Desert Hearts, ritratto di un'amore
in bilico tra desiderio e identità,
di Pavel Belli Micati
TR-127
12.04.2025
La saggista statunitense Sarah Schulman, autrice di opere di storia queer americana come The Gentrification of the Mind, già negli anni Novanta, sul finire dell’emergenza AIDS, scriveva dell’assenza fattuale di rappresentazioni queer femminili, non solo nella cinematografia statunitense, ma in generale nella cultura letteraria mondiale. Schulman non condannava la mancanza di narrazioni a tematica gay, bensì lamentava dell’assenza di storie specificamente lesbiche. L’osservazione, anche a distanza di trent’anni, rimane valida seppur parziale: il panorama odierno è pieno di rappresentazioni queer femminili, e produzioni più recenti come La Vie d’Adèle (La vita di Adele, 2013) e Love Lies Bleeding (2024) hanno sollevato la censura apportata al tema “donne che amano altre donne”; resta di fatto che la critica di Schulman è pervasiva oggi più che in passato perché risultante da un’epoca dove la comunità queer, che viveva di teorie e pratiche intersezionali descritte dalle filosofie decostruzioniste degli anni Settanta, era allora minacciata da un’emergenza di tipo sanitario ma, soprattutto, cancellata dal trattamento, ideologico, che le politiche di prevenzione riservavano loro.
Post-AIDS le direttive sono cambiate, tra cui anche l’intersezionalità delle cause nella battaglia per i diritti civili; la de-stigmatizzazione dell’omosessualità ha giovato al paradigma queer nella misura in cui molti individui, a maggioranza di sesso maschile, sono entrati a pieno diritto all’interno del mondo normato (e normativo) della cultura egemone. Registi gay, attori gay e film gay: oggi ne contiamo una discreta quantità. Ma dove sono le registe lesbiche, le attrici lesbiche, i film a tema lesbico?
Love Lies Bleeding (2024)
È il 1959, ci troviamo in Nevada. Vivian Bell, una professoressa d’inglese alla Columbia, approda nella piccola cittadina di Reno dopo un lungo viaggio in treno da New York City. La donna, da poco separatasi dal marito, si trasferisce nello stato di Las Vegas perché uno dei pochi, all’epoca, a disporre di una legislazione che facilita la burocrazia per i divorzi veloci. Vivian è ospite di Frances, una donna che gestisce una pensioncina in un ranch che accoglie altre donne in via di separazione. Durante il viaggio in macchina appare sulla scena Cay, la figliastra di Frances, adottata dalla donna anni prima quando ha conosciuto Glenn, il padre della giovane e compagno della donna, scomparso da tempo. Cay, una soggettività femminile libera da costrizioni e lontana dai costumi tradizionali, portavoce di una nuova generazione, è il classico prototipo di ragazza moderna dallo spirito ribelle: lavora al casinò di Reno e nel tempo libero fa la scultrice, vive tranquillamente la propria sessualità, s’incontra con donne diverse e rifiuta le avances di colleghi e amici maschi che fanno invece il tifo per lei.
Vivian la incontra, per la prima volta, mentre la ragazza è alla guida sfrenata di una decappottabile in retromarcia sulla corsia opposta a quella dove corre la macchina di Frances, e la timida forestiera in visita rimane subito colpita dalla giovane autoctona in fiamme. Queste sono le premesse dell’esordio al cinema di Donna Deitch Desert Hearts (1986), uno dei film riscoperti e antologizzati all’interno della più recente storiografia cinematografica queer statunitense che è stato ripresentato l'11 aprile al Festival Immaginaria.
Sotto l’egida di Obama, gli Stati Uniti hanno sconfessato alcuni dei temi sociali affrontati dal dibattito culturale, tra cui l’omoaffettività, il sex-work e il nomadismo, sostituendo alla Grande Storia Americana tante e diversificate storie di individuazione personale. In questo senso, anche il post-romanticismo del Terzo Millennio ha aiutato: così, la normalizzazione dei paradigmi queer ha permesso di restituire una storia della resistenza alla norma, spesso descritta dalle azioni coraggiose di membri della comunità gay, illuminando di fatto la ricca tradizione della cultura omosessuale che, nella vittoria di Moonlight (2016) di Barry Jenkins all’87esima edizione degli Oscar come Miglior Film, trova piena dignità tematica nel trattamento in produzioni più commerciali.
Moonlight (2016) di Barry Jenkins
Questo percorso di riscatto adesso però punta i fari sull’assenza di una storiografia queer al femminile ufficiale. Se dai moti di Stonewall si può tracciare una filiazione che, da trasposizioni biografiche di successo alla Milk (2008) approda ai nuovi testamenti estetici di Dolan, riscoprendo l’eredità stravagante di un Waters o quella allucinata di un Araki, da dove germoglia, precisamente, tutta quella cultura queer femminile che ispira le recenti operazioni di una Seligman o una Sciamma? La domanda, posta più semplicemente, è la seguente: se esiste un cinema gay, può esistere anche un cinema lesbico? Se My Own Private Idaho (1991) ad esempio, è considerato il manifesto del cinema statunitense a tematica gay, qual allora è quello lesbico?
“Ho sempre vissuto in città. Non so cosa farmene di tutto questo spazio”: si pronuncia Vivian Bell che non ha mai messo piede fuori Manhattan; Frances che invece è originaria di Reno le risponde: “Io lo vedo come il giardino sul retro di Dio”. Un luogo caldo e arido dove non prodursi in grandi riflessioni, bere molto thè ghiacciato e attendere che le carte per il divorzio siano ufficializzate. I panorami desertici della regione rocciosa fanno così da eco all’esilio personale della protagonista, una sorta di confino ideologico in cui la donna di città affronta il proprio passato, ma anche un limbo emotivo minacciato dall’attrazione che l’insegnante comincia a provare nei confronti della figliastra della sua host.
Infatti, se da un lato il soggiorno di Vivian funge da confronto del femminile in rottura con l’istituzione patriarcale, narrato dagli incontri con l’avvocato che si occupa del divorzio della donna e avanza domande sempre più personali sulle ragioni della sua scelta, dall’altro la sosta drammatizzata in Desert Hearts si presta anche a metafora di un percorso di individuazione lesbica. Cay rappresenta un nuovo, energico femminile in rivolta, mentre Vivian è la trasfigurazione di una descrizione sul viale del tramonto: “Desideravo qualcosa di impossibile da analizzare logicamente… Volevo liberarmi di ciò che ero stata”, Vivian argomenta a Mr. Warner, il legale che le chiede se, dietro alle sue ragioni esplicitate, non si nasconda qualcos’altro.
“Allora, è meglio propendere per la violenza psicologica…” risponde Mr. Warner, che si mostra sorpreso dalla scelta di divorziare senza una giusta causa come l’infedeltà o l’impotenza, ma semplicemente perché il matrimonio contratto dodici anni prima con Mr. Bell è causa della sua infelicità. “Noi non ci siamo mai fatti del male però”, replica la donna che viene interrotta dal legale: “È solo un termine generico”, la rassicura l’uomo che vaglia l’ipotesi più facile delle fantomatiche “differenze inconciliabili”. “Mr. Warner, potrei passare il resto della mia vita da sola. Ho preso una decisione molto difficile, e non sulla base di un paio di emicranie”, assertiva risponde Vivian, che pretende che la sua scelta, dolorosa per lei, venga compresa nella totale onestà del sentimento che la muove.
L'arrivo di Vivian Bell alla stazione di Reno
E, tra il lutto della perdita e il desiderio di solitudine, ecco che si fonda la ricerca personale della verità della donna. Nondimeno, è anche sulla dicotomia tra ragione e sentimento che si regge la sua battaglia inconscia. Vivian vive un dissidio interiore: desidera attivamente scindere i rapporti con l’istituzione matrimoniale; nel suo profondo, però, la donna in visita a Reno è ostaggio delle proprie pulsioni, rincarate dal sentimento che prova verso la sensuale Cay, all’inizio confuso ma poi esplicitato dal rapporto sempre più intimo che le due istaurano, un amore che sboccia lungo le sei settimane che passano dall’arrivo di Vivian in Nevada e il suo ritorno, post-divorzio, a New York.
Così, tra servizi ai tavoli, scappatelle con altre donne, furti nella dispensa di Frances e feste di fidanzamento di amiche, Cay comincia a fare spazio nella sua vita alla malinconia di Vivian, che da quando è ospite lì non riesce a chiudere occhio. Le due vanno a cavallo insieme, Vivian le fa visita al casinò, Cay la guarda di notte che dorme. Vivian, che è una donna di mondo, una mente colta e intellettuale nel mezzo del proprio percorso di emancipazione dall’istituzione coniugale, deve trovare il tempo e lo spazio necessari a confessare, prima di tutto a se stessa, la propria identità sessuale, ancora incerta e fuori fuoco; mentre Cay, che invece vive liberamente la propria, comincia a provare per la donna dei sentimenti che vanno oltre l’attrazione fisica. È nell’imprudenza dell’una e nella riservatezza dell’altra che s’istaura il famoso gioco degli opposti che si attraggono, ma la tensione erotica che cresce tra le due fautrici di due mondi antitetici è problematizzata da Frances, che invece è la trasfigurazione della vedovanza.
Desert Hearts è anche una storia di donne che dormono male la notte perché perseguitate dall’ombra degli stessi ruoli che sono costrette a interpretare. Frances, che non vede di buon occhio la sessualità di Cay, non è davvero intimorita dall’identità della figliastra, che all’epoca era ritenuta deviante; è terrorizzata, piuttosto, che la giovane scappi con Vivian, lasciandola sola con il ranch e i fantasmi lasciati dalla morte di Glenn.
Desert Hearts (1985)
Tratto dal romanzo del 1964 di Jane Rule, Desert of the Heart, e distribuito nelle sale statunitensi nella primavera del 1986, l’adattamento di Donna Deitch di una pietra miliare della narrativa lesbica è un unicum nel panorama queer della storia del cinema, non solo perché una tra le maggiori opere audiovisive a raccontare di una storia d’amore interamente al femminile, ma anche perché la pellicola si allontana dalle estetiche su cui recenti riduzioni di vecchie restituzioni, come i drammi in costume alla Portrait of a Lady on Fire (Ritratto della giovane in fiamme, 2019) di Sciamma o Carol (2015) di Haynes, innestano le loro curate poetiche.
Se la ricezione gode di rinnovato successo in quanto la sua riscoperta si accompagna alla storia della sua fonte originaria, composta da Rule alla fine degli anni Cinquanta e rifiutata da oltre ben venti editori prima di apparire in Canada a metà degli anni Sessanta, in parte è anche merito di una sensibilità attenta e raffinata come quella di Deitch che, come debutto alla regia, sceglie l’elaborazione di una complessa parabola di individuazione identitaria che risuona sia come nuova storia d’amore sia come riflessione filosofica sulla solitudine e la differenza del sentimento queer e della condizione omosessuale femminile. La storia stessa della sua produzione è degna di menzione: prodotto con solo un milione e mezzo di dollari raccolti in una campagna di finanziamento durata quattro anni, per completare il film la regista arrivò persino a ipotecarsi la casa.
Non serve interrogarsi sulle ragioni di una così lunga gestazione, le tematiche esplorate da Deitch non erano di particolare gradimento alla sensibilità del tempo; anche se negli Usa degli anni Ottanta il processo di decriminalizzazione dell’omosessualità era già in atto da una quindicina d’anni. Sarebbe comunque riduttivo però glissare sulle difficoltà che una storia come quella di Jane Rule ha affrontato per imporsi nel panorama culturale della più recente storiografia queer. Ancor più paradossale poi se si menziona l’immediato successo di cui il film, ancor prima di essere distribuito negli Stati Uniti, ha goduto - dopotutto, la sua post vita ha inizio proprio nei circuiti festivalieri: a Locarno ‘85 Hellen Shaver riceverà il premio per la migliore interpretazione nei panni di Vivian Bell; il film poi passerà per Telluride e Toronto, prima di conquistarsi al Sundance dell’86 un premio e una menzione speciale da parte della giuria.
Carol (2015)
Dopo l’uscita nelle sale, Desert Hearts guadagnerà a Patricia Charbonneau, al suo debutto nel ruolo di Cay, una candidatura a miglior attrice durante la seconda edizione degli Indipendent Spirit Awards, mentre la sua distribuzione proseguirà nel continente europeo arrivando, infine, a toccare l’Italia nell’estate dell’88. Ancor prima del restauro digitale nel 2017 da parte di Janus e prima della distribuzione in dvd da parte di Criterion, la pellicola verrà riproiettata su una copia originale al MoMA, e su un’altra durante l’edizione del 2016 dell’Outfest, uno tra i festival più importanti, insieme al MIX di New York, del cinema queer statunitense.
Sulla scia del suo revival, in una retrospettiva promossa dal dipartimento d’arte della UCLA, Desert Hearts è stato proiettato insieme ad altre opere manifesto della storiografia queer del cinema indie: sono gli short film sperimentali di Jim Hubbard, il quale è, proprio insieme a Sarah Schulman, il fondatore di MIX e il creatore di ACT UP, la prima organizzazione no-profit impegnata in campagne di sensibilizzazione sull’AIDS, nata all’epoca della sua diffusione e della conseguente strumentalizzazione da parte dell’ideologia reaganiana. ACT UP conta della partecipazione di voci e testimonianze queer indispensabili alla sistematizzazione di una subcultura già non come istituzionalizzazione di una vita alternativa, bensì come messa a fuoco di ciò che significa l’identità queer in opposizione a quella non queer, in aggiunta ai diversi soggetti artistici che affrontano tematiche esclusivamente queer.
Tra questi c’è Larry Kramer, autore del dramma The Normal Heart, da cui Ryan Murphy nel 2014 ha tratto l’omonimo adattamento televisivo con Mark Ruffalo e Julia Roberts; anche Vito Russo è stato un attivo promotore di ACT UP, ed è all’interno della sua opera letteraria più nota, The Celluloid Closet (Loschermo velato) da cui Rob Epstein (Lovelace, Howl) ha tratto il docu-film narrato da Lily Tomlin, che lo scrittore newyorkese riporta ciò che lo ha colpito di più del trattamento di Deitch di Desert Hearts: l’assenza, esplicita, di reazioni dirette alla ricezione dell’omosessualità femminile, in risposta al focus centrale che è l’amore tra due donne e in vista di un’audience più variegata che, all’epoca, non era abituata a vedere tali rappresentazioni nelle sale dei grandi cinema.
The Normal Heart (2014)
La scelta di Rule di non personificare la condanna pubblica all’omosessualità nel romanzo, attraverso le classiche costruzioni antagoniste, è osservata da Deitch nella semplificazione delle riflessioni dei suoi personaggi attraverso una storia la cui esperienzialità vive nel legame che i loro pensieri intrattengono con lo spazio dell’ambiente e il tempo della narrazione, non con l’arena. Se i pochi maschi presenti nel film accettano con ironia e serenità la sfacciata sessualità della bella del paese, questo è perché il rifiuto sociale non subisce un trattamento convenzionale: sono le grandi finestre dalle quali Vivian contempla gli sterminati spazi del deserto, ma anche le tele su cui Frances dipinge scene delle Sacre Scritture e gli specchi attraverso cui Cay vede riflesso il desiderio per Vivian, che partecipano, insieme alle protagoniste, della loro parabola evolutiva.
Per quanto tre soggettività distinte, i femminili di Desert Hearts, oltre ad essere affermazione ognuna di una visione unica, drammatizzano ciascuna una risposta personale al lutto, la condizione che segue la constatazione di una differenza: nell’insegnante di New York l’infelicità causa la fuga dalla convenzione matrimoniale e si riflette nel vuoto che i paesaggi desertici le trasmettono; per la matrigna la perdita del suo uomo è causa della propria malinconia e della sua paura costante d’abbandono; mentre la giovane colma la morte della figura paterna con l’affermazione di un carattere irrequieto che riflette la sua libertà sessuale. Ma, che sia una corsa verso o una fuga dal desiderio, o semplicemente il suo ricordo luttuoso, la narrazione che Deitch porta sullo schermo serve all’individuazione di soggetti che, invece di evadere dalla propria condizione, sono alla ricerca di un tempo e spazio per creare nuove descrizioni.
L’assenza di un vero e proprio antagonista in una storia d’amore minacciata dalle norme sociali che regolano la morale proibizionista di un paradigma passato, se da una parte sembra togliere vitalità all’intreccio di una storia da vendere, è scelta poetica indispensabile in quanto il dissidio interiore che le due amanti vivono è registrato dal rapporto che l’una intrattiene con l’altra, oltre alla visione del mondo a loro circostante: per Cay è uno spazio familiare, un deserto dove esercitare la propria libertà, ma è anche metafora del vuoto che persiste nel suo cuore solitario; per Vivian il deserto, dopo il vuoto iniziale che riflette, le serve a comprendere che, prima d’allora, non aveva mai riconosciuto la propria vera identità.
La loro conoscenza, scandita dai viaggi in macchina e dalle passeggiate a cavallo, muta progressivamente la percezione dello spazio condiviso: dopo la fuga dalla festa di fidanzamento di Silver, Vivian e Cay guardano l’alba sulla riva del famoso lago Pyramid, e dopo il climatico bacio tra le due, lo sfondo arido e desolato scompare dalla narrazione facendo spazio ai grigi e squallidi interni di bar e abitazioni impersonali che riflettono la segretezza del loro amore, fino alla stanza d’albergo dove, finalmente, si consuma una delle scene d’amore più intense e delicate mai realizzate nella storia del cinema: “Era solo un bacio amichevole, innocente”, prova a giustificarsi Vivian che cerca di resistere alle tentazioni di Cay, che non le crede e le si avvicina. Il loro amore è un fragile cammino in equilibrio tra paura e desiderio, e la posa finale, alla finestra con vista sulla metropoli illuminata, dove Cay e Vivian nude si abbraciano, sancisce la matericità, reale, della loro prima e ultima tappa.
Il bacio tra Vivian e Cay
“In the desert of the heart, let the healing fountain start”, recita un verso di Auden da cui Rule ha ispirato il titolo del suo romanzo: il cambio semantico –dal deserto nel cuore ai cuori del deserto o cuori nel deserto –suggerisce, da sé, la via trivial-romantica che la produzione filmica ha scelto di percorrere. Quella che poi dall’autrice stessa è stata definita una “bellissima semplificazione” è comunque l’esito di un lavoro di diffusione e quindi, in un certo senso, un’opera di banalizzazione: i temi affrontati dalla scrittura non possono necessariamente esser ricompresi, tutti, nella sua riproduzione cinematografica. E come sostiene Schulman a proposito del film, nella sua recensione prima pubblicata su «Gay Community News» nel 1986 e rivista poi nel 2018: “Prima di Desert Hearts, la produzione di cinematografia lesbica era legata esclusivamente a film sperimentali, personali e indipendenti, con una distribuzione limitata”; croce e delizia di una controcultura che fonda la propria prassi anche nell’autonomizzazione senza normazione, la missione di Donna Deitch ha del sensazionale nel tentativo principale di de-sensazionalizzare l’omosessualità femminile, che nelle rappresentazioni artistiche dell’epoca non drammatizzava altro che amori struggenti, storie morte sul nascere e donne pronte a lanciarsi dalle scogliere. È, certamente, un grosso passo in avanti per la rappresentazione; uno più piccolo, forse, per l’elaborazione artistica.
Cos’è che fa, però, del debutto al cinema di Deitch un’opera così unica e irripetibile, tanto da averle meritata, da quindici anni a questa parte, l’etichetta di film-manifesto del cinema lesbico? Anzitutto, il trattamento dell’omosessualità femminile: dal romanzo la regista prende una storia d’amore che si consuma all’ombra dello sposalizio normativo poiché entrambe le protagoniste sono donne consapevoli, più che della loro differenza, del loro rifiuto di vivere in una condizione di normalità; in seconda istanza, alla luce di un sentimento intellettuale che unisce le due donne in una scoperta identitaria da una parte, e il disvelamento del primo vero amore dall’altra, la parabola romantica acquista un senso ancor più profondo perché si equivale al percorso stesso di guarigione dei loro cuori soli e/o infranti.
Parte della critica cinematografica, nonostante abbia apprezzato l’opera di diffusione di una storia d’amore al femminile, a lungo ha mostrato riserve verso i temi affrontati e le tecniche formali in cui un documento letterario queer è stato restituito sotto forma di una storia d’amore banale, prevedibile, sul dispositivo cinematografico; nondimeno, è giusto ricordare che non sempre una scrittura complessa mantiene vivi tutti i livelli di lettura nella sua riduzione. La regia di Deitch tenta di descrivere il delicato gioco di ruoli di due innamorate che, come il copione sociale richiede, devono interpretare ruoli che rifiutano. Nonostante la trasposizione del copione ne soffra un po’, i dialoghi arguti riflettono una scrittura raffinata, e le performance attoriali collaborano a rendere un’opera che, più che rifarsi alle psichedelie pioneristiche di un Waters, brevetta una nuova estetica che sperimenta tra vecchio formalismo hollywoodiano e neo-ermeneutiche postmoderne.
Donna Deitch sul set di Desert Hearts (1985)
Anche la ricostruzione del paradigma storico, in un’epoca corporativa affettata dall’estetica yuppie degli anni Ottanta, poeticamente mostra un eccesso di manierismo, già previsto dalla fissità di una fotografia semplice e appesantito forse da un montaggio ironicamente tradizionale che, preferendo la tecnica dello slide into al fade into o al cut to, registra la consequenzialità degli eventi secondo un ritmo che parodizza l’epopea del melò della Golden Age di Hollywood. Ma probabilmente è proprio questo il fine della regia di Deitch, l’uso di stilemi consolidati dal vecchio cinema per veicolare nuovi contenuti autorizzati dalla nuova letteratura: lo straniamento dell’ambiente equivale, precisamente, all’effetto parodistico della messa in atto delle sue componenti.
Il set design, dalle cucine ultra-accessoriate di grandi ranch ai fumosi abitacoli illuminati dai neon di diner notturni, restituisce un sapore piacevolmente artificiale alla scena, e i costumi, dai tailleur satinati di Vivian agli spezzati polverosi di Cay, fino agli abiti dei cowboys e delle Dame del sud ricamati di strass, borchie e paillettes, non puntano tanto all’identificazione col paradigma descritto dalla storia quanto più a una messa in ridicolo della sua stessa tradizione estetica, più in linea con i drammi firmati da Todd Haynes e meno in sintonia con la ricostruzione del recente Love Lies Bleeding. Non pulp ma nemmeno camp, questo film si scosta anche da variazioni sul tema alla Thelma & Louise, come l’ultimo saffico Drive-Away Dolls (2024) perché non risponde neanche al road-movie: il cuore pulsante della storia, in Desert Hearts, non si trova fuori nel deserto del Nevada, ma risiede proprio nel cuore delle sue protagoniste.
“Ci sono così tante cose che voglio fare ma che ho paura di provare!”, Cay confessa a Vivian in una delle scene iniziali; mentre guarda la giovane correre libera sul suo cavallo, l’insegnante timorosa invece prende coraggio e si toglie la fede nuziale. L’innovazione di Desert Hearts sta nell’essere, a tutti gli effetti, uno psicodramma dallo stampo unico che unisce sentimento personale e descrizione convenzionale in un percorso di affermazione identitaria e di riappropriazione emotiva. Quando Frances si definisce nient’altro che “un paio di mani e un volto familiare”, capiamo che il messaggio trova conferma poetica proprio nelle descrizioni che le protagoniste fanno di sé e dalle quali cercano, continuamente, di sfuggire. Dietro lo sfarzo della farsa risiede l’essenza drammaturgica di una parabola più complessa che, al giorno d’oggi, ancora non trova riscontro.
Desert Hearts (1985)
Ma la spiegazione di una differenza, la sua comunicazione, non regge il confronto con la portata di un sentimento non rappresentato né rappresentabile: “Tu stai solo visitando la mia vita”, dice Cay a Vivian che sta per tornare a New York City e desidera che la ragazza la segua. “Tu insisti tanto affinché gli altri vedano le cose come le vedi tu!”, Vivian la accusa, ma Cay le risponde: “Mi comporto così proprio affinché il mondo non cambi me!”. Entrambe, nella loro drammatica resistenza al cambiamento, finiscono per essere cambiate dal loro stesso amore che destabilizza la loro autonomia descrittiva. In questa prospettiva, la storia d’amore si riconfigura in una parabola che è anche perdita di una vecchia identità e conquista di una nuova, attraverso la riaffermazione individuale di due soggettività che, con lo scorrere del tempo della narrazione, scoprono finalmente l’amore tematico narrato.
Una nuova love story, un instant classic, i tempi attuali la definirebbero; ma pure melodramma sui generis della resistenza al cambiamento che l’amore porta e tensione tragica tra ricerca di un’identità e scoperta di un sentimento che la confermi o la smentisca: tutto questo è Desert Hearts. Ma è anche documento fondamentale della storia del cinema queer statunitense e mondiale, oltre che viva testimonianza del cambiamento che trattamenti del genere ricevono nell’alveo della produzione più mainstream e delle ricezioni più commerciali. E dato che siamo in tema di cambiamento, Cay e Vivian, che tanto provano a resistergli, ne escono, alla fine, dolcemente sconfitte.
L’insegnante, ora una donna libera, può tornare a casa dove vivrà la sua autonomia conquistata; la giovane artista, perdutamente innamorata della donna, ha messo in discussione la sua intera esistenza nel deserto e il suo rapporto problematico con Frances: “Non lo capirò mai”, confusa la matrigna confessa l’incomprensione dell’amore che Cay prova per Vivian e insieme per le donne. La figliastra la rassicura: “È semplicemente arrivata e ha messo un fascio di luci attorno al mio cuore”. Il finale, chiaramente ripreso da Charline Bourgeois-Tacquet ne Les Amours d'Anaïs ( Gli amori di Anaïs 2021), invece di chiudere la storia, riprende l’inizio sovvertendone però l’esito––paradossale, proprio come un cuore in mezzo al deserto. Questo è l’amore nella forza del suo cambiamento. Il tempo, non solo quello della diegesi o quello narrativo, ma anche quello della restituzione storica del capolavoro che è Desert Hearts, è suo ultimo testimone.
Desert Hearts, ritratto di un'amore
in bilico tra desiderio e identità,
di Pavel Belli Micati
TR-127
12.04.2025
La saggista statunitense Sarah Schulman, autrice di opere di storia queer americana come The Gentrification of the Mind, già negli anni Novanta, sul finire dell’emergenza AIDS, scriveva dell’assenza fattuale di rappresentazioni queer femminili, non solo nella cinematografia statunitense, ma in generale nella cultura letteraria mondiale. Schulman non condannava la mancanza di narrazioni a tematica gay, bensì lamentava dell’assenza di storie specificamente lesbiche. L’osservazione, anche a distanza di trent’anni, rimane valida seppur parziale: il panorama odierno è pieno di rappresentazioni queer femminili, e produzioni più recenti come La Vie d’Adèle (La vita di Adele, 2013) e Love Lies Bleeding (2024) hanno sollevato la censura apportata al tema “donne che amano altre donne”; resta di fatto che la critica di Schulman è pervasiva oggi più che in passato perché risultante da un’epoca dove la comunità queer, che viveva di teorie e pratiche intersezionali descritte dalle filosofie decostruzioniste degli anni Settanta, era allora minacciata da un’emergenza di tipo sanitario ma, soprattutto, cancellata dal trattamento, ideologico, che le politiche di prevenzione riservavano loro.
Post-AIDS le direttive sono cambiate, tra cui anche l’intersezionalità delle cause nella battaglia per i diritti civili; la de-stigmatizzazione dell’omosessualità ha giovato al paradigma queer nella misura in cui molti individui, a maggioranza di sesso maschile, sono entrati a pieno diritto all’interno del mondo normato (e normativo) della cultura egemone. Registi gay, attori gay e film gay: oggi ne contiamo una discreta quantità. Ma dove sono le registe lesbiche, le attrici lesbiche, i film a tema lesbico?
Love Lies Bleeding (2024)
È il 1959, ci troviamo in Nevada. Vivian Bell, una professoressa d’inglese alla Columbia, approda nella piccola cittadina di Reno dopo un lungo viaggio in treno da New York City. La donna, da poco separatasi dal marito, si trasferisce nello stato di Las Vegas perché uno dei pochi, all’epoca, a disporre di una legislazione che facilita la burocrazia per i divorzi veloci. Vivian è ospite di Frances, una donna che gestisce una pensioncina in un ranch che accoglie altre donne in via di separazione. Durante il viaggio in macchina appare sulla scena Cay, la figliastra di Frances, adottata dalla donna anni prima quando ha conosciuto Glenn, il padre della giovane e compagno della donna, scomparso da tempo. Cay, una soggettività femminile libera da costrizioni e lontana dai costumi tradizionali, portavoce di una nuova generazione, è il classico prototipo di ragazza moderna dallo spirito ribelle: lavora al casinò di Reno e nel tempo libero fa la scultrice, vive tranquillamente la propria sessualità, s’incontra con donne diverse e rifiuta le avances di colleghi e amici maschi che fanno invece il tifo per lei.
Vivian la incontra, per la prima volta, mentre la ragazza è alla guida sfrenata di una decappottabile in retromarcia sulla corsia opposta a quella dove corre la macchina di Frances, e la timida forestiera in visita rimane subito colpita dalla giovane autoctona in fiamme. Queste sono le premesse dell’esordio al cinema di Donna Deitch Desert Hearts (1986), uno dei film riscoperti e antologizzati all’interno della più recente storiografia cinematografica queer statunitense che è stato ripresentato l'11 aprile al Festival Immaginaria.
Sotto l’egida di Obama, gli Stati Uniti hanno sconfessato alcuni dei temi sociali affrontati dal dibattito culturale, tra cui l’omoaffettività, il sex-work e il nomadismo, sostituendo alla Grande Storia Americana tante e diversificate storie di individuazione personale. In questo senso, anche il post-romanticismo del Terzo Millennio ha aiutato: così, la normalizzazione dei paradigmi queer ha permesso di restituire una storia della resistenza alla norma, spesso descritta dalle azioni coraggiose di membri della comunità gay, illuminando di fatto la ricca tradizione della cultura omosessuale che, nella vittoria di Moonlight (2016) di Barry Jenkins all’87esima edizione degli Oscar come Miglior Film, trova piena dignità tematica nel trattamento in produzioni più commerciali.
Moonlight (2016) di Barry Jenkins
Questo percorso di riscatto adesso però punta i fari sull’assenza di una storiografia queer al femminile ufficiale. Se dai moti di Stonewall si può tracciare una filiazione che, da trasposizioni biografiche di successo alla Milk (2008) approda ai nuovi testamenti estetici di Dolan, riscoprendo l’eredità stravagante di un Waters o quella allucinata di un Araki, da dove germoglia, precisamente, tutta quella cultura queer femminile che ispira le recenti operazioni di una Seligman o una Sciamma? La domanda, posta più semplicemente, è la seguente: se esiste un cinema gay, può esistere anche un cinema lesbico? Se My Own Private Idaho (1991) ad esempio, è considerato il manifesto del cinema statunitense a tematica gay, qual allora è quello lesbico?
“Ho sempre vissuto in città. Non so cosa farmene di tutto questo spazio”: si pronuncia Vivian Bell che non ha mai messo piede fuori Manhattan; Frances che invece è originaria di Reno le risponde: “Io lo vedo come il giardino sul retro di Dio”. Un luogo caldo e arido dove non prodursi in grandi riflessioni, bere molto thè ghiacciato e attendere che le carte per il divorzio siano ufficializzate. I panorami desertici della regione rocciosa fanno così da eco all’esilio personale della protagonista, una sorta di confino ideologico in cui la donna di città affronta il proprio passato, ma anche un limbo emotivo minacciato dall’attrazione che l’insegnante comincia a provare nei confronti della figliastra della sua host.
Infatti, se da un lato il soggiorno di Vivian funge da confronto del femminile in rottura con l’istituzione patriarcale, narrato dagli incontri con l’avvocato che si occupa del divorzio della donna e avanza domande sempre più personali sulle ragioni della sua scelta, dall’altro la sosta drammatizzata in Desert Hearts si presta anche a metafora di un percorso di individuazione lesbica. Cay rappresenta un nuovo, energico femminile in rivolta, mentre Vivian è la trasfigurazione di una descrizione sul viale del tramonto: “Desideravo qualcosa di impossibile da analizzare logicamente… Volevo liberarmi di ciò che ero stata”, Vivian argomenta a Mr. Warner, il legale che le chiede se, dietro alle sue ragioni esplicitate, non si nasconda qualcos’altro.
“Allora, è meglio propendere per la violenza psicologica…” risponde Mr. Warner, che si mostra sorpreso dalla scelta di divorziare senza una giusta causa come l’infedeltà o l’impotenza, ma semplicemente perché il matrimonio contratto dodici anni prima con Mr. Bell è causa della sua infelicità. “Noi non ci siamo mai fatti del male però”, replica la donna che viene interrotta dal legale: “È solo un termine generico”, la rassicura l’uomo che vaglia l’ipotesi più facile delle fantomatiche “differenze inconciliabili”. “Mr. Warner, potrei passare il resto della mia vita da sola. Ho preso una decisione molto difficile, e non sulla base di un paio di emicranie”, assertiva risponde Vivian, che pretende che la sua scelta, dolorosa per lei, venga compresa nella totale onestà del sentimento che la muove.
L'arrivo di Vivian Bell alla stazione di Reno
E, tra il lutto della perdita e il desiderio di solitudine, ecco che si fonda la ricerca personale della verità della donna. Nondimeno, è anche sulla dicotomia tra ragione e sentimento che si regge la sua battaglia inconscia. Vivian vive un dissidio interiore: desidera attivamente scindere i rapporti con l’istituzione matrimoniale; nel suo profondo, però, la donna in visita a Reno è ostaggio delle proprie pulsioni, rincarate dal sentimento che prova verso la sensuale Cay, all’inizio confuso ma poi esplicitato dal rapporto sempre più intimo che le due istaurano, un amore che sboccia lungo le sei settimane che passano dall’arrivo di Vivian in Nevada e il suo ritorno, post-divorzio, a New York.
Così, tra servizi ai tavoli, scappatelle con altre donne, furti nella dispensa di Frances e feste di fidanzamento di amiche, Cay comincia a fare spazio nella sua vita alla malinconia di Vivian, che da quando è ospite lì non riesce a chiudere occhio. Le due vanno a cavallo insieme, Vivian le fa visita al casinò, Cay la guarda di notte che dorme. Vivian, che è una donna di mondo, una mente colta e intellettuale nel mezzo del proprio percorso di emancipazione dall’istituzione coniugale, deve trovare il tempo e lo spazio necessari a confessare, prima di tutto a se stessa, la propria identità sessuale, ancora incerta e fuori fuoco; mentre Cay, che invece vive liberamente la propria, comincia a provare per la donna dei sentimenti che vanno oltre l’attrazione fisica. È nell’imprudenza dell’una e nella riservatezza dell’altra che s’istaura il famoso gioco degli opposti che si attraggono, ma la tensione erotica che cresce tra le due fautrici di due mondi antitetici è problematizzata da Frances, che invece è la trasfigurazione della vedovanza.
Desert Hearts è anche una storia di donne che dormono male la notte perché perseguitate dall’ombra degli stessi ruoli che sono costrette a interpretare. Frances, che non vede di buon occhio la sessualità di Cay, non è davvero intimorita dall’identità della figliastra, che all’epoca era ritenuta deviante; è terrorizzata, piuttosto, che la giovane scappi con Vivian, lasciandola sola con il ranch e i fantasmi lasciati dalla morte di Glenn.
Desert Hearts (1985)
Tratto dal romanzo del 1964 di Jane Rule, Desert of the Heart, e distribuito nelle sale statunitensi nella primavera del 1986, l’adattamento di Donna Deitch di una pietra miliare della narrativa lesbica è un unicum nel panorama queer della storia del cinema, non solo perché una tra le maggiori opere audiovisive a raccontare di una storia d’amore interamente al femminile, ma anche perché la pellicola si allontana dalle estetiche su cui recenti riduzioni di vecchie restituzioni, come i drammi in costume alla Portrait of a Lady on Fire (Ritratto della giovane in fiamme, 2019) di Sciamma o Carol (2015) di Haynes, innestano le loro curate poetiche.
Se la ricezione gode di rinnovato successo in quanto la sua riscoperta si accompagna alla storia della sua fonte originaria, composta da Rule alla fine degli anni Cinquanta e rifiutata da oltre ben venti editori prima di apparire in Canada a metà degli anni Sessanta, in parte è anche merito di una sensibilità attenta e raffinata come quella di Deitch che, come debutto alla regia, sceglie l’elaborazione di una complessa parabola di individuazione identitaria che risuona sia come nuova storia d’amore sia come riflessione filosofica sulla solitudine e la differenza del sentimento queer e della condizione omosessuale femminile. La storia stessa della sua produzione è degna di menzione: prodotto con solo un milione e mezzo di dollari raccolti in una campagna di finanziamento durata quattro anni, per completare il film la regista arrivò persino a ipotecarsi la casa.
Non serve interrogarsi sulle ragioni di una così lunga gestazione, le tematiche esplorate da Deitch non erano di particolare gradimento alla sensibilità del tempo; anche se negli Usa degli anni Ottanta il processo di decriminalizzazione dell’omosessualità era già in atto da una quindicina d’anni. Sarebbe comunque riduttivo però glissare sulle difficoltà che una storia come quella di Jane Rule ha affrontato per imporsi nel panorama culturale della più recente storiografia queer. Ancor più paradossale poi se si menziona l’immediato successo di cui il film, ancor prima di essere distribuito negli Stati Uniti, ha goduto - dopotutto, la sua post vita ha inizio proprio nei circuiti festivalieri: a Locarno ‘85 Hellen Shaver riceverà il premio per la migliore interpretazione nei panni di Vivian Bell; il film poi passerà per Telluride e Toronto, prima di conquistarsi al Sundance dell’86 un premio e una menzione speciale da parte della giuria.
Carol (2015)
Dopo l’uscita nelle sale, Desert Hearts guadagnerà a Patricia Charbonneau, al suo debutto nel ruolo di Cay, una candidatura a miglior attrice durante la seconda edizione degli Indipendent Spirit Awards, mentre la sua distribuzione proseguirà nel continente europeo arrivando, infine, a toccare l’Italia nell’estate dell’88. Ancor prima del restauro digitale nel 2017 da parte di Janus e prima della distribuzione in dvd da parte di Criterion, la pellicola verrà riproiettata su una copia originale al MoMA, e su un’altra durante l’edizione del 2016 dell’Outfest, uno tra i festival più importanti, insieme al MIX di New York, del cinema queer statunitense.
Sulla scia del suo revival, in una retrospettiva promossa dal dipartimento d’arte della UCLA, Desert Hearts è stato proiettato insieme ad altre opere manifesto della storiografia queer del cinema indie: sono gli short film sperimentali di Jim Hubbard, il quale è, proprio insieme a Sarah Schulman, il fondatore di MIX e il creatore di ACT UP, la prima organizzazione no-profit impegnata in campagne di sensibilizzazione sull’AIDS, nata all’epoca della sua diffusione e della conseguente strumentalizzazione da parte dell’ideologia reaganiana. ACT UP conta della partecipazione di voci e testimonianze queer indispensabili alla sistematizzazione di una subcultura già non come istituzionalizzazione di una vita alternativa, bensì come messa a fuoco di ciò che significa l’identità queer in opposizione a quella non queer, in aggiunta ai diversi soggetti artistici che affrontano tematiche esclusivamente queer.
Tra questi c’è Larry Kramer, autore del dramma The Normal Heart, da cui Ryan Murphy nel 2014 ha tratto l’omonimo adattamento televisivo con Mark Ruffalo e Julia Roberts; anche Vito Russo è stato un attivo promotore di ACT UP, ed è all’interno della sua opera letteraria più nota, The Celluloid Closet (Loschermo velato) da cui Rob Epstein (Lovelace, Howl) ha tratto il docu-film narrato da Lily Tomlin, che lo scrittore newyorkese riporta ciò che lo ha colpito di più del trattamento di Deitch di Desert Hearts: l’assenza, esplicita, di reazioni dirette alla ricezione dell’omosessualità femminile, in risposta al focus centrale che è l’amore tra due donne e in vista di un’audience più variegata che, all’epoca, non era abituata a vedere tali rappresentazioni nelle sale dei grandi cinema.
The Normal Heart (2014)
La scelta di Rule di non personificare la condanna pubblica all’omosessualità nel romanzo, attraverso le classiche costruzioni antagoniste, è osservata da Deitch nella semplificazione delle riflessioni dei suoi personaggi attraverso una storia la cui esperienzialità vive nel legame che i loro pensieri intrattengono con lo spazio dell’ambiente e il tempo della narrazione, non con l’arena. Se i pochi maschi presenti nel film accettano con ironia e serenità la sfacciata sessualità della bella del paese, questo è perché il rifiuto sociale non subisce un trattamento convenzionale: sono le grandi finestre dalle quali Vivian contempla gli sterminati spazi del deserto, ma anche le tele su cui Frances dipinge scene delle Sacre Scritture e gli specchi attraverso cui Cay vede riflesso il desiderio per Vivian, che partecipano, insieme alle protagoniste, della loro parabola evolutiva.
Per quanto tre soggettività distinte, i femminili di Desert Hearts, oltre ad essere affermazione ognuna di una visione unica, drammatizzano ciascuna una risposta personale al lutto, la condizione che segue la constatazione di una differenza: nell’insegnante di New York l’infelicità causa la fuga dalla convenzione matrimoniale e si riflette nel vuoto che i paesaggi desertici le trasmettono; per la matrigna la perdita del suo uomo è causa della propria malinconia e della sua paura costante d’abbandono; mentre la giovane colma la morte della figura paterna con l’affermazione di un carattere irrequieto che riflette la sua libertà sessuale. Ma, che sia una corsa verso o una fuga dal desiderio, o semplicemente il suo ricordo luttuoso, la narrazione che Deitch porta sullo schermo serve all’individuazione di soggetti che, invece di evadere dalla propria condizione, sono alla ricerca di un tempo e spazio per creare nuove descrizioni.
L’assenza di un vero e proprio antagonista in una storia d’amore minacciata dalle norme sociali che regolano la morale proibizionista di un paradigma passato, se da una parte sembra togliere vitalità all’intreccio di una storia da vendere, è scelta poetica indispensabile in quanto il dissidio interiore che le due amanti vivono è registrato dal rapporto che l’una intrattiene con l’altra, oltre alla visione del mondo a loro circostante: per Cay è uno spazio familiare, un deserto dove esercitare la propria libertà, ma è anche metafora del vuoto che persiste nel suo cuore solitario; per Vivian il deserto, dopo il vuoto iniziale che riflette, le serve a comprendere che, prima d’allora, non aveva mai riconosciuto la propria vera identità.
La loro conoscenza, scandita dai viaggi in macchina e dalle passeggiate a cavallo, muta progressivamente la percezione dello spazio condiviso: dopo la fuga dalla festa di fidanzamento di Silver, Vivian e Cay guardano l’alba sulla riva del famoso lago Pyramid, e dopo il climatico bacio tra le due, lo sfondo arido e desolato scompare dalla narrazione facendo spazio ai grigi e squallidi interni di bar e abitazioni impersonali che riflettono la segretezza del loro amore, fino alla stanza d’albergo dove, finalmente, si consuma una delle scene d’amore più intense e delicate mai realizzate nella storia del cinema: “Era solo un bacio amichevole, innocente”, prova a giustificarsi Vivian che cerca di resistere alle tentazioni di Cay, che non le crede e le si avvicina. Il loro amore è un fragile cammino in equilibrio tra paura e desiderio, e la posa finale, alla finestra con vista sulla metropoli illuminata, dove Cay e Vivian nude si abbraciano, sancisce la matericità, reale, della loro prima e ultima tappa.
Il bacio tra Vivian e Cay
“In the desert of the heart, let the healing fountain start”, recita un verso di Auden da cui Rule ha ispirato il titolo del suo romanzo: il cambio semantico –dal deserto nel cuore ai cuori del deserto o cuori nel deserto –suggerisce, da sé, la via trivial-romantica che la produzione filmica ha scelto di percorrere. Quella che poi dall’autrice stessa è stata definita una “bellissima semplificazione” è comunque l’esito di un lavoro di diffusione e quindi, in un certo senso, un’opera di banalizzazione: i temi affrontati dalla scrittura non possono necessariamente esser ricompresi, tutti, nella sua riproduzione cinematografica. E come sostiene Schulman a proposito del film, nella sua recensione prima pubblicata su «Gay Community News» nel 1986 e rivista poi nel 2018: “Prima di Desert Hearts, la produzione di cinematografia lesbica era legata esclusivamente a film sperimentali, personali e indipendenti, con una distribuzione limitata”; croce e delizia di una controcultura che fonda la propria prassi anche nell’autonomizzazione senza normazione, la missione di Donna Deitch ha del sensazionale nel tentativo principale di de-sensazionalizzare l’omosessualità femminile, che nelle rappresentazioni artistiche dell’epoca non drammatizzava altro che amori struggenti, storie morte sul nascere e donne pronte a lanciarsi dalle scogliere. È, certamente, un grosso passo in avanti per la rappresentazione; uno più piccolo, forse, per l’elaborazione artistica.
Cos’è che fa, però, del debutto al cinema di Deitch un’opera così unica e irripetibile, tanto da averle meritata, da quindici anni a questa parte, l’etichetta di film-manifesto del cinema lesbico? Anzitutto, il trattamento dell’omosessualità femminile: dal romanzo la regista prende una storia d’amore che si consuma all’ombra dello sposalizio normativo poiché entrambe le protagoniste sono donne consapevoli, più che della loro differenza, del loro rifiuto di vivere in una condizione di normalità; in seconda istanza, alla luce di un sentimento intellettuale che unisce le due donne in una scoperta identitaria da una parte, e il disvelamento del primo vero amore dall’altra, la parabola romantica acquista un senso ancor più profondo perché si equivale al percorso stesso di guarigione dei loro cuori soli e/o infranti.
Parte della critica cinematografica, nonostante abbia apprezzato l’opera di diffusione di una storia d’amore al femminile, a lungo ha mostrato riserve verso i temi affrontati e le tecniche formali in cui un documento letterario queer è stato restituito sotto forma di una storia d’amore banale, prevedibile, sul dispositivo cinematografico; nondimeno, è giusto ricordare che non sempre una scrittura complessa mantiene vivi tutti i livelli di lettura nella sua riduzione. La regia di Deitch tenta di descrivere il delicato gioco di ruoli di due innamorate che, come il copione sociale richiede, devono interpretare ruoli che rifiutano. Nonostante la trasposizione del copione ne soffra un po’, i dialoghi arguti riflettono una scrittura raffinata, e le performance attoriali collaborano a rendere un’opera che, più che rifarsi alle psichedelie pioneristiche di un Waters, brevetta una nuova estetica che sperimenta tra vecchio formalismo hollywoodiano e neo-ermeneutiche postmoderne.
Donna Deitch sul set di Desert Hearts (1985)
Anche la ricostruzione del paradigma storico, in un’epoca corporativa affettata dall’estetica yuppie degli anni Ottanta, poeticamente mostra un eccesso di manierismo, già previsto dalla fissità di una fotografia semplice e appesantito forse da un montaggio ironicamente tradizionale che, preferendo la tecnica dello slide into al fade into o al cut to, registra la consequenzialità degli eventi secondo un ritmo che parodizza l’epopea del melò della Golden Age di Hollywood. Ma probabilmente è proprio questo il fine della regia di Deitch, l’uso di stilemi consolidati dal vecchio cinema per veicolare nuovi contenuti autorizzati dalla nuova letteratura: lo straniamento dell’ambiente equivale, precisamente, all’effetto parodistico della messa in atto delle sue componenti.
Il set design, dalle cucine ultra-accessoriate di grandi ranch ai fumosi abitacoli illuminati dai neon di diner notturni, restituisce un sapore piacevolmente artificiale alla scena, e i costumi, dai tailleur satinati di Vivian agli spezzati polverosi di Cay, fino agli abiti dei cowboys e delle Dame del sud ricamati di strass, borchie e paillettes, non puntano tanto all’identificazione col paradigma descritto dalla storia quanto più a una messa in ridicolo della sua stessa tradizione estetica, più in linea con i drammi firmati da Todd Haynes e meno in sintonia con la ricostruzione del recente Love Lies Bleeding. Non pulp ma nemmeno camp, questo film si scosta anche da variazioni sul tema alla Thelma & Louise, come l’ultimo saffico Drive-Away Dolls (2024) perché non risponde neanche al road-movie: il cuore pulsante della storia, in Desert Hearts, non si trova fuori nel deserto del Nevada, ma risiede proprio nel cuore delle sue protagoniste.
“Ci sono così tante cose che voglio fare ma che ho paura di provare!”, Cay confessa a Vivian in una delle scene iniziali; mentre guarda la giovane correre libera sul suo cavallo, l’insegnante timorosa invece prende coraggio e si toglie la fede nuziale. L’innovazione di Desert Hearts sta nell’essere, a tutti gli effetti, uno psicodramma dallo stampo unico che unisce sentimento personale e descrizione convenzionale in un percorso di affermazione identitaria e di riappropriazione emotiva. Quando Frances si definisce nient’altro che “un paio di mani e un volto familiare”, capiamo che il messaggio trova conferma poetica proprio nelle descrizioni che le protagoniste fanno di sé e dalle quali cercano, continuamente, di sfuggire. Dietro lo sfarzo della farsa risiede l’essenza drammaturgica di una parabola più complessa che, al giorno d’oggi, ancora non trova riscontro.
Desert Hearts (1985)
Ma la spiegazione di una differenza, la sua comunicazione, non regge il confronto con la portata di un sentimento non rappresentato né rappresentabile: “Tu stai solo visitando la mia vita”, dice Cay a Vivian che sta per tornare a New York City e desidera che la ragazza la segua. “Tu insisti tanto affinché gli altri vedano le cose come le vedi tu!”, Vivian la accusa, ma Cay le risponde: “Mi comporto così proprio affinché il mondo non cambi me!”. Entrambe, nella loro drammatica resistenza al cambiamento, finiscono per essere cambiate dal loro stesso amore che destabilizza la loro autonomia descrittiva. In questa prospettiva, la storia d’amore si riconfigura in una parabola che è anche perdita di una vecchia identità e conquista di una nuova, attraverso la riaffermazione individuale di due soggettività che, con lo scorrere del tempo della narrazione, scoprono finalmente l’amore tematico narrato.
Una nuova love story, un instant classic, i tempi attuali la definirebbero; ma pure melodramma sui generis della resistenza al cambiamento che l’amore porta e tensione tragica tra ricerca di un’identità e scoperta di un sentimento che la confermi o la smentisca: tutto questo è Desert Hearts. Ma è anche documento fondamentale della storia del cinema queer statunitense e mondiale, oltre che viva testimonianza del cambiamento che trattamenti del genere ricevono nell’alveo della produzione più mainstream e delle ricezioni più commerciali. E dato che siamo in tema di cambiamento, Cay e Vivian, che tanto provano a resistergli, ne escono, alla fine, dolcemente sconfitte.
L’insegnante, ora una donna libera, può tornare a casa dove vivrà la sua autonomia conquistata; la giovane artista, perdutamente innamorata della donna, ha messo in discussione la sua intera esistenza nel deserto e il suo rapporto problematico con Frances: “Non lo capirò mai”, confusa la matrigna confessa l’incomprensione dell’amore che Cay prova per Vivian e insieme per le donne. La figliastra la rassicura: “È semplicemente arrivata e ha messo un fascio di luci attorno al mio cuore”. Il finale, chiaramente ripreso da Charline Bourgeois-Tacquet ne Les Amours d'Anaïs ( Gli amori di Anaïs 2021), invece di chiudere la storia, riprende l’inizio sovvertendone però l’esito––paradossale, proprio come un cuore in mezzo al deserto. Questo è l’amore nella forza del suo cambiamento. Il tempo, non solo quello della diegesi o quello narrativo, ma anche quello della restituzione storica del capolavoro che è Desert Hearts, è suo ultimo testimone.