INT-34
11.05.2023
Il 3 agosto 2014, il Daesh (organizzazione islamica terrorista) invase l’Iraq e, sulla loro strada, i jihadisti saccheggiarono i villaggi, uccisero gli uomini e rapirono circa 6000 giovani donne Yazidi. Queste divennero delle “sex slaves”, furono vendute nei mercati e stuprate quotidianamente. Da queste violenze nacquero migliaia di bambini, e la loro nascita non fu registrata da nessuna parte. I piccoli non erano ne nei campi profughi insieme alle madri e nemmeno negli orfanotrofi locali. Quella appena descritta è la tragica situazione che ha condizionato la comunità Yazidi negli ultimi dieci anni. Che fine avevano fatto i “bastardi del Daesh”? (soprannome dato agli infanti dalla comunità Yazidi). È questo il soggetto di Hawar, Our Banished Children, il nuovo progetto di Pascale Bourgaux. La regista ha dedicato otto anni alla lavorazione di questo brillante documentario che mette in luce la drammatica realtà in cui vivono le donne Yazidi. Concentrandosi su “Ana” (nome fittizio per nascondere l’identità della donna), costretta ad abbandonare il proprio bambino dopo essere stata “liberata”, Hawar, Our Banished Children segue il desiderio della ragazza di ritrovare il figlio perduto.
Non è la prima volta che Pascale Bourgaux indaga e racconta del Medio Oriente, infatti, la regista ha avuto una notevole carriera da reporter per le emittenti francesi TV5 e France 24 e ha vinto numerosi premi internazionali per i suoi reportage. Hawar, Our Banished Children è stato presentato al Nyon Film Festival, manifestazione cinematografica svizzera focalizzata sui documentari. Per l’occasione, abbiamo avuto il piacere di conversare con Pascale, la quale ci ha raccontato la difficile lavorazione dell’opera cogliendo l’occasione di approfondire la storia di altre donne nella stessa condizione di “Ana”.
Innanzitutto, come è andata la premiere al Nyon Film Festival?
Benissimo. È stato molto emozionante. Mi aspettavo una sala vuota con solo me e la crew del film, ma era tutto pieno. È stato interessante vedere quanto le persone si siano emozionate e c’è stata molta partecipazione nel Q&A che ha seguito la proiezione.
Nel corso della tua carriera, ti sei occupata dei principali conflitti e crisi nel Medio Oriente, come mai hai deciso di focalizzarti sugli eventi del 2014?
Come puoi ricordare, nel 2014, il Daesh invase l’Iraq dalla Siria. Attaccarono gli Yazidi perché li ritenevano una minoranza. Gli uomini venivano uccisi, mentre le donne venivano rapite, stuprate ed in seguito costrette a sposarsi. Mi sono resa conto che non serve una laurea in medicina per capire che queste giovani donne avrebbero avuto dei figli a causa dei continui stupri. Il lavoro di ricerca per il documentario è durato ben otto anni. Dal 2014 al 2019, sono stata alla ricerca di questi bambini “invisibili”, non erano negli orfanotrofi e nemmeno nei campi per rifugiati. Le autorità non dicevano nulla… e mi sono chiesta quale fosse il problema. Ero da sola in questo periodo, tutti i miei amici kurdi mi dicevano che ero pazza e che non avrei concluso nulla perché la comunità non ne voleva sapere di questi bambini. È stato davvero complicato, la gente si rifiutava di parlarmi. Ad esempio, ho provato a intervistare un prete, gli avevo detto che sapevo che una donna della sua comunità era tornata con dei bambini e lui si è tolto il microfono e se ne è andato via. Siccome i kurdi e l’ONG avevano notato che facevo avanti e indietro, hanno iniziato a fidarsi di me e mi hanno presentato alcune delle vittime. Non ho mai detto loro che stavo facendo un film ed ero per lo più interessata a parlare con le donne che avevano avuto figli. L’aiuto di Mohammad Shaikho, giovane regista kurdo e direttore della fotografia del film, è stato fondamentale, soprattutto perché non parlo la lingua locale. Tramite alcune donne, ho incontrato “Ana” e ho deciso di strutturare il film sulla sua storia. Abbiamo girato il film tra il 2019 e il 2021/22, ma prima abbiamo dovuto rassicurarla più volte che non avremmo mostrato il suo viso e protetto la sua identità.
Durante questo processo, hai mai pensato di concentrarti anche su altre donne oltre ad “Ana”?
Si, abbiamo seguito altre donne e abbiamo documentato la loro triste storia. Ad esempio, c’è questa ragazza, che chiameremo “Noor”, che è stata stuprata più volte da questi bastardi e, quando è stata liberata, la sua famiglia l’ha costretta ad abbandonare suo figlio. Come “Ana”, ha trovato il coraggio di cercare suo figlio. Ha scoperto che era stato adottato e ha assunto un avvocato grazie all’aiuto dell’ONG, ma la famiglia adottiva rifiutò di dare indietro il bambino ovviamente. E siccome le autorità kurde non riconoscono questi bambini, lei non ottenne nulla. Ti rendi conto? C’è un’altra storia triste, ma per ragioni diverse, c’è questa terza donna che è stata costretta ad abbandonare i suoi due figli in Siria. Tornata in Iraq, decide di iniziare a cercarli, e scopre che questi sono stati adottati. Ma siccome questo fatto è accaduta in Siria, dove il governo è più di sinistra, per dire, e prendono più seriamente i diritti delle donne, fecero pressione sulla famiglia adottiva e gli ridiedero indietro i figli. E quella famiglia era distrutta ovviamente, avevano cresciuto quei bambini per quattro anni. Ci sono solo storie tristi in questa faccenda. Il documentario non è contro la comunità Yazidi, voglio che faccia riflettere queste persone sul problema così da trovare una soluzione. Credo sia possibile questo, la comunità ha già sofferto molto e non voglio vedere queste donne essere ancora vittime.
Credi ci sarà questo dibattito all’interno della comunità Yazidi grazie al documentario?
Lo spero. Per questo ho fatto il film, voglio aprire un dibattito nella comunità, così che questa abbia un mezzo per discutere. Hanno anche il sostegno dell’ONG.
Spero che il tuo film possa portare più consapevolezza su quello che è successo alle donne della comunità Yazidi anche nei paesi occidentali.
Quello che possiamo fare è aspettare una soluzione dall’interno, aiutare queste donne e i loro figli facendoli vivere all’estero. Perché nell’UE non vengono creati dei visti speciali umanitari per loro? Prendi in considerazione la situazione in Siria, queste donne vivono al sicuro protette dai militanti e i loro ragazzi vanno anche a scuola. Ma la loro vita è confinata per lo più nelle mura di casa, è come vivere in prigione. Non è normale! Non si vive così.
Sei ancora in contatto con “Ana” e le altre donne?
Si certamente. Abbiamo parlato con lei recentemente, le abbiamo detto che il film era pronto e che lo avremmo presentato a Nyon, in Svizzera. “Ana” è in una situazione davvero difficile al momento, non sa cosa fare, deve scegliere tra la sua famiglia e sua figlia, è una scelta che nessuno dovrebbe compiere. Ha già sofferto abbastanza. Sua figlia dovrebbe cominciare ad andare a scuola, ma non può perché non ha la carta d’identità.
Volevo chiederti come avessi fatto a instaurare quel rapporto di fiducia con “Ana” per convincerla a fare il film.
Lei è andata a scuola solo quattro/cinque anni, si è sempre occupata del gregge della famiglia e quindi, non conosce nulla del mondo. Probabilmente non è mai stata in un cinema, e come fai a spiegarle che cosa è un film? Grazie all’appoggio di Mohammad, siamo riusciti a spiegarle che stiamo facendo questo per aiutarla e che vogliamo che il film sia una testimonianza per sua figlia. Non è sicuro che riuscirà a vivere insieme alla figlia, ma almeno, quando avrà diciotto anni, potrà mostrarle il film e spiegarle perché non ha potuto crescerla. “Ana” si è fidata di noi anche perché, per fare questo viaggio, aveva bisogno di noi. Abbiamo guidato per sei ore, attraversato tredici checkpoint e dovevamo nascondere le telecamere. Non abbiamo avuto grossi problemi a viaggiare perché eravamo una crew di un film, ma non potevamo girare ai checkpoint. Saremmo finiti nei guai e probabilmente ci avrebbero chiesto come mai avessimo a bordo una ragazza Yazidi a cinquecento chilometri dalla propria casa. Inoltre, c’era un altro problema che riguardava la sua famiglia, lei doveva tornare a casa ad orari ben precisi, come le tre/quattro del pomeriggio. Quindi, grazie all’aiuto della sorella, ha mentito ai genitori e le ha detto che doveva andare a lavorare in città e quindi si sarebbe trasferita per un paio di giorni. Il suo lavoro era stare con noi, fare quel viaggio è stato davvero difficile. Abbiamo anche incontrato i genitori e gli abbiamo detto che eravamo parte di una fondazione umanitaria e che c’era una conferenza sulle vittime Yazidi. Abbiamo dovuto affrontare innumerevoli difficoltà per fare il film. Pensavo che non avremmo mai finito il progetto, ma alla fine ce l’abbiamo fatta!
Immagino che nascondere l’identità di Ana sia stata la difficoltà più grossa.
Si, anche il primo periodo di investigazione è stato piuttosto difficile, dovevo capire come facevano a portare via questi bambini. Una volta capito come il tutto avveniva, mi sono resa conto che le famiglie accettavano degli ordini imposti dalle autorità, anche clericali. Una volta capito questo, avevo le prove che cercavo. Poi dovevo convincere le vittime a parlare, il che è difficile. E dopo pensare a come filmare queste donne senza svelare la loro identità. Mio figlio mi ha detto “Mamma, hai trascorso otto anni a filmare una ragazza dal dietro mentre parla una lingua che non capisci.” Ma come avrei potuto raccontare questa storia altrimenti
Hai già in mente il soggetto per una futura investigazione?
No no, sono esausta, prenderò del tempo per mostrare il film in tutto il mondo. Faremo qualche grande evento con il Parlamento Europeo per cercare una soluzione. Anche perché gli unici report che ho letto su questa faccenda sono di Amnesty International, e solo pochi paragrafi raccontavano di questi bambini. Non credo sia giusto. Parliamo spesso dei figli dei jihadisti rapiti nei campi per colpa dei genitori, e come non sia giusto quello che gli sta accadendo, e nessuno parla mai dei figli delle madri Yazidi.
INT-34
11.05.2023
Il 3 agosto 2014, il Daesh (organizzazione islamica terrorista) invase l’Iraq e, sulla loro strada, i jihadisti saccheggiarono i villaggi, uccisero gli uomini e rapirono circa 6000 giovani donne Yazidi. Queste divennero delle “sex slaves”, furono vendute nei mercati e stuprate quotidianamente. Da queste violenze nacquero migliaia di bambini, e la loro nascita non fu registrata da nessuna parte. I piccoli non erano ne nei campi profughi insieme alle madri e nemmeno negli orfanotrofi locali. Quella appena descritta è la tragica situazione che ha condizionato la comunità Yazidi negli ultimi dieci anni. Che fine avevano fatto i “bastardi del Daesh”? (soprannome dato agli infanti dalla comunità Yazidi). È questo il soggetto di Hawar, Our Banished Children, il nuovo progetto di Pascale Bourgaux. La regista ha dedicato otto anni alla lavorazione di questo brillante documentario che mette in luce la drammatica realtà in cui vivono le donne Yazidi. Concentrandosi su “Ana” (nome fittizio per nascondere l’identità della donna), costretta ad abbandonare il proprio bambino dopo essere stata “liberata”, Hawar, Our Banished Children segue il desiderio della ragazza di ritrovare il figlio perduto.
Non è la prima volta che Pascale Bourgaux indaga e racconta del Medio Oriente, infatti, la regista ha avuto una notevole carriera da reporter per le emittenti francesi TV5 e France 24 e ha vinto numerosi premi internazionali per i suoi reportage. Hawar, Our Banished Children è stato presentato al Nyon Film Festival, manifestazione cinematografica svizzera focalizzata sui documentari. Per l’occasione, abbiamo avuto il piacere di conversare con Pascale, la quale ci ha raccontato la difficile lavorazione dell’opera cogliendo l’occasione di approfondire la storia di altre donne nella stessa condizione di “Ana”.
Innanzitutto, come è andata la premiere al Nyon Film Festival?
Benissimo. È stato molto emozionante. Mi aspettavo una sala vuota con solo me e la crew del film, ma era tutto pieno. È stato interessante vedere quanto le persone si siano emozionate e c’è stata molta partecipazione nel Q&A che ha seguito la proiezione.
Nel corso della tua carriera, ti sei occupata dei principali conflitti e crisi nel Medio Oriente, come mai hai deciso di focalizzarti sugli eventi del 2014?
Come puoi ricordare, nel 2014, il Daesh invase l’Iraq dalla Siria. Attaccarono gli Yazidi perché li ritenevano una minoranza. Gli uomini venivano uccisi, mentre le donne venivano rapite, stuprate ed in seguito costrette a sposarsi. Mi sono resa conto che non serve una laurea in medicina per capire che queste giovani donne avrebbero avuto dei figli a causa dei continui stupri. Il lavoro di ricerca per il documentario è durato ben otto anni. Dal 2014 al 2019, sono stata alla ricerca di questi bambini “invisibili”, non erano negli orfanotrofi e nemmeno nei campi per rifugiati. Le autorità non dicevano nulla… e mi sono chiesta quale fosse il problema. Ero da sola in questo periodo, tutti i miei amici kurdi mi dicevano che ero pazza e che non avrei concluso nulla perché la comunità non ne voleva sapere di questi bambini. È stato davvero complicato, la gente si rifiutava di parlarmi. Ad esempio, ho provato a intervistare un prete, gli avevo detto che sapevo che una donna della sua comunità era tornata con dei bambini e lui si è tolto il microfono e se ne è andato via. Siccome i kurdi e l’ONG avevano notato che facevo avanti e indietro, hanno iniziato a fidarsi di me e mi hanno presentato alcune delle vittime. Non ho mai detto loro che stavo facendo un film ed ero per lo più interessata a parlare con le donne che avevano avuto figli. L’aiuto di Mohammad Shaikho, giovane regista kurdo e direttore della fotografia del film, è stato fondamentale, soprattutto perché non parlo la lingua locale. Tramite alcune donne, ho incontrato “Ana” e ho deciso di strutturare il film sulla sua storia. Abbiamo girato il film tra il 2019 e il 2021/22, ma prima abbiamo dovuto rassicurarla più volte che non avremmo mostrato il suo viso e protetto la sua identità.
Durante questo processo, hai mai pensato di concentrarti anche su altre donne oltre ad “Ana”?
Si, abbiamo seguito altre donne e abbiamo documentato la loro triste storia. Ad esempio, c’è questa ragazza, che chiameremo “Noor”, che è stata stuprata più volte da questi bastardi e, quando è stata liberata, la sua famiglia l’ha costretta ad abbandonare suo figlio. Come “Ana”, ha trovato il coraggio di cercare suo figlio. Ha scoperto che era stato adottato e ha assunto un avvocato grazie all’aiuto dell’ONG, ma la famiglia adottiva rifiutò di dare indietro il bambino ovviamente. E siccome le autorità kurde non riconoscono questi bambini, lei non ottenne nulla. Ti rendi conto? C’è un’altra storia triste, ma per ragioni diverse, c’è questa terza donna che è stata costretta ad abbandonare i suoi due figli in Siria. Tornata in Iraq, decide di iniziare a cercarli, e scopre che questi sono stati adottati. Ma siccome questo fatto è accaduta in Siria, dove il governo è più di sinistra, per dire, e prendono più seriamente i diritti delle donne, fecero pressione sulla famiglia adottiva e gli ridiedero indietro i figli. E quella famiglia era distrutta ovviamente, avevano cresciuto quei bambini per quattro anni. Ci sono solo storie tristi in questa faccenda. Il documentario non è contro la comunità Yazidi, voglio che faccia riflettere queste persone sul problema così da trovare una soluzione. Credo sia possibile questo, la comunità ha già sofferto molto e non voglio vedere queste donne essere ancora vittime.
Credi ci sarà questo dibattito all’interno della comunità Yazidi grazie al documentario?
Lo spero. Per questo ho fatto il film, voglio aprire un dibattito nella comunità, così che questa abbia un mezzo per discutere. Hanno anche il sostegno dell’ONG.
Spero che il tuo film possa portare più consapevolezza su quello che è successo alle donne della comunità Yazidi anche nei paesi occidentali.
Quello che possiamo fare è aspettare una soluzione dall’interno, aiutare queste donne e i loro figli facendoli vivere all’estero. Perché nell’UE non vengono creati dei visti speciali umanitari per loro? Prendi in considerazione la situazione in Siria, queste donne vivono al sicuro protette dai militanti e i loro ragazzi vanno anche a scuola. Ma la loro vita è confinata per lo più nelle mura di casa, è come vivere in prigione. Non è normale! Non si vive così.
Sei ancora in contatto con “Ana” e le altre donne?
Si certamente. Abbiamo parlato con lei recentemente, le abbiamo detto che il film era pronto e che lo avremmo presentato a Nyon, in Svizzera. “Ana” è in una situazione davvero difficile al momento, non sa cosa fare, deve scegliere tra la sua famiglia e sua figlia, è una scelta che nessuno dovrebbe compiere. Ha già sofferto abbastanza. Sua figlia dovrebbe cominciare ad andare a scuola, ma non può perché non ha la carta d’identità.
Volevo chiederti come avessi fatto a instaurare quel rapporto di fiducia con “Ana” per convincerla a fare il film.
Lei è andata a scuola solo quattro/cinque anni, si è sempre occupata del gregge della famiglia e quindi, non conosce nulla del mondo. Probabilmente non è mai stata in un cinema, e come fai a spiegarle che cosa è un film? Grazie all’appoggio di Mohammad, siamo riusciti a spiegarle che stiamo facendo questo per aiutarla e che vogliamo che il film sia una testimonianza per sua figlia. Non è sicuro che riuscirà a vivere insieme alla figlia, ma almeno, quando avrà diciotto anni, potrà mostrarle il film e spiegarle perché non ha potuto crescerla. “Ana” si è fidata di noi anche perché, per fare questo viaggio, aveva bisogno di noi. Abbiamo guidato per sei ore, attraversato tredici checkpoint e dovevamo nascondere le telecamere. Non abbiamo avuto grossi problemi a viaggiare perché eravamo una crew di un film, ma non potevamo girare ai checkpoint. Saremmo finiti nei guai e probabilmente ci avrebbero chiesto come mai avessimo a bordo una ragazza Yazidi a cinquecento chilometri dalla propria casa. Inoltre, c’era un altro problema che riguardava la sua famiglia, lei doveva tornare a casa ad orari ben precisi, come le tre/quattro del pomeriggio. Quindi, grazie all’aiuto della sorella, ha mentito ai genitori e le ha detto che doveva andare a lavorare in città e quindi si sarebbe trasferita per un paio di giorni. Il suo lavoro era stare con noi, fare quel viaggio è stato davvero difficile. Abbiamo anche incontrato i genitori e gli abbiamo detto che eravamo parte di una fondazione umanitaria e che c’era una conferenza sulle vittime Yazidi. Abbiamo dovuto affrontare innumerevoli difficoltà per fare il film. Pensavo che non avremmo mai finito il progetto, ma alla fine ce l’abbiamo fatta!
Immagino che nascondere l’identità di Ana sia stata la difficoltà più grossa.
Si, anche il primo periodo di investigazione è stato piuttosto difficile, dovevo capire come facevano a portare via questi bambini. Una volta capito come il tutto avveniva, mi sono resa conto che le famiglie accettavano degli ordini imposti dalle autorità, anche clericali. Una volta capito questo, avevo le prove che cercavo. Poi dovevo convincere le vittime a parlare, il che è difficile. E dopo pensare a come filmare queste donne senza svelare la loro identità. Mio figlio mi ha detto “Mamma, hai trascorso otto anni a filmare una ragazza dal dietro mentre parla una lingua che non capisci.” Ma come avrei potuto raccontare questa storia altrimenti
Hai già in mente il soggetto per una futura investigazione?
No no, sono esausta, prenderò del tempo per mostrare il film in tutto il mondo. Faremo qualche grande evento con il Parlamento Europeo per cercare una soluzione. Anche perché gli unici report che ho letto su questa faccenda sono di Amnesty International, e solo pochi paragrafi raccontavano di questi bambini. Non credo sia giusto. Parliamo spesso dei figli dei jihadisti rapiti nei campi per colpa dei genitori, e come non sia giusto quello che gli sta accadendo, e nessuno parla mai dei figli delle madri Yazidi.