NC-170
13.10.2023
Fin dalle elementari ci insegnano che in inglese film si dice movie, perché “film”, da solo, vuol dire “pellicola”. Nel nostro immaginario l’icona del cinema è il proiettore con le “pizze” che girano e fanno scorrere le immagini sul grande schermo. Ancora, ci ostiniamo a usare la parola “pellicola” come sinonimo di film anche quando questo è stato girato in digitale. E tuttavia siamo consapevoli che quel mondo non esiste più.
È una tendenza dell’animo umano, quella di seguire la novità e ritenerla migliore di quanto si abbia avuto fino a quel momento, ritenere il futuro migliore del presente, il progresso una conquista. E così quando le prime tecnologie del digitale hanno fatto la loro comparsa nel mondo cinematografico, le possibilità di sperimentazione offerte da questi strumenti hanno attirato un gran numero di filmmaker, fino ad arrivare agli estremi con film come Zodiac (2007) in cui nulla di analogico è stato usato sul set. Nei primi anni del nuovo millennio si è assistito a un assoluto predominio del digitale sull’analogico e sulla pellicola, nel cinema come nella fotografia, essendo due discipline imprescindibilmente legate.
La ricerca e la sperimentazione del digitale hanno permesso alle storie e alle immagini di esplorare nuovi territori, nuove forme di narrazione, nuovi scenari e nuove inquadrature che prima con le pesanti cineprese e i limiti di una pellicola – che è fisicamente finita, ha un certo range di sensibilità alla luce e soprattutto costi molto alti – non erano possibili. Che si tratti della post-produzione o del girato sul set, il digitale ha mostrato subito quali fossero le sue potenzialità, tanto che anche registi fedeli ai metodi più tradizionali, come Martin Scorsese, hanno dovuto ammettere i suoi innegabili vantaggi.
Da qualche anno, però, si assiste a una nuova tendenza che ha investito tanto il mondo della fotografia quanto quello del cinema, di cui chiunque segua con un po’ di passione queste forme d’arte si sarà sicuramente accorto: la pellicola sta tornando, più forte che mai. Infatti, adesso che non è più l’unica opzione disponibile il suo utilizzo desta scalpore, diventa lei stessa la protagonista e contribuisce a creare il mito intorno al film o al regista.
Basti pensare al clamore che ha avuto l’ultima opera di Christopher Nolan per il fatto di essere stata girata in analogico. Infinite conversazioni si sono concentrate sullo speciale formato da 65mm fortemente voluto dal regista – una pellicola più grande del normale 35mm che ha quindi la migliore risoluzione che questo strumento possa offrire – e sulla sua straordinaria bravura nell’aver saputo riprodurre scene così complicate, come lo scoppio di una bomba atomica, su pellicola.
Adesso che il digitale è stato esplorato in tutte le sue potenzialità, si è arrivati alla conclusione che esse non siano poi così nettamente superiori a quelle concesse dall’analogico. Ma è anche finito il tempo in cui la discussione si poteva ridurre a un mero confronto tra pellicola e digitale: entrambi i supporti esistono, il digitale non ha eclissato la pellicola e la pellicola ha imparato a servirsi del digitale.
Si potrebbe avere ancora il dubbio però, seguendo il senso pratico, che sia il tipo di storia da raccontare a far optare per un supporto piuttosto che l’altro, affidando i film più realistici alla pellicola e al digitale quelli in cui compare l’elemento fantastico, surreale, in cui c’è bisogno di effetti speciali, o ancora i film in 3D.
Eppure il senso pratico non sempre ha la meglio nel mondo del cinema. Non per niente questo strumento è il simbolo massimo del potere dell’immaginazione, l’emblema della possibilità dell’uomo di creare mondi paralleli e dargli verosimiglianza. Anzi, i surrealisti sono stati tra i primi ad abbracciare la tecnica fotografica e cinematografica, comprendendo subito la straordinaria prerogativa della pellicola di rappresentare la realtà ma di essere allo stesso tempo maneggiabile, modificabile, adattabile per creare una distorsione, un allontanamento, un superamento della realtà stessa, per dar vita a immagini visionarie già con gli strumenti dei primi decenni del Novecento. Quindi c’è solo da immaginare quanto oggi, unendo la pellicola con le moderne conquiste come la CGI o le varie maestranze di postproduzione digitale, le possibilità siano più ampie di quello che suggerirebbe il senso pratico.
Ancora più sorprendente è scoprire che in pellicola siano stati realizzati anche film in 3D, addirittura negli anni ’50, quando, nonostante l’entrata in scena del Technicolor, una parte del cinema era ancora in bianco e nero. Per esempio, è del 1953 la pellicola messicana El corazon y la espada, un racconto d’avventura che applica la tecnica del 3D per far sentire lo spettatore minacciato dalle sciabole degli arabi e aggiungere profondità alle varie scene di inseguimenti rocamboleschi, senza però ricercare quegli effetti esagerati che si sono raggiunti quando il genere 3D ha spopolato nel mainstream.
Quindi, è facile dedurre quanto in realtà non siano tanto le caratteristiche tecniche a fare da discrimine nella scelta tra pellicola e digitale. Oggi, le possibilità offerte dai due strumenti si possono considerare equiparate. Quello che rimane è una scelta personale, l’unica vera base del linguaggio artistico.
Dietro ogni scelta infatti si nasconde un perché, ed è questo perché ad aggiungere valore all’utilizzo della pellicola piuttosto che del digitale. Dal momento che lo spettro delle tecniche è diventato accessibile, il valore di un elemento risiede prevalentemente nel significato che assume il suo impiego, nella sua presenza al posto di qualcos’altro. Questo nel caso della pellicola come di qualsiasi altro strumento. Si potrebbe anche pensare - e non escludiamo che già esista - di realizzare di nuovo film con gli stessi “effetti speciali” dei film di Méliès, tagliando e incollando, maneggiando la pellicola stessa, e sicuramente il risultato sarebbe accolto come una nuova ricerca artistica rispetto a quella portata avanti dal pioniere agli albori della cinematografia.
Allo stesso modo, bisogna ricercare la ragione della scelta di girare un film in pellicola o in digitale, analizzare quali implicazioni possa avere nella narrazione visiva del film.
Ci sono registi, per esempio, che sono rimasti fedeli alla pellicola nel corso di tutta la loro carriera, e che ne hanno fatto una loro cifra stilistica. Si pensi a Quentin Tarantino o a Martin Scorsese o allo stesso Nolan. In alcuni lungometraggi però, questa scelta già assume un significato particolarmente adatto alla storia rappresentata: ad esempio in Once Upon a Time in Hollywood (2019) di Tarantino, lo spessore che hanno assunto alcune scene grazie alla resa dei colori della pellicola contribuisce a richiamare nella mente dello spettatore l’immaginario comune legato a Hollywood e ai film degli anni 60’/70’.
In altri casi, invece, si sceglie appunto di sfruttare tutte le qualità proprie del digitale e della pellicola. Quando il regista Denis Villeneuve ha deciso di girare una seconda versione del precedente lavoro di David Lynch Dune (1984), ha scelto di organizzare il processo di produzione girando le scene in digitale, per poi registrarle nuovamente su un negativo 1 ASA 35mm. Perché questa scelta? Il colorista David Cole, in un’intervista con Filmakers Accademy, ci illumina su tutto il processo decisionale, iniziato con uno studio fotografico delle dune del deserto della Giordania e continuato tenendo conto della volontà del regista di non dare al film un look nostalgico “alla Lawrence d’Arabia” e delle difficoltà legate a girare in un ambiente così estremo.
Tutti questi elementi hanno portato Cole e Villeneuve a optare per il digitale, affiancato, però, da riprese con un negativo di una tonalità personalizzata. Non si voleva infatti perdere quell’effetto di lucentezza, gli aloni di luce o quel particolare “sfarfallio” che caratterizzano così bene le immagini di un paesaggio sabbioso. Per questo si è scelto di imprimere il risultato delle riprese in digitale su pellicola, utilizzando il negativo come “magazzino dati”, prima di scannerizzarla nuovamente in digitale. Un lavoro di post-produzione del genere fatto esclusivamente in digitale non avrebbe reso in modo tanto naturale, efficace ed evocativo il risultato che si è ottenuto. Sicuramente il lavoro sulla pellicola ha il plus di produrre un risultato assolutamente inedito e unico di volta in volta, dato che un supporto fisico e un lavoro “artigianale” danno sempre esiti diversi dal prodotto più “standardizzato” che si può ottenere attraverso il digitale.
È in casi come questo che emergono i vantaggi di sfruttare le potenzialità di entrambi gli strumenti, vantaggi che forniscono sempre più mezzi alla ricerca artistica degli autori.
Altre volte, invece, le qualità intrinseche della pellicola possono non essere troppo evidenti, come nel caso del già citato Oppenheimer (2023), in cui la scelta del regista è ricaduta sulle pellicole Kodak prevalentemente con l’intenzione di registrare le scene nel modo più simile possibile a come vengono percepite dall’occhio umano. La scelta ragionata di Nolan è emersa nel momento in cui si è trovato, nel corso delle riprese, a dover decidere come girare le scene in bianco e nero, dal momento che, come fa presente il direttore della fotografia Hoyte van Hoytema, un formato equivalente al 65mm per il bianco e nero non esisteva. Ebbene, data la risolutezza di Nolan, anche Kodak ha accettato la sfida e ha fornito dei prototipi appositamente creati per le riprese del film, aprendo la porta ai futuri cineasti che vorranno girare in pellicola in bianco e nero “in HD”.
Un discorso totalmente diverso va fatto invece per The Lighthouse (2019) del regista Robert Eggers. Vista la forte carica simbolica del film - in cui ogni elemento è investito di un secondo significato - era necessario ricercare un’iconografia narrativa anche nella scelta del supporto con cui sono state realizzate le riprese. L’intero racconto è infatti denso di stratificazioni: il rimando al mito di Prometeo, alla letteratura, e a un linguaggio intriso di lirismo vengono conditi dal folklore del New England di fine Ottocento… La prima caratteristica che colpisce è il formato delle immagini: un 1,19:1 quasi quadrato, che vuole rievocare l’inquadratura delle vecchie camere d’epoca e che contribuisce a creare una sensazione di oppressione che accomuna lo spettatore e i due sventurati protagonisti (Robert Pattinson e Willem Dafoe).
Ma un’ulteriore ricercatezza è la scelta di una pellicola ortocromatica. La fusione tra il bianco e nero è particolarmente densa, viva, evocativa. La tonalità delle pellicole ortocromatiche, infatti, vira più sul blu/viola che sul giallo-rosso. Il risultato sono immagini ad altissimo contrasto, fortemente drammatiche, che costituiscono una parte fondante della forza e del significato del film. Anche in questo caso, si tratta di una pellicola Kodak, una EASTMAN Double-X5222.
Anche la regista Charlottes Wells ha scelto per la sua opera prima, Aftersun (2022), due pellicole Kodak – nello specifico delle KODAK VISION3 Color Negative 200T 5213 e 500T 5219 – con il preciso scopo, concordato con il DOP Gregory Oke, di emulare i colori delle vecchie foto-ricordo che tutte le famiglie degli anni ’90 custodiscono in qualche album impolverato. Ed essendo la nostalgia il cuore del racconto dello speciale rapporto tra un padre e sua figlia (Paul Mescal e Frankie Corio), la scelta della pellicola prende parte alla costruzione dell’atmosfera e del sentimento elegiaco e sognante che permea tutto il film, la cui importanza diventa sempre più rilevante man mano che si svela la vera natura di quel ricordo.
La ragione per cui la Kodak è ricercata così spesso tra i cineasti del mondo è da attribuirsi al fatto che pochi altri produttori di pellicola sono rimasti attivi. Anzi, la Kodak stessa ha attraversato un momento in cui paventava la possibilità di interrompere la sua attività cinematografica, possibilità poi sventata anche dall’impegno di registi come Nolan, Scorsese o J.J. Abrams.
Anche gli autori nostrani adoperano la pellicola in maniera attiva e prolifica. Basterebbe citare l’esempio dell’apolide Luca Guadagnino, che ha realizzato due dei suoi film di maggior successo - Call me by your name (2017) e Bones and All (2022) - con una pellicola 35mm Kodak Vision3 500T 5219.
La scelta diventa ancora più autoriale nel caso della produzione cinematografica di Pietro Marcello. La firma del regista casertano sta proprio nell’uso di file d’archivio, recuperati attraverso un’appassionata e scandagliata ricerca. Esempio perfetto di questa tecnica è la trasposizione del romanzo di Jack London Martin Eden, opera girata dal regista nel 2019. Anche in questo caso le immagini di archivio vanno a completare e intramezzare quelle che narrano la vicenda del protagonista (Luca Marinelli), girate con un vintage Super 16mm, che conferisce a tutto il film l’aspetto di un documento storico d’altri tempi, e che regala una serie di piccoli quadri grazie al formato 1,66:1.
Sembra evidente, quindi, che si stiano tornando ad esplorare le mille capacità della pellicola, e che questa ricerca porti a risultati sempre più ricchi, alla possibilità di slegare la voce artistica dalle incombenze tecniche e materiali. Segnali che indicano come il cinema stia entrando, sempre di più, in un momento di grande possibilità espressiva.
NC-170
13.10.2023
Fin dalle elementari ci insegnano che in inglese film si dice movie, perché “film”, da solo, vuol dire “pellicola”. Nel nostro immaginario l’icona del cinema è il proiettore con le “pizze” che girano e fanno scorrere le immagini sul grande schermo. Ancora, ci ostiniamo a usare la parola “pellicola” come sinonimo di film anche quando questo è stato girato in digitale. E tuttavia siamo consapevoli che quel mondo non esiste più.
È una tendenza dell’animo umano, quella di seguire la novità e ritenerla migliore di quanto si abbia avuto fino a quel momento, ritenere il futuro migliore del presente, il progresso una conquista. E così quando le prime tecnologie del digitale hanno fatto la loro comparsa nel mondo cinematografico, le possibilità di sperimentazione offerte da questi strumenti hanno attirato un gran numero di filmmaker, fino ad arrivare agli estremi con film come Zodiac (2007) in cui nulla di analogico è stato usato sul set. Nei primi anni del nuovo millennio si è assistito a un assoluto predominio del digitale sull’analogico e sulla pellicola, nel cinema come nella fotografia, essendo due discipline imprescindibilmente legate.
La ricerca e la sperimentazione del digitale hanno permesso alle storie e alle immagini di esplorare nuovi territori, nuove forme di narrazione, nuovi scenari e nuove inquadrature che prima con le pesanti cineprese e i limiti di una pellicola – che è fisicamente finita, ha un certo range di sensibilità alla luce e soprattutto costi molto alti – non erano possibili. Che si tratti della post-produzione o del girato sul set, il digitale ha mostrato subito quali fossero le sue potenzialità, tanto che anche registi fedeli ai metodi più tradizionali, come Martin Scorsese, hanno dovuto ammettere i suoi innegabili vantaggi.
Da qualche anno, però, si assiste a una nuova tendenza che ha investito tanto il mondo della fotografia quanto quello del cinema, di cui chiunque segua con un po’ di passione queste forme d’arte si sarà sicuramente accorto: la pellicola sta tornando, più forte che mai. Infatti, adesso che non è più l’unica opzione disponibile il suo utilizzo desta scalpore, diventa lei stessa la protagonista e contribuisce a creare il mito intorno al film o al regista.
Basti pensare al clamore che ha avuto l’ultima opera di Christopher Nolan per il fatto di essere stata girata in analogico. Infinite conversazioni si sono concentrate sullo speciale formato da 65mm fortemente voluto dal regista – una pellicola più grande del normale 35mm che ha quindi la migliore risoluzione che questo strumento possa offrire – e sulla sua straordinaria bravura nell’aver saputo riprodurre scene così complicate, come lo scoppio di una bomba atomica, su pellicola.
Adesso che il digitale è stato esplorato in tutte le sue potenzialità, si è arrivati alla conclusione che esse non siano poi così nettamente superiori a quelle concesse dall’analogico. Ma è anche finito il tempo in cui la discussione si poteva ridurre a un mero confronto tra pellicola e digitale: entrambi i supporti esistono, il digitale non ha eclissato la pellicola e la pellicola ha imparato a servirsi del digitale.
Si potrebbe avere ancora il dubbio però, seguendo il senso pratico, che sia il tipo di storia da raccontare a far optare per un supporto piuttosto che l’altro, affidando i film più realistici alla pellicola e al digitale quelli in cui compare l’elemento fantastico, surreale, in cui c’è bisogno di effetti speciali, o ancora i film in 3D.
Eppure il senso pratico non sempre ha la meglio nel mondo del cinema. Non per niente questo strumento è il simbolo massimo del potere dell’immaginazione, l’emblema della possibilità dell’uomo di creare mondi paralleli e dargli verosimiglianza. Anzi, i surrealisti sono stati tra i primi ad abbracciare la tecnica fotografica e cinematografica, comprendendo subito la straordinaria prerogativa della pellicola di rappresentare la realtà ma di essere allo stesso tempo maneggiabile, modificabile, adattabile per creare una distorsione, un allontanamento, un superamento della realtà stessa, per dar vita a immagini visionarie già con gli strumenti dei primi decenni del Novecento. Quindi c’è solo da immaginare quanto oggi, unendo la pellicola con le moderne conquiste come la CGI o le varie maestranze di postproduzione digitale, le possibilità siano più ampie di quello che suggerirebbe il senso pratico.
Ancora più sorprendente è scoprire che in pellicola siano stati realizzati anche film in 3D, addirittura negli anni ’50, quando, nonostante l’entrata in scena del Technicolor, una parte del cinema era ancora in bianco e nero. Per esempio, è del 1953 la pellicola messicana El corazon y la espada, un racconto d’avventura che applica la tecnica del 3D per far sentire lo spettatore minacciato dalle sciabole degli arabi e aggiungere profondità alle varie scene di inseguimenti rocamboleschi, senza però ricercare quegli effetti esagerati che si sono raggiunti quando il genere 3D ha spopolato nel mainstream.
Quindi, è facile dedurre quanto in realtà non siano tanto le caratteristiche tecniche a fare da discrimine nella scelta tra pellicola e digitale. Oggi, le possibilità offerte dai due strumenti si possono considerare equiparate. Quello che rimane è una scelta personale, l’unica vera base del linguaggio artistico.
Dietro ogni scelta infatti si nasconde un perché, ed è questo perché ad aggiungere valore all’utilizzo della pellicola piuttosto che del digitale. Dal momento che lo spettro delle tecniche è diventato accessibile, il valore di un elemento risiede prevalentemente nel significato che assume il suo impiego, nella sua presenza al posto di qualcos’altro. Questo nel caso della pellicola come di qualsiasi altro strumento. Si potrebbe anche pensare - e non escludiamo che già esista - di realizzare di nuovo film con gli stessi “effetti speciali” dei film di Méliès, tagliando e incollando, maneggiando la pellicola stessa, e sicuramente il risultato sarebbe accolto come una nuova ricerca artistica rispetto a quella portata avanti dal pioniere agli albori della cinematografia.
Allo stesso modo, bisogna ricercare la ragione della scelta di girare un film in pellicola o in digitale, analizzare quali implicazioni possa avere nella narrazione visiva del film.
Ci sono registi, per esempio, che sono rimasti fedeli alla pellicola nel corso di tutta la loro carriera, e che ne hanno fatto una loro cifra stilistica. Si pensi a Quentin Tarantino o a Martin Scorsese o allo stesso Nolan. In alcuni lungometraggi però, questa scelta già assume un significato particolarmente adatto alla storia rappresentata: ad esempio in Once Upon a Time in Hollywood (2019) di Tarantino, lo spessore che hanno assunto alcune scene grazie alla resa dei colori della pellicola contribuisce a richiamare nella mente dello spettatore l’immaginario comune legato a Hollywood e ai film degli anni 60’/70’.
In altri casi, invece, si sceglie appunto di sfruttare tutte le qualità proprie del digitale e della pellicola. Quando il regista Denis Villeneuve ha deciso di girare una seconda versione del precedente lavoro di David Lynch Dune (1984), ha scelto di organizzare il processo di produzione girando le scene in digitale, per poi registrarle nuovamente su un negativo 1 ASA 35mm. Perché questa scelta? Il colorista David Cole, in un’intervista con Filmakers Accademy, ci illumina su tutto il processo decisionale, iniziato con uno studio fotografico delle dune del deserto della Giordania e continuato tenendo conto della volontà del regista di non dare al film un look nostalgico “alla Lawrence d’Arabia” e delle difficoltà legate a girare in un ambiente così estremo.
Tutti questi elementi hanno portato Cole e Villeneuve a optare per il digitale, affiancato, però, da riprese con un negativo di una tonalità personalizzata. Non si voleva infatti perdere quell’effetto di lucentezza, gli aloni di luce o quel particolare “sfarfallio” che caratterizzano così bene le immagini di un paesaggio sabbioso. Per questo si è scelto di imprimere il risultato delle riprese in digitale su pellicola, utilizzando il negativo come “magazzino dati”, prima di scannerizzarla nuovamente in digitale. Un lavoro di post-produzione del genere fatto esclusivamente in digitale non avrebbe reso in modo tanto naturale, efficace ed evocativo il risultato che si è ottenuto. Sicuramente il lavoro sulla pellicola ha il plus di produrre un risultato assolutamente inedito e unico di volta in volta, dato che un supporto fisico e un lavoro “artigianale” danno sempre esiti diversi dal prodotto più “standardizzato” che si può ottenere attraverso il digitale.
È in casi come questo che emergono i vantaggi di sfruttare le potenzialità di entrambi gli strumenti, vantaggi che forniscono sempre più mezzi alla ricerca artistica degli autori.
Altre volte, invece, le qualità intrinseche della pellicola possono non essere troppo evidenti, come nel caso del già citato Oppenheimer (2023), in cui la scelta del regista è ricaduta sulle pellicole Kodak prevalentemente con l’intenzione di registrare le scene nel modo più simile possibile a come vengono percepite dall’occhio umano. La scelta ragionata di Nolan è emersa nel momento in cui si è trovato, nel corso delle riprese, a dover decidere come girare le scene in bianco e nero, dal momento che, come fa presente il direttore della fotografia Hoyte van Hoytema, un formato equivalente al 65mm per il bianco e nero non esisteva. Ebbene, data la risolutezza di Nolan, anche Kodak ha accettato la sfida e ha fornito dei prototipi appositamente creati per le riprese del film, aprendo la porta ai futuri cineasti che vorranno girare in pellicola in bianco e nero “in HD”.
Un discorso totalmente diverso va fatto invece per The Lighthouse (2019) del regista Robert Eggers. Vista la forte carica simbolica del film - in cui ogni elemento è investito di un secondo significato - era necessario ricercare un’iconografia narrativa anche nella scelta del supporto con cui sono state realizzate le riprese. L’intero racconto è infatti denso di stratificazioni: il rimando al mito di Prometeo, alla letteratura, e a un linguaggio intriso di lirismo vengono conditi dal folklore del New England di fine Ottocento… La prima caratteristica che colpisce è il formato delle immagini: un 1,19:1 quasi quadrato, che vuole rievocare l’inquadratura delle vecchie camere d’epoca e che contribuisce a creare una sensazione di oppressione che accomuna lo spettatore e i due sventurati protagonisti (Robert Pattinson e Willem Dafoe).
Ma un’ulteriore ricercatezza è la scelta di una pellicola ortocromatica. La fusione tra il bianco e nero è particolarmente densa, viva, evocativa. La tonalità delle pellicole ortocromatiche, infatti, vira più sul blu/viola che sul giallo-rosso. Il risultato sono immagini ad altissimo contrasto, fortemente drammatiche, che costituiscono una parte fondante della forza e del significato del film. Anche in questo caso, si tratta di una pellicola Kodak, una EASTMAN Double-X5222.
Anche la regista Charlottes Wells ha scelto per la sua opera prima, Aftersun (2022), due pellicole Kodak – nello specifico delle KODAK VISION3 Color Negative 200T 5213 e 500T 5219 – con il preciso scopo, concordato con il DOP Gregory Oke, di emulare i colori delle vecchie foto-ricordo che tutte le famiglie degli anni ’90 custodiscono in qualche album impolverato. Ed essendo la nostalgia il cuore del racconto dello speciale rapporto tra un padre e sua figlia (Paul Mescal e Frankie Corio), la scelta della pellicola prende parte alla costruzione dell’atmosfera e del sentimento elegiaco e sognante che permea tutto il film, la cui importanza diventa sempre più rilevante man mano che si svela la vera natura di quel ricordo.
La ragione per cui la Kodak è ricercata così spesso tra i cineasti del mondo è da attribuirsi al fatto che pochi altri produttori di pellicola sono rimasti attivi. Anzi, la Kodak stessa ha attraversato un momento in cui paventava la possibilità di interrompere la sua attività cinematografica, possibilità poi sventata anche dall’impegno di registi come Nolan, Scorsese o J.J. Abrams.
Anche gli autori nostrani adoperano la pellicola in maniera attiva e prolifica. Basterebbe citare l’esempio dell’apolide Luca Guadagnino, che ha realizzato due dei suoi film di maggior successo - Call me by your name (2017) e Bones and All (2022) - con una pellicola 35mm Kodak Vision3 500T 5219.
La scelta diventa ancora più autoriale nel caso della produzione cinematografica di Pietro Marcello. La firma del regista casertano sta proprio nell’uso di file d’archivio, recuperati attraverso un’appassionata e scandagliata ricerca. Esempio perfetto di questa tecnica è la trasposizione del romanzo di Jack London Martin Eden, opera girata dal regista nel 2019. Anche in questo caso le immagini di archivio vanno a completare e intramezzare quelle che narrano la vicenda del protagonista (Luca Marinelli), girate con un vintage Super 16mm, che conferisce a tutto il film l’aspetto di un documento storico d’altri tempi, e che regala una serie di piccoli quadri grazie al formato 1,66:1.
Sembra evidente, quindi, che si stiano tornando ad esplorare le mille capacità della pellicola, e che questa ricerca porti a risultati sempre più ricchi, alla possibilità di slegare la voce artistica dalle incombenze tecniche e materiali. Segnali che indicano come il cinema stia entrando, sempre di più, in un momento di grande possibilità espressiva.