NC-236
24.09.2024
Il festival internazionale del cinema di Toronto, meglio conosciuto come il TIFF, è una delle manifestazioni cinematografiche più ricche dal punto di vista del programma. Oltre alle varie premiere di film statunitensi che cercano un buon trampolino di lancio verso l’Awards Season, il festival si contraddistingue per la varietà di opere che giungono da tutto il mondo e oggi ci concentreremo su una dozzina di titoli che ci hanno colpito per diversi motivi. Partiremo dall’Iran con la nuova sensazionale opera di Mohammad Rasoulof, per spostarci poi in Spagna con un musical atipico, in Francia con una storia ambientata sulle alture della Provenza, fino a Taiwan con una toccante vicenda con protagonista Sylvia Chang e in Corea del Sud con l’ immancabile Hong Sang-soo, finendo poi con un film collettivo sulle difficoltà del popolo palestinese in questo tragico periodo.
The Seed of the Sacred Fig, di Mohammad Rasoulof
Il linguaggio metaforico è sempre stato uno dei caposaldi del cinema di Mohammad Rasoulof; all’inizio questo fungeva come da escamotage per evitare il confronto con le censura del regime iraniano che reprime brutalmente la libertà artistica, ma con il passare del tempo il regista ha capito che adoperare tale approccio è come cedere alla censura stessa e all’oppressione, quindi ha iniziato ad adoperare delle allegorie e dei simbolismi per rinforzare il suo punto di vista. The Seed of the Sacred Fig, il suo ultimo film, presentato per la prima volta a Cannes dove si è aggiudicato un Premio Speciale della Giuria, si può considerare come la summa del cinema di Rasoulof e del suo approccio metaforico. Ciò si evince già dalle prime sequenze dove il cineasta spiega, tramite delle didascalie, il significato dietro al titolo dell’opera. Il fico sacro, conosciuto anche come Ficus religiosa, è una pianta che ha un ciclo di vita atipico; i suoi semi di solito vengono trasportati dai volatili e quando questi cadono su altre vegetazioni, iniziano a crescere sull’albero ospite, instaurando le proprie radici e strangolando la pianta. Dopo questa descrizione si può vedere una breve scena in cui un uomo fa cadere diversi proiettili su un tavolo, che in seguito vengono “raccolti” da un’altra persona, come se questi fossero proprio i semi trasportati appena citati, in procinto di impossessarsi della persona ospite. Quest’ultimo è Iman (Misagh Zare), padre di famiglia che è appena stato promosso come giudice investigativo dalla Corte Suprema di Teheran e si dovrà occupare di analizzare alcuni casi criminali e decretare se il colpevole deve essere giustiziato o no. Questo nuovo incarico nella vita dell’uomo comporta maggiori responsabilità, e la pressione derivata dall’impiego instaurerà un clima fragile all’interno della sua famiglia. La situazione inizierà a diventare sempre più tesa anche per via delle proteste politiche nazionali nelle quali la popolazione, inneggiando lo slogan “Woman, Life, Freedom” a seguito all’ uccisione di Masha Amini, cercherà di mandare un chiaro segnale di protesta verso le autorità. Questo periodo tumultuoso coinvolgerà Rezvan e Sana, le due figlie di Iman, che si uniranno al movimento pacifico di protesta per rimarcare i propri diritti come cittadine libere, ma soprattutto come donne. La prima ora e mezza di The Seed of the Sacred Fig è un magistrale dramma socio-politico nel quale Rasoulof riesce a sovrapporre le vicende del nucleo famigliare protagonista con i fatti accaduti nella realtà. A risaltare questo è il costante inserimento di clip tratte dai social media che mostrano la feroce repressione delle autorità nei confronti dei manifestanti. Esemplare di questa sezione è una sequenza nella prima ora che mostra la madre Najmeh (Soheila Golestani) soccorrere un’amica delle figlie dopo che in una protesta è stata colpita da un proiettile a pallini. Estraendo uno a uno i piccoli corpi contundenti presenti sul viso ormai sfigurato della ragazza, ovvero quei “semi” che il regime impone sugli innocenti, la camera di Rasoulof rimane fissata sul volto di questa, come se volesse far risaltare ancora di più l’impatto emotivo dell’immagine agghiacciante. The Seed of the Sacred Fig prende una direzione diversa nella seconda parte e l’aspetto “thriller” risalta di più quando Iman, una volta smarrita la pistola affidatagli dai suoi superiori, inizierà a sospettare la moglie e le sue figlie della scomparsa, peggiorando ancora di più i rapporti già fragili dei componenti. Questa direzione, a tratti inaspettata, ha sorpreso e ha mostrato una certa volontà da parte di Rasoulof di sperimentare con la forma cinematografica e con un genere che è inusuale nella sua filmografia; come ha detto recentemente in un’intervista al Festival di Locarno, questa scelta è stata per lo più dettata dal fatto che non era sicuro che sarebbe riuscito a terminare le riprese del film e quindi ha cercato di provare qualcosa di “nuovo”. Nonostante l’ idea di base è il buono sviluppo narrativo, questa sezione contiene delle lacune a livello registico che vengono evidenziate soprattutto nel climax finale dell’opera, dove un montaggio a tratti confusionario rovina parzialmente la buona riuscita dell'epilogo. Quello che si evince da questa sezione è ancora una volta l’importanza della metafora nel cinema di Rasoulof; lo stato di paranoia ha ormai condizionato irrimediabilmente Iman e il modo in cui interagisce e impone certe misure restrittive verso la moglie e le figlie rappresenta un microcosmo che rispecchia appieno l’oppressione del regime iraniano. Ancora più suggestiva è la sequenza finale ambientata tra delle rovine antiche, come se queste fossero una metafora di una Nazione la cui bellezza è stata distrutta con il tempo.
Polvo Serán, di Carlos Marques-Marcet
Carlos Marques-Marcet è un noto regista spagnolo, in ascesa grazie soprattutto ai suoi lungometraggi. Inizialmente, nel 2014, il cineasta ottiene il successo scrivendo e dirigendo 10.000 Km (2014), con protagonisti Natalia Tena e David Verdaguer, la cui storia tratta di una giovane coppia catalana destinata a portare avanti la propria relazione a notevole distanza per cause lavorative. Grazie a questo lavoro, il cineasta ricevette il Premio Goya per il Miglior Regista esordiente e vinse ben tre Premi Gaudí - come Miglior Regista, Miglior Sceneggiatura e Miglior Film non in lingua catalana. Con il film Els dies que vindran (2019), presentato in anteprima mondiale all'International Film Festival di Rotterdam, Marques-Marcet vinse la Biznaga d'oro per il Miglior Film e la Biznaga d'argento per il Miglior Regista al Festival di Malaga, oltre ad altri due Premi Gaudí. La pellicola aveva per protagonista una coppia in attesa di un figlio non cercato. La particolarità dell’operaera che gli attori protagonisti, David Verdaguer e María Rodríguez Soto, erano realmente una coppia e lei era davvero incinta durante le riprese, in modo da rendere il tutto decisamente più realistico. Il regista spagnolo è ora tornato alla ribalta con il suo nuovo film, Polvo Serán , presentato in anteprima mondiale nella sezione Platform, nella quale ha trionfato vincendo l’agognato Platform Award. Il dramma è una storia d’amore a tinte tragicomiche, in cui il regista affronta un tema molto attuale ed estremamente problematico quale l’eutanasia e la libera scelta di concedersi al suicidio assistito per il desiderio di ricongiungersi con il proprio partner. Ciò che colpisce, però, del film, è il registro scelto per narrare un tema e una storia così pesante e così gravosa per gli spettatori. Marques-Marcet, infatti, punta soprattutto sulle interpretazioni istrioniche di due grandi attori della tradizione cinematografica spagnola e cilena, quali Ángela Molina e Alfredo Castro, per costruire un film ricco di cambi di registro, mai abusati e sempre posizionati in posti strategicamente adeguati rispetto alla narrazione, in modo tale da permettergli di affrontare la vicenda in modo delicato, sotto traccia, e mai sovra-esposto. Nonostante una seconda parte in cui la narrazione gira leggermente a vuoto e diventa ridondante, il pericolo di un film a tema monocorde è messo a tacere grazie a degli innesti parodistici e, soprattutto, grazie a degli inserti musicali. Le sequenze, infatti, che in un primo momento appaiono quasi un corpo esterno al film, diventano parte integrante del surrealismo di cui, man mano, si impregna tutta la vicenda, portando il regista spagnolo a sfruttare il corpo degli interpreti tramite performance che ricordano molto il weird di due registi quali Cristóbal León e Joaquín Cociña, richiamati soprattutto nel melting pot di generi e di registri utilizzati, tali da ricordare l’epoca post-moderna. Il tema surreale è richiamato anche e soprattutto attraverso le canzoni del musical, i cui testi conferiscono al film un mood quasi macabro, che si rispecchia anche nelle scelte registiche e scenografiche (soprattutto a causa dei fondali sempre cupi utilizzati e dei colori lividi), laddove i giochi della macchina da presa, che il regista muove perlopiù secondo gli assi ortogonali con carrellate orizzontali e verticali, creano una composizione visiva perlopiù simmetrica, che ha l’effetto di acuire lo straniamento dello spettatore, nei confronti di una love story abbastanza inusuale non sempre equilibrata, ma ricca d’inventiva.
Berger, di Sophie Deraspe
Vincitore del premio di Miglior Film canadese, Berger di Sophie Deraspe analizza quel desiderio che almeno una volta nella vita ci è passato di mente, ovvero quello di fuggire dalla monotona routine quotidiana, trasferirsi e cambiare vita. Spesso questo pensiero è dettato da un certo sentimento di frustrazione poiché non si è in grado di raggiungere i propri obiettivi, o semplice noia, come se si voglia scappare per intraprendere una nuova “avventura”. Entrambe queste cose sono ciò che spingono Mathyas (Félix-Antoine Duval) a lasciare alla spalle il suo comodo lavoro in ufficio a Montreal per trasferirsi sulle alture della Provenza e ricominciare da capo come pastore. Ma la tranquillità ricercata dal giovane ragazzo non è così facile da raggiungere e in poco tempo capisce la dura verità della vita di montagna. Ciò che colpisce di Berger è il modo diretto con cui Deraspe analizza il punto di vista di una persona che ha sempre idolatrato la semplicità della vita della classe operaia, mostrando tramite esso un iniziale scontro tra il nuovo arrivato e il resto della comunità pastorale. La regista non si nasconde dal mostrare le difficoltà di adattamento di Mathyas e i continui fallimenti del suo nuovo stile di vita. Ciò è messo in risalto dal modo in cui riprende il protagonista in questi paesaggi naturali, come se questi non fosse in grado di integrarsi pienamente con ciò che gli sta attorno. Dopo aver conosciuto Elise, una ragazza che ha intrapreso lo stesso stile di vita di Mathyas, i due opteranno di iniziare a lavorare con i trasferimenti dei greggi stagionali, una nuova “avventura” che ad un primo istante sembra meno difficoltosa della precedente. Berger è un film piuttosto semplice, un racconto sulla resilienza di un uomo che, nonostante le innumerevoli difficoltà, non ha mai rinunciato definitivamente al proprio obiettivo. La prima parte risulta più accattivante perché mostra il conflitto personale di Mathyas in un ambiente ostile e non accoglievole, a differenza della seconda che è per lo più incentrata sullo sviluppo del rapporto tra il protagonista ed Elise e come insieme riescono a superare le difficoltà incontrate. Nonostante la piacevole visione, Berger presenta diverse lacune, soprattutto nella gestione del ritmo, dove i tempi dilatati di certe sequenze nella seconda parte risultano stucchevoli, mentre la dinamica del duo non convince appieno sia per via di una scrittura semplice, sia per la mancanza di chimica tra i due interpreti.
Daughter’s Daugher, di Huang Xi
Il cinema taiwanese, negli ultimi tempi, sta vivendo una fase di stagnazione. Dopo rigoglioso periodo che ne ha segnato l’ascesa definitiva, soprattutto tra gli anni ‘80 e ‘90, attraverso le opere di maestri come Edward Yang, Hou Hsiao-Hsien e Tsai Ming-Liang, negli ultimi anni Taiwan è alla ricerca degli eredi di questo cinema particolarissimo. Huang Xi fa parte della “new generation”, di questi nuovi autori che potrebbero segnare una rinascita definitiva. La regista ha cominciato la sua carriera proprio con una collaborazione d’eccezione, lavorando sui set dei film del grande Hou Hsiao-Hsien, nella fattispecie Goodbye South, Goodbye (1996) e lo spettacolare The Assassin (2015), che resta l’ultimo capolavoro della carriera di un regista straordinario, ritiratosi definitivamente dalle scene lo scorso Ottobre a causa del morbo di Alzheimer. Nonostante tutto, questo non gli ha impedito di diventare produttore esecutivo della nuova fatica di Huang Xi, Daughter’s Daughter (2024), presentato nella sezione Platform e, in precedenza, al Festival di Cannes. Daughter’s Daughter è un dramma davvero molto interessante, che esplora le complessità e le difficoltà del sentimento materno e dell’adempiere al dovere della genitorialità, che ripercorre il processo di elaborazione del lutto e della perdita, che diventa espressione della forza interiore che gli stessi esseri umani devono avere per far fronte alle difficoltà della vita e all’incombenza della morte. Un film che, per certi versi, riprende molte tematiche del primo cinema di Hou Hsiao-Hsien, legato al ciclo della vita e al caso, e che proprio dal maestro taiwanese riprende il modo in cui mette a confronto generazioni diverse (con più di uno sguardo nei confronti del cinema di Ozu, anche nella fissità delle inquadrature) e tipi di pensiero sugli argomenti dell’attualità radicalmente diversi. Daughter’s Daughter è dunque un lavoro che si rifà naturalmente alla tradizione, e che però, paradossalmente, resta imprigionato proprio nei suoi fantasmi, non rinnovando la lezione e soprattutto mostrandosi poco capace di una propria autonomia. Il film, infatti, è molto dipendente dalla grande interpretazione di Sylvia Chang, qui bravissima a dare corpo alle sfumature emotive del racconto e a guidarlo soprattutto attraverso la sua mimica e trainandolo verso i vari registri che oltrepassa. La sua eccentricità e la sua bravura, però, paradossalmente, hanno un effetto castrante sulla riuscita del lungometraggio, in quanto l’attrice “tirannizza” la scena e oscura, di fatto, tutto il resto, lasciando incompleta la riflessione tra la vita e la morte. L’impressione è che Daughter’s Daughter resti troppo ancorato ed attaccato alla performance della straordinaria attrice di Taiwan, in quanto riesce a garantire la giusta autenticità al suo personaggio e a coinvolgere il pubblico nelle avventure della sua Jin. Nonostante un coinvolgimento molto alto, però, il film resta inespresso e gira a vuoto in molti punti del suo racconto.
By the Stream, di Hong Sang-soo
Hong Sang-soo è un autore ormai sempre presente all’interno della catena festivaliera annuale. Grazie alla sua proverbiale capacità di fornire sempre tantissimi prodotti all’interno di un singolo anno. Questa dote permette al regista di girare anche 3-4 film in un periodo breve e ad essere sempre presente nei festival più importanti dell’anno. Quest’anno, dopo aver portato alla Berlinale il suo splendido A Traveler’s Needs (2024) con protagonista Isabelle Huppert, Hong Sang-soo è tornato alla ribalta con un secondo film, già presentato durante l’estate al 77° Festival del Cinema di Locarno, dall’evocativo titolo By The Stream (2024), in cui torna a collaborare con la sua musa Kim Min-hee, anche vincitrice del Pardo per la miglior interpretazione proprio al festival svizzero. Nell’affrontare le peripezie della protagonista Jeonim, insegnante di teatro e vittima di uno scandalo che ne mette a repentaglio la presenza all’interno dell’università in cui la stessa insegna, Hong Sang-soo evolve il suo percorso tracciato proprio nel corso degli ultimi film. Qui, infatti, recupera una certa fiducia nella narrazione, contrapponendosi in modo totale alla sfiducia e alla “cecità” del suo alter ego Shin Seok-ho all’interno di In Water (2023), film con cui By The Stream dialoga in modo molto stretto, ponendosi come un vero e proprio controcampo. La ripetizione, cifra stilistica honghiana presente in modo assiduo nella sua filmografia, qui diventa uno strumento per comprendere le infinite possibilità della vita, riaffacciandosi al ruolo del caso e a come quest’ultimo possa rendere indecifrabili, vere o false, le strade percorribili all’interno della nostra esistenza. Anche per questo, il titolo, By The Stream, richiama al dualismo, laddove il “flusso” evocato è naturalmente quello narrativo (un vero e proprio must per Hong, che si inerpica nuovamente in dialoghi filosofici e molto accoglienti da Nouvelle Vague), ma diventa anche una rappresentazione stessa della vita, vista come una sequenza di eventi in cui il caso agisce in modo ininterrotto. Proprio per questo motivo, lo sguardo del cineasta è leggermente diverso da quello dei precedenti film, dove la regia, mobile ma più posata e meno estrosa, si allontana dagli out of focus che avevano caratterizzato In Water per approcciare, piuttosto, ad una realtà che ingloba il tessuto teatrale, mediante campi fissi che mirerebbero a restituire una dimensione di verità all’interno di un contesto fittizio. Alla fine, però, in questo gioco tra realtà e finzione emerge proprio la seconda, in quanto la vita stessa è una rappresentazione filtrata dal profilmico. Ciò che può abbattere questa barriera è proprio il corpo, veicolo di realismo mediante la gestualità dei suoi protagonisti, e veicolo di fruizione dello sketch agognato, ideato proprio dallo zio della protagonista, nuovo alter ego di Hong, che si occupa proprio di creare quell’anello di congiunzione tra filmico e profilmico, tra verità e menzogna, tra realtà e rappresentazione, che per l’uomo è vitale per riuscire ad insediarsi nel tessuto sociale e per non far prevalere una dimensione sull’altra, pena la perdita del senso di realtà e la materializzazione di un’Apocalisse “figurata”.
From Ground Zero, (Opera collettiva)
Con il termine ground zero spesso si fa riferimento a quel punto della superficie terrestre più vicino ad un’esplosione atomica o ad una catastrofe artificiale. La locuzione era stata coniata negli anni ‘40 quando furono fatti i primi esperimenti sulla bomba atomica e il “ground zero” era proprio il simbolo di questo “epicentro distruttivo”. Dopo gli sconvolgenti eventi che hanno condizionato Gaza dallo scorso ottobre, si può definitivamente dire che la Palestina è il ground zero dei nostri giorni. Il genocidio perpetrato da Israele nei confronti della popolazione palestinese è un atto disumano che ha portato l’uccisione di migliaia di bambini e alla quasi distruzione della città di Gaza. Per raccontare le atrocità subite e il molteplice punto di vista della popolazione durante questo tragico periodo, ventidue registi hanno deciso di collaborare per raccontare l’esperienza vissuta da queste persone. From Ground Zero narra quindi la difficile esistenza di un popolo costretto a vivere in un ambiente dominato da ansia e paura, dove il senso di sopravvivenza e di comunità rimangono tra le poche risorse rimaste. Con una durata che varia dai tre ai sette minuti, i diversi cortometraggi non sono in grado di approfondire o esplorare le situazioni mostrate nel dettaglio, ma è l’insieme di tutti questi progetti che funziona e rende il film una visione struggente, che evidenzia la grande volontà creativa di un gruppo di cineasti che vuole raccontare la resilienza del proprio Paese. L’opera mette in mostra un mix di generi e approcci che variano dal documentario alla finzione, con due cortometraggi che ci hanno impressionato particolarmente; Awakening di Mahdi Kreirah e Taxi Wanissa di Etimad Washah. Il primo mostra dei bambini ricreare uno dei tanti bombardamenti subito dalla città tramite la messa in scena di un breve spettacolo con dei burattini, mentre il secondo cortometraggio mostra le vicende di un uomo che lavora come “taxista” e porta in giro alcuni ragazzi grazie all’aiuto del suo asino Wanissa. Ad un certo punto il cortometraggio si interrompe e la scena dopo mostra la regista raccontare il perché di tale scelta; inizialmente il corto doveva terminare con l’uccisione del protagonista a seguito di un bombardamento, ma dopo che il fratello stesso della regista è stato ucciso dopo l’ennesimo attacco aereo israeliano, Washah ha optato di terminare il progetto raccontando semplicemente lo struggente avvenimento. La finzione cinematografica è diventata una realtà concreta ed è importante vedere e sentire determinate testimonianze in modo da avere piena consapevolezza della situazione palestinese.
Horizonte, di César Augusto Acevedo
È un film sulla morte, Horizonte, ultima opera del regista colombiano César Augusto Acevedo. Morte, distruzione, guerra. E i fantasmi che esse si lasciano alle spalle. Un figlio e sua madre vagano in paesaggi sconfinati alla ricerca di un padre scomparso. Spettri, ora carne ora simulacri, i due personaggi interagiscono con altri personaggi ponendosi domande sul significato della violenza e della guerra. I loro sguardi sono soggettive di fantasmi, le loro parole si muovono nel tessuto sonoro del film disarticolate dallo spazio dell’immagine. Cinema d’autore con alte ambizioni, Horizonte si colloca nel solco delle migliori opere di registi come Andrej Tarkovskij, mutuando diverse soluzioni stilistiche da maestri come Theo Angelopoulos, Aleksandr Sokurov, Carlos Reygadas e Sarunas Bartas. La letterarietà dei lunghi scambi fra personaggi, inizialmente straniante, fa assumere lentamente al film lo spessore di un romanzo. Tuttavia, Augusto Acevedo è abilissimo a mettere in relazione le parole con le immagini, rendendo Horizonte un flusso continuo in cui visivo e sonoro si rincorrono, collidono, combaciano, si dissolvono. Nonostante l’indubbio spessore filosofico di Horizonte e la complessità delle sue soluzioni audiovisive, il film non sembra però mai respingere lo spettatore. Il regista colombiano è abile nel disorientare il proprio pubblico senza però farlo mai uscire dal tessuto del film, e a donare alla propria opera un’atmosfera sospesa fra realtà e allucinazione, a rendere le proprie immagini ora impronte di spettri ora carne viva, ora sguardi di fantasmi ora volti di corpi. Ora regno imperante del campo ora visione impossibile, esternalizzata nel fuori campo. La presenza di queste diverse influenze, che si riflette sia sulla configurazione delle immagini sia sulla scrittura dei dialoghi, non dà mai a Horizonte l’impressione di un film privo di una propria, intima, anima e si percepisce l’urgenza da parte di Acevedo di riflettere sulla contemporaneità - del proprio paese e del mondo - utilizzando simboli e archetipi universali. Un cinema certo non per tutti i palati, ma in grado di soddisfare sia chi cerca un prodotto d’autore che non soffochi sotto il peso delle proprie ambizioni sia chi desidera un tipo di film che provino a sondare orizzonti del linguaggio a cui non siamo abituati, ma che non perdono la propria concretezza nelle velleità dello stile
U Are the Universe, di Pavlo Ostrikov
Piccolo miracolo produttivo, U are the Universe è un prodotto di fantascienza ucraino diretto da Pavlo Ostrikov. Girato interamente in studio, a Kiev, il film è interamente ambientato nell’astronave che trasporta l’ultimo uomo dell’universo, sopravvissuto all’improvvisa esplosione della terra. L’uomo, però, riesce a entrare in contatto con un’altra persona sopravvissuta, una meteorologa francese in orbita su Saturno, che proverà a raggiungere in ogni modo possibile. Le premesse del film di Ostrikov sono molto forti e il pretesto dell’improvvisa e insensata esplosione del globo funge da chiaro riferimento alla nostra attualità e sembra indirizzare U are the Universe verso riflessioni da sci-fi filosofico. Purtroppo, però, il film assume i toni improbabili della commedia, che risolve superficialmente ogni aspetto drammatico del racconto per cercare in tutti i modi una leggerezza che appare irrealistica per la situazione in cui si trova il protagonista del film. Anche quest’improbabile filtro, però, sembra applicato dal regista in maniera posticcia. Il risultato è un lavoro che non fa sorridere, non fa riflettere, non fa commuovere. La stessa messa in scena di Ostrikov è estremamente basilare, priva di intuizioni particolari. La scenografia estremamente fittizia dell’astronave non viene sfruttata nelle sue potenzialità e la prova dell’unico attore in campo – Volodymir Kravchuk – non è sufficiente per reggere il peso di un film che sembra naufragare nelle proprie ambizioni in ogni scena . A U are the Universe manca quindi sia la coerenza filosofica degli epigoni di 2001: Odissea nello spazio (1968) - che il film richiama esplicitamente, quasi come se la citazione all’opera di Kubrick fosse un obbligo -, sia lo spessore introspettivo di film come Her (2013) - anch’esso basato sulla relazione fra un personaggio e una voce fuori campo -, sia la comicità di opere come Guida Galattica per Autostoppisti (2005), da cui il film prende in prestito la figura del computer di bordo sempre allegro e positivo. Conclusa la visione della pellicola, si ha quindi più la sensazione che la sua importanza sia più legata alla sua vicenda produttiva che al contenuto che ha da offrire. Un vero peccato, visto che a mancare al film ucraino, più che i mezzi tecnici, è l’ispirazione.
Los Tortuga, di Belén Funes
La macchina da presa si muove silenziosa fra gli ulivi fino a focalizzarsi su un gruppo di persone - che scopriremo essere un nucleo familiare - intente a raccoglierle. L'inizio di Los Tortuga, opera seconda della spagnola Belén Funes, lascia già trasparire il tatto della regista e il modo in cui si approccia alla difficile tematica del film. Al centro della storia, infatti, c'è l'elaborazione della perdita del perno della propria famiglia da parte di una madre, una donna cilena, e una figlia. Un padre e un marito spagnolo, originario della campagna andalusa, che ha lasciato una moglie straniera a interfacciarsi con una società che sembra respingerla e una giovane figlia piena di ambizioni. Quello che nei primi venti minuti pare essere un racconto contadino tanto caro alla cinematografia d'autore spagnola, che sembra situarsi sulle tracce di Alcarràs (2022) di Carla Simón e del cinema di Victor Erice e Carlos Saura, vira però improvvisamente per diventare un melodramma urbano, di interni, che tratteggia con grande sensibilità i comportamenti e le emozioni delle due protagoniste. Impreziosito da un'attenta scrittura e da due ottime prove attoriali - la madre è interpretata da un'eccezionale Antonia Zegers, attrice feticcio di Pablo Larraìn - Los Tortuga è un racconto sulla necessità di liberarsi dai fantasmi del passato che ci incatenano al presente, di costruire una propria identità per liberarsi dalla sensazione di vivere da esuli in ambienti improvvisamente diventati estranei. Belén Funes scruta i silenzi delle protagoniste, coglie con estrema naturalezza esplosioni di rabbia e momenti d'affetto, crea - senza che essi mai sovrastino i personaggi - ambienti ora caldi e familiari ora freddi e perturbanti, donando sapore e colore agli spazi ripresi. E, senza neanche accorgersene, si arriva alla fine del film con gli occhi lucidi.
Seven Days, di Ali Samadi Ahadi
Ali Samadi Ahadi fa parte della schiera di nuovi autori messi in campo dal cinema iraniano, autori capaci di infondere alla Settima Arte mediorientale un ideale incontro tra vecchio e nuovo, tra la tradizione e la novità che avanza. Il regista ha avuto un’infanzia difficile, figlia del continuo conflitto tra il suo Paese e il vicino Iraq, che lo ha portato, all’età di 12 anni, a scappare a causa della guerra tra i due Stati. Dopo essersi laureato in Sociologia ad Hannover, ha lavorato come sceneggiatore, in primis, e poi regista. Proprio in questo campo si è poi contraddistinto, in primis con il suo documentario dal titolo Africa Mayibuye (2005), presentato in anteprima al Film Festival di Mannheim. Successivamente, ha vinto il premio per la miglior opera prima alla Berlinale del 2009, con il suo Salami Aleikum (2009), satira su una famiglia di migranti iraniani in Germania che cerca di costruirsi una propria vita. Dopo alcuni documentari dal timbro molto più politico e civilmente impegnato, Ali Samadi Ahadi ha deciso di cambiare genere e sperimentare, prima attraverso l’animazione con il suo Moonbound (2021), bocciato dalla critica internazionale e poi, proprio al TIFF 2024, con il suo Seven Days . Il film si avvale di una collaborazione iraniana illustre, quale quella del regista Mohammad Rasoulof, regista vincitore dell’Orso d’Oro nel 2020 a Berlino con il suo There Is No Evil e del Premio Speciale della Giuria con il suo ultimo film, The Seed Of The Sacred Fig , al Festival di Cannes 2024. Il contributo di Rasoulof, impegnato nella scrittura di Seven Days, si avverte nei temi trattati e nell’intensità con cui questi vengono affrontati. Il film è infatti un ritratto a tutto tondo, psicologico, delle donne iraniane, ostaggio di una cultura retrograda e maschilista, le quali rischiano la propria vita e si mettono sempre in gioco pur di difendere la propria famiglia. Dall’altra parte, invece, vi è uno Stato, come quello iraniano, oppressivo, che sancisce il loro ruolo di semplici “mogli” all’interno della cultura mediorientale, di essere semplici succubi del potere maschilista e patriarcale che ne minaccia l’integrità. Seven Days è dunque un film sulla libertà, sul rendere manifesta la validità dei propri diritti e, soprattutto, sulle donne che, nonostante la loro condizione, non smettono mai di lottare per il proprio Paese. Samadi Ahadi, per creare questo ritratto a tutto tondo, usa una tecnica di ripresa molto mossa, lasciando che, però, sia il sottinteso delle inquadrature a creare l’atmosfera e soprattutto relegando il piano emotivo del film all’uso insistito di primi piani per mettere in risalto l’emotività della recitazione di Vishka Asayesh, qui bravissima a tratteggiare un profilo dolente e ad empatizzare con lo spettatore. Paradossalmente, però, proprio questa ricerca emotiva quasi ossessiva abbandona la pellicola ad una convenzionalità da semplice mystery movie che, purtroppo, ne deprezza il valore. Infatti, Seven Days gioca al meglio le proprie carte attraverso i campi lunghi e tramite i long take (soprattutto nella seconda parte, quando l’intrigo si innesca in modo definitivo e prende il sopravvento sul dramma). Così facendo, rende più godibili le sue repentine accelerazioni di ritmo e gli restituisce una tensione che, nella prima parte, latita per lunghi tratti ed è risvegliata solo a fasi alterne,rendendolo un thriller politico molto interessante soprattutto sul fronte visivo, restituendo bene il sacrificio, lo spirito di “resistenza” e il potere dei legami familiari che Samadi Ahadi si preoccupa di mettere in evidenza.
The Courageous, di Jasmin Gordon
Esordio dietro la macchina da presa per la regista svizzero-statunitense Jasmin Gordon, The Courageous riflette la molteplicità di influenze della regista. Il racconto della famiglia disfunzionale protagonista del film, infatti, sembra fondere una tipologia di racconto della provincia tipico del cinema indipendente americano del nuovo millennio con uno stile e un naturalismo più proprio del cinema francofono europeo. Il risultato è un lungometraggio estremamente consapevole, che non perde mai il proprio focus, e presenta allo spettatore un ritratto di un rapporto di amore coraggioso e disperato fra una madre e i propri figli. Jasmin Gordon gestisce con grande perizia i ritmi del film e lascia abilmente scorrere il dramma sottotraccia, lasciando che esso si insinui lentamente fra le pieghe della storia per arrivare ad un'esplosione silenziosa e, proprio per questo, di grande impatto. Cinema di osservazione che lascia emergere l'urgenza del proprio contenuto senza sovra-esporla e trasformarla in una facile morale, The Courageous viene impreziosito dall'ottima prova di Ophélia Kolb. L'attrice francese dona corpo e anima a una madre disperata, disposta a fare di tutto per garantire la sopravvivenza ai propri figli. Il suo nervosismo, che scorre latente per tutto il film, sembra condizionare i movimenti della macchina da presa, quasi sempre a mano, e trasmette allo spettatore quel senso di fastidio che permette all'opera di aprire un varco nella nostra sensibilità e di non farla passare inosservata.
Mr. K, di Tallulah Hazekamp Schwab
Tallulah Hazekamp Schwab è una degli autori norvegesi più interessanti del cinema contemporaneo. La regista vive e lavora in Olanda, e si è affermata con il corto The Driving Exam , presente nella raccolta di film Kort! (2005) e la serie TV Mimoun (2013), nominata per un Emmy Award e vincitrice del prestigioso Prix Jeunesse International. L’anno seguente, tramite la serie Taart (2014) ha ravvivato il suo successo, conquistando una nuova nomination per l’Emmy. Dopo aver esordito ufficialmente nel lungometraggio con il suo Dorsvloer vol confetti (Confetti Harvest, 2014), coming-of-age che racconta della dodicenne Katelijne, unica ragazza in una famiglia di sette fratelli completamente abbandonata a sé stessa nel marasma dell’adolescenza e costretta a far fronte ad una realtà, come quella protestante, completamente cieca nei confronti delle sue esigenze, La Schwab presenta al TIFF 2024 la sua nuova commedia surreale,Mr. K. Già il titolo del film rievoca un personaggio chiave della narrativa internazionale: Franz Kafka, scrittore ceco e autore del famigerato racconto La Metamorfosi (1915). Nel seguire la vicenda di Crispin Glover, mago di professione che, dopo uno spettacolo, finisce in un hotel isolato lontano da tutto e da tutti, quasi al di fuori del tempo e dello spazio, la regista riesce a donare alla letteratura da cui trae ispirazione un carattere estremamente divertente e per nulla scontato. Il film, ambientato in unità di luogo, si avvale soprattutto di una costruzione visiva davvero interessante, dove torna in auge lo strutturalismo che aveva animato gli anni primordiali del cinema, e dove la macchina da presa segue itinerari espressionisti, figli di un design che ricorda da vicino le composizioni di Escher (soprattutto per quel che concerne l’utilizzo e i richiami delle scenografie). Questa forma molto particolare ha come obiettivo (riuscito) quello di restituire in modo mai gravoso, e anzi divertente e ironico, l’alienazione dell’individuo degli anni 2000, mostrando come, dal ‘900, quasi nulla sia cambiato. Così, Mr. K è un film che cede quasi continuamente al weird, e che va di pari passo con il percorso “interiore” del suo protagonista, il cui comportamento assume sempre meno senso di situazione in situazione. Il percorso a scatole cinesi che il bizzarro Crispin Glover affronta porta lo spettatore a pensare proprio alla letteratura novecentesca e alla critica burocratica, laddove l’allegoria della scalata sociale diventa chiara in un primo momento, salvo poi svoltare e intraprendere il carattere di una vera e propria rivoluzione, mostrando così un attaccamento al non-sense che porta l’opera a cedere a registri paradossali che ricordano, da vicino, sia il cinema coeniano più psicologico -in particolare Barton Fink (1991), proprio in virtù della regia sopra le righe l e delle conturbanti scenografie anonime - sia i copioni più assurdi di un maestro come Charlie Kaufman, il cui umorismo raffinato viene ripreso con un gusto molto meno intellettuale e più “pop”. Anche l’estetica “labirintica”, fatta di piani sequenza ortogonali e di riprese con punti macchina distorcenti, viene fortemente influenzata da una componente surreale mai stucchevole, ma sempre gradevole e divertente.
NC-236
24.09.2024
Il festival internazionale del cinema di Toronto, meglio conosciuto come il TIFF, è una delle manifestazioni cinematografiche più ricche dal punto di vista del programma. Oltre alle varie premiere di film statunitensi che cercano un buon trampolino di lancio verso l’Awards Season, il festival si contraddistingue per la varietà di opere che giungono da tutto il mondo e oggi ci concentreremo su una dozzina di titoli che ci hanno colpito per diversi motivi. Partiremo dall’Iran con la nuova sensazionale opera di Mohammad Rasoulof, per spostarci poi in Spagna con un musical atipico, in Francia con una storia ambientata sulle alture della Provenza, fino a Taiwan con una toccante vicenda con protagonista Sylvia Chang e in Corea del Sud con l’ immancabile Hong Sang-soo, finendo poi con un film collettivo sulle difficoltà del popolo palestinese in questo tragico periodo.
The Seed of the Sacred Fig, di Mohammad Rasoulof
Il linguaggio metaforico è sempre stato uno dei caposaldi del cinema di Mohammad Rasoulof; all’inizio questo fungeva come da escamotage per evitare il confronto con le censura del regime iraniano che reprime brutalmente la libertà artistica, ma con il passare del tempo il regista ha capito che adoperare tale approccio è come cedere alla censura stessa e all’oppressione, quindi ha iniziato ad adoperare delle allegorie e dei simbolismi per rinforzare il suo punto di vista. The Seed of the Sacred Fig, il suo ultimo film, presentato per la prima volta a Cannes dove si è aggiudicato un Premio Speciale della Giuria, si può considerare come la summa del cinema di Rasoulof e del suo approccio metaforico. Ciò si evince già dalle prime sequenze dove il cineasta spiega, tramite delle didascalie, il significato dietro al titolo dell’opera. Il fico sacro, conosciuto anche come Ficus religiosa, è una pianta che ha un ciclo di vita atipico; i suoi semi di solito vengono trasportati dai volatili e quando questi cadono su altre vegetazioni, iniziano a crescere sull’albero ospite, instaurando le proprie radici e strangolando la pianta. Dopo questa descrizione si può vedere una breve scena in cui un uomo fa cadere diversi proiettili su un tavolo, che in seguito vengono “raccolti” da un’altra persona, come se questi fossero proprio i semi trasportati appena citati, in procinto di impossessarsi della persona ospite. Quest’ultimo è Iman (Misagh Zare), padre di famiglia che è appena stato promosso come giudice investigativo dalla Corte Suprema di Teheran e si dovrà occupare di analizzare alcuni casi criminali e decretare se il colpevole deve essere giustiziato o no. Questo nuovo incarico nella vita dell’uomo comporta maggiori responsabilità, e la pressione derivata dall’impiego instaurerà un clima fragile all’interno della sua famiglia. La situazione inizierà a diventare sempre più tesa anche per via delle proteste politiche nazionali nelle quali la popolazione, inneggiando lo slogan “Woman, Life, Freedom” a seguito all’ uccisione di Masha Amini, cercherà di mandare un chiaro segnale di protesta verso le autorità. Questo periodo tumultuoso coinvolgerà Rezvan e Sana, le due figlie di Iman, che si uniranno al movimento pacifico di protesta per rimarcare i propri diritti come cittadine libere, ma soprattutto come donne. La prima ora e mezza di The Seed of the Sacred Fig è un magistrale dramma socio-politico nel quale Rasoulof riesce a sovrapporre le vicende del nucleo famigliare protagonista con i fatti accaduti nella realtà. A risaltare questo è il costante inserimento di clip tratte dai social media che mostrano la feroce repressione delle autorità nei confronti dei manifestanti. Esemplare di questa sezione è una sequenza nella prima ora che mostra la madre Najmeh (Soheila Golestani) soccorrere un’amica delle figlie dopo che in una protesta è stata colpita da un proiettile a pallini. Estraendo uno a uno i piccoli corpi contundenti presenti sul viso ormai sfigurato della ragazza, ovvero quei “semi” che il regime impone sugli innocenti, la camera di Rasoulof rimane fissata sul volto di questa, come se volesse far risaltare ancora di più l’impatto emotivo dell’immagine agghiacciante. The Seed of the Sacred Fig prende una direzione diversa nella seconda parte e l’aspetto “thriller” risalta di più quando Iman, una volta smarrita la pistola affidatagli dai suoi superiori, inizierà a sospettare la moglie e le sue figlie della scomparsa, peggiorando ancora di più i rapporti già fragili dei componenti. Questa direzione, a tratti inaspettata, ha sorpreso e ha mostrato una certa volontà da parte di Rasoulof di sperimentare con la forma cinematografica e con un genere che è inusuale nella sua filmografia; come ha detto recentemente in un’intervista al Festival di Locarno, questa scelta è stata per lo più dettata dal fatto che non era sicuro che sarebbe riuscito a terminare le riprese del film e quindi ha cercato di provare qualcosa di “nuovo”. Nonostante l’ idea di base è il buono sviluppo narrativo, questa sezione contiene delle lacune a livello registico che vengono evidenziate soprattutto nel climax finale dell’opera, dove un montaggio a tratti confusionario rovina parzialmente la buona riuscita dell'epilogo. Quello che si evince da questa sezione è ancora una volta l’importanza della metafora nel cinema di Rasoulof; lo stato di paranoia ha ormai condizionato irrimediabilmente Iman e il modo in cui interagisce e impone certe misure restrittive verso la moglie e le figlie rappresenta un microcosmo che rispecchia appieno l’oppressione del regime iraniano. Ancora più suggestiva è la sequenza finale ambientata tra delle rovine antiche, come se queste fossero una metafora di una Nazione la cui bellezza è stata distrutta con il tempo.
Polvo Serán, di Carlos Marques-Marcet
Carlos Marques-Marcet è un noto regista spagnolo, in ascesa grazie soprattutto ai suoi lungometraggi. Inizialmente, nel 2014, il cineasta ottiene il successo scrivendo e dirigendo 10.000 Km (2014), con protagonisti Natalia Tena e David Verdaguer, la cui storia tratta di una giovane coppia catalana destinata a portare avanti la propria relazione a notevole distanza per cause lavorative. Grazie a questo lavoro, il cineasta ricevette il Premio Goya per il Miglior Regista esordiente e vinse ben tre Premi Gaudí - come Miglior Regista, Miglior Sceneggiatura e Miglior Film non in lingua catalana. Con il film Els dies que vindran (2019), presentato in anteprima mondiale all'International Film Festival di Rotterdam, Marques-Marcet vinse la Biznaga d'oro per il Miglior Film e la Biznaga d'argento per il Miglior Regista al Festival di Malaga, oltre ad altri due Premi Gaudí. La pellicola aveva per protagonista una coppia in attesa di un figlio non cercato. La particolarità dell’operaera che gli attori protagonisti, David Verdaguer e María Rodríguez Soto, erano realmente una coppia e lei era davvero incinta durante le riprese, in modo da rendere il tutto decisamente più realistico. Il regista spagnolo è ora tornato alla ribalta con il suo nuovo film, Polvo Serán , presentato in anteprima mondiale nella sezione Platform, nella quale ha trionfato vincendo l’agognato Platform Award. Il dramma è una storia d’amore a tinte tragicomiche, in cui il regista affronta un tema molto attuale ed estremamente problematico quale l’eutanasia e la libera scelta di concedersi al suicidio assistito per il desiderio di ricongiungersi con il proprio partner. Ciò che colpisce, però, del film, è il registro scelto per narrare un tema e una storia così pesante e così gravosa per gli spettatori. Marques-Marcet, infatti, punta soprattutto sulle interpretazioni istrioniche di due grandi attori della tradizione cinematografica spagnola e cilena, quali Ángela Molina e Alfredo Castro, per costruire un film ricco di cambi di registro, mai abusati e sempre posizionati in posti strategicamente adeguati rispetto alla narrazione, in modo tale da permettergli di affrontare la vicenda in modo delicato, sotto traccia, e mai sovra-esposto. Nonostante una seconda parte in cui la narrazione gira leggermente a vuoto e diventa ridondante, il pericolo di un film a tema monocorde è messo a tacere grazie a degli innesti parodistici e, soprattutto, grazie a degli inserti musicali. Le sequenze, infatti, che in un primo momento appaiono quasi un corpo esterno al film, diventano parte integrante del surrealismo di cui, man mano, si impregna tutta la vicenda, portando il regista spagnolo a sfruttare il corpo degli interpreti tramite performance che ricordano molto il weird di due registi quali Cristóbal León e Joaquín Cociña, richiamati soprattutto nel melting pot di generi e di registri utilizzati, tali da ricordare l’epoca post-moderna. Il tema surreale è richiamato anche e soprattutto attraverso le canzoni del musical, i cui testi conferiscono al film un mood quasi macabro, che si rispecchia anche nelle scelte registiche e scenografiche (soprattutto a causa dei fondali sempre cupi utilizzati e dei colori lividi), laddove i giochi della macchina da presa, che il regista muove perlopiù secondo gli assi ortogonali con carrellate orizzontali e verticali, creano una composizione visiva perlopiù simmetrica, che ha l’effetto di acuire lo straniamento dello spettatore, nei confronti di una love story abbastanza inusuale non sempre equilibrata, ma ricca d’inventiva.
Berger, di Sophie Deraspe
Vincitore del premio di Miglior Film canadese, Berger di Sophie Deraspe analizza quel desiderio che almeno una volta nella vita ci è passato di mente, ovvero quello di fuggire dalla monotona routine quotidiana, trasferirsi e cambiare vita. Spesso questo pensiero è dettato da un certo sentimento di frustrazione poiché non si è in grado di raggiungere i propri obiettivi, o semplice noia, come se si voglia scappare per intraprendere una nuova “avventura”. Entrambe queste cose sono ciò che spingono Mathyas (Félix-Antoine Duval) a lasciare alla spalle il suo comodo lavoro in ufficio a Montreal per trasferirsi sulle alture della Provenza e ricominciare da capo come pastore. Ma la tranquillità ricercata dal giovane ragazzo non è così facile da raggiungere e in poco tempo capisce la dura verità della vita di montagna. Ciò che colpisce di Berger è il modo diretto con cui Deraspe analizza il punto di vista di una persona che ha sempre idolatrato la semplicità della vita della classe operaia, mostrando tramite esso un iniziale scontro tra il nuovo arrivato e il resto della comunità pastorale. La regista non si nasconde dal mostrare le difficoltà di adattamento di Mathyas e i continui fallimenti del suo nuovo stile di vita. Ciò è messo in risalto dal modo in cui riprende il protagonista in questi paesaggi naturali, come se questi non fosse in grado di integrarsi pienamente con ciò che gli sta attorno. Dopo aver conosciuto Elise, una ragazza che ha intrapreso lo stesso stile di vita di Mathyas, i due opteranno di iniziare a lavorare con i trasferimenti dei greggi stagionali, una nuova “avventura” che ad un primo istante sembra meno difficoltosa della precedente. Berger è un film piuttosto semplice, un racconto sulla resilienza di un uomo che, nonostante le innumerevoli difficoltà, non ha mai rinunciato definitivamente al proprio obiettivo. La prima parte risulta più accattivante perché mostra il conflitto personale di Mathyas in un ambiente ostile e non accoglievole, a differenza della seconda che è per lo più incentrata sullo sviluppo del rapporto tra il protagonista ed Elise e come insieme riescono a superare le difficoltà incontrate. Nonostante la piacevole visione, Berger presenta diverse lacune, soprattutto nella gestione del ritmo, dove i tempi dilatati di certe sequenze nella seconda parte risultano stucchevoli, mentre la dinamica del duo non convince appieno sia per via di una scrittura semplice, sia per la mancanza di chimica tra i due interpreti.
Daughter’s Daugher, di Huang Xi
Il cinema taiwanese, negli ultimi tempi, sta vivendo una fase di stagnazione. Dopo rigoglioso periodo che ne ha segnato l’ascesa definitiva, soprattutto tra gli anni ‘80 e ‘90, attraverso le opere di maestri come Edward Yang, Hou Hsiao-Hsien e Tsai Ming-Liang, negli ultimi anni Taiwan è alla ricerca degli eredi di questo cinema particolarissimo. Huang Xi fa parte della “new generation”, di questi nuovi autori che potrebbero segnare una rinascita definitiva. La regista ha cominciato la sua carriera proprio con una collaborazione d’eccezione, lavorando sui set dei film del grande Hou Hsiao-Hsien, nella fattispecie Goodbye South, Goodbye (1996) e lo spettacolare The Assassin (2015), che resta l’ultimo capolavoro della carriera di un regista straordinario, ritiratosi definitivamente dalle scene lo scorso Ottobre a causa del morbo di Alzheimer. Nonostante tutto, questo non gli ha impedito di diventare produttore esecutivo della nuova fatica di Huang Xi, Daughter’s Daughter (2024), presentato nella sezione Platform e, in precedenza, al Festival di Cannes. Daughter’s Daughter è un dramma davvero molto interessante, che esplora le complessità e le difficoltà del sentimento materno e dell’adempiere al dovere della genitorialità, che ripercorre il processo di elaborazione del lutto e della perdita, che diventa espressione della forza interiore che gli stessi esseri umani devono avere per far fronte alle difficoltà della vita e all’incombenza della morte. Un film che, per certi versi, riprende molte tematiche del primo cinema di Hou Hsiao-Hsien, legato al ciclo della vita e al caso, e che proprio dal maestro taiwanese riprende il modo in cui mette a confronto generazioni diverse (con più di uno sguardo nei confronti del cinema di Ozu, anche nella fissità delle inquadrature) e tipi di pensiero sugli argomenti dell’attualità radicalmente diversi. Daughter’s Daughter è dunque un lavoro che si rifà naturalmente alla tradizione, e che però, paradossalmente, resta imprigionato proprio nei suoi fantasmi, non rinnovando la lezione e soprattutto mostrandosi poco capace di una propria autonomia. Il film, infatti, è molto dipendente dalla grande interpretazione di Sylvia Chang, qui bravissima a dare corpo alle sfumature emotive del racconto e a guidarlo soprattutto attraverso la sua mimica e trainandolo verso i vari registri che oltrepassa. La sua eccentricità e la sua bravura, però, paradossalmente, hanno un effetto castrante sulla riuscita del lungometraggio, in quanto l’attrice “tirannizza” la scena e oscura, di fatto, tutto il resto, lasciando incompleta la riflessione tra la vita e la morte. L’impressione è che Daughter’s Daughter resti troppo ancorato ed attaccato alla performance della straordinaria attrice di Taiwan, in quanto riesce a garantire la giusta autenticità al suo personaggio e a coinvolgere il pubblico nelle avventure della sua Jin. Nonostante un coinvolgimento molto alto, però, il film resta inespresso e gira a vuoto in molti punti del suo racconto.
By the Stream, di Hong Sang-soo
Hong Sang-soo è un autore ormai sempre presente all’interno della catena festivaliera annuale. Grazie alla sua proverbiale capacità di fornire sempre tantissimi prodotti all’interno di un singolo anno. Questa dote permette al regista di girare anche 3-4 film in un periodo breve e ad essere sempre presente nei festival più importanti dell’anno. Quest’anno, dopo aver portato alla Berlinale il suo splendido A Traveler’s Needs (2024) con protagonista Isabelle Huppert, Hong Sang-soo è tornato alla ribalta con un secondo film, già presentato durante l’estate al 77° Festival del Cinema di Locarno, dall’evocativo titolo By The Stream (2024), in cui torna a collaborare con la sua musa Kim Min-hee, anche vincitrice del Pardo per la miglior interpretazione proprio al festival svizzero. Nell’affrontare le peripezie della protagonista Jeonim, insegnante di teatro e vittima di uno scandalo che ne mette a repentaglio la presenza all’interno dell’università in cui la stessa insegna, Hong Sang-soo evolve il suo percorso tracciato proprio nel corso degli ultimi film. Qui, infatti, recupera una certa fiducia nella narrazione, contrapponendosi in modo totale alla sfiducia e alla “cecità” del suo alter ego Shin Seok-ho all’interno di In Water (2023), film con cui By The Stream dialoga in modo molto stretto, ponendosi come un vero e proprio controcampo. La ripetizione, cifra stilistica honghiana presente in modo assiduo nella sua filmografia, qui diventa uno strumento per comprendere le infinite possibilità della vita, riaffacciandosi al ruolo del caso e a come quest’ultimo possa rendere indecifrabili, vere o false, le strade percorribili all’interno della nostra esistenza. Anche per questo, il titolo, By The Stream, richiama al dualismo, laddove il “flusso” evocato è naturalmente quello narrativo (un vero e proprio must per Hong, che si inerpica nuovamente in dialoghi filosofici e molto accoglienti da Nouvelle Vague), ma diventa anche una rappresentazione stessa della vita, vista come una sequenza di eventi in cui il caso agisce in modo ininterrotto. Proprio per questo motivo, lo sguardo del cineasta è leggermente diverso da quello dei precedenti film, dove la regia, mobile ma più posata e meno estrosa, si allontana dagli out of focus che avevano caratterizzato In Water per approcciare, piuttosto, ad una realtà che ingloba il tessuto teatrale, mediante campi fissi che mirerebbero a restituire una dimensione di verità all’interno di un contesto fittizio. Alla fine, però, in questo gioco tra realtà e finzione emerge proprio la seconda, in quanto la vita stessa è una rappresentazione filtrata dal profilmico. Ciò che può abbattere questa barriera è proprio il corpo, veicolo di realismo mediante la gestualità dei suoi protagonisti, e veicolo di fruizione dello sketch agognato, ideato proprio dallo zio della protagonista, nuovo alter ego di Hong, che si occupa proprio di creare quell’anello di congiunzione tra filmico e profilmico, tra verità e menzogna, tra realtà e rappresentazione, che per l’uomo è vitale per riuscire ad insediarsi nel tessuto sociale e per non far prevalere una dimensione sull’altra, pena la perdita del senso di realtà e la materializzazione di un’Apocalisse “figurata”.
From Ground Zero, (Opera collettiva)
Con il termine ground zero spesso si fa riferimento a quel punto della superficie terrestre più vicino ad un’esplosione atomica o ad una catastrofe artificiale. La locuzione era stata coniata negli anni ‘40 quando furono fatti i primi esperimenti sulla bomba atomica e il “ground zero” era proprio il simbolo di questo “epicentro distruttivo”. Dopo gli sconvolgenti eventi che hanno condizionato Gaza dallo scorso ottobre, si può definitivamente dire che la Palestina è il ground zero dei nostri giorni. Il genocidio perpetrato da Israele nei confronti della popolazione palestinese è un atto disumano che ha portato l’uccisione di migliaia di bambini e alla quasi distruzione della città di Gaza. Per raccontare le atrocità subite e il molteplice punto di vista della popolazione durante questo tragico periodo, ventidue registi hanno deciso di collaborare per raccontare l’esperienza vissuta da queste persone. From Ground Zero narra quindi la difficile esistenza di un popolo costretto a vivere in un ambiente dominato da ansia e paura, dove il senso di sopravvivenza e di comunità rimangono tra le poche risorse rimaste. Con una durata che varia dai tre ai sette minuti, i diversi cortometraggi non sono in grado di approfondire o esplorare le situazioni mostrate nel dettaglio, ma è l’insieme di tutti questi progetti che funziona e rende il film una visione struggente, che evidenzia la grande volontà creativa di un gruppo di cineasti che vuole raccontare la resilienza del proprio Paese. L’opera mette in mostra un mix di generi e approcci che variano dal documentario alla finzione, con due cortometraggi che ci hanno impressionato particolarmente; Awakening di Mahdi Kreirah e Taxi Wanissa di Etimad Washah. Il primo mostra dei bambini ricreare uno dei tanti bombardamenti subito dalla città tramite la messa in scena di un breve spettacolo con dei burattini, mentre il secondo cortometraggio mostra le vicende di un uomo che lavora come “taxista” e porta in giro alcuni ragazzi grazie all’aiuto del suo asino Wanissa. Ad un certo punto il cortometraggio si interrompe e la scena dopo mostra la regista raccontare il perché di tale scelta; inizialmente il corto doveva terminare con l’uccisione del protagonista a seguito di un bombardamento, ma dopo che il fratello stesso della regista è stato ucciso dopo l’ennesimo attacco aereo israeliano, Washah ha optato di terminare il progetto raccontando semplicemente lo struggente avvenimento. La finzione cinematografica è diventata una realtà concreta ed è importante vedere e sentire determinate testimonianze in modo da avere piena consapevolezza della situazione palestinese.
Horizonte, di César Augusto Acevedo
È un film sulla morte, Horizonte, ultima opera del regista colombiano César Augusto Acevedo. Morte, distruzione, guerra. E i fantasmi che esse si lasciano alle spalle. Un figlio e sua madre vagano in paesaggi sconfinati alla ricerca di un padre scomparso. Spettri, ora carne ora simulacri, i due personaggi interagiscono con altri personaggi ponendosi domande sul significato della violenza e della guerra. I loro sguardi sono soggettive di fantasmi, le loro parole si muovono nel tessuto sonoro del film disarticolate dallo spazio dell’immagine. Cinema d’autore con alte ambizioni, Horizonte si colloca nel solco delle migliori opere di registi come Andrej Tarkovskij, mutuando diverse soluzioni stilistiche da maestri come Theo Angelopoulos, Aleksandr Sokurov, Carlos Reygadas e Sarunas Bartas. La letterarietà dei lunghi scambi fra personaggi, inizialmente straniante, fa assumere lentamente al film lo spessore di un romanzo. Tuttavia, Augusto Acevedo è abilissimo a mettere in relazione le parole con le immagini, rendendo Horizonte un flusso continuo in cui visivo e sonoro si rincorrono, collidono, combaciano, si dissolvono. Nonostante l’indubbio spessore filosofico di Horizonte e la complessità delle sue soluzioni audiovisive, il film non sembra però mai respingere lo spettatore. Il regista colombiano è abile nel disorientare il proprio pubblico senza però farlo mai uscire dal tessuto del film, e a donare alla propria opera un’atmosfera sospesa fra realtà e allucinazione, a rendere le proprie immagini ora impronte di spettri ora carne viva, ora sguardi di fantasmi ora volti di corpi. Ora regno imperante del campo ora visione impossibile, esternalizzata nel fuori campo. La presenza di queste diverse influenze, che si riflette sia sulla configurazione delle immagini sia sulla scrittura dei dialoghi, non dà mai a Horizonte l’impressione di un film privo di una propria, intima, anima e si percepisce l’urgenza da parte di Acevedo di riflettere sulla contemporaneità - del proprio paese e del mondo - utilizzando simboli e archetipi universali. Un cinema certo non per tutti i palati, ma in grado di soddisfare sia chi cerca un prodotto d’autore che non soffochi sotto il peso delle proprie ambizioni sia chi desidera un tipo di film che provino a sondare orizzonti del linguaggio a cui non siamo abituati, ma che non perdono la propria concretezza nelle velleità dello stile
U Are the Universe, di Pavlo Ostrikov
Piccolo miracolo produttivo, U are the Universe è un prodotto di fantascienza ucraino diretto da Pavlo Ostrikov. Girato interamente in studio, a Kiev, il film è interamente ambientato nell’astronave che trasporta l’ultimo uomo dell’universo, sopravvissuto all’improvvisa esplosione della terra. L’uomo, però, riesce a entrare in contatto con un’altra persona sopravvissuta, una meteorologa francese in orbita su Saturno, che proverà a raggiungere in ogni modo possibile. Le premesse del film di Ostrikov sono molto forti e il pretesto dell’improvvisa e insensata esplosione del globo funge da chiaro riferimento alla nostra attualità e sembra indirizzare U are the Universe verso riflessioni da sci-fi filosofico. Purtroppo, però, il film assume i toni improbabili della commedia, che risolve superficialmente ogni aspetto drammatico del racconto per cercare in tutti i modi una leggerezza che appare irrealistica per la situazione in cui si trova il protagonista del film. Anche quest’improbabile filtro, però, sembra applicato dal regista in maniera posticcia. Il risultato è un lavoro che non fa sorridere, non fa riflettere, non fa commuovere. La stessa messa in scena di Ostrikov è estremamente basilare, priva di intuizioni particolari. La scenografia estremamente fittizia dell’astronave non viene sfruttata nelle sue potenzialità e la prova dell’unico attore in campo – Volodymir Kravchuk – non è sufficiente per reggere il peso di un film che sembra naufragare nelle proprie ambizioni in ogni scena . A U are the Universe manca quindi sia la coerenza filosofica degli epigoni di 2001: Odissea nello spazio (1968) - che il film richiama esplicitamente, quasi come se la citazione all’opera di Kubrick fosse un obbligo -, sia lo spessore introspettivo di film come Her (2013) - anch’esso basato sulla relazione fra un personaggio e una voce fuori campo -, sia la comicità di opere come Guida Galattica per Autostoppisti (2005), da cui il film prende in prestito la figura del computer di bordo sempre allegro e positivo. Conclusa la visione della pellicola, si ha quindi più la sensazione che la sua importanza sia più legata alla sua vicenda produttiva che al contenuto che ha da offrire. Un vero peccato, visto che a mancare al film ucraino, più che i mezzi tecnici, è l’ispirazione.
Los Tortuga, di Belén Funes
La macchina da presa si muove silenziosa fra gli ulivi fino a focalizzarsi su un gruppo di persone - che scopriremo essere un nucleo familiare - intente a raccoglierle. L'inizio di Los Tortuga, opera seconda della spagnola Belén Funes, lascia già trasparire il tatto della regista e il modo in cui si approccia alla difficile tematica del film. Al centro della storia, infatti, c'è l'elaborazione della perdita del perno della propria famiglia da parte di una madre, una donna cilena, e una figlia. Un padre e un marito spagnolo, originario della campagna andalusa, che ha lasciato una moglie straniera a interfacciarsi con una società che sembra respingerla e una giovane figlia piena di ambizioni. Quello che nei primi venti minuti pare essere un racconto contadino tanto caro alla cinematografia d'autore spagnola, che sembra situarsi sulle tracce di Alcarràs (2022) di Carla Simón e del cinema di Victor Erice e Carlos Saura, vira però improvvisamente per diventare un melodramma urbano, di interni, che tratteggia con grande sensibilità i comportamenti e le emozioni delle due protagoniste. Impreziosito da un'attenta scrittura e da due ottime prove attoriali - la madre è interpretata da un'eccezionale Antonia Zegers, attrice feticcio di Pablo Larraìn - Los Tortuga è un racconto sulla necessità di liberarsi dai fantasmi del passato che ci incatenano al presente, di costruire una propria identità per liberarsi dalla sensazione di vivere da esuli in ambienti improvvisamente diventati estranei. Belén Funes scruta i silenzi delle protagoniste, coglie con estrema naturalezza esplosioni di rabbia e momenti d'affetto, crea - senza che essi mai sovrastino i personaggi - ambienti ora caldi e familiari ora freddi e perturbanti, donando sapore e colore agli spazi ripresi. E, senza neanche accorgersene, si arriva alla fine del film con gli occhi lucidi.
Seven Days, di Ali Samadi Ahadi
Ali Samadi Ahadi fa parte della schiera di nuovi autori messi in campo dal cinema iraniano, autori capaci di infondere alla Settima Arte mediorientale un ideale incontro tra vecchio e nuovo, tra la tradizione e la novità che avanza. Il regista ha avuto un’infanzia difficile, figlia del continuo conflitto tra il suo Paese e il vicino Iraq, che lo ha portato, all’età di 12 anni, a scappare a causa della guerra tra i due Stati. Dopo essersi laureato in Sociologia ad Hannover, ha lavorato come sceneggiatore, in primis, e poi regista. Proprio in questo campo si è poi contraddistinto, in primis con il suo documentario dal titolo Africa Mayibuye (2005), presentato in anteprima al Film Festival di Mannheim. Successivamente, ha vinto il premio per la miglior opera prima alla Berlinale del 2009, con il suo Salami Aleikum (2009), satira su una famiglia di migranti iraniani in Germania che cerca di costruirsi una propria vita. Dopo alcuni documentari dal timbro molto più politico e civilmente impegnato, Ali Samadi Ahadi ha deciso di cambiare genere e sperimentare, prima attraverso l’animazione con il suo Moonbound (2021), bocciato dalla critica internazionale e poi, proprio al TIFF 2024, con il suo Seven Days . Il film si avvale di una collaborazione iraniana illustre, quale quella del regista Mohammad Rasoulof, regista vincitore dell’Orso d’Oro nel 2020 a Berlino con il suo There Is No Evil e del Premio Speciale della Giuria con il suo ultimo film, The Seed Of The Sacred Fig , al Festival di Cannes 2024. Il contributo di Rasoulof, impegnato nella scrittura di Seven Days, si avverte nei temi trattati e nell’intensità con cui questi vengono affrontati. Il film è infatti un ritratto a tutto tondo, psicologico, delle donne iraniane, ostaggio di una cultura retrograda e maschilista, le quali rischiano la propria vita e si mettono sempre in gioco pur di difendere la propria famiglia. Dall’altra parte, invece, vi è uno Stato, come quello iraniano, oppressivo, che sancisce il loro ruolo di semplici “mogli” all’interno della cultura mediorientale, di essere semplici succubi del potere maschilista e patriarcale che ne minaccia l’integrità. Seven Days è dunque un film sulla libertà, sul rendere manifesta la validità dei propri diritti e, soprattutto, sulle donne che, nonostante la loro condizione, non smettono mai di lottare per il proprio Paese. Samadi Ahadi, per creare questo ritratto a tutto tondo, usa una tecnica di ripresa molto mossa, lasciando che, però, sia il sottinteso delle inquadrature a creare l’atmosfera e soprattutto relegando il piano emotivo del film all’uso insistito di primi piani per mettere in risalto l’emotività della recitazione di Vishka Asayesh, qui bravissima a tratteggiare un profilo dolente e ad empatizzare con lo spettatore. Paradossalmente, però, proprio questa ricerca emotiva quasi ossessiva abbandona la pellicola ad una convenzionalità da semplice mystery movie che, purtroppo, ne deprezza il valore. Infatti, Seven Days gioca al meglio le proprie carte attraverso i campi lunghi e tramite i long take (soprattutto nella seconda parte, quando l’intrigo si innesca in modo definitivo e prende il sopravvento sul dramma). Così facendo, rende più godibili le sue repentine accelerazioni di ritmo e gli restituisce una tensione che, nella prima parte, latita per lunghi tratti ed è risvegliata solo a fasi alterne,rendendolo un thriller politico molto interessante soprattutto sul fronte visivo, restituendo bene il sacrificio, lo spirito di “resistenza” e il potere dei legami familiari che Samadi Ahadi si preoccupa di mettere in evidenza.
The Courageous, di Jasmin Gordon
Esordio dietro la macchina da presa per la regista svizzero-statunitense Jasmin Gordon, The Courageous riflette la molteplicità di influenze della regista. Il racconto della famiglia disfunzionale protagonista del film, infatti, sembra fondere una tipologia di racconto della provincia tipico del cinema indipendente americano del nuovo millennio con uno stile e un naturalismo più proprio del cinema francofono europeo. Il risultato è un lungometraggio estremamente consapevole, che non perde mai il proprio focus, e presenta allo spettatore un ritratto di un rapporto di amore coraggioso e disperato fra una madre e i propri figli. Jasmin Gordon gestisce con grande perizia i ritmi del film e lascia abilmente scorrere il dramma sottotraccia, lasciando che esso si insinui lentamente fra le pieghe della storia per arrivare ad un'esplosione silenziosa e, proprio per questo, di grande impatto. Cinema di osservazione che lascia emergere l'urgenza del proprio contenuto senza sovra-esporla e trasformarla in una facile morale, The Courageous viene impreziosito dall'ottima prova di Ophélia Kolb. L'attrice francese dona corpo e anima a una madre disperata, disposta a fare di tutto per garantire la sopravvivenza ai propri figli. Il suo nervosismo, che scorre latente per tutto il film, sembra condizionare i movimenti della macchina da presa, quasi sempre a mano, e trasmette allo spettatore quel senso di fastidio che permette all'opera di aprire un varco nella nostra sensibilità e di non farla passare inosservata.
Mr. K, di Tallulah Hazekamp Schwab
Tallulah Hazekamp Schwab è una degli autori norvegesi più interessanti del cinema contemporaneo. La regista vive e lavora in Olanda, e si è affermata con il corto The Driving Exam , presente nella raccolta di film Kort! (2005) e la serie TV Mimoun (2013), nominata per un Emmy Award e vincitrice del prestigioso Prix Jeunesse International. L’anno seguente, tramite la serie Taart (2014) ha ravvivato il suo successo, conquistando una nuova nomination per l’Emmy. Dopo aver esordito ufficialmente nel lungometraggio con il suo Dorsvloer vol confetti (Confetti Harvest, 2014), coming-of-age che racconta della dodicenne Katelijne, unica ragazza in una famiglia di sette fratelli completamente abbandonata a sé stessa nel marasma dell’adolescenza e costretta a far fronte ad una realtà, come quella protestante, completamente cieca nei confronti delle sue esigenze, La Schwab presenta al TIFF 2024 la sua nuova commedia surreale,Mr. K. Già il titolo del film rievoca un personaggio chiave della narrativa internazionale: Franz Kafka, scrittore ceco e autore del famigerato racconto La Metamorfosi (1915). Nel seguire la vicenda di Crispin Glover, mago di professione che, dopo uno spettacolo, finisce in un hotel isolato lontano da tutto e da tutti, quasi al di fuori del tempo e dello spazio, la regista riesce a donare alla letteratura da cui trae ispirazione un carattere estremamente divertente e per nulla scontato. Il film, ambientato in unità di luogo, si avvale soprattutto di una costruzione visiva davvero interessante, dove torna in auge lo strutturalismo che aveva animato gli anni primordiali del cinema, e dove la macchina da presa segue itinerari espressionisti, figli di un design che ricorda da vicino le composizioni di Escher (soprattutto per quel che concerne l’utilizzo e i richiami delle scenografie). Questa forma molto particolare ha come obiettivo (riuscito) quello di restituire in modo mai gravoso, e anzi divertente e ironico, l’alienazione dell’individuo degli anni 2000, mostrando come, dal ‘900, quasi nulla sia cambiato. Così, Mr. K è un film che cede quasi continuamente al weird, e che va di pari passo con il percorso “interiore” del suo protagonista, il cui comportamento assume sempre meno senso di situazione in situazione. Il percorso a scatole cinesi che il bizzarro Crispin Glover affronta porta lo spettatore a pensare proprio alla letteratura novecentesca e alla critica burocratica, laddove l’allegoria della scalata sociale diventa chiara in un primo momento, salvo poi svoltare e intraprendere il carattere di una vera e propria rivoluzione, mostrando così un attaccamento al non-sense che porta l’opera a cedere a registri paradossali che ricordano, da vicino, sia il cinema coeniano più psicologico -in particolare Barton Fink (1991), proprio in virtù della regia sopra le righe l e delle conturbanti scenografie anonime - sia i copioni più assurdi di un maestro come Charlie Kaufman, il cui umorismo raffinato viene ripreso con un gusto molto meno intellettuale e più “pop”. Anche l’estetica “labirintica”, fatta di piani sequenza ortogonali e di riprese con punti macchina distorcenti, viene fortemente influenzata da una componente surreale mai stucchevole, ma sempre gradevole e divertente.