TR-78
22.04.2023
Carl Theodor Dreyer è stato uno dei più grandi registi del cinema europeo. Produttivamente discontinuo, attivo tra la fine degli anni dieci e gli anni cinquanta del Novecento, iniziando ancora ai tempi del cinema muto e senza mai arrivare a sperimentare il colore, Dreyer ha diretto pietre miliari della storia del cinema: la sua succinta filmografia comprende titoli del calibro de La passione di Giovanna d'Arco (1928), Vampyr (1932), Dies Irae (1943), Ordet (Leone d'oro al Festival del Cinema di Venezia nel 1955) e Gertrud (1964), la sua ultima opera. Per comprendere appieno il suo immaginario però non meno importante, nella sua filmografia, risulta essere il progetto irrealizzato di un film sulla vita di Gesù di Nazaret, che Dreyer inseguì a lungo, dagli anni trenta fino al 1968, l'anno della sua morte.
A ben vedere Dreyer, che pure non era credente, ha sempre popolato il suo cinema di figure cristologiche e di echi biblici: dal martirio di Giovanna d'Arco, nel capolavoro datato 1928 dove chiaramente riecheggiano le stazioni della passione di Cristo, fino a Ordet - La parola, un film talmente immerso nell'immaginario cristiano da concludersi con una sorta di sobrissima resurrezione. La sceneggiatura del Gesù mai realizzato, più volte rivista nel corso degli anni, era stata oggetto di una prima pubblicazione da parte dell'Einaudi già nel 1969, a ridosso della morte del regista. A distanza di cinque decenni l'Iperborea, una casa editrice specializzata in letteratura nordica, propone adesso una nuova edizione dello script, frutto di una sovrapposizione filologicamente accurata tra due varianti del testo, che rende questa versione la più completa ricostruzione del progetto di Dreyer. Come scrive il curatore Marco Vanelli nell'introduzione che apre il volume, Dreyer aveva cominciato a fantasticare sul progetto attorno agli anni trenta, «quando in Europa si affermano tendenze antisemite; negli anni della guerra il suo paese viene invaso dai nazisti, stimolandogli un paragone con la Palestina al tempo dei romani».
È sul finire degli anni quaranta che Dreyer conosce Blevins Davis, importante produttore teatrale americano a cui affiderà la ricerca dei fondi per il film: e per ben sedici anni il cineasta continuerà ad aspettarsi da lui la messa in opera del progetto, nonostante l’evidente inaffidabilità del personaggio. Solo nel 1967 Dreyer si deciderà a recidere questo fallimentare legame produttivo, accettando un’offerta della Rai per la realizzazione del progetto; ma morì meno di un anno dopo. In questi trent’anni di elaborazione, molti furono i titoli pianificati: Jesus, Jesus of Nazareth, Gesù l’ebreo, The Life of Jesus, La vita di Cristo, Cristo contro il razzismo, La storia del Gesù ebreo. Non per nulla a un giornalista che nel 1964 gli chiedeva se ancora il progetto cristologico non vedeva la greenlight Dreyer rispondeva di aver girato mentalmente il film così tante volte «che in un certo senso sono ora meglio preparato ad affrontarlo». Interessante è stato l’approccio con cui, almeno a giudicare dal testo presente nell’edizione Iperborea, il regista si è accostato alla figura di Gesù: senza dare credito ai vangeli apocrifi o ad altre leggende sull’infanzia e la vita del profeta, ma sovrapponendo attentamente i quattro vangeli canonici, e seguendo, così, una linea interpretativa molto personale.
Dreyer intendeva dichiaratamente scagionare gli ebrei dall’accusa di deicidio, attribuendo la colpa della morte di Gesù unicamente agli occupanti romani – «qui la storia archetipica non serve a leggere il presente, ma è il contrario: sono i fatti recenti a riplasmare il passato». Sorprendente è la scelta di rimuovere quasi del tutto dalla sua sceneggiatura la figura della madre di Cristo. L’unica volta che nello script compaiono la Madonna e i suoi famigliari ricadono sotto una luce estremamente negativa: dopo che Gesù ha letto in sinagoga la profezia di Isaia sull’avvento del Messia, e aver annunciato ai presenti di essere lui l’uomo destinato a compierla, la Madonna ha un attacco di pianto e i famigliari, direttamente, lo ripudiano. Su questa rimozione-negativizzazione della Vergine probabilmente ha giocato un certo ruolo l’origine danese e “luterana” di Dreyer.
Leggendo le pagine di questo film mai realizzato, è difficile non pensare al Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini che, uscito al cinema nel 1964, provocò le reazioni più disparate tanto dagli esponenti della curia e dell’intellighenzia cattolica quanto dagli intellettuali e dai politici di quella sinistra italiana a cui P.P.P. si riconduceva. Quello tra Carl Dreyer e Pier Paolo Pasolini è, a ben vedere, un chiasmo che va ben al di là del comune interesse per la figura del Cristo e per i cristologismi. La dissonanza non potrebbe essere più forte per quanto riguarda il ruolo giocato nei rispettivi film da Maria: se Dreyer come rilevavamo prima de facto relega il personaggio ai margini del suo script, Pier Paolo Pasolini aveva reso la Madonna una coprotagonista assoluta del suo lungometraggio, compiendo peraltro la scelta, ai tempi controversa, di farla interpretare alla sua stessa madre, Susanna Pasolini.
A differenza delle intenzioni di Dreyer inoltre P.P.P. chiudeva il suo film con la Resurrezione di Cristo, pur senza andare a raccontare gli eventi relativi agli ultimi quaranta giorni trascorsi da Gesù risorto coi discepoli, come la cena di Emmaus o la rivelazione a Tommaso. Una comune assenza riguarda la scena in cui Gesù pronuncia il celebre «tu sei Pietro, e su questa mia pietra fonderò la mia Chiesa». Tradizionalmente questo episodio evangelico è sempre stato inteso come l'atto di fondazione della Chiesa Cattolica, e la sua assenza dalla sceneggiatura dell'irrealizzato Gesù si può spiegare facilmente con il contesto protestante da cui comunque proveniva Dreyer. Più complessa è la questione a proposito del Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini, nato proprio con l'intenzione di seguire, quanto più alla lettera possibile, il testo sacro: lo stesso Pasolini diede spiegazioni un po' contraddittorie della cosa, fino a dire a padre Nazareno Taddei, un gesuita che fu una figura-chiave per il cinema italiano degli anni sessanta, che la scena era venuta male sul set.
I parallelismi tra il capolavoro realizzato da Pasolini nel 1964 e il film mancato di Dreyer si possono situare anche a un livello più macroscopico: nel cuore stesso della secolarizzazione novecentesca, due registi europei dichiaratamente non credenti - ma piuttosto inclini a costellare i loro film di riferimenti e iconologie sacre - si accostano alla vita di Gesù evidenziandone la portata etica universale, e trovando nel cinema, al di là dei teologismi, e della complessità realizzativa dei miracoli da visualizzare, un linguaggio particolarmente adatto a raccontare, ancora una volta, la storia più raccontata al mondo. «Dreyer avrebbe certamente voluto che, oltre l’accoglienza di un giudizio critico o l’adesione estetica, fosse più nel profondo che il suo film (il suo Gesù) incidesse nell’animo e nella mente dello spettatore. Qualcosa di più, di molto di più di quanto un film avrebbe potuto mai fare», commenta Goffredo Fofi nella postfazione che chiude il volume dell’Iperborea. «Crede nei miracoli, Dreyer, e si è ostinato a ripeterlo al tempo di Ordet anche ad alcuni non geniali critici iperrealisti o, come certi italiani, iper-marxisti. Ma a interessare Dreyer (e il suo Gesù!) è soprattutto un altro aspetto della fede, legato strettamente (ovvio il rimando a Paolo) alla più forte delle tre massime virtù cristiane: quella Carità che per loro è più importante della Fede e della Speranza».
Nella sceneggiatura di Dreyer, il ricordo dell’occupazione nazista della Danimarca è vivissimo nella rappresentazione dei romani, così come; d’altro canto, non sarebbe sbagliato definire pre-sessantottino il modo in cui il regista ritrae i rivoluzionari ebrei, approfondendone il carattere in alcune scene di invenzione non tratte dalla lettera dei Vangeli. Ma al di là dei riferimenti più o meno specifici all’attualità o al passato recente, la grandezza dell’operazione sfiorata da Dreyer, avvertibile in modo particolare in quest’edizione integrale approntata dall’Iperborea, è stata proprio quella di universalizzare ulteriormente il messaggio evangelico, arrivando ad applicare alla stessa Bibbia, alla fine della sua carriera e della sua vita, a una certa nozione di “eticizzazione” della narrazione, che ricorda i migliori lampi dell’ultimo Tolstoj.
TR-78
22.04.2023
Carl Theodor Dreyer è stato uno dei più grandi registi del cinema europeo. Produttivamente discontinuo, attivo tra la fine degli anni dieci e gli anni cinquanta del Novecento, iniziando ancora ai tempi del cinema muto e senza mai arrivare a sperimentare il colore, Dreyer ha diretto pietre miliari della storia del cinema: la sua succinta filmografia comprende titoli del calibro de La passione di Giovanna d'Arco (1928), Vampyr (1932), Dies Irae (1943), Ordet (Leone d'oro al Festival del Cinema di Venezia nel 1955) e Gertrud (1964), la sua ultima opera. Per comprendere appieno il suo immaginario però non meno importante, nella sua filmografia, risulta essere il progetto irrealizzato di un film sulla vita di Gesù di Nazaret, che Dreyer inseguì a lungo, dagli anni trenta fino al 1968, l'anno della sua morte.
A ben vedere Dreyer, che pure non era credente, ha sempre popolato il suo cinema di figure cristologiche e di echi biblici: dal martirio di Giovanna d'Arco, nel capolavoro datato 1928 dove chiaramente riecheggiano le stazioni della passione di Cristo, fino a Ordet - La parola, un film talmente immerso nell'immaginario cristiano da concludersi con una sorta di sobrissima resurrezione. La sceneggiatura del Gesù mai realizzato, più volte rivista nel corso degli anni, era stata oggetto di una prima pubblicazione da parte dell'Einaudi già nel 1969, a ridosso della morte del regista. A distanza di cinque decenni l'Iperborea, una casa editrice specializzata in letteratura nordica, propone adesso una nuova edizione dello script, frutto di una sovrapposizione filologicamente accurata tra due varianti del testo, che rende questa versione la più completa ricostruzione del progetto di Dreyer. Come scrive il curatore Marco Vanelli nell'introduzione che apre il volume, Dreyer aveva cominciato a fantasticare sul progetto attorno agli anni trenta, «quando in Europa si affermano tendenze antisemite; negli anni della guerra il suo paese viene invaso dai nazisti, stimolandogli un paragone con la Palestina al tempo dei romani».
È sul finire degli anni quaranta che Dreyer conosce Blevins Davis, importante produttore teatrale americano a cui affiderà la ricerca dei fondi per il film: e per ben sedici anni il cineasta continuerà ad aspettarsi da lui la messa in opera del progetto, nonostante l’evidente inaffidabilità del personaggio. Solo nel 1967 Dreyer si deciderà a recidere questo fallimentare legame produttivo, accettando un’offerta della Rai per la realizzazione del progetto; ma morì meno di un anno dopo. In questi trent’anni di elaborazione, molti furono i titoli pianificati: Jesus, Jesus of Nazareth, Gesù l’ebreo, The Life of Jesus, La vita di Cristo, Cristo contro il razzismo, La storia del Gesù ebreo. Non per nulla a un giornalista che nel 1964 gli chiedeva se ancora il progetto cristologico non vedeva la greenlight Dreyer rispondeva di aver girato mentalmente il film così tante volte «che in un certo senso sono ora meglio preparato ad affrontarlo». Interessante è stato l’approccio con cui, almeno a giudicare dal testo presente nell’edizione Iperborea, il regista si è accostato alla figura di Gesù: senza dare credito ai vangeli apocrifi o ad altre leggende sull’infanzia e la vita del profeta, ma sovrapponendo attentamente i quattro vangeli canonici, e seguendo, così, una linea interpretativa molto personale.
Dreyer intendeva dichiaratamente scagionare gli ebrei dall’accusa di deicidio, attribuendo la colpa della morte di Gesù unicamente agli occupanti romani – «qui la storia archetipica non serve a leggere il presente, ma è il contrario: sono i fatti recenti a riplasmare il passato». Sorprendente è la scelta di rimuovere quasi del tutto dalla sua sceneggiatura la figura della madre di Cristo. L’unica volta che nello script compaiono la Madonna e i suoi famigliari ricadono sotto una luce estremamente negativa: dopo che Gesù ha letto in sinagoga la profezia di Isaia sull’avvento del Messia, e aver annunciato ai presenti di essere lui l’uomo destinato a compierla, la Madonna ha un attacco di pianto e i famigliari, direttamente, lo ripudiano. Su questa rimozione-negativizzazione della Vergine probabilmente ha giocato un certo ruolo l’origine danese e “luterana” di Dreyer.
Leggendo le pagine di questo film mai realizzato, è difficile non pensare al Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini che, uscito al cinema nel 1964, provocò le reazioni più disparate tanto dagli esponenti della curia e dell’intellighenzia cattolica quanto dagli intellettuali e dai politici di quella sinistra italiana a cui P.P.P. si riconduceva. Quello tra Carl Dreyer e Pier Paolo Pasolini è, a ben vedere, un chiasmo che va ben al di là del comune interesse per la figura del Cristo e per i cristologismi. La dissonanza non potrebbe essere più forte per quanto riguarda il ruolo giocato nei rispettivi film da Maria: se Dreyer come rilevavamo prima de facto relega il personaggio ai margini del suo script, Pier Paolo Pasolini aveva reso la Madonna una coprotagonista assoluta del suo lungometraggio, compiendo peraltro la scelta, ai tempi controversa, di farla interpretare alla sua stessa madre, Susanna Pasolini.
A differenza delle intenzioni di Dreyer inoltre P.P.P. chiudeva il suo film con la Resurrezione di Cristo, pur senza andare a raccontare gli eventi relativi agli ultimi quaranta giorni trascorsi da Gesù risorto coi discepoli, come la cena di Emmaus o la rivelazione a Tommaso. Una comune assenza riguarda la scena in cui Gesù pronuncia il celebre «tu sei Pietro, e su questa mia pietra fonderò la mia Chiesa». Tradizionalmente questo episodio evangelico è sempre stato inteso come l'atto di fondazione della Chiesa Cattolica, e la sua assenza dalla sceneggiatura dell'irrealizzato Gesù si può spiegare facilmente con il contesto protestante da cui comunque proveniva Dreyer. Più complessa è la questione a proposito del Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini, nato proprio con l'intenzione di seguire, quanto più alla lettera possibile, il testo sacro: lo stesso Pasolini diede spiegazioni un po' contraddittorie della cosa, fino a dire a padre Nazareno Taddei, un gesuita che fu una figura-chiave per il cinema italiano degli anni sessanta, che la scena era venuta male sul set.
I parallelismi tra il capolavoro realizzato da Pasolini nel 1964 e il film mancato di Dreyer si possono situare anche a un livello più macroscopico: nel cuore stesso della secolarizzazione novecentesca, due registi europei dichiaratamente non credenti - ma piuttosto inclini a costellare i loro film di riferimenti e iconologie sacre - si accostano alla vita di Gesù evidenziandone la portata etica universale, e trovando nel cinema, al di là dei teologismi, e della complessità realizzativa dei miracoli da visualizzare, un linguaggio particolarmente adatto a raccontare, ancora una volta, la storia più raccontata al mondo. «Dreyer avrebbe certamente voluto che, oltre l’accoglienza di un giudizio critico o l’adesione estetica, fosse più nel profondo che il suo film (il suo Gesù) incidesse nell’animo e nella mente dello spettatore. Qualcosa di più, di molto di più di quanto un film avrebbe potuto mai fare», commenta Goffredo Fofi nella postfazione che chiude il volume dell’Iperborea. «Crede nei miracoli, Dreyer, e si è ostinato a ripeterlo al tempo di Ordet anche ad alcuni non geniali critici iperrealisti o, come certi italiani, iper-marxisti. Ma a interessare Dreyer (e il suo Gesù!) è soprattutto un altro aspetto della fede, legato strettamente (ovvio il rimando a Paolo) alla più forte delle tre massime virtù cristiane: quella Carità che per loro è più importante della Fede e della Speranza».
Nella sceneggiatura di Dreyer, il ricordo dell’occupazione nazista della Danimarca è vivissimo nella rappresentazione dei romani, così come; d’altro canto, non sarebbe sbagliato definire pre-sessantottino il modo in cui il regista ritrae i rivoluzionari ebrei, approfondendone il carattere in alcune scene di invenzione non tratte dalla lettera dei Vangeli. Ma al di là dei riferimenti più o meno specifici all’attualità o al passato recente, la grandezza dell’operazione sfiorata da Dreyer, avvertibile in modo particolare in quest’edizione integrale approntata dall’Iperborea, è stata proprio quella di universalizzare ulteriormente il messaggio evangelico, arrivando ad applicare alla stessa Bibbia, alla fine della sua carriera e della sua vita, a una certa nozione di “eticizzazione” della narrazione, che ricorda i migliori lampi dell’ultimo Tolstoj.