di Lorenzo Sartor
NC-255
27.11.2024
16 Marzo 2020: il Presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron decreta l’inizio del lockdown. Un virus sconosciuto produce effetti degenerativi sui corpi, portando gli infetti a sciogliersi fino a diventare un tutt’uno con la materia che toccano. Un senzatetto addormentato si fonde con l’asfalto, i cittadini rinchiusi in isolamento vengono inglobati dalle pareti delle stanze, una donna si risveglia bloccata tra le fibre del lenzuolo che la avvolge, mentre il vento che passa attraverso la finestra frantuma le sue ossa ormai liquefatte.
É questa la premessa di Else (2024), diretto dal regista Thibault Emin e presentato recentemente a Torino in occasione della 24° edizione del ToHorror Fantastic Film Fest, nello stesso anno in cui, al Festival di Cannes, un altro body horror di una regista francese vince il premio per la Miglior Sceneggiatura. Possiamo quindi individuare quel 16 Marzo 2020 come un punto di svolta su cui basare una riflessione sulle trasformazioni dei corpi e sulle nuove forme del sottogenere body horror, che parte con l’inizio della pandemia e trova il suo punto di arrivo in The Substance (2024) di Coralie Fargeat.
Come sostiene Roy Menarini, “nel corpo orrorifico le varie parti del fisico umano divengono anomale o separabili e l’unità dell’essere viene costantemente messa a rischio”. Nel body horror post-pandemico, l’impossibilità di raggiungere l’unità è resa dalla continua mutazione di un corpo alla ricerca incessante di una sintesi con la propria identità, dalla frammentarietà dell’Io e dall’orrore che deriva dall’incapacità di comprendere le alterazioni della carne.
Sempre dalla Francia proviene un altro film, che si presta come ideale punto di partenza per una discussione, ovvero Titane di Julia Ducournau, premiato a Cannes 2021 con la Palma D’oro. L’importanza dell’opera non risiede tanto nell’aver sdoganato il body horror nella dimensione del cinema festivaliero (merito che al massimo va riconosciuto a David Cronenberg, che, nel 1996, vinceva sempre a Cannes il premio della giuria con Crash), ma quanto nell’aver riadattato i topoi del genere alle categorie dell’attualità post-pandemica: la sintesi tra umano e meccanico, già esplorata da Cronenberg, diventa per Ducournau un modello per riflettere sulla dissoluzione delle categorie di genere, sulla volubilità della carne nella realtà meccanicizzata e sulla dispersione dell’identità nella contemporaneità.
Quest’ultimo punto, che sarà poi ripreso da Coraline Fargeat, riflette l’incapacità di un soggetto di adattarsi alle strutture convenzionali della società. Il rapporto della protagonista con il proprio corpo rispecchia un’identità divisa tra l’Io maschile e quello femminile, percepita nel senso di una non-complementarietà, che impedisce all’individuo di raggiungere l’unità. Nel finale, l’unione tra la macchina e la carne genera una nuova forma di vita, che è sintesi di organico e analogico e simbolo di una nuova concezione del body horror. Il genere trova così la sua identità nel meticcio, nella contaminazione fra Serie B e arthouse, nel creare un ponte di continuità tra più immaginari cinematografici.
La ricerca di una corrispondenza tra cinema di genere e d’autore collega Titane alle opere di altri due registi in cui si riflettono queste nuove tendenze, ovvero Alex Garland, con Men (2022), e Brandon Cronenberg con Infinity Pool (2023). La prima opera, pur non essendo perfettamente classificabile all’interno del body horror, nell’ultimo atto presenta una forma di orrore che passa attraverso i corpi, nell’impossibilità della carne di trovare una forma unitaria, espressa nel suo atto di rigurgitarsi alla ricerca di essa. Gli uomini, che continuano a morire e rigenerarsi per concepire una nuova forma, sono specchio delle strutture sociali tradizionali, che si restaurano continuamente nel corso della storia secondo nuove modalità.
Tra i due film è però Infinity Pool a proseguire maggiormente sulla scia segnata dalla Ducournau, usando l’artificio della duplicazione per rappresentare l’impossibilità dell’individuo di trovare un Io assoluto e per trattare dell’instabilità del rapporto tra identità e corpo nel contemporaneo. Laddove in Titane l’orrore della mutazione era simbolo di un’impossibilità di conciliazione tra il singolo e le strutture sociali che lo limitano, in Infinity pool la perdita di un’identità unitaria corrisponde a uno smarrimento del senso morale in una società senza più regole da seguire. La politica del fittizio paese di Lil Tolqa permette ai benestanti cittadini stranieri, colpevoli di crimini punibili con la pena di morte, di far giustiziare al loro posto un clone, avallando così la possibilità di compiere i peggiori reati, per poi uscirne impuniti.
Lo scontro alla base del lungometraggio è quello di un’identità scissa tra il bisogno umano di essere governati dalle leggi della civilizzazione e l’Io originario, maggiormente bestiale e primitivo. L’incontro tra il corpo e il suo duplicato rivela come anche il cittadino più civilizzato abbia una doppia natura, che si manifesta solo quando questi non si deve più preoccupare delle leggi che regolano la sua moralità. Se davvero il corpo è un guscio vuoto senza valore, allora per risolvere i propri dilemmi identitari l’essere umano deve solo lasciare che la propria anima si purifichi dalle perversioni della carne, aspettare che una tempesta ideale arrivi per spazzare via il peccato originale. Questa dimensione rituale è centrale in Infinity Pool ed è espressa dalle sequenze con un linguaggio più sperimentale, dove i corpi si confondono in uno spazio psichedelico indistinto e la singola identità individuale non conta più nulla. Titane e Infinity Pool portano quindi avanti l’idea della frammentarietà dell’identità nel contemporaneo post-pandemico, che sarà il presupposto da cui partirà Else, dove la pandemia viene rielaborata in chiave body horror.
Centrale rimane il rapporto dell’individuo con il proprio corpo e l’orrore che passa attraverso la sua degenerazione. La carne diventa fragile quanto l’oggetto inorganico con cui si fonde e i corpi individuali cominciano a diventare parti di un unico oggetto indistinto, in una mutazione che ha come proprio obiettivo il raggiungimento dell’unità perduta. Pur dando maggior risalto all’effetto prostetico e all’artigianalità palpabile del body horror, Thibault Emin sperimenta anche con le nuove tecnologie digitali, come nella sequenza iniziale e in quella finale, realizzate con l’intelligenza artificiale, usata per rappresentare una realtà post-pandemica mutevole e amorfa. Anche la scenografia muta con i personaggi, diventando un miscuglio di carne e materiali, che il protagonista indaga come attraverso un’endoscopia.
Questa esplorazione in soggettiva del corpo umano crea un ponte di contatto con un’altra opera presentata nell’ultima edizione del ToHorror, ovvero Solvent (2024) di Johannes Grentzfurthner. Un opera in cui il degradarsi della psiche del protagonista proceda di pari passo con la deformazione del suo corpo, la cui mutazione comincia proprio dall’interno. In una sequenza emblematica, il personaggio principale farà calare una piccola go-pro all’interno di un tubo che si estende lungo il terreno sottostante, cercando nelle viscere della terra la risposta ai cambiamenti dell’essere. Come in Else, lo spazio viene sondato, per ricercare la radice di una mutazione che ha come destinazione ultima la fusione dei corpi e l’annullamento dell’individuo.
Molteplicità e frammentarietà della psiche costituiscono un elemento estremamente significativo anche nell’ultimo lavoro di Coralie Fargeat, che ritorna al confronto tra corpo originario e corpo duplicato. The Substance presenta il body horror come pretesto per indagare il disordine identitario dell’individuo all’interno della nuova società delle immagini, che proprio sullo sfruttamento e sulla erotizzazione plastificata dei corpi ha creato la propria fortuna. Un’ambiente divistico che causa in Elizabeth (Demi Moore) uno scarto tra l’immagine di sé e la caducità del corpo, non più corrispondente agli standard patinati della bellezza giovanile.
Da questo conflitto nasce l’incontro con la sostanza, un farmaco in fase di sperimentazione in grado di creare una versione della donna più giovane e bella, una nuova carne che ha come unico vincolo quello di vivere in equilibrio con quella vecchia. L’identità del singolo si spezza, accogliendo una scissione tra matrice e duplicato, quest’ultimo rappresentato dalla figura di Sue (Margaret Qualley), ideale impersonificazione di un prodotto commerciale, replicabile secondo i modelli della pubblicità televisiva.
Nella società dell’immagine, l’Io è diviso tra un corpo ideale, che è perfetta aderenza al canone di bellezza tradizionale, e la nostra percezione di esso, nella ricerca di una coincidenza tra “essere” e “apparire”. Non è importante come Elizabeth appaia riflessa, ma solo il modo in cui lei si percepisce vedendo la propria immagine deformata da una maniglia della porta o da altre superfici. Come una moderna regina cattiva dei fratelli Grimm, che si affida a uno specchio per avere risposte sulla misura della propria bellezza, Elizabeth comincia a imbruttirsi, a deformarsi, a vivere un conflitto interiore attraverso la mutazione di un fisico che riflette la degenerazione interna alla società delle immagini.
Sempre in chiave fiabesca, la protagonista inizia a divenire gelosa della sua Biancaneve, di un doppio ancora perfetto e a cui è ancora permesso compiere eccessi. Ma le telefonate le ricordano che lei e Sue non sono due soggetti distinti, bensì una persona sola (“Remember you are one”); che l’abuso di una parte di sé porta solo a una deformazione del corpo originario e che non ci può essere un’identità unitaria senza un equilibrio tra le due parti. Il corpo di Elizabeth diventa sempre più ripugnante, fino ad essere soppiantato da quello di Sue. Tuttavia, ogni corpo deve andar incontro anche alla sua inevitabile fugacità e così, una volta persa l’altra parte di sé che ne garantiva la permanenza, anche quello di Sue comincia a disfarsi, costringendolo nuovamente a cercare nella sostanza la possibilità di un’altra rinascita.
Laddove in Titane o in Crimes of the Future (2022) era abbracciata la nascita di una nuova carne, simbiosi tra umano e inorganico, nell’ultimo atto di The Substance la nuova vita generata è un Frankenstein di corpi rigurgitati, che indossa come maschera una foto di Elizabeth, esattamente come la cultura delle immagini si imbelletta per nascondere l’orrore che ha creato. Non una nuova carne di una nuova umanità, ma una vecchia carne rimescolata, rimasticata e decorata di paillettes. Ed è proprio nel momento in cui la vecchia carne incontra la sua fine, che Fargeat concede alla sua protagonista un ultimo sguardo verso l’alto, per distaccarsi dalle Star decadute della Walk of Fame di Hollywood e avvicinarsi a quelle del cielo, dove immaginiamo possa risiedere quell’Io unitario, nel quale si risolve la frammentarietà dell’esistenza.
di Lorenzo Sartor
NC-255
27.11.2024
16 Marzo 2020: il Presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron decreta l’inizio del lockdown. Un virus sconosciuto produce effetti degenerativi sui corpi, portando gli infetti a sciogliersi fino a diventare un tutt’uno con la materia che toccano. Un senzatetto addormentato si fonde con l’asfalto, i cittadini rinchiusi in isolamento vengono inglobati dalle pareti delle stanze, una donna si risveglia bloccata tra le fibre del lenzuolo che la avvolge, mentre il vento che passa attraverso la finestra frantuma le sue ossa ormai liquefatte.
É questa la premessa di Else (2024), diretto dal regista Thibault Emin e presentato recentemente a Torino in occasione della 24° edizione del ToHorror Fantastic Film Fest, nello stesso anno in cui, al Festival di Cannes, un altro body horror di una regista francese vince il premio per la Miglior Sceneggiatura. Possiamo quindi individuare quel 16 Marzo 2020 come un punto di svolta su cui basare una riflessione sulle trasformazioni dei corpi e sulle nuove forme del sottogenere body horror, che parte con l’inizio della pandemia e trova il suo punto di arrivo in The Substance (2024) di Coralie Fargeat.
Come sostiene Roy Menarini, “nel corpo orrorifico le varie parti del fisico umano divengono anomale o separabili e l’unità dell’essere viene costantemente messa a rischio”. Nel body horror post-pandemico, l’impossibilità di raggiungere l’unità è resa dalla continua mutazione di un corpo alla ricerca incessante di una sintesi con la propria identità, dalla frammentarietà dell’Io e dall’orrore che deriva dall’incapacità di comprendere le alterazioni della carne.
Sempre dalla Francia proviene un altro film, che si presta come ideale punto di partenza per una discussione, ovvero Titane di Julia Ducournau, premiato a Cannes 2021 con la Palma D’oro. L’importanza dell’opera non risiede tanto nell’aver sdoganato il body horror nella dimensione del cinema festivaliero (merito che al massimo va riconosciuto a David Cronenberg, che, nel 1996, vinceva sempre a Cannes il premio della giuria con Crash), ma quanto nell’aver riadattato i topoi del genere alle categorie dell’attualità post-pandemica: la sintesi tra umano e meccanico, già esplorata da Cronenberg, diventa per Ducournau un modello per riflettere sulla dissoluzione delle categorie di genere, sulla volubilità della carne nella realtà meccanicizzata e sulla dispersione dell’identità nella contemporaneità.
Quest’ultimo punto, che sarà poi ripreso da Coraline Fargeat, riflette l’incapacità di un soggetto di adattarsi alle strutture convenzionali della società. Il rapporto della protagonista con il proprio corpo rispecchia un’identità divisa tra l’Io maschile e quello femminile, percepita nel senso di una non-complementarietà, che impedisce all’individuo di raggiungere l’unità. Nel finale, l’unione tra la macchina e la carne genera una nuova forma di vita, che è sintesi di organico e analogico e simbolo di una nuova concezione del body horror. Il genere trova così la sua identità nel meticcio, nella contaminazione fra Serie B e arthouse, nel creare un ponte di continuità tra più immaginari cinematografici.
La ricerca di una corrispondenza tra cinema di genere e d’autore collega Titane alle opere di altri due registi in cui si riflettono queste nuove tendenze, ovvero Alex Garland, con Men (2022), e Brandon Cronenberg con Infinity Pool (2023). La prima opera, pur non essendo perfettamente classificabile all’interno del body horror, nell’ultimo atto presenta una forma di orrore che passa attraverso i corpi, nell’impossibilità della carne di trovare una forma unitaria, espressa nel suo atto di rigurgitarsi alla ricerca di essa. Gli uomini, che continuano a morire e rigenerarsi per concepire una nuova forma, sono specchio delle strutture sociali tradizionali, che si restaurano continuamente nel corso della storia secondo nuove modalità.
Tra i due film è però Infinity Pool a proseguire maggiormente sulla scia segnata dalla Ducournau, usando l’artificio della duplicazione per rappresentare l’impossibilità dell’individuo di trovare un Io assoluto e per trattare dell’instabilità del rapporto tra identità e corpo nel contemporaneo. Laddove in Titane l’orrore della mutazione era simbolo di un’impossibilità di conciliazione tra il singolo e le strutture sociali che lo limitano, in Infinity pool la perdita di un’identità unitaria corrisponde a uno smarrimento del senso morale in una società senza più regole da seguire. La politica del fittizio paese di Lil Tolqa permette ai benestanti cittadini stranieri, colpevoli di crimini punibili con la pena di morte, di far giustiziare al loro posto un clone, avallando così la possibilità di compiere i peggiori reati, per poi uscirne impuniti.
Lo scontro alla base del lungometraggio è quello di un’identità scissa tra il bisogno umano di essere governati dalle leggi della civilizzazione e l’Io originario, maggiormente bestiale e primitivo. L’incontro tra il corpo e il suo duplicato rivela come anche il cittadino più civilizzato abbia una doppia natura, che si manifesta solo quando questi non si deve più preoccupare delle leggi che regolano la sua moralità. Se davvero il corpo è un guscio vuoto senza valore, allora per risolvere i propri dilemmi identitari l’essere umano deve solo lasciare che la propria anima si purifichi dalle perversioni della carne, aspettare che una tempesta ideale arrivi per spazzare via il peccato originale. Questa dimensione rituale è centrale in Infinity Pool ed è espressa dalle sequenze con un linguaggio più sperimentale, dove i corpi si confondono in uno spazio psichedelico indistinto e la singola identità individuale non conta più nulla. Titane e Infinity Pool portano quindi avanti l’idea della frammentarietà dell’identità nel contemporaneo post-pandemico, che sarà il presupposto da cui partirà Else, dove la pandemia viene rielaborata in chiave body horror.
Centrale rimane il rapporto dell’individuo con il proprio corpo e l’orrore che passa attraverso la sua degenerazione. La carne diventa fragile quanto l’oggetto inorganico con cui si fonde e i corpi individuali cominciano a diventare parti di un unico oggetto indistinto, in una mutazione che ha come proprio obiettivo il raggiungimento dell’unità perduta. Pur dando maggior risalto all’effetto prostetico e all’artigianalità palpabile del body horror, Thibault Emin sperimenta anche con le nuove tecnologie digitali, come nella sequenza iniziale e in quella finale, realizzate con l’intelligenza artificiale, usata per rappresentare una realtà post-pandemica mutevole e amorfa. Anche la scenografia muta con i personaggi, diventando un miscuglio di carne e materiali, che il protagonista indaga come attraverso un’endoscopia.
Questa esplorazione in soggettiva del corpo umano crea un ponte di contatto con un’altra opera presentata nell’ultima edizione del ToHorror, ovvero Solvent (2024) di Johannes Grentzfurthner. Un opera in cui il degradarsi della psiche del protagonista proceda di pari passo con la deformazione del suo corpo, la cui mutazione comincia proprio dall’interno. In una sequenza emblematica, il personaggio principale farà calare una piccola go-pro all’interno di un tubo che si estende lungo il terreno sottostante, cercando nelle viscere della terra la risposta ai cambiamenti dell’essere. Come in Else, lo spazio viene sondato, per ricercare la radice di una mutazione che ha come destinazione ultima la fusione dei corpi e l’annullamento dell’individuo.
Molteplicità e frammentarietà della psiche costituiscono un elemento estremamente significativo anche nell’ultimo lavoro di Coralie Fargeat, che ritorna al confronto tra corpo originario e corpo duplicato. The Substance presenta il body horror come pretesto per indagare il disordine identitario dell’individuo all’interno della nuova società delle immagini, che proprio sullo sfruttamento e sulla erotizzazione plastificata dei corpi ha creato la propria fortuna. Un’ambiente divistico che causa in Elizabeth (Demi Moore) uno scarto tra l’immagine di sé e la caducità del corpo, non più corrispondente agli standard patinati della bellezza giovanile.
Da questo conflitto nasce l’incontro con la sostanza, un farmaco in fase di sperimentazione in grado di creare una versione della donna più giovane e bella, una nuova carne che ha come unico vincolo quello di vivere in equilibrio con quella vecchia. L’identità del singolo si spezza, accogliendo una scissione tra matrice e duplicato, quest’ultimo rappresentato dalla figura di Sue (Margaret Qualley), ideale impersonificazione di un prodotto commerciale, replicabile secondo i modelli della pubblicità televisiva.
Nella società dell’immagine, l’Io è diviso tra un corpo ideale, che è perfetta aderenza al canone di bellezza tradizionale, e la nostra percezione di esso, nella ricerca di una coincidenza tra “essere” e “apparire”. Non è importante come Elizabeth appaia riflessa, ma solo il modo in cui lei si percepisce vedendo la propria immagine deformata da una maniglia della porta o da altre superfici. Come una moderna regina cattiva dei fratelli Grimm, che si affida a uno specchio per avere risposte sulla misura della propria bellezza, Elizabeth comincia a imbruttirsi, a deformarsi, a vivere un conflitto interiore attraverso la mutazione di un fisico che riflette la degenerazione interna alla società delle immagini.
Sempre in chiave fiabesca, la protagonista inizia a divenire gelosa della sua Biancaneve, di un doppio ancora perfetto e a cui è ancora permesso compiere eccessi. Ma le telefonate le ricordano che lei e Sue non sono due soggetti distinti, bensì una persona sola (“Remember you are one”); che l’abuso di una parte di sé porta solo a una deformazione del corpo originario e che non ci può essere un’identità unitaria senza un equilibrio tra le due parti. Il corpo di Elizabeth diventa sempre più ripugnante, fino ad essere soppiantato da quello di Sue. Tuttavia, ogni corpo deve andar incontro anche alla sua inevitabile fugacità e così, una volta persa l’altra parte di sé che ne garantiva la permanenza, anche quello di Sue comincia a disfarsi, costringendolo nuovamente a cercare nella sostanza la possibilità di un’altra rinascita.
Laddove in Titane o in Crimes of the Future (2022) era abbracciata la nascita di una nuova carne, simbiosi tra umano e inorganico, nell’ultimo atto di The Substance la nuova vita generata è un Frankenstein di corpi rigurgitati, che indossa come maschera una foto di Elizabeth, esattamente come la cultura delle immagini si imbelletta per nascondere l’orrore che ha creato. Non una nuova carne di una nuova umanità, ma una vecchia carne rimescolata, rimasticata e decorata di paillettes. Ed è proprio nel momento in cui la vecchia carne incontra la sua fine, che Fargeat concede alla sua protagonista un ultimo sguardo verso l’alto, per distaccarsi dalle Star decadute della Walk of Fame di Hollywood e avvicinarsi a quelle del cielo, dove immaginiamo possa risiedere quell’Io unitario, nel quale si risolve la frammentarietà dell’esistenza.