Come il genere della paura e della violenza sta cercando di legittimarsi,
di Federico Squillacioti
TR-02
08.05.2020
Che cos’è l’horror cinematografico di oggi e come cambia rispetto al passato? Quali sono le paure e i pericoli che si immagina per l’uomo contemporaneo? È soprattutto il corpo ad essere protagonista, da quello impeccabile di una modella a quello decadente del malato. Il corpo, guarda caso, è ciò che ci identifica, restando stabile punto di riferimento per chi siamo e per come gli altri ci vedono. Nel collegare una serie di pellicole recenti, si può tentare di capire se hanno qualcosa in comune, risultando i tasselli di una tendenza nuova, oppure no. Le definizioni come “post-horror” e “New Weird” sono valide oppure limitano le potenzialità che hanno sempre contraddistinto l’horror come genere polimorfo, alla ricerca continua di spunti differenti e ibridi?
It Comes at Night basa tutta la sua carica evocativa sul semplice utilizzo delle ombre e dell’oscurità. Si tratta di un meccanismo basilare del mistery movie, che si appoggia molto più sull’attesa snervante che non sullo svelamento finale. La novità si trova nella cura dedicata alla sua realizzazione, e nel modo in cui la dialettica ombra-luce venga connessa con tematiche quali la famiglia, l’apocalisse e la paranoia. Non quindi una rottura netta con la tradizione. La famiglia protagonista, in seguito a una misteriosa strage la cui natura non viene specificata, si ritrova a sopravvivere in un mondo semi-isolato, dove la paura esterna convive con le regole ferree della casa-rifugio dove vivono. Sarà l’arrivo di una nuova famiglia a mettere in crisi le convenzioni e le norme tanto care al padre di famiglia, mettendo in scena un contrasto tra alieno e familiare, fiducia dovuta e fiducia accordata. Il regista Trey Edward Shults, parlando in un recente Q&A su Reddit di cosa significa girare un horror, non sembra essersi interrogato sul genere, tantomeno per rinnovarlo: “Non sono partito con l’idea di girare un film di un genere specifico, ma con l’obiettivo di creare un lavoro personale che contenesse le mie paure, e se questo è l’obiettivo di un horror, allora definite pure così il mio film”.
It Follows, successo di pubblico e critica datato 2014 e vincitore tra gli altri premi del prestigioso Bram Stoker Award del 2015 per la miglior sceneggiatura, si serve di una inquietudine di fondo, di un’atmosfera cupa, di una colonna sonora preponderante: elementi tipici dell’horror tradizionale. La mossa ‘autoriale’ risiede nella caratterizzazione particolare dell’entità maligna, senza per questo rinnegare il canone, anzi usandolo per rafforzare l’idea nuova, che tanto è stata osannata dalla critica.
Jay, la giovane protagonista, è in piedi davanti allo specchio e osserva il proprio corpo. Si trova in una situazione intima che però non riesce a suscitarle eccitazione, non riesce a guardarsi con occhio “sessualizzante”. Il suo corpo esile e pallido è troppo nella norma, ma proprio per questo le appare estraneo e repellente. Il “male”, sotto l’evanescente forma della presunta malattia sessuale che costituisce il villain del film, giace inerte nelle sue viscere ad attendere la prossima vittima. Si confonde con l’insicurezza e il desiderio del corpo. Se ci troviamo di fronte ad un monster movie, lo è certamente nel senso più filosofico possibile, nella riflessione sul rapporto tra la propria immagine e gli sconosciuti, e su come il sesso veicoli quelle paure. Rispondendo a un fan, il regista David Robert Mitchell ha scritto: “Il mostro in questo film utilizza il corpo come veicolo per attaccare le persone. In un certo senso, potrebbe essere visto come qualcosa di culturale, il modo in cui noi, come gruppo sociale, tendiamo ad avere timore della nudità e del sesso. Per questo la nudità qui è importante.” It Follows è emblematico perché il corpo della protagonista, nonostante possegga un fisico in salute, viene infettato dall’inizio e reso vulnerabile. Il virus la logora e le crea paranoie continue riguardo alle possibilità di fuga dalla maledizione che la perseguita, come una personificazione del malessere adolescenziale provocato dalle relazioni sessuali e affettive.
Il deterioramento corporeo è invece protagonista di un’altra pellicola, meno conosciuta e forse meno riuscita sul piano dell’inventiva, dall’emblematico titolo Thanatomorphose (Eric Falardeau, 2012). Qui l’attenzione è tutta puntata sull’esibizione pornografica del corpo marcescente della protagonista, condizione fisica debilitante dovuta ad una notte di passione sfrenata, dopo la quale la giovane dovrà fare i conti con ferite sempre peggiori. Il legame tra malattia sessualmente trasmissibile e corpo in rovina è talmente palese da rendere meno d’impatto il comparto della narrazione, ma le immagini forti si aggrappano allo stomaco. Il corpo, la somma carnale di pelle, ossa e sangue, diventa un agglomerato quasi innaturale da osservare nel suo disfacimento.
Tra le perle nascoste della New Wave di horror francese, Raw (Julia Ducournau, 2016) è senza dubbio un esempio della nuova luce che l’horror contemporaneo getta su tematiche quali l’alimentazione e il body shaming. Justine, giovane matricola universitaria nella facoltà di veterinaria con una ferrea morale anti-specista e vegetariana, accetta di cattivo grado l’assaggio di coniglio riservato a chi si iscrive alla sua facoltà. Da questo momento in avanti, un’allergia dovuta a cause sconosciute inizia a tormentarla, e il suo istinto prende il sopravvento sull’etica e sulle convinzioni che per anni ha portato avanti, facendo della sua vita uno scontro interiore. La sorella, prima considerata la bad girl di famiglia, è in realtà simile a lei e le carte saranno svelate nell’entusiasmante e devastante finale.
Anche in questa breve scena, lo specchio simbolizza una presa di coscienza femminile: Justine, riesce finalmente a sentirsi seducente mentre si trucca e si veste, con un sottofondo di hip-hop molto esplicito. Anche in questa scena, il corpo, seppur seducente nel vestiario e nelle movenze, piuttosto che attrarre stupisce, esplode in un misto di teatralità goffa e istinto predatorio atavico come se Justine stesse esplorando i confini tra animalità umana e umanità ammansita: la ragazza indossa vestiti da sera eleganti dentro i quali, senza sapere perché, si sente potente e sicura. Spesso accade che mentre prova a mettersi un acceso rossetto rosso finisce sbadatamente per sporcarsi, ma non le importa, perché ha un’urgenza interiore che sta emergendo e non può resistere, come se prima di allora si fosse sempre frenata. Nel farlo, perde parecchia umanità, si avvicina all’animale in quanto essere vivente fortemente istintuale, che senza repressioni sfoga la propria indole, anche i suoi movimenti sono quasi spastici e incomprensibili se non nell’ottica con cui giustificheremmo episodi da trance estatica.
Il corpo come transizione: tra maschio e femmina, vita e morte, e infine tra umano e animale. Si pensi anche a Thelma, riuscita pellicola di Joachim Trier del 2017, dove la protagonista è un’adolescente in piena crisi con il proprio sviluppo, la sessualità emergente e il legame con i ragazzi. La locandina mostra bene il legame tra Thelma e il regno animale. Durante i periodi di forte stress, la ragazza causa disastri climatici e morti improvvise di animali, come una proiezione del caos interiore adolescenziale, grazie a misteriosi poteri telecinetici legati all’ansia.
Fin da piccola, la gelosia nei confronti del fratello minore la spinge ad accanirsi in maniera semi-conscia contro di lui, spostandolo grazie ai suoi poteri e lasciando che i genitori debbano cercarlo. Quando si rende conto di essere invaghita di un’amica, gli episodi legati alla sua genetica sovrannaturale si moltiplicano e non possono essere tenuti sotto controllo. L’istinto si incarna metaforicamente in queste esplosioni di telecinesi, crisi di epilessia, dispetti più o meno pesanti e consapevoli. Chi conosce Thelma ha paura di lei come si teme un essere dalla psiche sconosciuta, e perfino lei è aliena a sé stessa. L’uomo e la bestia si ricongiungono in un teatro di dolore e dismorfia naturalistica, come nell’episodio della morte del padre della ragazza, che viene trasportato con la telecinesi qualche metro sopra l’acqua di un lago dove stava pescando per poi morire tramite autocombustione.
Al contrario, il corpo appare perfetto quando presenta muscoli e proporzioni impeccabili, tratti dolci e senza difetti apparenti. Elle Fanning, che interpreta la bellissima sedicenne Jesse di The Neon Demon (Nicolas Winding Refn, 2016), appartiene certamente a questa categoria. Il suo personaggio attira come un magnete chiunque incontri, uomini o donne che siano, esibendo una apparente innocenza pronta ad incrinarsi nel difficile mondo dello star system, dove si ritroverà ingarbugliata in affari ben peggiori della tipica invidia e concorrenza che ogni modella deve affrontare. Ma Jesse è davvero padrona di quanto succede attorno a lei? Che cosa significa essere talmente venerati da vivere in base al valore che ci assegnano? In questa favola nera dalla fotografia lucente, quasi sognante e impeccabile in ogni sfumatura di colore, Jesse diventa donna, e non più solamente una giovane bambolina da sfilata, solo grazie al dolore, all’inganno che subisce, al mondo che la stritola.
Quando prova a consolare una collega che ha appena fallito il proprio provino, questa rimane a tal punto affascinata da colei che a tutti piace da cercare di azzannarla per “mangiarne il talento”, succhiarne la bellezza. Il vampirismo è accompagnato da un verso di poesia pura: “è come se nel bel mezzo dell’inverno, tu fossi il sole”, dice la modella tra una punta di invidia e una grossa dose di disperazione. Il corpo diventa un possibile pasto per chi ambisce alla stessa posizione sociale. Come se la qualità estetica sostituisse la sostanza nutritiva, diventando un bisogno fondamentale. Per questo proprio tale scena, con un altro specchio protagonista, risulta la più seducente di quelle finora citate: rabbia e sensualità si intrecciano quando la modella delusa colpisce il vetro e lo frantuma, lasciando simbolicamente che i cocci si mescolino ad una sua foto appena strappata dal book fotografico.
Molte di queste pellicole, uscite dalla nicchia del low-budget in cui molto horror del passato si rifugiava (anche recenti, come Paranormal Activity e The Blair Witch Project), hanno allargato il proprio orizzonte a investimenti di tutt’altro calibro. Se c’è una tipologia modernizzata di horror tradizionale che sbanca grazie alla familiarità dei temi e ai jumpscare, in stile Insidious (la celebre saga di presenze paranormali con un bambino protagonista, di James Wan), negli ultimi tempi le casse dei multisala si sono riempite dei proventi di un orrore più sottile e ragionato, lento, spesso poco spaventoso all’inizio ma devastante sul finale. Casi più recenti comprendono l’allucinazione mistica di Midsommar e la fiaba oscura di The Witch, horror a tutti gli effetti ma con una considerazione da parte della critica molto diversa rispetto a “colleghi” dello stesso genere.
Il termine “Post-horror” utilizzato da numerosi critici, ed introdotto da un articolo di Steve Rose ha inevitabilmente spaccato a metà gli opinionisti e i fan, data la sua genesi e la sua natura non del tutto convincente. I film che abbiamo citato ed analizzato appartengono veramente ad una nuova concezione di orrore cinematografico? L’idea principale di Rose è sostenere che l’horror odierno mostri maggiori pretese in senso metafisico e sia più alto di registro e profondo nelle tematiche, status che in passato gli sarebbe mancato. La centralizzazione del corpo ricadrebbe, seguendo la sua linea, in un possibile upgrade del genere verso l’estetica, sia nei contenuti (le storie basate sulla gradevolezza dei corpi), che nelle forme (il rinnovamento del linguaggio filmico). Eppure questo sguardo sul corpo non è semplicemente la maturazione del vecchio body horror, ma una costante ibridazione tra generi, oltre che tra umano e animale, ragione e istinto, estetizzazione del mondo e sue bruttezze.
Un articolo del poeta e scrittore scozzese Paul St.John Mackintosh riflette sui limiti del termine post-horror per creare una nuova categoria di cui i film qui elencati e molti altri recenti farebbero parte in quanto “rivoluzione” all’interno del genere. Se assegnare un’etichetta così specifica e ristretta ad un gruppo eterogeneo rischia di limitarne il potere espressivo, forse trovare una caratteristica di fondo comune, come l’inventiva e l’immaginazione all’interno di canovacci tradizionalmente horror, può aiutarci a trovare una chiave di lettura più adeguata. Nia Edwards Behi si accoda a chi attacca la definizione di post-horror, sostenendo che i nuovi temi affrontati in questo genere non siano pure innovazioni, ma nuove paure che rimpolpano le possibilità terrorizzanti dell’horror odierno rispetto a quello precedente.
A livello puramente commerciale, i mutamenti nella considerazione dei critici e del pubblico nei confronti dell’horror contemporaneo hanno portato anche alla crescita di nuove case di produzione, il cui caso forse più eclatante è quello della A24, compagnia indipendente che prende curiosamente il nome dall’autostrada italiana (cosa che molti intuiscono senza sapere di avere ragione). Fondata a New York nel 2012, raggiunge le luci della ribalta grazie alla promozione e distribuzione del gioiello nichilista di Harmony Korine, Springbreakers, contribuendo alla costruzione dell’immaginario post-horror con titoli come Under the Skin e Hereditary. È curioso notare come questo trittico di successi sia in qualche modo accomunabile sul piano tematico da un senso di arrendevolezza di fronte al destino, su quello visivo da sperimentazioni autoriali, e sul piano dei generi da un’ibridazione programmatica.
Non sorprende allora che un drama adolescenziale come Springbreakers appaia quasi il più spaventoso dei tre. Un gangster che canta Britney Spears accompagnato dalle immagini delle ex attrici di Disney Channel ormai rapinatrici, che ribadiscono in maniera automatica quanto si stiano divertendo e quanto irripetibili siano le vacanze. I passamontagna rosa, i colori esasperati e brillanti all’inverosimile, le armi di ogni tipo maneggiate come fossero giocattoli, tutto questo maschera una depressione che l’accomuna ai nuovi horror.
Il mostro, la bestia, sono spaventose raffigurazioni molto efficaci sul piano estetico e per questo di grande impatto visivo: tutti associamo i grandi classici dell’orrore a figure inquietanti con tratti asimmetrici, arti disarticolati, ammassi di pelle amorfa. Eppure Jesse di The Neon Demon è una bellissima ragazza alle prede con meravigliose vampire avide di sangue quanto di successo. Il vero nemico si insinua nelle menti delle protagoniste, nelle invidie e nel risentimento tra le modelle, che le schiaccia sotto forma di tensione da show business. L’entità misteriosa di It Follows un corpo non lo ha nemmeno, terrorizzandoci perché disattende la nostra smania di identificare il nemico. È giusto citare anche il buio semi-costante che attornia gli eventi da paranoia pura di It Comes at Night, come se a luci spente il mostro fosse l’indicibile presenza avvolta dal manto nero della notte, dove quel qualcosa che ci vuole forse attaccare pianifica ogni mossa. Magari siamo noi, come la protagonista di Raw, ad essere il mostro in incognito, a covare un istinto e un’animalità sopiti dall’intervento esterno, ma pronto a esplodere in sfoghi macabri. Il mostro non ha una forma né un’identità, il sostantivo si svuota e aleggia evanescente tra un trauma, un disagio, un’entità che arriva e poi scompare. Trovarlo è impossibile, se ne sperimentano solamente gli effetti, ed è difficile perfino descriverlo.
Tracciare il profilo perfetto di che cosa stia diventando oggi l’horror sarebbe limitarne il potenziale, come indica un articolo di Esquire: se un superamento del genere dell’orrore come lo conoscevamo sta effettivamente avendo luogo, lo si deve all’ibridazione tra concetti e metodi differenti, legati o meno al passato, ma tenuti assieme da un senso di spaesamento comune. Un pregio dell’horror contemporaneo è forse quello di aver allargato orizzonti e confini come non mai, senza sbugiardarsi, senza la necessità di mettere in relazione modernità e tradizione come fossero antagoniste.
Se il terrore più grande che oggi vivono i giovani è perdere la bussola, non avere obiettivi, o peggio ancora, averne di così solidi da non vedere altro, ecco che anche una pellicola insospettabile si tinge di horror, post horror o quanto altro l’immaginazione di un critico può stabilire a livello di neologismi. Il mostro in questo caso è l’invidia, la solitudine, la tristezza di chi vive la festa dell’anno con alle spalle una rapina ed un gangster come amico e amante. Il sesso, il corpo che cresce, la solitudine: le stesse ansie di Jay in It Follows, le stesse incertezze di Justine in Raw, la cannibale che si credeva vegetariana, con un corpo proprio ma alieno e una vita vissuta nel dubbio di non essere all’altezza di chi dovrebbe un giorno diventare. Il sogno di diventare una stella non regge il confronto con l’incertezza e si tramuta pian piano in un incubo terrorizzante. I protagonisti sembrano non averne coscienza subito, assorbiti da quello che sta diventando un delirio di sopraffazione e ansia che logora letteralmente i loro corpi. L’orrore emerge paradossalmente da un eccesso di estetica, perché sta nelle luci, nel make-up, nella perfezione di quelle modelle con uno sguardo vitreo, ed è in ognuna delle vite degli spettatori: non più la comitiva in libera uscita al centro commerciale degli anni novanta, ma giovani studenti e professionisti con paure forse più generalizzate e immateriali.
Come il genere della paura e della violenza sta cercando di legittimarsi,
di Federico Squillacioti
TR-02
08.05.2020
Che cos’è l’horror cinematografico di oggi e come cambia rispetto al passato? Quali sono le paure e i pericoli che si immagina per l’uomo contemporaneo? È soprattutto il corpo ad essere protagonista, da quello impeccabile di una modella a quello decadente del malato. Il corpo, guarda caso, è ciò che ci identifica, restando stabile punto di riferimento per chi siamo e per come gli altri ci vedono. Nel collegare una serie di pellicole recenti, si può tentare di capire se hanno qualcosa in comune, risultando i tasselli di una tendenza nuova, oppure no. Le definizioni come “post-horror” e “New Weird” sono valide oppure limitano le potenzialità che hanno sempre contraddistinto l’horror come genere polimorfo, alla ricerca continua di spunti differenti e ibridi?
It Comes at Night basa tutta la sua carica evocativa sul semplice utilizzo delle ombre e dell’oscurità. Si tratta di un meccanismo basilare del mistery movie, che si appoggia molto più sull’attesa snervante che non sullo svelamento finale. La novità si trova nella cura dedicata alla sua realizzazione, e nel modo in cui la dialettica ombra-luce venga connessa con tematiche quali la famiglia, l’apocalisse e la paranoia. Non quindi una rottura netta con la tradizione. La famiglia protagonista, in seguito a una misteriosa strage la cui natura non viene specificata, si ritrova a sopravvivere in un mondo semi-isolato, dove la paura esterna convive con le regole ferree della casa-rifugio dove vivono. Sarà l’arrivo di una nuova famiglia a mettere in crisi le convenzioni e le norme tanto care al padre di famiglia, mettendo in scena un contrasto tra alieno e familiare, fiducia dovuta e fiducia accordata. Il regista Trey Edward Shults, parlando in un recente Q&A su Reddit di cosa significa girare un horror, non sembra essersi interrogato sul genere, tantomeno per rinnovarlo: “Non sono partito con l’idea di girare un film di un genere specifico, ma con l’obiettivo di creare un lavoro personale che contenesse le mie paure, e se questo è l’obiettivo di un horror, allora definite pure così il mio film”.
It Follows, successo di pubblico e critica datato 2014 e vincitore tra gli altri premi del prestigioso Bram Stoker Award del 2015 per la miglior sceneggiatura, si serve di una inquietudine di fondo, di un’atmosfera cupa, di una colonna sonora preponderante: elementi tipici dell’horror tradizionale. La mossa ‘autoriale’ risiede nella caratterizzazione particolare dell’entità maligna, senza per questo rinnegare il canone, anzi usandolo per rafforzare l’idea nuova, che tanto è stata osannata dalla critica.
Jay, la giovane protagonista, è in piedi davanti allo specchio e osserva il proprio corpo. Si trova in una situazione intima che però non riesce a suscitarle eccitazione, non riesce a guardarsi con occhio “sessualizzante”. Il suo corpo esile e pallido è troppo nella norma, ma proprio per questo le appare estraneo e repellente. Il “male”, sotto l’evanescente forma della presunta malattia sessuale che costituisce il villain del film, giace inerte nelle sue viscere ad attendere la prossima vittima. Si confonde con l’insicurezza e il desiderio del corpo. Se ci troviamo di fronte ad un monster movie, lo è certamente nel senso più filosofico possibile, nella riflessione sul rapporto tra la propria immagine e gli sconosciuti, e su come il sesso veicoli quelle paure. Rispondendo a un fan, il regista David Robert Mitchell ha scritto: “Il mostro in questo film utilizza il corpo come veicolo per attaccare le persone. In un certo senso, potrebbe essere visto come qualcosa di culturale, il modo in cui noi, come gruppo sociale, tendiamo ad avere timore della nudità e del sesso. Per questo la nudità qui è importante.” It Follows è emblematico perché il corpo della protagonista, nonostante possegga un fisico in salute, viene infettato dall’inizio e reso vulnerabile. Il virus la logora e le crea paranoie continue riguardo alle possibilità di fuga dalla maledizione che la perseguita, come una personificazione del malessere adolescenziale provocato dalle relazioni sessuali e affettive.
Il deterioramento corporeo è invece protagonista di un’altra pellicola, meno conosciuta e forse meno riuscita sul piano dell’inventiva, dall’emblematico titolo Thanatomorphose (Eric Falardeau, 2012). Qui l’attenzione è tutta puntata sull’esibizione pornografica del corpo marcescente della protagonista, condizione fisica debilitante dovuta ad una notte di passione sfrenata, dopo la quale la giovane dovrà fare i conti con ferite sempre peggiori. Il legame tra malattia sessualmente trasmissibile e corpo in rovina è talmente palese da rendere meno d’impatto il comparto della narrazione, ma le immagini forti si aggrappano allo stomaco. Il corpo, la somma carnale di pelle, ossa e sangue, diventa un agglomerato quasi innaturale da osservare nel suo disfacimento.
Tra le perle nascoste della New Wave di horror francese, Raw (Julia Ducournau, 2016) è senza dubbio un esempio della nuova luce che l’horror contemporaneo getta su tematiche quali l’alimentazione e il body shaming. Justine, giovane matricola universitaria nella facoltà di veterinaria con una ferrea morale anti-specista e vegetariana, accetta di cattivo grado l’assaggio di coniglio riservato a chi si iscrive alla sua facoltà. Da questo momento in avanti, un’allergia dovuta a cause sconosciute inizia a tormentarla, e il suo istinto prende il sopravvento sull’etica e sulle convinzioni che per anni ha portato avanti, facendo della sua vita uno scontro interiore. La sorella, prima considerata la bad girl di famiglia, è in realtà simile a lei e le carte saranno svelate nell’entusiasmante e devastante finale.
Anche in questa breve scena, lo specchio simbolizza una presa di coscienza femminile: Justine, riesce finalmente a sentirsi seducente mentre si trucca e si veste, con un sottofondo di hip-hop molto esplicito. Anche in questa scena, il corpo, seppur seducente nel vestiario e nelle movenze, piuttosto che attrarre stupisce, esplode in un misto di teatralità goffa e istinto predatorio atavico come se Justine stesse esplorando i confini tra animalità umana e umanità ammansita: la ragazza indossa vestiti da sera eleganti dentro i quali, senza sapere perché, si sente potente e sicura. Spesso accade che mentre prova a mettersi un acceso rossetto rosso finisce sbadatamente per sporcarsi, ma non le importa, perché ha un’urgenza interiore che sta emergendo e non può resistere, come se prima di allora si fosse sempre frenata. Nel farlo, perde parecchia umanità, si avvicina all’animale in quanto essere vivente fortemente istintuale, che senza repressioni sfoga la propria indole, anche i suoi movimenti sono quasi spastici e incomprensibili se non nell’ottica con cui giustificheremmo episodi da trance estatica.
Il corpo come transizione: tra maschio e femmina, vita e morte, e infine tra umano e animale. Si pensi anche a Thelma, riuscita pellicola di Joachim Trier del 2017, dove la protagonista è un’adolescente in piena crisi con il proprio sviluppo, la sessualità emergente e il legame con i ragazzi. La locandina mostra bene il legame tra Thelma e il regno animale. Durante i periodi di forte stress, la ragazza causa disastri climatici e morti improvvise di animali, come una proiezione del caos interiore adolescenziale, grazie a misteriosi poteri telecinetici legati all’ansia.
Fin da piccola, la gelosia nei confronti del fratello minore la spinge ad accanirsi in maniera semi-conscia contro di lui, spostandolo grazie ai suoi poteri e lasciando che i genitori debbano cercarlo. Quando si rende conto di essere invaghita di un’amica, gli episodi legati alla sua genetica sovrannaturale si moltiplicano e non possono essere tenuti sotto controllo. L’istinto si incarna metaforicamente in queste esplosioni di telecinesi, crisi di epilessia, dispetti più o meno pesanti e consapevoli. Chi conosce Thelma ha paura di lei come si teme un essere dalla psiche sconosciuta, e perfino lei è aliena a sé stessa. L’uomo e la bestia si ricongiungono in un teatro di dolore e dismorfia naturalistica, come nell’episodio della morte del padre della ragazza, che viene trasportato con la telecinesi qualche metro sopra l’acqua di un lago dove stava pescando per poi morire tramite autocombustione.
Al contrario, il corpo appare perfetto quando presenta muscoli e proporzioni impeccabili, tratti dolci e senza difetti apparenti. Elle Fanning, che interpreta la bellissima sedicenne Jesse di The Neon Demon (Nicolas Winding Refn, 2016), appartiene certamente a questa categoria. Il suo personaggio attira come un magnete chiunque incontri, uomini o donne che siano, esibendo una apparente innocenza pronta ad incrinarsi nel difficile mondo dello star system, dove si ritroverà ingarbugliata in affari ben peggiori della tipica invidia e concorrenza che ogni modella deve affrontare. Ma Jesse è davvero padrona di quanto succede attorno a lei? Che cosa significa essere talmente venerati da vivere in base al valore che ci assegnano? In questa favola nera dalla fotografia lucente, quasi sognante e impeccabile in ogni sfumatura di colore, Jesse diventa donna, e non più solamente una giovane bambolina da sfilata, solo grazie al dolore, all’inganno che subisce, al mondo che la stritola.
Quando prova a consolare una collega che ha appena fallito il proprio provino, questa rimane a tal punto affascinata da colei che a tutti piace da cercare di azzannarla per “mangiarne il talento”, succhiarne la bellezza. Il vampirismo è accompagnato da un verso di poesia pura: “è come se nel bel mezzo dell’inverno, tu fossi il sole”, dice la modella tra una punta di invidia e una grossa dose di disperazione. Il corpo diventa un possibile pasto per chi ambisce alla stessa posizione sociale. Come se la qualità estetica sostituisse la sostanza nutritiva, diventando un bisogno fondamentale. Per questo proprio tale scena, con un altro specchio protagonista, risulta la più seducente di quelle finora citate: rabbia e sensualità si intrecciano quando la modella delusa colpisce il vetro e lo frantuma, lasciando simbolicamente che i cocci si mescolino ad una sua foto appena strappata dal book fotografico.
Molte di queste pellicole, uscite dalla nicchia del low-budget in cui molto horror del passato si rifugiava (anche recenti, come Paranormal Activity e The Blair Witch Project), hanno allargato il proprio orizzonte a investimenti di tutt’altro calibro. Se c’è una tipologia modernizzata di horror tradizionale che sbanca grazie alla familiarità dei temi e ai jumpscare, in stile Insidious (la celebre saga di presenze paranormali con un bambino protagonista, di James Wan), negli ultimi tempi le casse dei multisala si sono riempite dei proventi di un orrore più sottile e ragionato, lento, spesso poco spaventoso all’inizio ma devastante sul finale. Casi più recenti comprendono l’allucinazione mistica di Midsommar e la fiaba oscura di The Witch, horror a tutti gli effetti ma con una considerazione da parte della critica molto diversa rispetto a “colleghi” dello stesso genere.
Il termine “Post-horror” utilizzato da numerosi critici, ed introdotto da un articolo di Steve Rose ha inevitabilmente spaccato a metà gli opinionisti e i fan, data la sua genesi e la sua natura non del tutto convincente. I film che abbiamo citato ed analizzato appartengono veramente ad una nuova concezione di orrore cinematografico? L’idea principale di Rose è sostenere che l’horror odierno mostri maggiori pretese in senso metafisico e sia più alto di registro e profondo nelle tematiche, status che in passato gli sarebbe mancato. La centralizzazione del corpo ricadrebbe, seguendo la sua linea, in un possibile upgrade del genere verso l’estetica, sia nei contenuti (le storie basate sulla gradevolezza dei corpi), che nelle forme (il rinnovamento del linguaggio filmico). Eppure questo sguardo sul corpo non è semplicemente la maturazione del vecchio body horror, ma una costante ibridazione tra generi, oltre che tra umano e animale, ragione e istinto, estetizzazione del mondo e sue bruttezze.
Un articolo del poeta e scrittore scozzese Paul St.John Mackintosh riflette sui limiti del termine post-horror per creare una nuova categoria di cui i film qui elencati e molti altri recenti farebbero parte in quanto “rivoluzione” all’interno del genere. Se assegnare un’etichetta così specifica e ristretta ad un gruppo eterogeneo rischia di limitarne il potere espressivo, forse trovare una caratteristica di fondo comune, come l’inventiva e l’immaginazione all’interno di canovacci tradizionalmente horror, può aiutarci a trovare una chiave di lettura più adeguata. Nia Edwards Behi si accoda a chi attacca la definizione di post-horror, sostenendo che i nuovi temi affrontati in questo genere non siano pure innovazioni, ma nuove paure che rimpolpano le possibilità terrorizzanti dell’horror odierno rispetto a quello precedente.
A livello puramente commerciale, i mutamenti nella considerazione dei critici e del pubblico nei confronti dell’horror contemporaneo hanno portato anche alla crescita di nuove case di produzione, il cui caso forse più eclatante è quello della A24, compagnia indipendente che prende curiosamente il nome dall’autostrada italiana (cosa che molti intuiscono senza sapere di avere ragione). Fondata a New York nel 2012, raggiunge le luci della ribalta grazie alla promozione e distribuzione del gioiello nichilista di Harmony Korine, Springbreakers, contribuendo alla costruzione dell’immaginario post-horror con titoli come Under the Skin e Hereditary. È curioso notare come questo trittico di successi sia in qualche modo accomunabile sul piano tematico da un senso di arrendevolezza di fronte al destino, su quello visivo da sperimentazioni autoriali, e sul piano dei generi da un’ibridazione programmatica.
Non sorprende allora che un drama adolescenziale come Springbreakers appaia quasi il più spaventoso dei tre. Un gangster che canta Britney Spears accompagnato dalle immagini delle ex attrici di Disney Channel ormai rapinatrici, che ribadiscono in maniera automatica quanto si stiano divertendo e quanto irripetibili siano le vacanze. I passamontagna rosa, i colori esasperati e brillanti all’inverosimile, le armi di ogni tipo maneggiate come fossero giocattoli, tutto questo maschera una depressione che l’accomuna ai nuovi horror.
Il mostro, la bestia, sono spaventose raffigurazioni molto efficaci sul piano estetico e per questo di grande impatto visivo: tutti associamo i grandi classici dell’orrore a figure inquietanti con tratti asimmetrici, arti disarticolati, ammassi di pelle amorfa. Eppure Jesse di The Neon Demon è una bellissima ragazza alle prede con meravigliose vampire avide di sangue quanto di successo. Il vero nemico si insinua nelle menti delle protagoniste, nelle invidie e nel risentimento tra le modelle, che le schiaccia sotto forma di tensione da show business. L’entità misteriosa di It Follows un corpo non lo ha nemmeno, terrorizzandoci perché disattende la nostra smania di identificare il nemico. È giusto citare anche il buio semi-costante che attornia gli eventi da paranoia pura di It Comes at Night, come se a luci spente il mostro fosse l’indicibile presenza avvolta dal manto nero della notte, dove quel qualcosa che ci vuole forse attaccare pianifica ogni mossa. Magari siamo noi, come la protagonista di Raw, ad essere il mostro in incognito, a covare un istinto e un’animalità sopiti dall’intervento esterno, ma pronto a esplodere in sfoghi macabri. Il mostro non ha una forma né un’identità, il sostantivo si svuota e aleggia evanescente tra un trauma, un disagio, un’entità che arriva e poi scompare. Trovarlo è impossibile, se ne sperimentano solamente gli effetti, ed è difficile perfino descriverlo.
Tracciare il profilo perfetto di che cosa stia diventando oggi l’horror sarebbe limitarne il potenziale, come indica un articolo di Esquire: se un superamento del genere dell’orrore come lo conoscevamo sta effettivamente avendo luogo, lo si deve all’ibridazione tra concetti e metodi differenti, legati o meno al passato, ma tenuti assieme da un senso di spaesamento comune. Un pregio dell’horror contemporaneo è forse quello di aver allargato orizzonti e confini come non mai, senza sbugiardarsi, senza la necessità di mettere in relazione modernità e tradizione come fossero antagoniste.
Se il terrore più grande che oggi vivono i giovani è perdere la bussola, non avere obiettivi, o peggio ancora, averne di così solidi da non vedere altro, ecco che anche una pellicola insospettabile si tinge di horror, post horror o quanto altro l’immaginazione di un critico può stabilire a livello di neologismi. Il mostro in questo caso è l’invidia, la solitudine, la tristezza di chi vive la festa dell’anno con alle spalle una rapina ed un gangster come amico e amante. Il sesso, il corpo che cresce, la solitudine: le stesse ansie di Jay in It Follows, le stesse incertezze di Justine in Raw, la cannibale che si credeva vegetariana, con un corpo proprio ma alieno e una vita vissuta nel dubbio di non essere all’altezza di chi dovrebbe un giorno diventare. Il sogno di diventare una stella non regge il confronto con l’incertezza e si tramuta pian piano in un incubo terrorizzante. I protagonisti sembrano non averne coscienza subito, assorbiti da quello che sta diventando un delirio di sopraffazione e ansia che logora letteralmente i loro corpi. L’orrore emerge paradossalmente da un eccesso di estetica, perché sta nelle luci, nel make-up, nella perfezione di quelle modelle con uno sguardo vitreo, ed è in ognuna delle vite degli spettatori: non più la comitiva in libera uscita al centro commerciale degli anni novanta, ma giovani studenti e professionisti con paure forse più generalizzate e immateriali.