Una riflessione su cosa potrebbe accadere e
i modelli da seguire andando avanti,
di Rodrigo Mella
TR-20
05.02.2021
Nel 2020, i cinema hanno subito una perdita di incassi pari a circa 32 miliardi di dollari rispetto all’anno precedente. Cineworld, la seconda catena di sale cinematografiche più grande al mondo, ha chiuso le sue porte a tempo indefinito. Alcune fra le maggiori case di produzione, tra cui la Warner Bros. e la Disney, hanno deciso di lanciare i loro film direttamente sulle piattaforme streaming; altre, quali Netflix e Amazon, già lo facevano. Anche se per molti stiamo assistendo ad una rivoluzione interna sì accelerata ma pur sempre inevitabile, non vi è dubbio che l’impatto della pandemia sull’industria cinematografica sia stato finora devastante. E se anche i pochi giganti rimasti si sono visti costretti ad arrendersi alla morsa del coronavirus e dello streaming, diventa difficile (per non dire impossibile) immaginare come le produzioni indipendenti, che già da prima si sentivano l’acqua alla gola, riusciranno a sopravvivere. Tutto sembrerebbe indicare che questa possa veramente essere la fine del cinema, inteso, se non come arte, quantomeno come luogo. Tuttavia, mentre le scene di sale smembrate in giro per il mondo si fanno sempre più diffuse, inizia parallelamente a prendere forma una possibilità, seppur remota, che questa apparente condanna a morte per il cinema indipendente si trasformi col tempo in nuova e inaspettata linfa vitale.
I cinema che durante l'ultimo anno hanno provato a rimanere aperti, e che quindi hanno deciso di scommettere sul proprio pubblico, lo hanno fatto facendo affidamento su quella manciata di blockbuster (i.e. Tenet, No Time to Die, Wonder Woman 1984, Dune, e Soul) che gli avrebbe permesso, conti alla mano, di rimanere a galla. Ma le cose non sono poi andate così. Ad oggi, infatti, due di questi film non sono ancora usciti (Dune e No Time to Die); altri due sono stati messi in streaming contemporaneamente all’uscita nelle sale (Soul e Wonder Woman 1984); e infine Tenet, nonostante i 360 milioni di dollari al botteghino, si è rivelato essere il film di Nolan con meno successo in assoluto portando a rapporto budget e box office. Di fronte alla strategia di mercato adottata dagli studios, molti proprietari di cinema si sono forse giustamente sentiti abbandonati, visto che si sono ritrovati a gestire delle sale aperte senza però avere film da proiettare. La mancanza di una visione congiunta tra le due parti su come affrontare la crisi ha dato vita ad una vera e propria voragine all’interno del sistema di distribuzione. Ed è in questo vuoto che nasce per la prima volta la necessità da parte dei cinema stessi di dover guardare altrove.
Si prenda, per esempio, il caso di Saint Maud. Debutto alla regia della giovane Rose Glass, l’horror low-budget fu presentato nell’ormai lontano settembre del 2019 al Toronto International Film Festival, dove i diritti di distribuzione furono acquisiti dalla StudioCanal per lo UK e dalla A24 per gli USA. Quasi esattamente un anno più tardi, di fronte al rischio di un secondo lockdown, la Universal rimanda nuovamente l’uscita del nuovo Bond, questa volta al 2021. La decisione spinge molti cinema a correre ai ripari: per riempire gli improvvisi buchi di programmazione, si vedono costretti a concedere una distribuzione più ampia del previsto a vari film indipendenti, tra cui appunto Saint Maud. Il film arriva in circa 300 sale nel Regno Unito, e a sorpresa debutta nella classifica del botteghino nazionale al secondo posto (sotto solamente a Tenet). Il film continua ad attirare spettatori per altre tre settimane, e finisce per guadagnare 1,4 milioni di dollari solo nello UK (una cifra importante considerate le circostanze), in attesa che a fine gennaio esca anche negli Stati Uniti. Si potrebbe certamente trattare di un caso isolato, ed è chiaro che anche se non lo fosse, nel mercato di oggi servirebbero un centinaio di questi film per coprire il deficit lasciato da un singolo prodotto Marvel. Il punto però è proprio questo, che forse è arrivato il momento di ristrutturare le politiche di distribuzione, dando la possibilità a film indipendenti di raggiungere più schermi, e quindi di fare più soldi. E se alla fine della corsa, a spartirsi il bottino sono cento produzioni diverse, invece di una sola, ecco che si crea un ecosistema diversificato, più sostenibile, più democratico e, soprattutto, in grado di produrre più film.
Va ammesso che questa rimane una visione utopica e astratta di come potrebbero funzionare le cose, e c’è sicuramente il rischio che rimanga tale. Ma se questo è vero, è vero anche che di case di produzione che negli ultimi anni sono riuscite a sovvertire le dinamiche di produzione e distribuzione tradizionali ne esistono già. Su tutte, c'è appunto la A24. La compagnia newyorkese (che deve il suo nome all’autostrada che collega Roma a Teramo, dove nacque l’idea) fu fondata nel 2012 da Daniel Katz, David Fenkel, e John Hodges, e in pochi anni si è affermata come il marchio del cinema indie americano per eccellenza. All’inizio fu proprio il concetto di ampliare la distribuzione di film d’autore a permettere alla A24 di guadagnarsi la fiducia di registi già affermati, e conseguentemente dell’industria in generale. Emblematico in questo senso è il caso di uno dei primi film distribuiti dalla A24 – Spring Breakers di Harmony Korine. Korine veniva da un film (Mister Lonely) che in termini economici si dimostrò un disastro assoluto, andando in perdita di quasi 8 milioni di dollari. Il regista, nonostante lo status di autore, non rappresentava quindi una scommessa sicura, anzi. Inoltre, Spring Breakers stava andando molto male nei test screenings, e sembrava dunque destinato a ripetere la sorte del film procedente. L’A24 decise comunque di acquistare i diritti di distribuzione, e all’improvviso, per motivi apparentemente sconosciuti, il film diventò una miniera d’oro. In realtà, una ragione ci fu eccome. Il film iniziò ad avere successo grazie alla strategia di marketing usata Katz e co. per promuovere il film, la cui punta di diamante fu il video provocatorio per la candidatura all’Oscar di James Franco. Alla A24 bastarono questi 62 secondi per fare in modo che Spring Breakers, dai 5 milioni di budget, finisse per incassarne oltre 30.
Nei mesi che seguirono, la A24 continuò ad ampliare il concetto di marketing per i propri film, e in breve tempo cominciò ad accumulare successi. Ecco che mentre Ex Machina debutta al SXSW Festival, la A24 crea un account Tinder per Ava – l’AI protagonista del film – e inizia a chattare con la gente della zona, fino ad invitarli su una pagina Instagram con il trailer del film. Per The Witch, la A24 entrò in partnership con il Tempio Satanico, lanciando un sito che invitava ad arruolarsi nell’esercito di Satana; mentre per Hereditary, tutti coloro che attesero una première a mezzanotte, si trovarono la mattina dopo una bambola del film sull’uscio di casa. Tutto questo avveniva parallelamente ad uno sviluppo dell’immagine della stessa A24, che divenne presto non solo un punto di riferimento, ma un vero è proprio brand.
Continuando a fare scelte mirate in senso qualitativo, da American Honey a The Lobster, e ampliando il bacino di distribuzione di solito riservato a prodotti di questo tipo, la A24 si è creata uno spazio proprio all’interno del mercato, dove prima in pochi erano disposti a spendere tempo e soldi. Dalla distribuzione, si passò poi anche alla produzione in sé, di cui il primo risultato fu Moonlight, tanto per dirne uno. Guadagnata la libertà di fare tutto da soli, l’A24 decise di applicare una politica di ampia libertà creativa sui propri prodotti, mettendo i registi nelle condizioni migliori per poter realizzare la loro visione senza filtri. Il successo dei film si basa anche su questo rapporto di stima, e sulla sensazione, a detta dei registi stessi, che i loro produttori non lo stiano facendo per i soldi. Ciò che rende il successo della A24 così innovativo è il fatto di essere riusciti non solo a guadagnarsi la fiducia dei registi ma degli spettatori stessi. L’A24 è riuscita a creare una sorta di fanatismo attorno a sé che va oltre il singolo film, e che quindi ci spinge a interagire non solo con il prodotto ma con il marchio.
Se si iniziano poi a considerare realtà tipo l’A24 Podcast e le serie televisive, ci si rende conto che oggi le case di produzione indipendenti non possono più permettersi di occuparsi solo ed esclusivamente di cinema. Tra le altre cose, l’avvento delle piattaforme streaming ha gradualmente reso sempre più indistinti i confini tra i veri mezzi audiovisivi, ed è in queste intersezionalità che nuove compagnie sono riuscite ad insediarsi. Tra quelle che lo hanno fatto con più successo c’è sicuramente la Pulse Films (che tra l’altro ha prodotto sia The Witch che American Honey). La casa di produzione con base a Londra ruota anch'essa attorno al mantra di “artists first”, ed è riuscita ad affermarsi grazie ad una visione olistica dei prodotti audiovisivi. La Pulse produce praticamente qualsiasi tipo di contenuto, dai lungometraggi alle pubblicità ai video musicali, e lo fa grazie ad una lunga sfilza di registi in-house – cioè direttamente alle proprie dipendenze. In particolare, la Pulse deve molto del suo successo agli investimenti fatti nell’identità visiva di svariati musicisti, per cui si occupano di produrre video musicali (Radiohead, Jorja Smith, Flying Lotus, Stormzy), film concerto (LCD Soundsystem, Nick Cave, Mumford & Sons), e documentari (PJ Harvey, Blur, Beastie Boys). Anche in questo caso si nota non solo una capacità di diversificare e quindi di mantenere una stabilità finanziaria indubbiamente necessaria, ma anche e soprattutto una coerenza artistica che contribuisce alla creazione di un'identità societaria precisa. Questo tipo di approccio apre le porte ad un nuovo tipo di distribuzione in cui non è più essenziale riconoscere il nome degli attori o del regista, basta invece riconoscere il logo della casa produttrice. Creando un rapporto diretto con lo spettatore, la Pulse Films, come la A24, diventa una specie di curatore cinematografico personale, che si confida abbia già fatto la scelta giusta per noi.
In Italia, quando si parla di cinema indipendente, si fa fatica a non pensare alla Lucky Red. Fondata nel 1987, la società di distribuzione e produzione cinematografica di Andrea Occhipinti ha il merito di aver introdotto al pubblico italiano una lista di autori che va da Miyazaki a Haneke, fino ad arrivare a Larraín e Lanthimos. Da sempre la politica della Lucky Red è quella di scommettere sul cinema d’autore, riuscendo spesso e volentieri ad individuarne le potenzialità prima che si sparga la voce. Durante la pandemia, sia per ammortizzare i danni economici che per restare al passo coi tempi, Occhipinti ha deciso di lanciare MioCinema. Si tratta di una piattaforma streaming che permette di acquistare titoli nuovi e passati al prezzo di un normale biglietto, lasciando poi il 40% dei ricavi ad un cinema di propria scelta. Pur rimanendo una soluzione a breve termine (si spera) finchè non riapriranno le sale a capacità piena, non è detto che andando avanti anche la Lucky Red non decida di ridimensionarsi ed avvicinarsi al mondo dello streaming. Il problema però rischia di sussistere, visto che anche una società affermata come la Lucky Red si basa prevalentemente su delle politiche di mercato che a breve potrebbero diventare obsolete. In Italia c'è sempre poi da fare i conti con una carenza generale di strutture cinematografiche adatte ad un pubblico odierno (soprattutto guardando verso il futuro). Non si tratta solo di ripensare il modo in cui il cinema viene prodotto o distribuito, ma anche di come poi viene consumato. Andando avanti, che i film siano produzioni indipendenti o meno, lo spazio fisico del cinema dovrà per forza di cose offrire più di un grande schermo.
Anche se ci sono case di produzione – come la Groenlandia Group di Roma – che sono state create ad hoc per rimanere al passo con il mercato internazionale, la realtà è che già prima della pandemia il cinema indipendente in Italia faceva sempre meno soldi. Lazzaro Felice, uno dei prodotti migliori del cinema italiano degli ultimi anni e premio per la miglior sceneggiatura a Cannes, fece più soldi al botteghino in Francia che in Italia, dove incassò poco più di 400 mila euro. Dogman di Garrone, un film che sia per il genere che per la fama del regista avrebbe dovuto essere un successo, in Italia ha incassato solo 2 milioni e mezzo, fronte a un budget stimato di circa 4 milioni. D’altro canto, per quanto il concetto dietro la fondazione della Goon Films di Mainetti sia lodevole, la realtà è che un regista di quel livello non dovrebbe essere costretto a fondare la propria casa di produzione per avere pieno controllo creativo sul suo film. È chiaro che ci si trova di fronte ad un falla generale del sistema italiano che va avanti da ben più di un anno, ed è per questo che forse è arrivato il momento di provare a risolverla.
Il futuro dei film indipendenti si trova sicuramente in bilico. Eppure, guardandosi attorno, non è poi così difficile immaginarsi un mondo in cui questa crisi finisca per lasciare spazio ad un sistema pensato appositamente per valorizzare questo tipo di cinema. Non esiste una soluzione facile e immediata, e probabilmente, anche se dovesse prendere piede, la transizione durerà anni. Rimane però la speranza e la sensazione, per quanto adesso sembri un mondo agli sgoccioli, che forse il momento migliore per crederci sia proprio questo.
Una riflessione su cosa potrebbe accadere e
i modelli da seguire andando avanti,
di Rodrigo Mella
TR-20
05.02.2021
Nel 2020, i cinema hanno subito una perdita di incassi pari a circa 32 miliardi di dollari rispetto all’anno precedente. Cineworld, la seconda catena di sale cinematografiche più grande al mondo, ha chiuso le sue porte a tempo indefinito. Alcune fra le maggiori case di produzione, tra cui la Warner Bros. e la Disney, hanno deciso di lanciare i loro film direttamente sulle piattaforme streaming; altre, quali Netflix e Amazon, già lo facevano. Anche se per molti stiamo assistendo ad una rivoluzione interna sì accelerata ma pur sempre inevitabile, non vi è dubbio che l’impatto della pandemia sull’industria cinematografica sia stato finora devastante. E se anche i pochi giganti rimasti si sono visti costretti ad arrendersi alla morsa del coronavirus e dello streaming, diventa difficile (per non dire impossibile) immaginare come le produzioni indipendenti, che già da prima si sentivano l’acqua alla gola, riusciranno a sopravvivere. Tutto sembrerebbe indicare che questa possa veramente essere la fine del cinema, inteso, se non come arte, quantomeno come luogo. Tuttavia, mentre le scene di sale smembrate in giro per il mondo si fanno sempre più diffuse, inizia parallelamente a prendere forma una possibilità, seppur remota, che questa apparente condanna a morte per il cinema indipendente si trasformi col tempo in nuova e inaspettata linfa vitale.
I cinema che durante l'ultimo anno hanno provato a rimanere aperti, e che quindi hanno deciso di scommettere sul proprio pubblico, lo hanno fatto facendo affidamento su quella manciata di blockbuster (i.e. Tenet, No Time to Die, Wonder Woman 1984, Dune, e Soul) che gli avrebbe permesso, conti alla mano, di rimanere a galla. Ma le cose non sono poi andate così. Ad oggi, infatti, due di questi film non sono ancora usciti (Dune e No Time to Die); altri due sono stati messi in streaming contemporaneamente all’uscita nelle sale (Soul e Wonder Woman 1984); e infine Tenet, nonostante i 360 milioni di dollari al botteghino, si è rivelato essere il film di Nolan con meno successo in assoluto portando a rapporto budget e box office. Di fronte alla strategia di mercato adottata dagli studios, molti proprietari di cinema si sono forse giustamente sentiti abbandonati, visto che si sono ritrovati a gestire delle sale aperte senza però avere film da proiettare. La mancanza di una visione congiunta tra le due parti su come affrontare la crisi ha dato vita ad una vera e propria voragine all’interno del sistema di distribuzione. Ed è in questo vuoto che nasce per la prima volta la necessità da parte dei cinema stessi di dover guardare altrove.
Si prenda, per esempio, il caso di Saint Maud. Debutto alla regia della giovane Rose Glass, l’horror low-budget fu presentato nell’ormai lontano settembre del 2019 al Toronto International Film Festival, dove i diritti di distribuzione furono acquisiti dalla StudioCanal per lo UK e dalla A24 per gli USA. Quasi esattamente un anno più tardi, di fronte al rischio di un secondo lockdown, la Universal rimanda nuovamente l’uscita del nuovo Bond, questa volta al 2021. La decisione spinge molti cinema a correre ai ripari: per riempire gli improvvisi buchi di programmazione, si vedono costretti a concedere una distribuzione più ampia del previsto a vari film indipendenti, tra cui appunto Saint Maud. Il film arriva in circa 300 sale nel Regno Unito, e a sorpresa debutta nella classifica del botteghino nazionale al secondo posto (sotto solamente a Tenet). Il film continua ad attirare spettatori per altre tre settimane, e finisce per guadagnare 1,4 milioni di dollari solo nello UK (una cifra importante considerate le circostanze), in attesa che a fine gennaio esca anche negli Stati Uniti. Si potrebbe certamente trattare di un caso isolato, ed è chiaro che anche se non lo fosse, nel mercato di oggi servirebbero un centinaio di questi film per coprire il deficit lasciato da un singolo prodotto Marvel. Il punto però è proprio questo, che forse è arrivato il momento di ristrutturare le politiche di distribuzione, dando la possibilità a film indipendenti di raggiungere più schermi, e quindi di fare più soldi. E se alla fine della corsa, a spartirsi il bottino sono cento produzioni diverse, invece di una sola, ecco che si crea un ecosistema diversificato, più sostenibile, più democratico e, soprattutto, in grado di produrre più film.
Va ammesso che questa rimane una visione utopica e astratta di come potrebbero funzionare le cose, e c’è sicuramente il rischio che rimanga tale. Ma se questo è vero, è vero anche che di case di produzione che negli ultimi anni sono riuscite a sovvertire le dinamiche di produzione e distribuzione tradizionali ne esistono già. Su tutte, c'è appunto la A24. La compagnia newyorkese (che deve il suo nome all’autostrada che collega Roma a Teramo, dove nacque l’idea) fu fondata nel 2012 da Daniel Katz, David Fenkel, e John Hodges, e in pochi anni si è affermata come il marchio del cinema indie americano per eccellenza. All’inizio fu proprio il concetto di ampliare la distribuzione di film d’autore a permettere alla A24 di guadagnarsi la fiducia di registi già affermati, e conseguentemente dell’industria in generale. Emblematico in questo senso è il caso di uno dei primi film distribuiti dalla A24 – Spring Breakers di Harmony Korine. Korine veniva da un film (Mister Lonely) che in termini economici si dimostrò un disastro assoluto, andando in perdita di quasi 8 milioni di dollari. Il regista, nonostante lo status di autore, non rappresentava quindi una scommessa sicura, anzi. Inoltre, Spring Breakers stava andando molto male nei test screenings, e sembrava dunque destinato a ripetere la sorte del film procedente. L’A24 decise comunque di acquistare i diritti di distribuzione, e all’improvviso, per motivi apparentemente sconosciuti, il film diventò una miniera d’oro. In realtà, una ragione ci fu eccome. Il film iniziò ad avere successo grazie alla strategia di marketing usata Katz e co. per promuovere il film, la cui punta di diamante fu il video provocatorio per la candidatura all’Oscar di James Franco. Alla A24 bastarono questi 62 secondi per fare in modo che Spring Breakers, dai 5 milioni di budget, finisse per incassarne oltre 30.
Nei mesi che seguirono, la A24 continuò ad ampliare il concetto di marketing per i propri film, e in breve tempo cominciò ad accumulare successi. Ecco che mentre Ex Machina debutta al SXSW Festival, la A24 crea un account Tinder per Ava – l’AI protagonista del film – e inizia a chattare con la gente della zona, fino ad invitarli su una pagina Instagram con il trailer del film. Per The Witch, la A24 entrò in partnership con il Tempio Satanico, lanciando un sito che invitava ad arruolarsi nell’esercito di Satana; mentre per Hereditary, tutti coloro che attesero una première a mezzanotte, si trovarono la mattina dopo una bambola del film sull’uscio di casa. Tutto questo avveniva parallelamente ad uno sviluppo dell’immagine della stessa A24, che divenne presto non solo un punto di riferimento, ma un vero è proprio brand.
Continuando a fare scelte mirate in senso qualitativo, da American Honey a The Lobster, e ampliando il bacino di distribuzione di solito riservato a prodotti di questo tipo, la A24 si è creata uno spazio proprio all’interno del mercato, dove prima in pochi erano disposti a spendere tempo e soldi. Dalla distribuzione, si passò poi anche alla produzione in sé, di cui il primo risultato fu Moonlight, tanto per dirne uno. Guadagnata la libertà di fare tutto da soli, l’A24 decise di applicare una politica di ampia libertà creativa sui propri prodotti, mettendo i registi nelle condizioni migliori per poter realizzare la loro visione senza filtri. Il successo dei film si basa anche su questo rapporto di stima, e sulla sensazione, a detta dei registi stessi, che i loro produttori non lo stiano facendo per i soldi. Ciò che rende il successo della A24 così innovativo è il fatto di essere riusciti non solo a guadagnarsi la fiducia dei registi ma degli spettatori stessi. L’A24 è riuscita a creare una sorta di fanatismo attorno a sé che va oltre il singolo film, e che quindi ci spinge a interagire non solo con il prodotto ma con il marchio.
Se si iniziano poi a considerare realtà tipo l’A24 Podcast e le serie televisive, ci si rende conto che oggi le case di produzione indipendenti non possono più permettersi di occuparsi solo ed esclusivamente di cinema. Tra le altre cose, l’avvento delle piattaforme streaming ha gradualmente reso sempre più indistinti i confini tra i veri mezzi audiovisivi, ed è in queste intersezionalità che nuove compagnie sono riuscite ad insediarsi. Tra quelle che lo hanno fatto con più successo c’è sicuramente la Pulse Films (che tra l’altro ha prodotto sia The Witch che American Honey). La casa di produzione con base a Londra ruota anch'essa attorno al mantra di “artists first”, ed è riuscita ad affermarsi grazie ad una visione olistica dei prodotti audiovisivi. La Pulse produce praticamente qualsiasi tipo di contenuto, dai lungometraggi alle pubblicità ai video musicali, e lo fa grazie ad una lunga sfilza di registi in-house – cioè direttamente alle proprie dipendenze. In particolare, la Pulse deve molto del suo successo agli investimenti fatti nell’identità visiva di svariati musicisti, per cui si occupano di produrre video musicali (Radiohead, Jorja Smith, Flying Lotus, Stormzy), film concerto (LCD Soundsystem, Nick Cave, Mumford & Sons), e documentari (PJ Harvey, Blur, Beastie Boys). Anche in questo caso si nota non solo una capacità di diversificare e quindi di mantenere una stabilità finanziaria indubbiamente necessaria, ma anche e soprattutto una coerenza artistica che contribuisce alla creazione di un'identità societaria precisa. Questo tipo di approccio apre le porte ad un nuovo tipo di distribuzione in cui non è più essenziale riconoscere il nome degli attori o del regista, basta invece riconoscere il logo della casa produttrice. Creando un rapporto diretto con lo spettatore, la Pulse Films, come la A24, diventa una specie di curatore cinematografico personale, che si confida abbia già fatto la scelta giusta per noi.
In Italia, quando si parla di cinema indipendente, si fa fatica a non pensare alla Lucky Red. Fondata nel 1987, la società di distribuzione e produzione cinematografica di Andrea Occhipinti ha il merito di aver introdotto al pubblico italiano una lista di autori che va da Miyazaki a Haneke, fino ad arrivare a Larraín e Lanthimos. Da sempre la politica della Lucky Red è quella di scommettere sul cinema d’autore, riuscendo spesso e volentieri ad individuarne le potenzialità prima che si sparga la voce. Durante la pandemia, sia per ammortizzare i danni economici che per restare al passo coi tempi, Occhipinti ha deciso di lanciare MioCinema. Si tratta di una piattaforma streaming che permette di acquistare titoli nuovi e passati al prezzo di un normale biglietto, lasciando poi il 40% dei ricavi ad un cinema di propria scelta. Pur rimanendo una soluzione a breve termine (si spera) finchè non riapriranno le sale a capacità piena, non è detto che andando avanti anche la Lucky Red non decida di ridimensionarsi ed avvicinarsi al mondo dello streaming. Il problema però rischia di sussistere, visto che anche una società affermata come la Lucky Red si basa prevalentemente su delle politiche di mercato che a breve potrebbero diventare obsolete. In Italia c'è sempre poi da fare i conti con una carenza generale di strutture cinematografiche adatte ad un pubblico odierno (soprattutto guardando verso il futuro). Non si tratta solo di ripensare il modo in cui il cinema viene prodotto o distribuito, ma anche di come poi viene consumato. Andando avanti, che i film siano produzioni indipendenti o meno, lo spazio fisico del cinema dovrà per forza di cose offrire più di un grande schermo.
Anche se ci sono case di produzione – come la Groenlandia Group di Roma – che sono state create ad hoc per rimanere al passo con il mercato internazionale, la realtà è che già prima della pandemia il cinema indipendente in Italia faceva sempre meno soldi. Lazzaro Felice, uno dei prodotti migliori del cinema italiano degli ultimi anni e premio per la miglior sceneggiatura a Cannes, fece più soldi al botteghino in Francia che in Italia, dove incassò poco più di 400 mila euro. Dogman di Garrone, un film che sia per il genere che per la fama del regista avrebbe dovuto essere un successo, in Italia ha incassato solo 2 milioni e mezzo, fronte a un budget stimato di circa 4 milioni. D’altro canto, per quanto il concetto dietro la fondazione della Goon Films di Mainetti sia lodevole, la realtà è che un regista di quel livello non dovrebbe essere costretto a fondare la propria casa di produzione per avere pieno controllo creativo sul suo film. È chiaro che ci si trova di fronte ad un falla generale del sistema italiano che va avanti da ben più di un anno, ed è per questo che forse è arrivato il momento di provare a risolverla.
Il futuro dei film indipendenti si trova sicuramente in bilico. Eppure, guardandosi attorno, non è poi così difficile immaginarsi un mondo in cui questa crisi finisca per lasciare spazio ad un sistema pensato appositamente per valorizzare questo tipo di cinema. Non esiste una soluzione facile e immediata, e probabilmente, anche se dovesse prendere piede, la transizione durerà anni. Rimane però la speranza e la sensazione, per quanto adesso sembri un mondo agli sgoccioli, che forse il momento migliore per crederci sia proprio questo.