Storia e analisi di un fenomeno che
ha segnato un'epoca,
di Andrea Tiradritti
TR-26
19.03.2021
Era il 1971 quando Melvin Van Peebles scrisse, diresse e produsse Sweet Sweetback’s Baadasssss Song. Il film, espressamente dedicato a «tutti i fratelli e le sorelle che ne hanno abbastanza dell'uomo bianco», mostra il suo spirito rivoluzionario già dalla trama. Sweetback, interpretato dallo stesso Van Peebles, è un giovane afroamericano cresciuto in un bordello nel ghetto di Los Angeles. Iniziato in tenera età al sesso e al crimine, una volta adulto intraprende la carriera di gigolò grazie alle sue eccezionali doti amatorie. Una sera, dopo aver aggredito due poliziotti, è costretto a scappare per non finire in prigione. In seguito a diverse peripezie, risse e agguati, la fuga terminerà nel deserto al confine col Messico e Sweetback trionferà su chi lo vuole morto.
Realizzato con un budget di circa mezzo milione di dollari, il film ne incassò oltre quindici: un successo clamoroso per un’opera indipendente - colpita fra l’altro dalla censura e da una limitata distribuzione - il quale però non arrivò per caso. Nei decenni precedenti Hollywood si era configurata come un sistema di potere industriale governato dai bianchi e rigidamente chiuso ai neri. La rappresentazione della comunità afroamericana si risolveva in figure stereotipate come quella di Mami in Via col vento (1939) o veniva affidata al carisma di star del calibro di Sidney Poitier. La differenza fra il personaggio di Sweetback e quelli all’epoca interpretati da quest’ultimo non potrebbe essere più radicale. Poitier era il volto gentile e integrato nella società, il nero a tratti remissivo ma sempre educato e affascinante che garantiva il valore del sogno americano. Sweetback è all’opposto sfrontato e arrogante, vittorioso non in quanto criminale ma in quanto uomo che infrangendo una legge razzista si autodetermina. Per la prima volta sullo schermo l’eroe col quale identificarsi e per il quale fare il tifo era un afroamericano orgoglioso della sua natura, seducente e in aperta guerriglia contro l’oppressione bianca. Van Peebles aveva aperto la porta, il pubblico nero esisteva e reclamava a gran voce maggiore rappresentanza.
Verso la fine degli anni Sessanta Hollywood stava attraversando una grave crisi dovuta all’avvento della televisione e al flop commerciale di alcune sue mastodontiche produzioni. Nello stesso periodo gli Stati Uniti, grazie alle lotte sociali dei movimenti per i diritti civili, diventavano a fatica una nazione più equa e inclusiva. Leggi come il Civil Rights Act del 1964 e il Voting Rights Act dell’anno successivo dichiararono illegali le discriminazioni nei confronti degli afroamericani, riconoscendo loro tutele e prerogative fino ad allora negate. Le uccisioni di Malcolm X e Martin Luther King sprofondarono il Paese sull’orlo di una guerra civile, scatenando violente rivolte e favorendo la nascita di organizzazioni radicali come le Pantere Nere. Fu in questo contesto, caratterizzato dal progressivo affermarsi di una collettiva coscienza afroamericana e dalle difficoltà del cinema mainstream di attrarre spettatori, che divampò il fenomeno della blaxploitation.
Con questo termine, ricavato dall’unione della parola black (nero) ed exploitation (sfruttamento), venne identificato quel vasto genere di film dei primi anni Settanta realizzato e interpretato per lo più da neri e diretto a un pubblico afroamericano. Se Sweetback aveva dato forma al desiderio, fu Shaft (1971) di Gordon Parks a stabilire il canone. Il film, prodotto dalla MGM, contiene infatti molti dei tratti che in seguito diverranno caratteristici del filone, a partire dal protagonista. John Shaft (Richard Roundtree) è un investigatore privato di New York dai modi rudi e dal fascino magnetico. Frequenta con disinvoltura sia gli ambienti criminali che i dipartimenti di polizia, è un uomo sagace e carismatico, amato dalle donne (anche bianche) e rispettato nel suo lavoro. Preso in sé il film non è molto di più di un comune noir nel quale il protagonista è chiamato a risolvere uno spinoso caso di rapimento fra bande rivali. A differenza dello stile frammentario e immaginifico di Van Peebles, Parks dirige gli attori con mestiere, sostenuto da un solido impianto produttivo e da un copione tanto efficace quanto lineare. Tuttavia, ciò che realmente conta in Shaft non è la trama ma la scelta di esibire un corpo afroamericano al centro dell’immagine e della storia. Un corpo ammaliante e valoroso, il quale, ostentando la propria identità invece di vergognarsene, possiede la forza di elevarsi a simbolo di ribellione nei confronti di un modello fattosi all’improvviso cedevole. Il film fu un successo al botteghino e il suo compositore, Isaac Hayes, vinse l’Oscar per la migliore canzone. Hollywood, intuendo che produzioni del genere potevano portare ottimi profitti in relazione alle spese, iniziò a metterci le mani. Affermare che il cinema americano fu salvato dai neri è probabilmente esagerato, ma senz’altro essi con il loro lavoro e il loro talento contribuirono a donargli nuova linfa in un momento decisivo.
In soli cinque anni, fra il 1971 e il 1976, negli Stati Uniti furono prodotte decine di film riconducibili alla blaxploitation. Queste opere, seppur diverse fra loro per idee e caratteristiche, condivisero la volontà, più o meno evidente, di abbandonare i toni politici dei loro predecessori in favore di un intrattenimento che fosse, al di là di qualsiasi moralismo, innanzitutto accattivante. La satira sociale smorzò la sua intensità e la rottura - complice il tempestivo intervento dei grandi studi - fu almeno in parte ricomposta. Alla figura del detective si aggiunse presto quella del pimp, magnaccia di quartiere impegnato ad accrescere, gestire e difendere il proprio potere criminale. Ambientate quasi sempre in ghetti infestati da droga, gangster e prostituzione e riprese con un taglio ruvido, al limite del documentaristico, le storie di riscatto e vendetta della blaxploitation vennero adattate secondo varie combinazioni a qualsiasi genere della tradizione hollywoodiana. Horror come Blacula (1972), film di mafia come Black Caesar (1973), western come The Legend of Nigger Charlie (1973), commedie come Cooley High (1975) o film d’arti marziali come Black Belt Jones (1974) concorsero nel creare un immaginario finalmente vincente e non più subalterno della comunità afro nella società americana, reagendo così a lunghi anni di emarginazione culturale e audiovisiva.
Se dovessimo riassumere, in questo sconfinato e intricato panorama, alcuni tratti comuni alla maggior parte dei film della blaxploitation diremmo che essi sono innanzitutto caratterizzati da una tecnica modesta, un linguaggio esplicito, gran dosi di violenza, trascinanti musiche funky e frequente nudità. Considerando che lo scopo principale di queste opere era quello di intrattenere e richiamare in sala un determinato target di consumatori, non dovrebbe stupire oggi neanche la ripetitività delle narrazioni e la superficialità con la quale venivano delineati molti dei personaggi, in special modo quelli secondari, al fine di favorire l’azione rispetto al messaggio. Ciò che queste storie significavano era di gran lunga più cruciale di quel che raccontavano. Che fosse un intrepido agente per le strade di Harlem, un campione di karate, un reduce di guerra, un protettore o un piccolo criminale, l’importante era che il protagonista fosse nero e in quanto tale capace di affrontare e sconfiggere un apparato corrotto, impersonato non a caso quasi sempre da un antagonista bianco. Ad attori belli e talentuosi come Fred Williamson, Jim Brown e Jim Kelly il pubblico afroamericano affidava la propria rabbia, i propri sogni di potere e rivincita nei confronti di una realtà che nonostante tutto, una volta finito il film, lo vedeva ancora in larga parte soccombere. Per quell’ora e mezza di visione il mondo invertiva i suoi poli, gli oppressi vendicavano i torti subiti e i neri, come supereroi invincibili, dimostravano la propria superiorità.
E le donne? Uno degli aspetti ancora oggi più dibattuti della blaxploitation riguarda proprio la rappresentazione femminile all’interno di questi film, per alcuni emancipatrice e per altri ancora fortemente influenzata da stereotipi retrogradi. Come vedremo, questa contrapposizione accompagnerà tutto lo sviluppo del movimento e sarà decisiva per il suo rapido declino; tuttavia, al netto delle critiche, pellicole come Cleopatra Jones (1973), Coffy (1973) e Foxy Brown (1974), le cui protagoniste sono tutte donne, assunsero un ruolo fondamentale nel determinare la strepitosa popolarità del genere e il suo carattere innovatore. Al pari dei loro corrispettivi maschili, giovani attrici come Tamara Dobson, Jeannie Bell e soprattutto Pam Grier divennero vere e proprie icone di stile e sensualità. I molti ruoli interpretati da quest’ultima, omaggiata non a caso da Quentin Tarantino nel suo Jackie Brown del 1997, esemplificano alla perfezione i tratti distintivi della tipica eroina del genere. Una donna sexy, indipendente e coraggiosa, abile nell’usare le armi e priva di scrupoli nello sfruttare la propria dirompente femminilità per raggiungere i propri scopi e realizzare con astuzia i propri piani. Inoltre, con maggiore evidenza rispetto ai protagonisti maschili, queste donne, seppur muovendosi anch’esse in contesti al margine della legalità, si caratterizzano per una più netta presa di posizione nei confronti di figure negative come papponi e spacciatori, alle quali spesso finiscono col dare la caccia.
Se dunque da un lato questi film furono accolti positivamente perché ritraevano modelli di donne forti, libere e spregiudicate, dall’altro vennero criticati in quanto volgari, svilenti della dignità femminile e profondamente sessisti. Nel riflettere su questo bisogna tenere a mente quanto il pubblico afroamericano dell’epoca fosse in larga prevalenza maschile e come quindi la nudità, le scene erotiche e le immagini delle ragazze in abiti succinti fossero utilizzate dai produttori fin dalla promozione, attraverso trailer e locandine, con l’obiettivo di richiamare in sala il maggior numero di uomini possibile. In un interessante studio pubblicato nel 2014 da John Robert Terry, docente dell’Università del Wisconsin, la questione dell’oggettificazione del corpo femminile durante la blaxploitation è analizzata in un discorso più generale e collegata alle dinamiche di potere all’interno degli stessi movimenti afroamericani. Secondo Terry l’innegabile machismo di questi personaggi femminili e la morbosa insistenza nei confronti dei loro corpi nudi al servizio del piacere dello spettatore, non fanno altro che riflettere lo sguardo maschile dominante all’epoca. Esso, ancor prima che il cinema, guidava e influenzava l’ideologia a capo della rivoluzione sociale. Alle donne, eccetto alcune illustri eccezioni, nella pratica derivata dal grande ideale di lotta afroamericana spettavano posizioni ancillari di retroguardia. Il potere nero era primariamente potere maschile, attuare la rivoluzione era compito degli uomini. Alla luce di queste riflessioni, le quali intendono la blaxploitation come specchio e iperbole di quel parallelo periodo storico, le eroine di cui stiamo parlando ci appaiono sì autonome e cool, ma pur sempre ingabbiate in una codificata struttura gerarchica che ne controlla dall’alto lo sguardo, il corpo, le azioni e i desideri.
Il momento d’oro della blaxploitation non durò a lungo. Influenti attivisti come Jesse Jackson e gruppi come la National Association for the Advancement of Colored People (NAACP) si schierarono più volte pubblicamente contro questi film. Le principali accuse, a cui i mass media diedero molta risonanza, riguardavano il modo denigratorio e mistificante col quale in queste opere venivano descritte le comunità afroamericane, i loro costumi e la loro moralità. Secondo questa concezione - per di più avvalorata dal fatto che molti dei registi di quelle pellicole fossero bianchi - invece di essere liberati i neri venivano sfruttati in nome di interessi economici e capitalistici da cui essi traevano beneficio solo in minima parte. Film divenuti poi iconici come Superfly (1972), The Mack (1973) e Willie Dynamite (1973) veicolavano modelli diseducativi e pericolosi per le nuove generazioni, idealizzando la droga e la vita da strada attraverso la volontà di rendere affascinanti protagonisti altamente problematici. Le polemiche furono aspre e portarono, insieme a un’effettiva disaffezione del pubblico dovuta alla scarsa originalità delle sceneggiature, a un fulmineo disfacimento del genere già nella seconda metà degli anni Settanta.
Anche per lo storico Charles Woods l’era della blaxploitation avrebbe potuto e dovuto essere qualcosa di diverso: non solo intrattenimento, sesso e violenza, ma anche un momento politico e un prezioso strumento di educazione collettiva delle coscienze nere. Tuttavia, pur giudicando deleterie alcune ricorrenti rappresentazioni del genere, egli rintraccia al suo interno opere o segmenti che dimostrano il tentativo di intraprendere strade differenti e di tratteggiare una società più rispettosa delle donne, più consapevole delle proprie disuguaglianze e maggiormente impegnata nello sforzo di trasformarsi. The Spook Who Sat by the Door, tratto dal romanzo di Sam Greenlee e diretto da Ivan Dixon nel 1973, è ad esempio uno dei rari casi in cui l’ordine sociale non viene ristabilito ma sommosso e in cui la battaglia privata del protagonista si fa megafono di una più ampia rivolta popolare. Raccontando la storia di Dan Freeman, nazionalista afroamericano che si fa assumere in incognito dalla CIA per carpirne i segreti e copiarne i metodi d’addestramento una volta tornato fra i suoi compagni a Chicago, il film muove una critica radicale sia al razzismo governativo che alla possibilità per i neri di integrarsi pacificamente nel sistema che li opprime. L’inclusione non violenta è sinonimo di illusione, il popolo afroamericano deve unirsi, organizzarsi e rispondere ai soprusi con le stesse armi dei loro nemici. Non stupiamoci quindi, afferma Woods in una delle sue tante lezioni reperibili in rete, se di questi film abbiamo sentito poco parlare o se la blaxploitation nel suo complesso preferì seguire un sentiero più comodo. Un nero che spara è innocuo e redditizio, ma uno che si interroga sulla sua condizione e crea nei suoi simili un sentimento condiviso rappresenta, oggi come allora, un pericolo troppo grande per non essere represso da chi detiene il potere.
Fenomeno culturale, musicale e artistico senza precedenti, genere controverso fin dalla nascita, la blaxploitation nel corso di questi decenni ha continuato a esercitare una decisiva influenza su intere generazioni di registi, attori, attrici e maestranze nere. Una nuova classe di autori come John Singleton e Spike Lee approfittarono dello spazio ottenuto vent’anni prima dai loro colleghi afroamericani per realizzare film come Boyz n the Hood (1991) e Do the Right Thing (1989), opere acclamate a livello internazionale e dal forte risvolto politico. D’altronde è stato lo stesso Spike Lee, nel suo BlacKkKlansman del 2018, a rendere manifesti i tributi che la sua poetica e la sua carriera devono a quell’elettrizzante parentesi cinematografica che fu la blaxploitation. Ancora oggi, nel tempo di Black Panther (2018) e delle nuove rivolte in nome di George Floyd, vengono girati remake, sequel o documentari inerenti a titoli dell’epoca, segno che l’interesse per quell’esperienza non solo non è estinto, ma può anche rivelarsi utile per orientarsi nella polarizzata America del presente.
Avremmo bisogno del riscontro contrario, ma senza quei film probabilmente non avremmo avuto i Samuel L. Jackson, gli Eddie Murphy, i Mahershala Ali, i Denzel Washington, le Halle Berry e via discorrendo. Non avremmo avuto così come la conosciamo neanche la filmografia del già citato Quentin Tarantino. Fervente appassionato del genere fin dall’infanzia, il regista di Knoxville, da Pulp Fiction (1994) a Django Unchained (2012), ha infatti utilizzato come nessun altro nel cinema contemporaneo l’immaginario estetico e contenutistico della blaxploitation, i suoi dialoghi fiume, i suoi personaggi sopra le righe e le sue irresistibili colonne sonore.
Senza quei film che invasero il mercato statunitense all’alba degli anni Settanta - non sempre a torto giudicati mediocri dalla critica e razzisti e misogini dall’opinione pubblica - in definitiva avremmo avuto oggi un cinema meno vario e libero. Se è vero che la blaxploitation fu innanzitutto un prodotto commerciale gestito da Hollywood al fine di incrementare il proprio profitto, è altresì vero che per molte persone afroamericane significò la nascita di una storia comune, l’apertura di uno spiraglio su un orizzonte ricco di possibilità e conquiste. Professionisti neri del settore ebbero per la prima volta l’occasione di rappresentare le proprie comunità in modo diverso dalla tradizione, costruendone per immagini un’identità virtuosa, agguerrita e non più sottomessa. Come abbiamo visto l’opportunità è stata colta solo in parte, eppure tanto è bastato per farci arrivare dove siamo.
Storia e analisi di un fenomeno che
ha segnato un'epoca,
di Andrea Tiradritti
TR-26
19.03.2021
Era il 1971 quando Melvin Van Peebles scrisse, diresse e produsse Sweet Sweetback’s Baadasssss Song. Il film, espressamente dedicato a «tutti i fratelli e le sorelle che ne hanno abbastanza dell'uomo bianco», mostra il suo spirito rivoluzionario già dalla trama. Sweetback, interpretato dallo stesso Van Peebles, è un giovane afroamericano cresciuto in un bordello nel ghetto di Los Angeles. Iniziato in tenera età al sesso e al crimine, una volta adulto intraprende la carriera di gigolò grazie alle sue eccezionali doti amatorie. Una sera, dopo aver aggredito due poliziotti, è costretto a scappare per non finire in prigione. In seguito a diverse peripezie, risse e agguati, la fuga terminerà nel deserto al confine col Messico e Sweetback trionferà su chi lo vuole morto.
Realizzato con un budget di circa mezzo milione di dollari, il film ne incassò oltre quindici: un successo clamoroso per un’opera indipendente - colpita fra l’altro dalla censura e da una limitata distribuzione - il quale però non arrivò per caso. Nei decenni precedenti Hollywood si era configurata come un sistema di potere industriale governato dai bianchi e rigidamente chiuso ai neri. La rappresentazione della comunità afroamericana si risolveva in figure stereotipate come quella di Mami in Via col vento (1939) o veniva affidata al carisma di star del calibro di Sidney Poitier. La differenza fra il personaggio di Sweetback e quelli all’epoca interpretati da quest’ultimo non potrebbe essere più radicale. Poitier era il volto gentile e integrato nella società, il nero a tratti remissivo ma sempre educato e affascinante che garantiva il valore del sogno americano. Sweetback è all’opposto sfrontato e arrogante, vittorioso non in quanto criminale ma in quanto uomo che infrangendo una legge razzista si autodetermina. Per la prima volta sullo schermo l’eroe col quale identificarsi e per il quale fare il tifo era un afroamericano orgoglioso della sua natura, seducente e in aperta guerriglia contro l’oppressione bianca. Van Peebles aveva aperto la porta, il pubblico nero esisteva e reclamava a gran voce maggiore rappresentanza.
Verso la fine degli anni Sessanta Hollywood stava attraversando una grave crisi dovuta all’avvento della televisione e al flop commerciale di alcune sue mastodontiche produzioni. Nello stesso periodo gli Stati Uniti, grazie alle lotte sociali dei movimenti per i diritti civili, diventavano a fatica una nazione più equa e inclusiva. Leggi come il Civil Rights Act del 1964 e il Voting Rights Act dell’anno successivo dichiararono illegali le discriminazioni nei confronti degli afroamericani, riconoscendo loro tutele e prerogative fino ad allora negate. Le uccisioni di Malcolm X e Martin Luther King sprofondarono il Paese sull’orlo di una guerra civile, scatenando violente rivolte e favorendo la nascita di organizzazioni radicali come le Pantere Nere. Fu in questo contesto, caratterizzato dal progressivo affermarsi di una collettiva coscienza afroamericana e dalle difficoltà del cinema mainstream di attrarre spettatori, che divampò il fenomeno della blaxploitation.
Con questo termine, ricavato dall’unione della parola black (nero) ed exploitation (sfruttamento), venne identificato quel vasto genere di film dei primi anni Settanta realizzato e interpretato per lo più da neri e diretto a un pubblico afroamericano. Se Sweetback aveva dato forma al desiderio, fu Shaft (1971) di Gordon Parks a stabilire il canone. Il film, prodotto dalla MGM, contiene infatti molti dei tratti che in seguito diverranno caratteristici del filone, a partire dal protagonista. John Shaft (Richard Roundtree) è un investigatore privato di New York dai modi rudi e dal fascino magnetico. Frequenta con disinvoltura sia gli ambienti criminali che i dipartimenti di polizia, è un uomo sagace e carismatico, amato dalle donne (anche bianche) e rispettato nel suo lavoro. Preso in sé il film non è molto di più di un comune noir nel quale il protagonista è chiamato a risolvere uno spinoso caso di rapimento fra bande rivali. A differenza dello stile frammentario e immaginifico di Van Peebles, Parks dirige gli attori con mestiere, sostenuto da un solido impianto produttivo e da un copione tanto efficace quanto lineare. Tuttavia, ciò che realmente conta in Shaft non è la trama ma la scelta di esibire un corpo afroamericano al centro dell’immagine e della storia. Un corpo ammaliante e valoroso, il quale, ostentando la propria identità invece di vergognarsene, possiede la forza di elevarsi a simbolo di ribellione nei confronti di un modello fattosi all’improvviso cedevole. Il film fu un successo al botteghino e il suo compositore, Isaac Hayes, vinse l’Oscar per la migliore canzone. Hollywood, intuendo che produzioni del genere potevano portare ottimi profitti in relazione alle spese, iniziò a metterci le mani. Affermare che il cinema americano fu salvato dai neri è probabilmente esagerato, ma senz’altro essi con il loro lavoro e il loro talento contribuirono a donargli nuova linfa in un momento decisivo.
In soli cinque anni, fra il 1971 e il 1976, negli Stati Uniti furono prodotte decine di film riconducibili alla blaxploitation. Queste opere, seppur diverse fra loro per idee e caratteristiche, condivisero la volontà, più o meno evidente, di abbandonare i toni politici dei loro predecessori in favore di un intrattenimento che fosse, al di là di qualsiasi moralismo, innanzitutto accattivante. La satira sociale smorzò la sua intensità e la rottura - complice il tempestivo intervento dei grandi studi - fu almeno in parte ricomposta. Alla figura del detective si aggiunse presto quella del pimp, magnaccia di quartiere impegnato ad accrescere, gestire e difendere il proprio potere criminale. Ambientate quasi sempre in ghetti infestati da droga, gangster e prostituzione e riprese con un taglio ruvido, al limite del documentaristico, le storie di riscatto e vendetta della blaxploitation vennero adattate secondo varie combinazioni a qualsiasi genere della tradizione hollywoodiana. Horror come Blacula (1972), film di mafia come Black Caesar (1973), western come The Legend of Nigger Charlie (1973), commedie come Cooley High (1975) o film d’arti marziali come Black Belt Jones (1974) concorsero nel creare un immaginario finalmente vincente e non più subalterno della comunità afro nella società americana, reagendo così a lunghi anni di emarginazione culturale e audiovisiva.
Se dovessimo riassumere, in questo sconfinato e intricato panorama, alcuni tratti comuni alla maggior parte dei film della blaxploitation diremmo che essi sono innanzitutto caratterizzati da una tecnica modesta, un linguaggio esplicito, gran dosi di violenza, trascinanti musiche funky e frequente nudità. Considerando che lo scopo principale di queste opere era quello di intrattenere e richiamare in sala un determinato target di consumatori, non dovrebbe stupire oggi neanche la ripetitività delle narrazioni e la superficialità con la quale venivano delineati molti dei personaggi, in special modo quelli secondari, al fine di favorire l’azione rispetto al messaggio. Ciò che queste storie significavano era di gran lunga più cruciale di quel che raccontavano. Che fosse un intrepido agente per le strade di Harlem, un campione di karate, un reduce di guerra, un protettore o un piccolo criminale, l’importante era che il protagonista fosse nero e in quanto tale capace di affrontare e sconfiggere un apparato corrotto, impersonato non a caso quasi sempre da un antagonista bianco. Ad attori belli e talentuosi come Fred Williamson, Jim Brown e Jim Kelly il pubblico afroamericano affidava la propria rabbia, i propri sogni di potere e rivincita nei confronti di una realtà che nonostante tutto, una volta finito il film, lo vedeva ancora in larga parte soccombere. Per quell’ora e mezza di visione il mondo invertiva i suoi poli, gli oppressi vendicavano i torti subiti e i neri, come supereroi invincibili, dimostravano la propria superiorità.
E le donne? Uno degli aspetti ancora oggi più dibattuti della blaxploitation riguarda proprio la rappresentazione femminile all’interno di questi film, per alcuni emancipatrice e per altri ancora fortemente influenzata da stereotipi retrogradi. Come vedremo, questa contrapposizione accompagnerà tutto lo sviluppo del movimento e sarà decisiva per il suo rapido declino; tuttavia, al netto delle critiche, pellicole come Cleopatra Jones (1973), Coffy (1973) e Foxy Brown (1974), le cui protagoniste sono tutte donne, assunsero un ruolo fondamentale nel determinare la strepitosa popolarità del genere e il suo carattere innovatore. Al pari dei loro corrispettivi maschili, giovani attrici come Tamara Dobson, Jeannie Bell e soprattutto Pam Grier divennero vere e proprie icone di stile e sensualità. I molti ruoli interpretati da quest’ultima, omaggiata non a caso da Quentin Tarantino nel suo Jackie Brown del 1997, esemplificano alla perfezione i tratti distintivi della tipica eroina del genere. Una donna sexy, indipendente e coraggiosa, abile nell’usare le armi e priva di scrupoli nello sfruttare la propria dirompente femminilità per raggiungere i propri scopi e realizzare con astuzia i propri piani. Inoltre, con maggiore evidenza rispetto ai protagonisti maschili, queste donne, seppur muovendosi anch’esse in contesti al margine della legalità, si caratterizzano per una più netta presa di posizione nei confronti di figure negative come papponi e spacciatori, alle quali spesso finiscono col dare la caccia.
Se dunque da un lato questi film furono accolti positivamente perché ritraevano modelli di donne forti, libere e spregiudicate, dall’altro vennero criticati in quanto volgari, svilenti della dignità femminile e profondamente sessisti. Nel riflettere su questo bisogna tenere a mente quanto il pubblico afroamericano dell’epoca fosse in larga prevalenza maschile e come quindi la nudità, le scene erotiche e le immagini delle ragazze in abiti succinti fossero utilizzate dai produttori fin dalla promozione, attraverso trailer e locandine, con l’obiettivo di richiamare in sala il maggior numero di uomini possibile. In un interessante studio pubblicato nel 2014 da John Robert Terry, docente dell’Università del Wisconsin, la questione dell’oggettificazione del corpo femminile durante la blaxploitation è analizzata in un discorso più generale e collegata alle dinamiche di potere all’interno degli stessi movimenti afroamericani. Secondo Terry l’innegabile machismo di questi personaggi femminili e la morbosa insistenza nei confronti dei loro corpi nudi al servizio del piacere dello spettatore, non fanno altro che riflettere lo sguardo maschile dominante all’epoca. Esso, ancor prima che il cinema, guidava e influenzava l’ideologia a capo della rivoluzione sociale. Alle donne, eccetto alcune illustri eccezioni, nella pratica derivata dal grande ideale di lotta afroamericana spettavano posizioni ancillari di retroguardia. Il potere nero era primariamente potere maschile, attuare la rivoluzione era compito degli uomini. Alla luce di queste riflessioni, le quali intendono la blaxploitation come specchio e iperbole di quel parallelo periodo storico, le eroine di cui stiamo parlando ci appaiono sì autonome e cool, ma pur sempre ingabbiate in una codificata struttura gerarchica che ne controlla dall’alto lo sguardo, il corpo, le azioni e i desideri.
Il momento d’oro della blaxploitation non durò a lungo. Influenti attivisti come Jesse Jackson e gruppi come la National Association for the Advancement of Colored People (NAACP) si schierarono più volte pubblicamente contro questi film. Le principali accuse, a cui i mass media diedero molta risonanza, riguardavano il modo denigratorio e mistificante col quale in queste opere venivano descritte le comunità afroamericane, i loro costumi e la loro moralità. Secondo questa concezione - per di più avvalorata dal fatto che molti dei registi di quelle pellicole fossero bianchi - invece di essere liberati i neri venivano sfruttati in nome di interessi economici e capitalistici da cui essi traevano beneficio solo in minima parte. Film divenuti poi iconici come Superfly (1972), The Mack (1973) e Willie Dynamite (1973) veicolavano modelli diseducativi e pericolosi per le nuove generazioni, idealizzando la droga e la vita da strada attraverso la volontà di rendere affascinanti protagonisti altamente problematici. Le polemiche furono aspre e portarono, insieme a un’effettiva disaffezione del pubblico dovuta alla scarsa originalità delle sceneggiature, a un fulmineo disfacimento del genere già nella seconda metà degli anni Settanta.
Anche per lo storico Charles Woods l’era della blaxploitation avrebbe potuto e dovuto essere qualcosa di diverso: non solo intrattenimento, sesso e violenza, ma anche un momento politico e un prezioso strumento di educazione collettiva delle coscienze nere. Tuttavia, pur giudicando deleterie alcune ricorrenti rappresentazioni del genere, egli rintraccia al suo interno opere o segmenti che dimostrano il tentativo di intraprendere strade differenti e di tratteggiare una società più rispettosa delle donne, più consapevole delle proprie disuguaglianze e maggiormente impegnata nello sforzo di trasformarsi. The Spook Who Sat by the Door, tratto dal romanzo di Sam Greenlee e diretto da Ivan Dixon nel 1973, è ad esempio uno dei rari casi in cui l’ordine sociale non viene ristabilito ma sommosso e in cui la battaglia privata del protagonista si fa megafono di una più ampia rivolta popolare. Raccontando la storia di Dan Freeman, nazionalista afroamericano che si fa assumere in incognito dalla CIA per carpirne i segreti e copiarne i metodi d’addestramento una volta tornato fra i suoi compagni a Chicago, il film muove una critica radicale sia al razzismo governativo che alla possibilità per i neri di integrarsi pacificamente nel sistema che li opprime. L’inclusione non violenta è sinonimo di illusione, il popolo afroamericano deve unirsi, organizzarsi e rispondere ai soprusi con le stesse armi dei loro nemici. Non stupiamoci quindi, afferma Woods in una delle sue tante lezioni reperibili in rete, se di questi film abbiamo sentito poco parlare o se la blaxploitation nel suo complesso preferì seguire un sentiero più comodo. Un nero che spara è innocuo e redditizio, ma uno che si interroga sulla sua condizione e crea nei suoi simili un sentimento condiviso rappresenta, oggi come allora, un pericolo troppo grande per non essere represso da chi detiene il potere.
Fenomeno culturale, musicale e artistico senza precedenti, genere controverso fin dalla nascita, la blaxploitation nel corso di questi decenni ha continuato a esercitare una decisiva influenza su intere generazioni di registi, attori, attrici e maestranze nere. Una nuova classe di autori come John Singleton e Spike Lee approfittarono dello spazio ottenuto vent’anni prima dai loro colleghi afroamericani per realizzare film come Boyz n the Hood (1991) e Do the Right Thing (1989), opere acclamate a livello internazionale e dal forte risvolto politico. D’altronde è stato lo stesso Spike Lee, nel suo BlacKkKlansman del 2018, a rendere manifesti i tributi che la sua poetica e la sua carriera devono a quell’elettrizzante parentesi cinematografica che fu la blaxploitation. Ancora oggi, nel tempo di Black Panther (2018) e delle nuove rivolte in nome di George Floyd, vengono girati remake, sequel o documentari inerenti a titoli dell’epoca, segno che l’interesse per quell’esperienza non solo non è estinto, ma può anche rivelarsi utile per orientarsi nella polarizzata America del presente.
Avremmo bisogno del riscontro contrario, ma senza quei film probabilmente non avremmo avuto i Samuel L. Jackson, gli Eddie Murphy, i Mahershala Ali, i Denzel Washington, le Halle Berry e via discorrendo. Non avremmo avuto così come la conosciamo neanche la filmografia del già citato Quentin Tarantino. Fervente appassionato del genere fin dall’infanzia, il regista di Knoxville, da Pulp Fiction (1994) a Django Unchained (2012), ha infatti utilizzato come nessun altro nel cinema contemporaneo l’immaginario estetico e contenutistico della blaxploitation, i suoi dialoghi fiume, i suoi personaggi sopra le righe e le sue irresistibili colonne sonore.
Senza quei film che invasero il mercato statunitense all’alba degli anni Settanta - non sempre a torto giudicati mediocri dalla critica e razzisti e misogini dall’opinione pubblica - in definitiva avremmo avuto oggi un cinema meno vario e libero. Se è vero che la blaxploitation fu innanzitutto un prodotto commerciale gestito da Hollywood al fine di incrementare il proprio profitto, è altresì vero che per molte persone afroamericane significò la nascita di una storia comune, l’apertura di uno spiraglio su un orizzonte ricco di possibilità e conquiste. Professionisti neri del settore ebbero per la prima volta l’occasione di rappresentare le proprie comunità in modo diverso dalla tradizione, costruendone per immagini un’identità virtuosa, agguerrita e non più sottomessa. Come abbiamo visto l’opportunità è stata colta solo in parte, eppure tanto è bastato per farci arrivare dove siamo.