NC-249
08.11.2024
Tutte le immagini creano una finzione. Anche quelle che definiremmo realistiche. Bruno Dumont lo sa benissimo. Soprattutto, sa che le immagini del presente - immagini senza corpo, senza gesto, atto fisico creativo, senza un rapporto chimico e quindi reale con la porzione di mondo che vogliono catturare - possono creare non più soltanto una finzione, ma il reale stesso. Benvenuti, insomma, nel digitale, dove la distopia di immagini autonome e viventi incontrano il caro vecchio analogico essere umano. In questo scenario, la filmografia di Dumont, torna sempre al corpo. Non tanto alla perlustrazione ossessiva della fisicità umana, quanto alla sua sostanziale assenza di significato, al suo tendere a gesti, pose, impeti e scelte che uniscono l’animale al culturale. In L'Empire (L'Impero, 2016), divertita e impeccabile summa di una lunga riflessione sul cinema ora disponibile su MUBI, il corpo, inteso come linguaggio del gesto umano, è oggetto di una disputa, terreno di una crisi umana e quindi anche cinematografica, luogo di una contesa quasi cavalleresca tra realtà e finzione.
Ecco perché è un'opera scissa tra immagini-realistiche e immagini-azioni della fantasia, un film che, veicolato da una forma ariosa, curata e semplice, si incunea in modo complesso e stratificato tra l'apparente leggerezza delle vicende e la superficiale immediatezza delle immagini. Ad un primo sguardo, l'ultimo lavoro di Dumont risulta una commedia corale che scherza con il tragico, un cinecomic devoto e citazionista, una parodia dell’immaginario di Star Wars dall’andamento surrealmente nordico, un divertissement che è ironico perché già arreso alla fine del mondo e forse, alla fine del cinema. Più in profondità, c'è una riflessione ancora vivida, come spesso nella filmografia del regista francese, imperniata su una tensione che, innanzitutto, si basa su una rivalità più detta che combattuta, una competizione appositamente abbozzata, schematica, quella tra 0 e 1, forze del bene e forze del male, nella contesa del mcguffin-bebè Margat, corpo silente e simbolico, pseudo-cristologico come quello di Jeannette (2017) prima e Jeanne d'Arc (2019) poi.
Un corpo da indagare, un corpo come premessa, analogamente a molti altri suoi film - L'Humanité (L’umanità, 1999), Ma loute (2016) - spesso accompagnati dalla falsa pista di un’indagine - qui ritornano i poliziotti della miniserie P'tit Quinquin (2014). Ma soprattutto una tensione che non si limita a contrapporre buoni e cattivi, ma arriva a una battaglia in cui scenari, generi, immaginari e norme creative arrivano a contaminarsi: da una parte la commedia alienata ambientata nella realtà dimessa e plumbea di un annoiato villaggetto di pescatori nella Côte d’Opale, dall'altra il cinefilo sci-fi dell'incombere di una guerra intergalattica nei suoi cieli. Una coesistenza che immerge la dinamica buoni-cattivi, nel cross-over tra realismo Lumière e immaginismo Méliès, tra sguardo abitudinario e sguardo alieno, tra reale di provincia e finzione sci-fi, tra wilderness di provincia e celestiale iper-spazio in CGI: si confabula di eliminare il principe delle tenebre, ma lo si fa appartati in un mercatino di provincia, nella continua folie à deux più che tra generi, tra tipi di cinema lontanissimi tra loro, nell'assurda e straniante coesistenza di spade laser e vita da vicinato.
Quello di L'Empire , è un cinema che sceglie di solcare il no-sense, estremizzando conflitti, portandoli al loro zenit. E lo stesso fanno gli attori: da una parte ci sono gli interpreti non professionisti tanto cari a Dumont, appartenenti all'orizzonte laconico, rurale e anti-metropolitano dell'estremo nord francese, dall'altro l'apposito eccesso grottesco e caricaturale di attori che, come in Ma loute, calcano, oltre che su costumi e trucchi cartooneschi, su pose sature, esagerazioni e tic gestuali, corporeità che, come in La vie de Jésus (L'età inquieta, 1997), tendono alla convulsione di interpreti conosciutissimi come Fabricie Luchini, Camille Cottin, Lyna Khoudri e Annamaria Vartolomei, star de-locate nel vuoto di una location anti-cinematografica.
Ed è proprio il corpo degli attori, come spesso accade in Dumont, a dare significato a un lungometraggio che sembra affermare per tutta la sua durata, l'impossibilità di un cinema significativo nell'oggi, la coscienza di un'assenza di senso, nell'epoca in cui ogni essere umano è consapevole, non solo della natura costruibile delle narrazioni e delle finzione, ma dei mezzi e degli strumenti che servono a costruirle. Noi spettatori, contesi come il piccolo Margat tra due fazioni, due tipologie di cinema diversissime, qui straordinariamente coesistenti, ci perdiamo nella girovagazione corale di un’opera in cui, scena dopo scena, il punto sembra essere il cinema stesso, la fede di cui necessitiamo per credergli, una fede che ha a che vedere innanzitutto proprio con le immagini, in un epoca in cui ne siamo saturati, vinti, contornati.
Da una prospettiva aliena, l'abitudine diventa apocalittica ed extra-umana, mentre l'intergalattico non può che desiderare sembianze umane. Entrambi gli orizzonti di cielo sci-fi e terra naturalistica, sono uniti da una linea dell'orizzonte che la fotografia del film, tiene ferreamente retta, rigida, ancorata alla frontalità dell’immagine. Tutto insomma - cielo e strade, finzione e reale, sci-fi e commedia, apocalissi e routine - si unisce, desidera, si proietta vicendevolmente, mentre il bestiario misto che popola la pellicola girovaga sperso in una fantascienza western in cui la lotta, incurante delle logiche fidelizzante di climax, cliffhanger e colpi di scena, vegeta verso il finale senza alcun reale vincitore. Perché il film di Bruno Dumont si imperna, non sulla trama, non sul "come va a finire", ma sulla soglia tra credibile e incredibile, tra giudizio razionale e immersione nel racconto. Come a dire che lo spettatore iper-conscio di oggi, necessita di ricalibrare in continuazione la sua capacità di credere a ciò che vede.
Ecco perché nel conflitto schematico e pretestuoso, alla fine vince solo la capacità del cinema di reinventarsi, rinnovando la nostra fiducia nelle immagini. Come? Lo spiegano bene le presenze aliene del film, consapevoli che “senza un corpo non siamo niente, niente!", come dice Jane a Jony dopo che, nonostante le fazioni coatte e pretestuose di una trama “cinematografica” che li vuole nemici, gli ricorda del loro amore. La cifra peculiare di un regista che nell’ultima parte della sua carriera ha spesso riflettuto sul cambiamento del cinema nel contemporaneo è proprio il corpo: corpo come punto di partenza e al contempo di arrivo. In un epoca in cui perde di materialità, di contatto con la terra, il corpo umano diventa il vero terreno di auto-valutazione di un cinema sempre più prevedibile, post-producibile e dis-identitario. Tra guitti, pose artificiali, esagerazioni fisiche e iperboli prossemiche, alla fine, come nei film “ambientali” Twentynine Palms (2003), Flanders (2006) e Hors Satan (2011), prevale la tensione originaria, elettrica, primordiale e passionale dell'istinto: una verve che anima i tragitti e i movimenti senza calcare sulla violenza e la passione come climax patemici, ma piuttosto accettandole come eruzioni del vivere.
Come in France (2021) e in tanta altra filmografia di Bruno Dumont, è il corpo stesso, testimone in presenza, ad abbondare la pretesa di realtà, di cronaca diretta, di puro mimetismo, non resistendo a trasformare il reale che vive in finzione, spettacolo. Perché il corpo, in Dumont, è da sempre stato un atto di fede, un patto tra l'immagine cinematografica e chi la guarda, anche quando il suo gesto era la finzione. Una finzione che in Jeanne D’Arc è legata al mito e all’icona, in France alla televisiva, ne L'impero alla cinematografica, in Ma loute alla sembianza stessa dei personaggi, alla loro apparenza, alla loro gestualità. Ecco perché le vicende delle sue storie spesso appaiono trascurabili, diluite nei suoi ambienti vastissimi, sconfinati: il fulcro dell'opera di Dumont non è mai la successione delle azioni, quanto l'incontenibile, umanissima verità dal quale emergono coi gesti nello spazio.
Non è un caso se nel finale, i corpi dei protagonisti, tra cui quelli di Jane e Jony, abbandoneranno la sembianza e la riconoscibilità di un'identità umana, tramite il geniale espediente della rotazione sempre più veloce di un'inquadratura ancorata all’epicentro della navicella spaziale che guidano. Una fuga al contempo centripeta e centrifuga dal cinema per come siamo abituati a conoscerlo. Come a dire che l'immagine avveniristica, spaziale, ultra-terrena e iper-finzionale della Settima Arte allontana l'umano dalla sua identità; che il cinema, nella sua età più pervasiva, espansa e potente, sta clamorosamente perdendo di vista l'essere umano - un gol sbagliato a porta vuota.
Giorgio Agamben, nel definire cosa significhi la parola "contemporaneo", sostiene che è "contemporaneo" tutto ciò che fa parte del suo tempo, senza combaciare perfettamente con esso, rimanendo quindi leggermente fuori sincrono rispetto all’imperterrita marcia del presente. Seguendo questa considerazione, ciò che rende contemporaneo un autore come Bruno Dumont, è la capacità di cavalcare e assieme discostarsi dalle abitudini espressive dell'oggi. Un regista che, pur moralizzando su una confusione cinematografica molto attuale, riesce ad essere urgente senza risultare necessariamente realista, a parlare di cinema senza essere meta-cinematografico, a interrogare la sua arte senza odiarla, ad evocare l'oggi senza mostrarlo mai. E in questo, L'Empire, tra eccentricità e insensatezze, mitologie e dirimpettai, guerre e routine, riflessione e gesto, riesce a mantenere una cifra rara, che a tanto cinema contemporaneo manca: l’equilibrio dei corpi, nella più esagerata delle storie. Perché alla fine, ciò che rimane del più mirabolante degli universi immaginabili, precipita sempre sul nostro vecchio, consunto, prevedibile pianeta terra.
Abbiamo collaborato con MUBI, clicca qui per vedere L'Empire e ottenere 30 giorni gratis sulla piattaforma.
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08.11.2024
Tutte le immagini creano una finzione. Anche quelle che definiremmo realistiche. Bruno Dumont lo sa benissimo. Soprattutto, sa che le immagini del presente - immagini senza corpo, senza gesto, atto fisico creativo, senza un rapporto chimico e quindi reale con la porzione di mondo che vogliono catturare - possono creare non più soltanto una finzione, ma il reale stesso. Benvenuti, insomma, nel digitale, dove la distopia di immagini autonome e viventi incontrano il caro vecchio analogico essere umano. In questo scenario, la filmografia di Dumont, torna sempre al corpo. Non tanto alla perlustrazione ossessiva della fisicità umana, quanto alla sua sostanziale assenza di significato, al suo tendere a gesti, pose, impeti e scelte che uniscono l’animale al culturale. In L'Empire (L'Impero, 2016), divertita e impeccabile summa di una lunga riflessione sul cinema ora disponibile su MUBI, il corpo, inteso come linguaggio del gesto umano, è oggetto di una disputa, terreno di una crisi umana e quindi anche cinematografica, luogo di una contesa quasi cavalleresca tra realtà e finzione.
Ecco perché è un'opera scissa tra immagini-realistiche e immagini-azioni della fantasia, un film che, veicolato da una forma ariosa, curata e semplice, si incunea in modo complesso e stratificato tra l'apparente leggerezza delle vicende e la superficiale immediatezza delle immagini. Ad un primo sguardo, l'ultimo lavoro di Dumont risulta una commedia corale che scherza con il tragico, un cinecomic devoto e citazionista, una parodia dell’immaginario di Star Wars dall’andamento surrealmente nordico, un divertissement che è ironico perché già arreso alla fine del mondo e forse, alla fine del cinema. Più in profondità, c'è una riflessione ancora vivida, come spesso nella filmografia del regista francese, imperniata su una tensione che, innanzitutto, si basa su una rivalità più detta che combattuta, una competizione appositamente abbozzata, schematica, quella tra 0 e 1, forze del bene e forze del male, nella contesa del mcguffin-bebè Margat, corpo silente e simbolico, pseudo-cristologico come quello di Jeannette (2017) prima e Jeanne d'Arc (2019) poi.
Un corpo da indagare, un corpo come premessa, analogamente a molti altri suoi film - L'Humanité (L’umanità, 1999), Ma loute (2016) - spesso accompagnati dalla falsa pista di un’indagine - qui ritornano i poliziotti della miniserie P'tit Quinquin (2014). Ma soprattutto una tensione che non si limita a contrapporre buoni e cattivi, ma arriva a una battaglia in cui scenari, generi, immaginari e norme creative arrivano a contaminarsi: da una parte la commedia alienata ambientata nella realtà dimessa e plumbea di un annoiato villaggetto di pescatori nella Côte d’Opale, dall'altra il cinefilo sci-fi dell'incombere di una guerra intergalattica nei suoi cieli. Una coesistenza che immerge la dinamica buoni-cattivi, nel cross-over tra realismo Lumière e immaginismo Méliès, tra sguardo abitudinario e sguardo alieno, tra reale di provincia e finzione sci-fi, tra wilderness di provincia e celestiale iper-spazio in CGI: si confabula di eliminare il principe delle tenebre, ma lo si fa appartati in un mercatino di provincia, nella continua folie à deux più che tra generi, tra tipi di cinema lontanissimi tra loro, nell'assurda e straniante coesistenza di spade laser e vita da vicinato.
Quello di L'Empire , è un cinema che sceglie di solcare il no-sense, estremizzando conflitti, portandoli al loro zenit. E lo stesso fanno gli attori: da una parte ci sono gli interpreti non professionisti tanto cari a Dumont, appartenenti all'orizzonte laconico, rurale e anti-metropolitano dell'estremo nord francese, dall'altro l'apposito eccesso grottesco e caricaturale di attori che, come in Ma loute, calcano, oltre che su costumi e trucchi cartooneschi, su pose sature, esagerazioni e tic gestuali, corporeità che, come in La vie de Jésus (L'età inquieta, 1997), tendono alla convulsione di interpreti conosciutissimi come Fabricie Luchini, Camille Cottin, Lyna Khoudri e Annamaria Vartolomei, star de-locate nel vuoto di una location anti-cinematografica.
Ed è proprio il corpo degli attori, come spesso accade in Dumont, a dare significato a un lungometraggio che sembra affermare per tutta la sua durata, l'impossibilità di un cinema significativo nell'oggi, la coscienza di un'assenza di senso, nell'epoca in cui ogni essere umano è consapevole, non solo della natura costruibile delle narrazioni e delle finzione, ma dei mezzi e degli strumenti che servono a costruirle. Noi spettatori, contesi come il piccolo Margat tra due fazioni, due tipologie di cinema diversissime, qui straordinariamente coesistenti, ci perdiamo nella girovagazione corale di un’opera in cui, scena dopo scena, il punto sembra essere il cinema stesso, la fede di cui necessitiamo per credergli, una fede che ha a che vedere innanzitutto proprio con le immagini, in un epoca in cui ne siamo saturati, vinti, contornati.
Da una prospettiva aliena, l'abitudine diventa apocalittica ed extra-umana, mentre l'intergalattico non può che desiderare sembianze umane. Entrambi gli orizzonti di cielo sci-fi e terra naturalistica, sono uniti da una linea dell'orizzonte che la fotografia del film, tiene ferreamente retta, rigida, ancorata alla frontalità dell’immagine. Tutto insomma - cielo e strade, finzione e reale, sci-fi e commedia, apocalissi e routine - si unisce, desidera, si proietta vicendevolmente, mentre il bestiario misto che popola la pellicola girovaga sperso in una fantascienza western in cui la lotta, incurante delle logiche fidelizzante di climax, cliffhanger e colpi di scena, vegeta verso il finale senza alcun reale vincitore. Perché il film di Bruno Dumont si imperna, non sulla trama, non sul "come va a finire", ma sulla soglia tra credibile e incredibile, tra giudizio razionale e immersione nel racconto. Come a dire che lo spettatore iper-conscio di oggi, necessita di ricalibrare in continuazione la sua capacità di credere a ciò che vede.
Ecco perché nel conflitto schematico e pretestuoso, alla fine vince solo la capacità del cinema di reinventarsi, rinnovando la nostra fiducia nelle immagini. Come? Lo spiegano bene le presenze aliene del film, consapevoli che “senza un corpo non siamo niente, niente!", come dice Jane a Jony dopo che, nonostante le fazioni coatte e pretestuose di una trama “cinematografica” che li vuole nemici, gli ricorda del loro amore. La cifra peculiare di un regista che nell’ultima parte della sua carriera ha spesso riflettuto sul cambiamento del cinema nel contemporaneo è proprio il corpo: corpo come punto di partenza e al contempo di arrivo. In un epoca in cui perde di materialità, di contatto con la terra, il corpo umano diventa il vero terreno di auto-valutazione di un cinema sempre più prevedibile, post-producibile e dis-identitario. Tra guitti, pose artificiali, esagerazioni fisiche e iperboli prossemiche, alla fine, come nei film “ambientali” Twentynine Palms (2003), Flanders (2006) e Hors Satan (2011), prevale la tensione originaria, elettrica, primordiale e passionale dell'istinto: una verve che anima i tragitti e i movimenti senza calcare sulla violenza e la passione come climax patemici, ma piuttosto accettandole come eruzioni del vivere.
Come in France (2021) e in tanta altra filmografia di Bruno Dumont, è il corpo stesso, testimone in presenza, ad abbondare la pretesa di realtà, di cronaca diretta, di puro mimetismo, non resistendo a trasformare il reale che vive in finzione, spettacolo. Perché il corpo, in Dumont, è da sempre stato un atto di fede, un patto tra l'immagine cinematografica e chi la guarda, anche quando il suo gesto era la finzione. Una finzione che in Jeanne D’Arc è legata al mito e all’icona, in France alla televisiva, ne L'impero alla cinematografica, in Ma loute alla sembianza stessa dei personaggi, alla loro apparenza, alla loro gestualità. Ecco perché le vicende delle sue storie spesso appaiono trascurabili, diluite nei suoi ambienti vastissimi, sconfinati: il fulcro dell'opera di Dumont non è mai la successione delle azioni, quanto l'incontenibile, umanissima verità dal quale emergono coi gesti nello spazio.
Non è un caso se nel finale, i corpi dei protagonisti, tra cui quelli di Jane e Jony, abbandoneranno la sembianza e la riconoscibilità di un'identità umana, tramite il geniale espediente della rotazione sempre più veloce di un'inquadratura ancorata all’epicentro della navicella spaziale che guidano. Una fuga al contempo centripeta e centrifuga dal cinema per come siamo abituati a conoscerlo. Come a dire che l'immagine avveniristica, spaziale, ultra-terrena e iper-finzionale della Settima Arte allontana l'umano dalla sua identità; che il cinema, nella sua età più pervasiva, espansa e potente, sta clamorosamente perdendo di vista l'essere umano - un gol sbagliato a porta vuota.
Giorgio Agamben, nel definire cosa significhi la parola "contemporaneo", sostiene che è "contemporaneo" tutto ciò che fa parte del suo tempo, senza combaciare perfettamente con esso, rimanendo quindi leggermente fuori sincrono rispetto all’imperterrita marcia del presente. Seguendo questa considerazione, ciò che rende contemporaneo un autore come Bruno Dumont, è la capacità di cavalcare e assieme discostarsi dalle abitudini espressive dell'oggi. Un regista che, pur moralizzando su una confusione cinematografica molto attuale, riesce ad essere urgente senza risultare necessariamente realista, a parlare di cinema senza essere meta-cinematografico, a interrogare la sua arte senza odiarla, ad evocare l'oggi senza mostrarlo mai. E in questo, L'Empire, tra eccentricità e insensatezze, mitologie e dirimpettai, guerre e routine, riflessione e gesto, riesce a mantenere una cifra rara, che a tanto cinema contemporaneo manca: l’equilibrio dei corpi, nella più esagerata delle storie. Perché alla fine, ciò che rimane del più mirabolante degli universi immaginabili, precipita sempre sul nostro vecchio, consunto, prevedibile pianeta terra.
Abbiamo collaborato con MUBI, clicca qui per vedere L'Empire e ottenere 30 giorni gratis sulla piattaforma.