Cromatismi tematici a servizio
delle emozioni e del mezzo cinematografico
di Francesca Accurso
TR-23
26.02.2021
Colorare e illuminare uno spazio – o un personaggio – significa dargli un senso, una forma. Mediante l’uso del colore, lo spazio cinematografico acquista vigore diventando parte integrante della narrazione stessa. Michele Fadda, professore e critico cinematografico, scrive: «il cinema contemporaneo è sempre più interessato non ad attutire i contrasti bensì a esaltare tonalità sempre più accese del colore». L’intento è proprio quello di puntare a una resa iperrealistica del mondo che si intende descrivere, giocando con la dimensione dell’immaginario.
Diverse sono le tendenze che si possono distinguere nell’uso del colore: realistica, immaginaria, decorativa ed espressivo-psicologica. Il colore è solo una delle tante armi cinematografiche di Xavier Dolan. Eclettico, amato e odiato, il regista canadese debutta sul grande schermo all’età di diciannove anni. Regista, sceneggiatore, attore, montatore, costumista, produttore cinematografico, scenografo e doppiatore, Dolan ha iniziato a creare lungometraggi da giovanissimo. Cresciuto a ripetute visioni del fortunato Titanic di James Cameron – e adoratore fin da bambino di Leonardo Di Caprio –, inaugura un nuovo modo di fare cinema.
Con un esordio lampante e confessionale, quello di J’ai tué ma mère (2009), una perfetta autobiografia romanzata, Dolan sviscera ad ogni inquadratura, come in un’autentica seduta terapeutica, il rapporto contrastato e viscerale tra madre e figlio. Un’epopea drammatica che guarda alla Nouvelle Vague ponendo al centro uno dei temi cardine del discorso dolaniano, quello della precocità.
Hubert (Xavier Dolan), è un sedicenne omosessuale alle prese con il conflitto interiore tra l’amore nostalgico e l’ostilità verso la frivola figura della madre (Anne Dorval).
Primissimi piani ritagliano da subito particolari corporei: la bocca della madre mentre mastica fastidiosamente la cena, enfatizzata dall’uso di tonalità fredde e piuttosto scure. Una visione millimetrica e parziale, esageratamente espressiva, volta a trasmettere la repulsione carnale del regista-figlio, sintomo di un’insofferenza insita nel rapporto.
Come Jackson Pollock lasciava sgocciolare il colore sulla tela senza alcuna precisione, Xavier Dolan fa colare letteralmente le immagini sullo schermo senza elaborazioni né filtri.
In questa prima fase della produzione cinematografica del regista franco-canadese, segnata dal debutto di J’ai tué ma mère e i successivi Les amours imaginaires (2010) e Laurence Anyways (2011), si evidenziano un forte disordine interiore e un’irruenza emotiva nel gesto registico propri di un ventenne, che vengono messi a nudo. Si crea così un distico anomalo tra passione e istinto da una parte e una consapevole padronanza del mezzo cinematografico dall’altra.
Quello di Dolan è un cinema che rispecchia perfettamente un’età specifica, nel quale il regista sfodera un furore autentico – quello della gioventù – senza preoccuparsi delle possibili sfumature o del calcolo delle atmosfere. In J’ai tué ma mère vi è già tutto un mondo poetico perfettamente definito. Cromatismi accesi dal tratto pittorico evidenziano questo forte dualismo tra l’isterico e il drammatico. È proprio un senso di oppressione e rabbia interna a caratterizzare il personaggio di Hubert, avvolto nei suoi primissimi piani da una nube grigia e nerastra che ne evidenzia il profondo dramma psichico.
In questo primo esordio registico, tutto incentrato su temi autobiografici, si fa strada in Dolan una capacità millimetrica e attenta nell’uso delle colorazioni sceniche. Ogni scena in J’ai tuè ma mère è costellata da tonalità scure, grigiastre, volte a restringere il campo solo e unicamente sui singoli personaggi. Fortissima la caratterizzazione della casa in cui il protagonista Hubert vive con la madre Chantale (Anne Dorval).
L’abitazione è labirintica, claustrofobica, colma di suppellettili inutili, proprio come il rapporto fra i due protagonisti. L’evasione si manifesta soltanto nella magnifica scena del dripping, quando il senso di prigionia di Hubert viene incanalato nell’atto della tinteggiatura. Il momento in cui Hubert e Antonin dipingono è vissuto come una liberazione. Per renderlo visivamente, Dolan si affida a un montaggio frenetico che alterna le inquadrature dei due giovani, il muro ritinteggiato e i due sul pavimento mentre fanno sesso.
Accanto al tema della madre – da J’ai tué ma mère (2009) passando per Mommy (2014) fino a La mia vita con John F. Donovan (2018) –, Dolan esplora quello del desiderio, centrale nel suo secondo film Les amours imaginaires. Il lungometraggio mette in scena il tentativo impossibile di gestire il proprio desiderio e la tensione verso l’altro. Due amici, Francis (Xavier Dolan) e Marie (Monia Chokri) sono attratti dalla stessa persona, Nicolas (Niels Schneider), che entra nelle loro vite e le sconvolge. I toni non sono più quelli drammatici o melodrammatici di J’ai tué ma mère ma assai vicini a quelli più vivaci della commedia e del film grottesco. Dolan ancora una volta presenta quella del protagonista come un’esperienza soggettiva, ribadendo il concetto secondo cui la personalità non deve essere agganciata a schemi culturali predefiniti.
A confermarlo è proprio la galleria di volti e di sguardi che caratterizza il lungometraggio. Flash al neon ondeggiano sullo schermo inquadrando l’intimità dei personaggi, dandogli al tempo stesso uno spessore pittorico: dal rosso fiammante per la figura femminile di Marie, ad evidenziarne la competitività e al contempo la frustrazione, ai toni del blu e dell’azzurro per la figura dell imperscrutabile Nicolas dal volto angelico e la psiche diabolica, abile nel giocare con le attrazioni di cui è consapevole.
Qualsiasi strumento cinematografico in Les Amours Imaginaires è sfruttato nella sua più piena e densa costituzione. È l’estasi dell’innamoramento fine a se stesso che Dolan cuce addosso ai suoi personaggi mediante espedienti cinematografici piuttosto estremi, come i lenti movimenti di macchina e la coloritura accesa.
In Les amours imaginaires, infatti, vi sono quattro sequenze ritmiche che descrivono il mancato raggiungimento dell’oggetto del desiderio da parte di Francis e Marie. La resa filmica si compie attraverso delle scene di sesso con degli sconosciuti illuminate da colori differenti. Le prime due colorate di rosso e verde, mentre, specularmente, troviamo le seconde in giallo e blu dopo la rottura. La funzione del colore nell’illuminazione delle scene è qui volta a creare una sospensione della dimensione spazio-temporale, come in una sorta di stream of consciousness dei protagonisti.
Ciò che sembra rivendicare Dolan nei suoi film è proprio un diritto all’eccentricità, ossia all’essere così come si è. Non si cerca una definizione, ma si può essere in tanti modi possibili. È il cuore del suo film successivo, Laurence Anyways (2011). Laurence Alia (Melville Poupaud) è un brillante docente di letteratura francese a Montreal (specchio autobiografico e ambientazione dominante dei primi film del regista), il quale decide di comunicare alla sua compagna Fréd il desiderio di intraprendere un percorso di transizione e di cambiare sesso. Per Fréd ciò sarà estremamente traumatico, ma deciderà comunque di restare accanto al proprio compagno. La relazione tra i due andrà avanti, ma dovrà scontrarsi con il pregiudizio sociale. Il titolo del film ricalca fortemente questo messaggio: manifestare la propria sessualità coerentemente al proprio sentire. Qui, come la dimensione musicale, anche il colore assume toni estremamente evocativi. Utilizzato in combinazione sinestetica con l’armonia sonora, il colore diventa quasi una sorta di commento o didascalia all’immagine narrativa.
È forse tra i film più decisivi del regista, il più eccessivo dal punto di vista estetico, dimostrazione palpabile di quanto quello di Dolan sia ancora un cinema molto sbilanciato e straripante, non calibrato.
Immagini fulminanti e frammentate dimostrano come per il regista sia importante, se non fondamentale, l’aspetto della visione. Predominante l’uso di tonalità fredde, dal viola al verde al ceruleo, indice di un ritrovato stato di liberazione e consapevolezza di sé, conseguente ad uno stato di costrizione e prigionia corporea. Il cambio di identità è accentuato da Dolan con l’uso fortissimo di luci psichedeliche e colorate che contribuiscono a connotare il periodo storico degli anni 80’.
Nel suo quarto provocatorio lungometraggio, Tom à la ferme (2013), il venticinquenne Dolan fa i conti con un’opera teatrale, quella di Michel-Marc Bouchard. Il giovane Tom (Xavier Dolan) si reca in campagna al funerale del suo compagno Guillaume, ma qui apprende che nessuno sa della sua esistenza. L’omofobo Francis, fratello maggiore del defunto, ha nascosto tutto alla madre obbligando violentemente Tom a mentire sulla natura dei suoi sentimenti, infliggendogli una serie di umiliazioni.
Una storia di violenza domestica, in cui Dolan utilizza il thriller per analizzare la psicologia di una famiglia disfunzionale che diviene microcosmo di odio, di ambivalenza di identità e di rimozione della realtà. In questo adattamento cinematografico Dolan piega un testo che non gli appartiene alle ragioni del suo cinema. Così facendo, usa il cinema per dare piena realtà all’ambientazione. Addossa letteralmente la camera ai personaggi, con un ritaglio di primi piani molto stretti, nei quali spesso il volto dell’attore occupa l’intero campo.
Tutti gli elementi tipici dell’estetica dolaniana, con Tom à la ferme, vengono totalmente ridefiniti. Ai toni del nero e grigio fa da contraltare la figura di Tom, alieno nella campagna canadese, esatta antitesi della figura di Francis. Infatti, il protagonista che veste gli abiti della metropoli con i suoi capelli gialli ossigenati, come i campi di mais che circondano la casa e gli alberi nella stagione autunnale sullo sfondo, diventa una sorta di luce al neon nel buio della notte.
Accanto a questi accenti pressoché veristici, in Tom à la ferme vi è la prima messa in atto di una delle tecniche registiche predilette da Dolan, ossia la restrizione di campo. Tecnica che ritroveremo successivamente in Mommy e nell’ultimo, Matthias & Maxime (2019). Modalità visiva che ricalca la tensione e la paura del protagonista, rendendo soffocante anche la visione stessa. Per esaltare questo dramma, Dolan enfatizza l’uso di tonalità che vanno dal giallo al verde, tipiche di un’ambientazione campestre. La campagna canadese diviene sintomo di un mondo familiare repellente e attraente al contempo. Lo notiamo in una delle scene centrali della narrazione, quella in cui il protagonista Tom fugge in un campo di mais dalle vessazioni di Francis.
Mommy (2014) è sicuramente una pellicola tra le più riuscite del regista, volta a delineare il rapporto tra una madre Diane “Die” (Anne Dorval), vedova 40enne provocante e aggressiva, e suo figlio quindicenne Steve (Antoine Oliver Piton), affetto da “deficit d’attenzione e iperattività di tipo oppositivo-provocatorio”. Rapporto declinato mediante un continuo dissidio di amore e odio. Trattasi del quinto film del regista franco-canadese che firma sceneggiatura, costumi e montaggio. Premio della giuria al Festival di Cannes 2014 ex aequo con Adieu au langage di Godard, oltre ad essere nel 2015 tra i migliori film stranieri candidati ai David di Donatello.
Mommy (2014) è sicuramente una pellicola tra le più riuscite del regista, volta a delineare il rapporto tra una madre Diane “Die” (Anne Dorval), vedova 40enne provocante e aggressiva, e suo figlio quindicenne Steve (Antoine Oliver Piton), affetto da “deficit d’attenzione e iperattività di tipo oppositivo-provocatorio”. Rapporto declinato mediante un continuo dissidio di amore e odio. Trattasi del quinto film del regista franco-canadese che firma sceneggiatura, costumi e montaggio. Premio della giuria al Festival di Cannes 2014 ex aequo con Adieu au langage di Godard, oltre ad essere nel 2015 tra i migliori film stranieri candidati ai David di Donatello.
Ancora una volta la stagione prediletta è quella autunnale, mite e solare, colorata dai grandi alberi gialli e rossi. A tal proposito, Dolan in un’intervista ha dichiarato che per Mommy la scelta è ricaduta su una fotografia molto luminosa rispetto alle precedenti, così da conferire importanza all’anima dei protagonisti.
Il discorso visivo per Dolan, oltre che determinante, è letterale. Non c’è un’elaborazione che non sia perfettamente leggibile. Anziché puntare su un 16:9 o 14:3, Dolan vira sul formato quadrato dell’1:1 che va ad occupare il centro dello schermo. Due barre nere laterali che producono due effetti: mostrare l’artificiosità di ciò che appare sulla scena e comprimere la camera sugli attori. Notevole la scelta di allargare il formato tornando al tradizionale 16:9 solo nei momenti felici, quelli di una prospettiva di cambiamento in senso positivo del protagonista. É Wonderwall, brano iconico degli Oasis, che accompagna una delle scene più incisive del film: la corsa a bordo dello skateboard di Steve.
Con una fotografia dal tratto nitido (André Turpin), Xavier Dolan riesce a trasmettere una sorta di effetto claustrofobico nello spettatore, dilazionando i difetti e le angosce dei personaggi con una moltitudine di primi piani e dettagli dei volti. Predominano scene esterne trafitte dalla luce solare tendente al dorato e interni dal verdastro al giallo e rosso. Dal punto di vista cromatico, la netta predominanza di tonalità azzurre e giallastre simboleggia finalmente l’apertura del giovane protagonista Steve a una libertà mancata e ritrovata.
Dopo il riuscito Juste la fin du monde (2016) e il flop de La mia vita con John F. Donovan (2018), il canadese Dolan ritorna dietro la macchina da presa nel duplice ruolo di attore (non recitava in un proprio film dai tempi di Tom à la ferme) e regista in un film profondo, che richiama molti degli aspetti cruciali della sua poetica cinematografica: la ricerca della propria identità sessuale, il rapporto tra diverse generazioni e con la propria madre, l’importanza degli affetti.
Presentato in concorso alla 72esima edizione del Festival di Cannes, Matthias & Maxime (2019) è un film di ritorni. Due amici di vecchia data, Matthias (Gabriel D’Almedia Freitas) e Maxime (Xavier Dolan). Un’amicizia vissuta tra racconti, risate e alcool. Una proposta: girare la scena di un film in cui due ragazzi si baciano. La perplessità nei loro volti. Il nodo che li tiene stretti comincia ad allentarsi. I due si scambiano un bacio durante le riprese di un cortometraggio amatoriale. Il gesto, apparentemente innocuo, insinuerà in loro un dubbio persistente, minacciando l’unione del gruppo e, alla fine, cambiando improvvisamente le loro vite.
La sensibilità e l’uso della macchina da presa del regista si evidenziano in fotogrammi dal tratto incisivo: Matt si allontana a nuoto e finisce per perdersi. Qui è interessante l’uso netto della colorazione bluastra che invade letteralmente l’intero campo visivo a simboleggiare una perdizione interiore e il suono dell’acqua con il contatto umano. Campi lunghi, fotogrammi velocizzati, primi piani su oggetti di vita quotidiana dimostrano la meticolosità tipica di Dolan nel dare forma e importanza ai dettagli. Dolan colpisce al cuore dello spettatore con un racconto che parla di amore e amicizia. Allarga e restringe il campo con un concentrato di debolezze e crisi dei rapporti umani.
Per Xavier Dolan il cinema non è altro che un’arte volta a mostrare e a far vedere le cose. In ogni lungometraggio, a emergere è proprio una grande capacità di raccontare le relazioni umane con la costruzione di immagini fresche e nuove per lo spettatore.
Da qui, la volontà di consegnare alle immagini le proprie modalità di espressione, senza calibrarle o sfumarle. A Dolan non interessa affatto misurare l’effetto visivo. Nonostante spesso sia soggetto a critiche e per quanto sia un cineasta esuberante, Dolan non è mai gratuito. Le immagini insieme al colore si caricano di significato. Le sue scelte stilistiche rispondono sempre ad una logica profondamente connessa alla narrazione.
Il regista accompagna così lo spettatore in un viaggio cromatico, con il suo esuberante uso del colore come guida. Spruzzato con vivaci tonalità o con gelidi neutri e pastelli, l’impatto visivo funziona. È come se le esperienze interiori e le emozioni dei suoi personaggi stessero sanguinando in ogni angolo dell'inquadratura, creando un'esperienza intensa e sensuale.
Cromatismi tematici a servizio delle
emozioni e del mezzo cinematografico
di Francesca Accurso
TR-23
26.02.2021
Colorare e illuminare uno spazio – o un personaggio – significa dargli un senso, una forma. Mediante l’uso del colore, lo spazio cinematografico acquista vigore diventando parte integrante della narrazione stessa. Michele Fadda, professore e critico cinematografico, scrive: «il cinema contemporaneo è sempre più interessato non ad attutire i contrasti bensì a esaltare tonalità sempre più accese del colore». L’intento è proprio quello di puntare a una resa iperrealistica del mondo che si intende descrivere, giocando con la dimensione dell’immaginario.
Diverse sono le tendenze che si possono distinguere nell’uso del colore: realistica, immaginaria, decorativa ed espressivo-psicologica. Il colore è solo una delle tante armi cinematografiche di Xavier Dolan. Eclettico, amato e odiato, il regista canadese debutta sul grande schermo all’età di diciannove anni. Regista, sceneggiatore, attore, montatore, costumista, produttore cinematografico, scenografo e doppiatore, Dolan ha iniziato a creare lungometraggi da giovanissimo. Cresciuto a ripetute visioni del fortunato Titanic di James Cameron – e adoratore fin da bambino di Leonardo Di Caprio –, inaugura un nuovo modo di fare cinema.
Con un esordio lampante e confessionale, quello di J’ai tué ma mère (2009), una perfetta autobiografia romanzata, Dolan sviscera ad ogni inquadratura, come in un’autentica seduta terapeutica, il rapporto contrastato e viscerale tra madre e figlio. Un’epopea drammatica che guarda alla Nouvelle Vague ponendo al centro uno dei temi cardine del discorso dolaniano, quello della precocità.
Hubert (Xavier Dolan), è un sedicenne omosessuale alle prese con il conflitto interiore tra l’amore nostalgico e l’ostilità verso la frivola figura della madre (Anne Dorval).
Primissimi piani ritagliano da subito particolari corporei: la bocca della madre mentre mastica fastidiosamente la cena, enfatizzata dall’uso di tonalità fredde e piuttosto scure. Una visione millimetrica e parziale, esageratamente espressiva, volta a trasmettere la repulsione carnale del regista-figlio, sintomo di un’insofferenza insita nel rapporto.
Come Jackson Pollock lasciava sgocciolare il colore sulla tela senza alcuna precisione, Xavier Dolan fa colare letteralmente le immagini sullo schermo senza elaborazioni né filtri.
In questa prima fase della produzione cinematografica del regista franco-canadese, segnata dal debutto di J’ai tué ma mère e i successivi Les amours imaginaires (2010) e Laurence Anyways (2011), si evidenziano un forte disordine interiore e un’irruenza emotiva nel gesto registico propri di un ventenne, che vengono messi a nudo. Si crea così un distico anomalo tra passione e istinto da una parte e una consapevole padronanza del mezzo cinematografico dall’altra.
Quello di Dolan è un cinema che rispecchia perfettamente un’età specifica, nel quale il regista sfodera un furore autentico – quello della gioventù – senza preoccuparsi delle possibili sfumature o del calcolo delle atmosfere. In J’ai tué ma mère vi è già tutto un mondo poetico perfettamente definito. Cromatismi accesi dal tratto pittorico evidenziano questo forte dualismo tra l’isterico e il drammatico. È proprio un senso di oppressione e rabbia interna a caratterizzare il personaggio di Hubert, avvolto nei suoi primissimi piani da una nube grigia e nerastra che ne evidenzia il profondo dramma psichico.
In questo primo esordio registico, tutto incentrato su temi autobiografici, si fa strada in Dolan una capacità millimetrica e attenta nell’uso delle colorazioni sceniche. Ogni scena in J’ai tuè ma mère è costellata da tonalità scure, grigiastre, volte a restringere il campo solo e unicamente sui singoli personaggi. Fortissima la caratterizzazione della casa in cui il protagonista Hubert vive con la madre Chantale (Anne Dorval).
L’abitazione è labirintica, claustrofobica, colma di suppellettili inutili, proprio come il rapporto fra i due protagonisti. L’evasione si manifesta soltanto nella magnifica scena del dripping, quando il senso di prigionia di Hubert viene incanalato nell’atto della tinteggiatura. Il momento in cui Hubert e Antonin dipingono è vissuto come una liberazione. Per renderlo visivamente, Dolan si affida a un montaggio frenetico che alterna le inquadrature dei due giovani, il muro ritinteggiato e i due sul pavimento mentre fanno sesso.
Accanto al tema della madre – da J’ai tué ma mère (2009) passando per Mommy (2014) fino a La mia vita con John F. Donovan (2018) –, Dolan esplora quello del desiderio, centrale nel suo secondo film Les amours imaginaires. Il lungometraggio mette in scena il tentativo impossibile di gestire il proprio desiderio e la tensione verso l’altro. Due amici, Francis (Xavier Dolan) e Marie (Monia Chokri) sono attratti dalla stessa persona, Nicolas (Niels Schneider), che entra nelle loro vite e le sconvolge. I toni non sono più quelli drammatici o melodrammatici di J’ai tué ma mère ma assai vicini a quelli più vivaci della commedia e del film grottesco. Dolan ancora una volta presenta quella del protagonista come un’esperienza soggettiva, ribadendo il concetto secondo cui la personalità non deve essere agganciata a schemi culturali predefiniti.
A confermarlo è proprio la galleria di volti e di sguardi che caratterizza il lungometraggio. Flash al neon ondeggiano sullo schermo inquadrando l’intimità dei personaggi, dandogli al tempo stesso uno spessore pittorico: dal rosso fiammante per la figura femminile di Marie, ad evidenziarne la competitività e al contempo la frustrazione, ai toni del blu e dell’azzurro per la figura dell imperscrutabile Nicolas dal volto angelico e la psiche diabolica, abile nel giocare con le attrazioni di cui è consapevole.
Qualsiasi strumento cinematografico in Les Amours Imaginaires è sfruttato nella sua più piena e densa costituzione. È l’estasi dell’innamoramento fine a se stesso che Dolan cuce addosso ai suoi personaggi mediante espedienti cinematografici piuttosto estremi, come i lenti movimenti di macchina e la coloritura accesa.
In Les amours imaginaires, infatti, vi sono quattro sequenze ritmiche che descrivono il mancato raggiungimento dell’oggetto del desiderio da parte di Francis e Marie. La resa filmica si compie attraverso delle scene di sesso con degli sconosciuti illuminate da colori differenti. Le prime due colorate di rosso e verde, mentre, specularmente, troviamo le seconde in giallo e blu dopo la rottura. La funzione del colore nell’illuminazione delle scene è qui volta a creare una sospensione della dimensione spazio-temporale, come in una sorta di stream of consciousness dei protagonisti.
Ciò che sembra rivendicare Dolan nei suoi film è proprio un diritto all’eccentricità, ossia all’essere così come si è. Non si cerca una definizione, ma si può essere in tanti modi possibili. È il cuore del suo film successivo, Laurence Anyways (2011). Laurence Alia (Melville Poupaud) è un brillante docente di letteratura francese a Montreal (specchio autobiografico e ambientazione dominante dei primi film del regista), il quale decide di comunicare alla sua compagna Fréd il desiderio di intraprendere un percorso di transizione e di cambiare sesso. Per Fréd ciò sarà estremamente traumatico, ma deciderà comunque di restare accanto al proprio compagno. La relazione tra i due andrà avanti, ma dovrà scontrarsi con il pregiudizio sociale. Il titolo del film ricalca fortemente questo messaggio: manifestare la propria sessualità coerentemente al proprio sentire. Qui, come la dimensione musicale, anche il colore assume toni estremamente evocativi. Utilizzato in combinazione sinestetica con l’armonia sonora, il colore diventa quasi una sorta di commento o didascalia all’immagine narrativa.
È forse tra i film più decisivi del regista, il più eccessivo dal punto di vista estetico, dimostrazione palpabile di quanto quello di Dolan sia ancora un cinema molto sbilanciato e straripante, non calibrato.
Immagini fulminanti e frammentate dimostrano come per il regista sia importante, se non fondamentale, l’aspetto della visione. Predominante l’uso di tonalità fredde, dal viola al verde al ceruleo, indice di un ritrovato stato di liberazione e consapevolezza di sé, conseguente ad uno stato di costrizione e prigionia corporea. Il cambio di identità è accentuato da Dolan con l’uso fortissimo di luci psichedeliche e colorate che contribuiscono a connotare il periodo storico degli anni 80’.
Nel suo quarto provocatorio lungometraggio, Tom à la ferme (2013), il venticinquenne Dolan fa i conti con un’opera teatrale, quella di Michel-Marc Bouchard. Il giovane Tom (Xavier Dolan) si reca in campagna al funerale del suo compagno Guillaume, ma qui apprende che nessuno sa della sua esistenza. L’omofobo Francis, fratello maggiore del defunto, ha nascosto tutto alla madre obbligando violentemente Tom a mentire sulla natura dei suoi sentimenti, infliggendogli una serie di umiliazioni.
Una storia di violenza domestica, in cui Dolan utilizza il thriller per analizzare la psicologia di una famiglia disfunzionale che diviene microcosmo di odio, di ambivalenza di identità e di rimozione della realtà. In questo adattamento cinematografico Dolan piega un testo che non gli appartiene alle ragioni del suo cinema. Così facendo, usa il cinema per dare piena realtà all’ambientazione. Addossa letteralmente la camera ai personaggi, con un ritaglio di primi piani molto stretti, nei quali spesso il volto dell’attore occupa l’intero campo.
Tutti gli elementi tipici dell’estetica dolaniana, con Tom à la ferme, vengono totalmente ridefiniti. Ai toni del nero e grigio fa da contraltare la figura di Tom, alieno nella campagna canadese, esatta antitesi della figura di Francis. Infatti, il protagonista che veste gli abiti della metropoli con i suoi capelli gialli ossigenati, come i campi di mais che circondano la casa e gli alberi nella stagione autunnale sullo sfondo, diventa una sorta di luce al neon nel buio della notte.
Accanto a questi accenti pressoché veristici, in Tom à la ferme vi è la prima messa in atto di una delle tecniche registiche predilette da Dolan, ossia la restrizione di campo. Tecnica che ritroveremo successivamente in Mommy e nell’ultimo, Matthias & Maxime (2019). Modalità visiva che ricalca la tensione e la paura del protagonista, rendendo soffocante anche la visione stessa. Per esaltare questo dramma, Dolan enfatizza l’uso di tonalità che vanno dal giallo al verde, tipiche di un’ambientazione campestre. La campagna canadese diviene sintomo di un mondo familiare repellente e attraente al contempo. Lo notiamo in una delle scene centrali della narrazione, quella in cui il protagonista Tom fugge in un campo di mais dalle vessazioni di Francis.
Mommy (2014) è sicuramente una pellicola tra le più riuscite del regista, volta a delineare il rapporto tra una madre Diane “Die” (Anne Dorval), vedova 40enne provocante e aggressiva, e suo figlio quindicenne Steve (Antoine Oliver Piton), affetto da “deficit d’attenzione e iperattività di tipo oppositivo-provocatorio”. Rapporto declinato mediante un continuo dissidio di amore e odio. Trattasi del quinto film del regista franco-canadese che firma sceneggiatura, costumi e montaggio. Premio della giuria al Festival di Cannes 2014 ex aequo con Adieu au langage di Godard, oltre ad essere nel 2015 tra i migliori film stranieri candidati ai David di Donatello.
Mommy (2014) è sicuramente una pellicola tra le più riuscite del regista, volta a delineare il rapporto tra una madre Diane “Die” (Anne Dorval), vedova 40enne provocante e aggressiva, e suo figlio quindicenne Steve (Antoine Oliver Piton), affetto da “deficit d’attenzione e iperattività di tipo oppositivo-provocatorio”. Rapporto declinato mediante un continuo dissidio di amore e odio. Trattasi del quinto film del regista franco-canadese che firma sceneggiatura, costumi e montaggio. Premio della giuria al Festival di Cannes 2014 ex aequo con Adieu au langage di Godard, oltre ad essere nel 2015 tra i migliori film stranieri candidati ai David di Donatello.
Ancora una volta la stagione prediletta è quella autunnale, mite e solare, colorata dai grandi alberi gialli e rossi. A tal proposito, Dolan in un’intervista ha dichiarato che per Mommy la scelta è ricaduta su una fotografia molto luminosa rispetto alle precedenti, così da conferire importanza all’anima dei protagonisti.
Il discorso visivo per Dolan, oltre che determinante, è letterale. Non c’è un’elaborazione che non sia perfettamente leggibile. Anziché puntare su un 16:9 o 14:3, Dolan vira sul formato quadrato dell’1:1 che va ad occupare il centro dello schermo. Due barre nere laterali che producono due effetti: mostrare l’artificiosità di ciò che appare sulla scena e comprimere la camera sugli attori. Notevole la scelta di allargare il formato tornando al tradizionale 16:9 solo nei momenti felici, quelli di una prospettiva di cambiamento in senso positivo del protagonista. É Wonderwall, brano iconico degli Oasis, che accompagna una delle scene più incisive del film: la corsa a bordo dello skateboard di Steve.
Con una fotografia dal tratto nitido (André Turpin), Xavier Dolan riesce a trasmettere una sorta di effetto claustrofobico nello spettatore, dilazionando i difetti e le angosce dei personaggi con una moltitudine di primi piani e dettagli dei volti. Predominano scene esterne trafitte dalla luce solare tendente al dorato e interni dal verdastro al giallo e rosso. Dal punto di vista cromatico, la netta predominanza di tonalità azzurre e giallastre simboleggia finalmente l’apertura del giovane protagonista Steve a una libertà mancata e ritrovata.
Dopo il riuscito Juste la fin du monde (2016) e il flop de La mia vita con John F. Donovan (2018), il canadese Dolan ritorna dietro la macchina da presa nel duplice ruolo di attore (non recitava in un proprio film dai tempi di Tom à la ferme) e regista in un film profondo, che richiama molti degli aspetti cruciali della sua poetica cinematografica: la ricerca della propria identità sessuale, il rapporto tra diverse generazioni e con la propria madre, l’importanza degli affetti.
Presentato in concorso alla 72esima edizione del Festival di Cannes, Matthias & Maxime (2019) è un film di ritorni. Due amici di vecchia data, Matthias (Gabriel D’Almedia Freitas) e Maxime (Xavier Dolan). Un’amicizia vissuta tra racconti, risate e alcool. Una proposta: girare la scena di un film in cui due ragazzi si baciano. La perplessità nei loro volti. Il nodo che li tiene stretti comincia ad allentarsi. I due si scambiano un bacio durante le riprese di un cortometraggio amatoriale. Il gesto, apparentemente innocuo, insinuerà in loro un dubbio persistente, minacciando l’unione del gruppo e, alla fine, cambiando improvvisamente le loro vite.
La sensibilità e l’uso della macchina da presa del regista si evidenziano in fotogrammi dal tratto incisivo: Matt si allontana a nuoto e finisce per perdersi. Qui è interessante l’uso netto della colorazione bluastra che invade letteralmente l’intero campo visivo a simboleggiare una perdizione interiore e il suono dell’acqua con il contatto umano. Campi lunghi, fotogrammi velocizzati, primi piani su oggetti di vita quotidiana dimostrano la meticolosità tipica di Dolan nel dare forma e importanza ai dettagli. Dolan colpisce al cuore dello spettatore con un racconto che parla di amore e amicizia. Allarga e restringe il campo con un concentrato di debolezze e crisi dei rapporti umani.
Per Xavier Dolan il cinema non è altro che un’arte volta a mostrare e a far vedere le cose. In ogni lungometraggio, a emergere è proprio una grande capacità di raccontare le relazioni umane con la costruzione di immagini fresche e nuove per lo spettatore.
Da qui, la volontà di consegnare alle immagini le proprie modalità di espressione, senza calibrarle o sfumarle. A Dolan non interessa affatto misurare l’effetto visivo. Nonostante spesso sia soggetto a critiche e per quanto sia un cineasta esuberante, Dolan non è mai gratuito. Le immagini insieme al colore si caricano di significato. Le sue scelte stilistiche rispondono sempre ad una logica profondamente connessa alla narrazione.
Il regista accompagna così lo spettatore in un viaggio cromatico, con il suo esuberante uso del colore come guida. Spruzzato con vivaci tonalità o con gelidi neutri e pastelli, l’impatto visivo funziona. È come se le esperienze interiori e le emozioni dei suoi personaggi stessero sanguinando in ogni angolo dell'inquadratura, creando un'esperienza intensa e sensuale.