NC-138
27.01.2023
Una volta ogni dieci anni la rivista Sight and Sound pubblica un sondaggio spesso citato come il più importante e rispettato pezzo di giornalismo cinematografico: quello sui migliori film di sempre. Nelle prime sette edizioni, tra il 1952 e il 2012, i film ad aver raggiunto la cima della lista sono stati solamente tre: Ladri di biciclette, nel 1952, Quarto potere, tra il 1962 e il 2002, e Vertigo, nel 2012. Tre film manifesto di quest’arte, realizzati da tre registi che ne hanno plasmato la tecnica e l’anima, e che per forza di cose non possono non venire citati quando si intavola questo tipo di conversazione. Quest’anno però, è successo qualcosa di diverso. Qualcosa che serve a riassumere l’ultimo decennio di storia del cinema e che, andando oltre, potrebbe definire quello in avvenire. Raccolti i voti di 1,639 critici, programmatori e professionisti del settore, a vestire la corona di miglior film della storia - sopra Ozu, Hitchcock, Welles, Kubrick e compagnia bella - è stato un film di cui molti, forse, non hanno neanche mai sentito parlare: Jeanne Dielman, 23 quai du Commerce, 1080 Bruxelles.
Jeanne Dielman è un film del 1975, presentato a Cannes e accolto, all’epoca, da opinioni quantomeno contrastanti, tanto che in America non venne neanche distribuito fino a otto anni più tardi. Alcuni lo definirono un noiso e insensato esercizio di minimalismo, altri come il primo capolavoro femminile - e femminista - della storia del cinema. Negli anni l’asticella si è spostata sempre di più a favore di questi ultimi - come del resto è successo a quasi tutta la filmografia di Chantal Akerman - fino, appunto, ad essere eletto come il miglior film mai realizzato. Innanzitutto, è la prima volta che ad arrivare primo nella lista compilata da Sight and Sound è un film diretto da una donna. Sarebbe didascalico specificarlo se non fosse che questa è anche la prima volta che un film diretto da una donna raggiunge la top trenta, ne sono entrati altri cinque: #30 Ritratto di una ragazza in fiamme di Céline Sciamma; #28 Le Margheritine di Věra Chytilová; #16 Meshes of the Afternoon di Maya Deren; #14 Cleo dalle 5 alle 7 di Agnès Varda; e #7 Beau Travail di Claire Denis. La prima volta che ci arriva un film realizzato dopo gli anni ‘60. Un film che nel sondaggio del 2012 era 36esimo, alla pari con Metropolis di Fritz Lang e Sátántangó di Béla Tarr, e che prima di allora non era mai stato incluso. A dirla tutta, prima del 2012, nessun film diretto da una donna era mai stato presente.
Se è difficile spiegare perché Jeanne Dielman sia il miglior film di sempre, è forse ancora più complicato articolare perché non lo sia. Un film che è essenzialmente - o meglio, convenzionalmente - anti-cinema, che ci mostra, con ostinata ridondanza, tutto ciò da cui in quella buia sala si spera di sfuggire: il letto da rifare la mattina, le poste chiuse quando ne abbiamo bisogno, le patate da pelare prima di farle bollire, la lenta, agonizzante, monotonia del quotidiano. Dopo la morte del marito, Jeanne Dielman si guadagna la vita offrendo prestazioni sessuali a uomini che accoglie in casa propria, ma di questa parentesi Akerman ci mostra solo i cappotti dei clienti appesi all’ingresso, lo scambio di banconote, l’asciugamano steso sopra le coperte.
Eppure, soffocati dalla noia e senza neanche accorgercene, guardando il film si finisce per abituarsi al vuoto, si impara a conviverci. Capiamo che questa non è la storia di una donna, bensì, come rimarca il titolo, di una vita ridotta a indirizzo postale. E se a vederli scorrere sullo schermo i giorni di Jeanne Dielman, anche ridotti a poche ore, risultano interminabili, immaginate viverli veramente, non per un pomeriggio, ma per una vita intera.
Provocazione, dichiarazione d’intento, modernizzazione del canone, la scelta di incoronare Jeanne Dielman potrebbe leggersi in qualsiasi di queste chiavi. In tutte vibra una filosofia che sembra suggerire che il cinema, prima di essere intrattenimento, è osservazione, è ricerca di empatia. Quella di Jeanne Dielman è la storia di un’emarginata, di una donna di casa, rinchiusa in un esistenza prescrittagli dal sistema capitalista e patriarcale in cui è nata. Dove la morte del marito non è sinonimo di libertà, ma privazione di scopo esistenziale. È la storia di Chantal Akerman, di una regista rimasta invisibile agli occhi di un cerchio artistico inadatto, insufficiente, egemonico, in parte colpevole di averla spinta a togliersi la vita. Jeanne Dielman è, più semplicemente, la storia di coloro a cui non è stato concesso averne una.
Spesso ci si dimentica, o fa comodo dimenticare, che la storia viene scritta da chi non l’ha mai abitata. È anche essa una narrazione, si spera quanto più possibile vicina ai fatti, ma che rimane alla mercé del presente, delle sue esigenze e dei suoi pregiudizi. Il cinema sta cambiando. Stanno cambiando le storie, le persone che lo fanno e il modo. È arrivato, dunque, il momento di cambiarne anche la storia, di riscriverla senza omissioni. Perché si parli di Akerman come di Hitchcock, di Claire Denis come di Kubrick, di Charles Burnett come di Fellini - del cinema tutto, e non più di uno solo.
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27.01.2023
Una volta ogni dieci anni la rivista Sight and Sound pubblica un sondaggio spesso citato come il più importante e rispettato pezzo di giornalismo cinematografico: quello sui migliori film di sempre. Nelle prime sette edizioni, tra il 1952 e il 2012, i film ad aver raggiunto la cima della lista sono stati solamente tre: Ladri di biciclette, nel 1952, Quarto potere, tra il 1962 e il 2002, e Vertigo, nel 2012. Tre film manifesto di quest’arte, realizzati da tre registi che ne hanno plasmato la tecnica e l’anima, e che per forza di cose non possono non venire citati quando si intavola questo tipo di conversazione. Quest’anno però, è successo qualcosa di diverso. Qualcosa che serve a riassumere l’ultimo decennio di storia del cinema e che, andando oltre, potrebbe definire quello in avvenire. Raccolti i voti di 1,639 critici, programmatori e professionisti del settore, a vestire la corona di miglior film della storia - sopra Ozu, Hitchcock, Welles, Kubrick e compagnia bella - è stato un film di cui molti, forse, non hanno neanche mai sentito parlare: Jeanne Dielman, 23 quai du Commerce, 1080 Bruxelles.
Jeanne Dielman è un film del 1975, presentato a Cannes e accolto, all’epoca, da opinioni quantomeno contrastanti, tanto che in America non venne neanche distribuito fino a otto anni più tardi. Alcuni lo definirono un noiso e insensato esercizio di minimalismo, altri come il primo capolavoro femminile - e femminista - della storia del cinema. Negli anni l’asticella si è spostata sempre di più a favore di questi ultimi - come del resto è successo a quasi tutta la filmografia di Chantal Akerman - fino, appunto, ad essere eletto come il miglior film mai realizzato. Innanzitutto, è la prima volta che ad arrivare primo nella lista compilata da Sight and Sound è un film diretto da una donna. Sarebbe didascalico specificarlo se non fosse che questa è anche la prima volta che un film diretto da una donna raggiunge la top trenta, ne sono entrati altri cinque: #30 Ritratto di una ragazza in fiamme di Céline Sciamma; #28 Le Margheritine di Věra Chytilová; #16 Meshes of the Afternoon di Maya Deren; #14 Cleo dalle 5 alle 7 di Agnès Varda; e #7 Beau Travail di Claire Denis. La prima volta che ci arriva un film realizzato dopo gli anni ‘60. Un film che nel sondaggio del 2012 era 36esimo, alla pari con Metropolis di Fritz Lang e Sátántangó di Béla Tarr, e che prima di allora non era mai stato incluso. A dirla tutta, prima del 2012, nessun film diretto da una donna era mai stato presente.
Se è difficile spiegare perché Jeanne Dielman sia il miglior film di sempre, è forse ancora più complicato articolare perché non lo sia. Un film che è essenzialmente - o meglio, convenzionalmente - anti-cinema, che ci mostra, con ostinata ridondanza, tutto ciò da cui in quella buia sala si spera di sfuggire: il letto da rifare la mattina, le poste chiuse quando ne abbiamo bisogno, le patate da pelare prima di farle bollire, la lenta, agonizzante, monotonia del quotidiano. Dopo la morte del marito, Jeanne Dielman si guadagna la vita offrendo prestazioni sessuali a uomini che accoglie in casa propria, ma di questa parentesi Akerman ci mostra solo i cappotti dei clienti appesi all’ingresso, lo scambio di banconote, l’asciugamano steso sopra le coperte.
Eppure, soffocati dalla noia e senza neanche accorgercene, guardando il film si finisce per abituarsi al vuoto, si impara a conviverci. Capiamo che questa non è la storia di una donna, bensì, come rimarca il titolo, di una vita ridotta a indirizzo postale. E se a vederli scorrere sullo schermo i giorni di Jeanne Dielman, anche ridotti a poche ore, risultano interminabili, immaginate viverli veramente, non per un pomeriggio, ma per una vita intera.
Provocazione, dichiarazione d’intento, modernizzazione del canone, la scelta di incoronare Jeanne Dielman potrebbe leggersi in qualsiasi di queste chiavi. In tutte vibra una filosofia che sembra suggerire che il cinema, prima di essere intrattenimento, è osservazione, è ricerca di empatia. Quella di Jeanne Dielman è la storia di un’emarginata, di una donna di casa, rinchiusa in un esistenza prescrittagli dal sistema capitalista e patriarcale in cui è nata. Dove la morte del marito non è sinonimo di libertà, ma privazione di scopo esistenziale. È la storia di Chantal Akerman, di una regista rimasta invisibile agli occhi di un cerchio artistico inadatto, insufficiente, egemonico, in parte colpevole di averla spinta a togliersi la vita. Jeanne Dielman è, più semplicemente, la storia di coloro a cui non è stato concesso averne una.
Spesso ci si dimentica, o fa comodo dimenticare, che la storia viene scritta da chi non l’ha mai abitata. È anche essa una narrazione, si spera quanto più possibile vicina ai fatti, ma che rimane alla mercé del presente, delle sue esigenze e dei suoi pregiudizi. Il cinema sta cambiando. Stanno cambiando le storie, le persone che lo fanno e il modo. È arrivato, dunque, il momento di cambiarne anche la storia, di riscriverla senza omissioni. Perché si parli di Akerman come di Hitchcock, di Claire Denis come di Kubrick, di Charles Burnett come di Fellini - del cinema tutto, e non più di uno solo.