perfettamente fino a The Ballad of Buster Scruggs (La Ballata di Buster Scruggs, 2018), si è definitivamente persa non appena i Coen si sono separati. In entrambi i film, tra l'altro, manca proprio quel Mike Yanagita-emblema tematico tanto rilevante nella storia cinematografica del duo. Coincidenze? Noi non ci crediamo. Per la gioia di tutti, però, sembra proprio che i due fratelli siano tornati insieme e che stiano già scrivendo la sceneggiatura del loro prossimo film. A quanto pare affronteranno qui uno dei pochi generi a loro ancora sconosciuti: l’horror. “Puro, e veramente sanguinoso”, secondo le prime dichiarazioni. Chissà se anche in quest’opera riusciranno ad esplorare la complessità dell’esperienza umana, riflettendo sulle contraddizioni del mondo, esaltando l’ambiguità della vita e inserendo il loro prossimo Mike Yanagita.
Nel frattempo possiamo continuare a riguardare i “film dei Coen” sempre tenendo a mente le parole di Freddy Riedenschneider in The Man Who Wasn't There (L’uomo che non c’era, 2001): “Alcune volte, più guardi e meno conosci”.
L’importanza dei personaggi secondari
nel cinema dei fratelli Coen,
di Eduardo Bigazzi
TR-99
20.04.2024
Quando lo sceneggiatore Noah Hawley presentò la sua bibbia di serie per sviluppare Fargo (2014-2024), chiuse il documento con un’intera pagina su chi o cosa fosse Mike Yanagita. Scelta indubbiamente coraggiosa, che sottolinea tuttavia l’importanza di questo personaggio. Ma, in effetti: chi o cosa è Mike Yanagita?
Per chi non ricordasse, nel film Fargo (1996) Mike Yanagita è un ex compagno di scuola di Marge, la poliziotta protagonista interpretata dalla grande e irreprensibile Frances McDormand. I due si incontrano per la prima volta dopo tanto tempo e, in una scena tra l’imbarazzante e il grottesco, Yanagita le racconta che sua moglie è morta di cancro e per questo si sente disperatamente solo. 3 minuti di scena e fine della storia. Un paio di sequenze più tardi, però, Marge scopre che la moglie di Yanagita non è assolutamente morta, che non è assolutamente sua moglie e che lui è assolutamente uno psicopatico. La trama del film prosegue e di Mike Yanagita non si ha mai più notizia. Così, all’apparenza, la sua presenza risulta decisamente insensata e del tutto casuale. Quindi la domanda diventa: perché Mike Yanagita? Perché in un thriller con già molti personaggi e linee di trama intrecciate, esattamente a metà film si aggiunge Mike Yanagita che chiama la protagonista chiedendole di incontrarsi?
Il personaggio non si inserisce nelle logiche classiche della narrazione cinematografica, dove ogni elemento è un tassello necessario per costruire e sviluppare la trama. Anzi. Mike Yanagita è presentato come un qualsiasi episodio di vita comune: imprevedibile, circoscritto e fine a sé stesso. Accade e basta. Eppure il suo inserimento nell’economia del film non è per nulla casuale. Perché è solo dopo averne scoperto la vera storia che Marge si mette in dubbio: si rende conto che le persone sono capaci di mentire e che lei probabilmente è un’ingenua. Di conseguenza torna sui propri passi, interroga nuovamente un sospettato e innesca così la risoluzione di tutta la vicenda. La presenza di Mike Yanagita non serve quindi a creare mancanza di senso, ma a mostrare che il senso, nell'universo, è aperto a interpretazione. E questa è una chiave tematica fondamentale non solo in Fargo ma in tutta la filmografia di Joel ed Ethan Coen, meglio conosciuti al grande pubblico semplicemente come “fratelli Coen”.
Ma chi sono, questi fratelli Coen?
Nati in Minnesota con tre anni di distanza da una famiglia di ebrei Ashkenazi, appartenenza che influenzerà fortemente la loro filmografia, i due cineasti si sono sin da piccoli dilettati nel cinema ricreando i film che vedevano in televisione con la loro Super 8. E dopo gli studi, i primi lavori e la conoscenza di Sam Raimi, si sono ritrovati a voler fare il loro primo, vero lungometraggio. Certo realizzare un film non è cosa così semplice, soprattutto nei lontani anni ‘80 dove la tecnologia non permetteva di avere un accesso ai video veloce e di qualità come oggi. Quindi i due fratelli si sono rimboccati le maniche, hanno scritto la loro sceneggiatura e hanno girato un trailer, filmato da Barry Sonnenfeld (futuro regista e direttore della fotografia) e con Bruce Campbell (prolifico attore nonché feticcio del già citato Raimi) come protagonista. Per chi fosse curioso di come un trailer sia riuscito a far racimolare a due sconosciuti un milione e mezzo da spendere in un film indipendente, lo si può facilmente reperire online.
Certo, ci volle un anno di pazienza e continue proiezioni organizzate nei salotti della “società bene” per ottenere qualche finanziamento e convincere le persone giuste. Ma alla fine il budget per il primo lungometraggio si concretizzò e da qui nacque Blood Simple (Sangue facile, 1984). I due, per via delle regole imposte dalla Directors Guild of America (leggasi, la corporazione dei registi americani), non potevano però essere entrambi accreditati come registi e così decisero di dividersi i meriti: Joel venne accreditato come regista, Ethan come produttore, ed entrambi si accreditarono come sceneggiatori.
Questa formula venne mantenuta dai due fratelli per ben vent’anni, occasione in cui uscì Ladykillers (2004) e in cui la DGA decise di soprassedere alla regola e consentire la condivisione del credito. Ma nel frattempo tutti i film dei fratelli Coen sono stati diretti sia da Joel che da Ethan. A partire proprio da Blood Simple, i due hanno anche montato assieme gran parte delle proprie opere senza mai prendersi il credito, preferendo indicare come montatore il loro pseudonimo: “Roderick Jaynes”. Un personaggio inventato che ironia vuole sia stato persino candidato due volte agli Oscar… vincendone pure uno.
Così i Coen sono riusciti a creare negli anni un duo affiatatissimo in grado di proporre una visione unica, precisa e originale. La loro cifra stilistica non è tuttavia riconducibile ad una predilezione per un solo tipo di storie (come potrebbe essere per Martin Scorsese e i gangster movie), un determinato gusto nel framing (si pensi qui a Kubrick e la simmetria) o un feticismo ricorrente (impossibile non pensare a Tarantino e i piedi, se si parla di feticismi). I fratelli Coen hanno sì i propri “marchi di fabbrica”, ma nel corso della loro filmografia sono andati spesso oltre le convenzioni e hanno deciso di abbracciare, mescolare e rivoluzionare una moltitudine di elementi.
I loro film si alternano pertanto tra thriller, grotteschi, western, noir, comici, gialli, gangster, romantici e soprattutto dramedy. E ognuno di essi può essere girato con colori sgargianti, desaturati o persino in bianco e nero, può seguire narrazioni convenzionali, non lineari o anche a episodi, presentare intere sequenze musicali o essere addirittura senza colonna sonora. E se già questa varietà potrebbe definire il tratto autoriale dei due fratelli, c’è una caratteristica fondamentale che rende ogni loro film un “film dei Coen”: Mike Yanagita. Ovvero un personaggio di contorno tanto iconico quanto assurdo, eppure talmente essenziale da diventare inconsapevolmente la chiave di lettura non solo dei film, ma di tutto l’universo tematico del duo.
E già con Raising Arizona (Arizona Junior, 1987) i fratelli Coen esprimono questa peculiare cifra stilistica attraverso il personaggio del motociclista. Arriva dalle fiamme con l’epica colonna sonora di Carter Burwell in sottofondo, scarpette da bebé legate alla cintura, un sigarino in bocca come un vero cowboy, due fucili dietro le spalle e il tatuaggio “Mama didn’t love me” sul braccio sinistro. Leonard Smalls è il suo nome, ed è semplicemente “orribile”. Nonostante l’entrata ad effetto nel bel mezzo di una sequenza onirica, nello sviluppo della vicenda la sua presenza non ha alcun impatto effettivo. È l’Indiana Jones di Raising Arizona: senza di lui la trama va avanti ugualmente.
Eppure Leonard Smalls è un personaggio essenziale. Perché non è solo un uomo. È una forza. Una forza tanto inaspettata quanto inarrestabile che irrompe nella quotidianità senza lasciare tregua a nessuno, coinvolgendo indiscriminatamente chiunque si pari di fronte al suo cammino. È il Gaear Grimsrud di Fargo, lo Sceriffo Cooley di O Brother, Where Art Thou? (Fratello, dove sei?, 2000) o l’Anton Chigurh di No Country for Old Men (Non è un paese per vecchi, 2007): il Male fatto persona. E, in quanto tale, diviene la nemesi del protagonista. C’è infatti un altro particolare che caratterizza Leonard Smalls: sul braccio destro ha il tatuaggio di un picchio. Lo stesso identico tatuaggio, sullo stesso braccio, alla stessa altezza, lo ha anche il protagonista del film, H.I McDunnough. Un dettaglio che non riceve alcun tipo di sottolineatura, conseguenza e riscontro. Forse è stato inserito per prendersi gioco degli spettatori, forse per aumentare l’entropia della vicenda… o forse perché Leonard Smalls simboleggia ciò che H.I. potrebbe diventare.
Di fatto, il motociclista compare per la prima volta soltanto quando il protagonista torna ad essere un criminale, e scompare soltanto quando ritrova la retta via. Per poter sognare sereno e aprirsi la possibilità di una vita felice, H.I. deve dunque affrontare le sue paure e sconfiggere il suo incubo incarnato. Deve letteralmente uccidere la parte peggiore di sé. Il “centauro solitario dell’apocalisse” simboleggia così quell’ostacolo che non è necessario incontrare per proseguire la propria vita, ma che è essenziale superare per poter crescere. Inutile alla storia, fondamentale per il protagonista, Leonard Smalls è il momento in cui H.I. abbandona l’infanzia e diventa adulto. Il momento in cui il Bene sconfigge il Male.
Ma lo scontro tra il Bene e il Male non è espresso, nella filmografia dei fratelli Coen, con un’accezione da epica classica dove le due forze si battagliano in una lotta tragica sorretta da nobili scopi e grandi trame. Gli antagonisti possono sì essere il Male impersonificato ma gli eroi non sono cavalieri senza macchia. Affatto. Il Bene sono le persone comuni che si trovano dalla parte del giusto per via dei propri interessi, per pura casualità o perché costretti dalle circostanze. L’eroe del Bene non ha coscienza del suo ruolo e di conseguenza non aspira alla giustizia, alla gloria o al Bene stesso. Spesso aspira a cose semplici e a interessi materialistici: un lifting come in Burn After Reading (2008), una valigetta piena di soldi come in Hail, Caesar! (Ave, Cesare!, 2016) - e come in tanti altri film dei fratelli Coen, a pensarci bene - o una tipica vita da americano medio proprio come in Raising Arizona. Insomma, gli eroi coeniani rappresentano la banalità del Bene. Ed essendo spogliati dei loro topoi classici, il risultato delle loro azioni diviene così incerto.
In un film dei Coen, infatti, non è detto che il Bene vinca sempre e comunque sul Male. Anzi. Spesso lo scontro tra queste due forze è affidato al semplice caso. Un esempio clamoroso si può di fatto vedere nella stupenda scena del lancio della moneta di No Country for Old Men. Qui si confrontano il micidiale Anton Chigurh, interpretato da un iconico Javier Bardem, e un innocuo proprietario di una pompa di benzina, interpretato da Gene Jones. Il Male impersonificato contro il Bene più insignificante. La scena inizia con Chigurh che va a pagare il pieno all’auto, ma dopo un banalissimo commento del benzinaio diventa sospettoso, sta in allerta e si trattiene in negozio. I due hanno un dialogo teso e grottesco allo stesso tempo, e continuano a parlare finché Chigurh non lancia in aria una moneta: se la moneta atterra su un lato e il benzinaio sbaglia a indovinarlo, sarà condannato a morte certa.
Si accende così il vero conflitto della scena. Il benzinaio è un uomo comune, tranquillo e completamente estraneo alle vicende del film. Nonostante la sua innocenza e il desiderio di evitare qualsiasi coinvolgimento, però, si trova davanti ad una situazione più grande di lui, in bilico tra la vita e la morte. Ma scegliere un lato della moneta non gli può comunque garantire il successo: il risultato della scelta è del tutto aleatorio poiché il lancio della moneta lo è. L’unica cosa che può fare è quindi affidarsi ciecamente al fato. Così come Chigurh decide di demandare al fato la sua sete omicida, così il benzinaio deve accettarne l’incertezza e scegliere in modo arbitrario uno dei lati della moneta. E se il benzinaio sceglie correttamente e sopravvive, lo stesso non si può dire degli altri personaggi: alcuni compiono le scelte sbagliate e continuano a vivere, altri compiono le scelte giuste e ciononostante muoiono. Attraverso un personaggio senza nome in una scena ormai cult, ecco quindi che si delinea un leit motiv dei fratelli Coen: ogni scelta può portare le persone a sopravvivere o ad essere più vicini alla morte, ma cosa effettivamente accada dopo la scelta è soltanto una questione di fortuna… allo stesso tempo inevitabile e casuale.
L’incertezza della sorte è la chiave di lettura non solo di molti film del duo, ma anche e soprattutto di A Serious Man (2009). Seguendo il principio di indeterminazione, i registi suggeriscono allo spettatore che non si può mai sapere davvero cosa accada nel mondo, e così l’intero film viene presentato come se fosse un gigantesco gatto di Schrödinger. Il paradosso scientifico porta le persone a chiedersi: “il gatto è vivo o no?”, e allo stesso modo A Serious Man porta lo spettatore a chiedersi se ciò che sta vedendo sia vero: Larry ha una grave malattia o no? Clive Park ha provato a corromperlo o no? Il rabbino Marshak può davvero aiutarlo o no? La risposta che i Coen forniscono, ovviamente, è sempre incerta. O meglio, non c’è. Sta tutto nell’interpretazione dello spettatore, come il buon Mike Yanagita ci ha insegnato, e nel ricevere con semplicità tutto ciò che ci accade, come l’epigrafe del film stesso suggerisce.
Per meglio rappresentare questo concetto e spianare la strada verso un’ora e quaranta di incertezze, i Coen hanno deciso di introdurre il tema del film con un personaggio, inserito in un inusuale prologo totalmente sconnesso dagli eventi principali e ambientato un secolo prima in tutt’altra regione del globo. Protagonisti di questa sequenza d’apertura sono Velvel e Dora, due coniugi che vivono in uno shtetl dell’Europa orientale. Quando Velvel torna a casa, racconta a Dora di aver incontrato e invitato a cena un rabbino che l’uomo ha scoperto essere un conoscente della moglie: Traitle Groshkover. Peccato però che, secondo Dora, Traitle Groshkover sia deceduto. E che la persona con cui Velvel ha parlato sia pertanto un dybbuk, ovvero lo spirito maligno del morto. Entrambi i coniugi credono a ciò che sanno e hanno visto, ma la discussione viene presto interrotta da dei colpi alla porta… e Traitle Groshkover fa il suo ingresso in casa.
A prima vista, sembra in tutto e per tutto un uomo in carne ed ossa, ma Dora non perde tempo, rivela sin da subito i suoi sospetti e lancia le sue accuse. Ma, di fatto, man mano che la scena si sviluppa non ci sono prove che Groshkover sia un dybbuk, così come non ci sono prove che non lo sia. Così, per fugare infine ogni dubbio, Dora infilza una lama nel petto del rabbino…ma la verità sull’uomo non viene svelata. Perché dapprima Groshkover sembra illeso e ride (e ciò suggerisce che sì, lui sia un dybbuk). Ma dopo quasi un minuto la ferita comincia a sanguinare e Groshkover esce dalla casa (e ciò suggerisce che no, lui non sia un dybbuk). I due coniugi sono lasciati nell’incertezza, mentre Velvel afferma che “tutto è perduto”: se infatti Groshkover è un dybbuk, loro sono maledetti per averlo accolto in casa; ma se al contrario Groshkover non è un dybbuk, saranno comunque maledetti per averlo attaccato e chissà, forse anche ucciso.
Così i Coen portano sin da subito lo spettatore a vivere il paradosso del gatto di Schrödinger: Traitle Groshkover è un dybbuk o no? Restando completamente fedeli al mistero che avvolge la sequenza e l’intero film, la risposta a questa domanda non viene mai data: non solo l’episodio è circoscritto a sé stesso e non ha alcun diretto legame con il resto della trama, ma persino nei titoli di coda l’attore che interpreta il rabbino viene indicato come Dybbuk?, con tanto di punto di domanda. Con questo prologo, i Coen siglano il cuore tematico della pellicola e ancora una volta affermano la loro visione del mondo: non importa se tu sia una persona buona o uno spirito maligno, un rabbino che compie le scelte giuste o un campagnolo che prende un grosso abbaglio, ciò che ti capita è completamente fuori dal tuo controllo. La vita è caos.
“Accetta il mistero” è la soluzione che i due registi propongono di adottare dinanzi a questa irrisolvibile incertezza. Ma se Larry Gopnik, il protagonista di A Seriuos Man interpretato da Michael Stuhlbarg, non riesce proprio ad accogliere con semplicità le sventure che gli si abbattono e anzi lotta con tutto sé stesso pur di averne il controllo, altri personaggi del mondo coeniano sono invece in grado di abbracciare, più o meno coscientemente, questa filosofia di vita.
Si prenda ad esempio The Big Lebowski (Il Grande Lebowski, 1998). Nel film ogni personaggio è incredibilmente cult e memorabile: l’irascibile Walter Sobchak, l’inopportuno Donnie, il magnate Jeffrey Lebowski, il servizievole Brandt, la moglie-trofeo Bunny, l’artista Maude e il suo stravagante amico Knox, il proprietario di casa che fa performance a teatro, Larry e il suo mutismo selettivo (“È questo il tuo compito Larry?”), il pornografo Jackie Treehorn e il suo sketch con la matita, l’investigatore privato assolutamente fuori pista, il quartetto di nichilisti tedeschi, l’irascibile capo della polizia di Malibù, Saddam Hussein che compare in un trip e ovviamente l’indimenticabile rivale del bowling Jesus Quintana. Come Mike Yanagita, la loro funzione è apparentemente senza senso o a conti fatti inutile, ma complessivamente è necessaria per dipingere l’affresco di vita fatto di incontri casuali, scelte altrettanto casuali e conseguenze al di fuori del controllo umano. In poche parole, la visione coeniana del mondo.
E chi fra tutti riesce ad incarnare al meglio l’essenza e il significato di questo mosaico di personaggi è lo Straniero. Ovvero il narratore interpretato da Sam Elliott. Siamo di fatto abituati che quando c’è un narratore questi generalmente sia super partes o direttamente coinvolto nella vicenda, raccontandola in prima o terza persona. Non in The Big Lebowski. Qui il narratore è un elemento esterno che improvvisamente va in scena e diventa un attore delle vicende. Interagisce col protagonista ma resta sempre una mera comparsa. È onnisciente eppure divaga, sfonda la quarta parete ma si scorda cosa dire, fa confusione, regala battute, consigli non richiesti e frasi criptiche.
Insomma, il narratore è emblema del caos più totale, l’apice del nonsense della pellicola… eppure è proprio lui che ne tira le somme. Solo lo Straniero riesce infatti a cavare un significato dalle assurdità del Drugo e dare un senso alle sue vicende. Solo lui riesce a sottolineare il tema ultimo del film e definire così uno dei cardini fondamentali della filmografia dei Coen: non bisogna cercare una soluzione al mistero della vita, ma “prenderla come viene”. Ovvero, accettarla semplicemente così com'è. Anche se a raccontarla è un vecchio e smemorato cowboy coi baffoni.
Ma mentre “la dannata commedia umana procede e si perpetua” (sempre citando lo Straniero) l’insensatezza dell’esistenza può portare le persone a vivere una ripetitiva ciclicità. Come a dire, “non importa quanto ti impegni o cosa fai, tanto non cambia nulla”. Inside Llewyn Davis (A proposito di Davis, 2013) rappresenta al meglio questo aspetto della filosofia dei due registi. Il film segue le vicende di Llewyn Davis, un cantante folk che cerca di farsi un nome nella scena musicale newyorkese all’inizio degli anni ‘60. All’inizio della pellicola vediamo Llewyn suonare una canzone al Gaslight Café, venire chiamato nel vicolo sul retro del locale e qui essere preso a pugni da una losca figura. La trama si sviluppa e scopriamo che il protagonista, interpretato da Oscar Isaac, è al verde, senza dimora e fatica a trovare la sua strada. Dopo averlo seguito per una settimana nella sua vita, ecco che tutti gli incontri, scelte e situazioni che gli si parano davanti lo portano a suonare nuovamente al Gaslight Café, venire chiamato nel vicolo sul retro del locale e qui essere preso a pugni da una losca figura. Ma no, la scena iniziale non è un flashforward di quella finale. Le due scene sono di fatto ambientate in momenti distinti. Quindi, che significato hanno?
Durante lo svolgimento della pellicola, oltre a tutti gli incontri, scelte e situazioni, ci sono diverse opportunità che si presentano a Llewyn. Occasioni per migliorare la sua condizione e diventare quel nome della musica folk che tanto desidera essere. Occasioni che, però, lui rifiuta o che gestisce talmente male da farle andare in fumo… Ergo, in una settimana, Llewyn non fa alcun progresso. È sempre al verde, senza dimora e fatica a trovare la sua strada: tra l’inizio e la fine del film non cambia nulla. Llewyn è così destinato a ripetere lo stesso ciclo di fallimenti finché non deciderà, o riuscirà, a compiere un drastico cambio nella sua vita. E l’unico modo per farlo, forse, è arrendersi al fatto che la musica folk sia morta e la sua carriera da cantante finita prima ancora di essere iniziata. Non a caso, il titolo dell’ultima performance di Llewyn è proprio Fare thee well: “addio”.
In tutto ciò sembrerebbe però mancare un tassello, ovvero il Mike Yanagita di turno. Ma anche in Inside Llewyn Davis c’è. Compare all’inizio e alla fine del film, e non è il losco figuro che picchia Llewyn. È un altro cantante folk, che nella prima scena si intravede fuori fuoco sullo sfondo (eppure è già riconoscibile dai suoi capelli ricci e l’armonica a portata di mano) e che nel finale viene inquadrato appena più chiaramente. Ogni dubbio sulla sua identità viene fugato quando lo si sente cantare. Impossibile sbagliarsi: è Bob Dylan. Quel Bob Dylan. Ma perché inserire Bob Dylan in un film di finzione e relegarlo al ruolo di mera comparsa? Perché Bob Dylan diventa proprio il simbolo del fallimento ciclico di Llewyn. Mentre Llewyn, dopo tanti affanni e pene, si ritrova ad essere un fallito, un eterno fallito costretto a dire “addio” alla sua passione, Bob Dylan è… Bob Dylan! Un giovane cantante folk all’inizio degli anni ‘60 che riesce a farsi un nome nella scena musicale mondiale attraverso un genere considerato ormai morto. Magari, se Llewyn si fosse impegnato di più o avesse accolto a braccia aperte le opportunità poste sul suo cammino, sarebbe diventato il nuovo Bob Dylan. Magari. Tant’è che mentre Llewyn canta Fare thee well e chiude la sua esperienza musicale, Bob Dylan canta Farewell e inizia la sua carriera. Ancora una volta, l’ironia della sorte.
A conti fatti si può quindi affermare che la filosofia cinematografica dei Coen ruoti attorno al concetto di fato. Il fato che governa ogni nostro incontro ed ogni scontro, i risultati dei quali sono del tutto sconosciuti e non prevedibili. Da qui nasce un senso di impotenza e rassegnazione che trasforma il caso in caos: indeterminato, imperscrutabile e soprattutto imparziale. Una forza che aleggia sul mondo avvolgendo nel mistero ogni aspetto della vita terrena. E sebbene queste tematiche possano sembrare ostiche e avverse, o sicuramente meno accessibili rispetto agli happy ending cui la Hollywood classica ci ha abituato nel corso degli anni, la carriera dei Fratelli Coen, a partire proprio dal loro primo Blood Simple che gli valse importanti riconoscimenti sia al Sundance Film Festival che agli Spirit Awards, è costellata di successi critici e commerciali, diversi premi Oscar e film che sono entrati nel cuore delle persone come veri e propri cult.
I due fratelli del Minnesota sono infatti riusciti non solo a manipolare i generi cinematografici a loro piacimento, ma ad inserire in ognuno di essi un umorismo nero e un corollario di personaggi in grado di sfidare le aspettative del pubblico e creare così storie uniche. Certo è da dire che, da quando si sono separati, lavorando ognuno su progetti propri, i due fratelli hanno perso sia il loro carisma che il loro core narrativo. Macbeth (2021) di Joel e Drive-Away Dolls (2023) di Ethan non riescono a veicolare appieno le tematiche care al duo, né tantomeno a costruire film davvero convincenti. Sembra infatti che entrambi i lavori siano a metà, spezzati. Joel mette in scena una tragedia famosissima (e iper-rappresentata sul grande schermo), calcando la mano sugli aspetti più cupi della stessa, favorito da una fotografia in bianco e nero ed una scenografia essenziale simil-espressionista. Ethan invece scrive una commedia in stile buddy-movie, esagerando gli aspetti grotteschi della narrazione e enfatizzandone il tono attraverso una regia di genere ed un montaggio quasi cartoonesco.
Insomma, ognuno dei due sembra rappresentare una faccia della stessa medaglia. Mentre Joel vede il dramma nell’assurdità della vita, Ethan ne esalta l’aspetto comico. E se questa dualità ha funzionato perfettamente fino a The Ballad of Buster Scruggs (La Ballata di Buster Scruggs, 2018), si è definitivamente persa non appena i Coen si sono separati. In entrambi i film, tra l'altro, manca proprio quel Mike Yanagita-emblema tematico tanto rilevante nella storia cinematografica del duo. Coincidenze? Noi non ci crediamo. Per la gioia di tutti, però, sembra proprio che i due fratelli siano tornati insieme e che stiano già scrivendo la sceneggiatura del loro prossimo film. A quanto pare affronteranno qui uno dei pochi generi a loro ancora sconosciuti: l’horror. “Puro, e veramente sanguinoso”, secondo le prime dichiarazioni. Chissà se anche in quest’opera riusciranno ad esplorare la complessità dell’esperienza umana, riflettendo sulle contraddizioni del mondo, esaltando l’ambiguità della vita e inserendo il loro prossimo Mike Yanagita.
Nel frattempo possiamo continuare a riguardare i “film dei Coen” sempre tenendo a mente le parole di Freddy Riedenschneider in The Man Who Wasn't There (L’uomo che non c’era, 2001): “Alcune volte, più guardi e meno conosci”.