Vi raccontiamo una delle voci più interessanti
del cinema indipendente americano,
di Andrea Tiradritti
TR-36
10.10.2021
Nel 2007 Cristian Mungiu vince la Palma d’oro a Cannes per 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni. Nel 2020 Mai raramente a volte sempre di Eliza Hittman ottiene il gran premio della giuria al Festival di Berlino. I due film, seppur ambientati in epoche storiche e contesti sociali molto diversi, affrontano entrambi il tema dell’aborto al di là di astratti posizionamenti ideologici, mostrando senza retorica esperienze personali in grado di scardinare tabù e pregiudizi. Che sia nella Bucarest sovietica del 1987, ormai sfinita da decenni di illiberale sistema comunista, o nell’America democratica e capitalista dei nostri giorni, il diritto delle donne di autodeterminarsi è sempre stato e continua ad essere terreno di aspra lotta civile, fragile conquista da raggiungere e salvaguardare ogni giorno. Mentre Mungiu declina la sua storia al passato, filmando la feroce ipocrisia di una società in dissoluzione e l’orrore di una prospettiva in cui scegliere di abortire equivale a una via crucis, Hittman radica il suo racconto nel presente, fra le piaghe di una mentalità che in modo più sottile di allora, ma non senza violenza e pervasività, persiste nel tentativo di prevaricare le libertà individuali e regolamentare i desideri femminili. Come nei suoi due lungometraggi precedenti la regista newyorkese indaga quel delicato momento di sconfinamento e ricerca di sé che è la transizione dall’adolescenza all’età adulta, rivelandone con bruciante oggettività i riti iniziatici, le pulsioni irrefrenabili e i dolorosi smarrimenti. Se i giovani personaggi di It Felt Like Love (2013) e Beach Rats (2017) sono alle prese con l’esplosione della loro immaginazione erotica, intuendo per la prima volta come la loro identità sessuale sia una forza tanto dirompente quanto traumatica, Autumn, la protagonista di Mai raramente a volte sempre, porta invece in grembo la differenza che la catapulta in una dimensione ostile e sconvolgente.
It Felt Like Love raccontava l’irrompere della sessualità nella vita di una quattordicenne e i suoi pericolosi tentativi di emulare le conquiste amorose dell’amica più grande. Soffermandosi sull’ebbrezza e la paura che accompagnano i primi momenti di scoperta della propria libidine, il film aveva il pregio di invertire la prospettiva comune inerente alla meccanica del desiderio. La regista infatti non rappresenta la ragazza soltanto come oggetto desiderato, ma anche e soprattutto come soggetto desiderante. La sua è una condizione attiva, libera, senz’altro malferma ma proprio per questo interessante. Lo sguardo del film è il suo sguardo, il motore le sue scelte. Se mostrare oggi, nella nostra società, il desiderio femminile come agente rispetto al maschile equivale ancora a nuotare controcorrente e a ribaltare una narrazione calcificata, rappresentare con cruda espressività le pulsioni di un’adolescente assume connotati quasi sovversivi. Hittman pone consapevolmente lo spettatore in una posizione scomoda perché lo costringe ad abbattere idealizzazioni, rivedere certezze e subire desideri estranei alla sua norma. Che un giovane ragazzo avverta il bisogno di fare sesso per accertare la sua validità sociale è da tutti ritenuto normale e persino giusto, ma cosa accade quando un desiderio speculare muove una ragazza a compiere gli stessi gesti? Quali giudizi siamo portati a esprimere su di lei, la sua moralità e il suo grado di rispettabilità pubblica?
La volontà di narrare desideri periferici, insieme alla sensibilità di esplorare il faticoso processo di costruzione della propria identità individuale in relazione al mondo sono elementi che Hittman ha conservato nei suoi due film successivi. Mentre Beach Rats si concentrava sulle difficoltà di un ragazzo bisessuale nell’accettarsi all’interno di un contesto fortemente maschile e ostentatorio, Mai raramente a volte sempre interroga le dimensione etica della regolamentazione dei corpi.
Il film, inteso come un atipico road movie a metà fra un racconto di formazione e un affresco sociologico, segmenta l’esistenza di Autumn da un punto A, la scoperta di essere incinta, a un punto B, l’intervento che compie per abortire. In mezzo a questi due estremi c’è l’odissea, il viaggio in pullman, la fuga nella notte che la obbliga a lasciare la sua cittadina - fortemente tradizionalista e in larga parte ancorata a posizioni pro-vita - alla volta della stordente e più progressista New York. Nel mezzo però c’è anche la descrizione di un’America sempre più divisa riguardo il dibattito sui diritti fondamentali; una società nella quale regna una mentalità retrograda e in cui la molestia nei confronti delle donne si configura ancora come strisciante e sistemica, presente in ogni ambito relazionale, dalla scuola alla famiglia, dal luogo di lavoro ai consultori medici. Soffermando il suo sguardo sulla lunga trafila di visite e colloqui che una ragazza nelle condizioni di Autumn è costretta ad affrontare, Hittman mette a nudo lo stato attuale delle cose, le procedure istituzionali, le mancanze politiche, i travagli interiori e le pressioni sociali che insidiano la strada verso l’aborto. Il suo merito è quello di farlo in modo radicale, senza pietismi o abbellimenti, lasciando all’immagine la potenza di scuotere e scaturire crisi.
Un tema ricorrente nella filmografia di Hittman si dimostra l’incomunicabilità del dramma, ovvero l’assenza di figure adulte in grado di comprendere la profondità del malessere attraversato dai giovani. Le famiglie dei protagonisti, compresa quella di Autumn, sono sempre disfunzionali e problematiche, microcosmi abusivi, ambienti stravolti dalla malattia o contraddistinti da violenze. Questa lontananza affettiva acuisce il distacco e la solitudine degli adolescenti, i quali si trovano ad affrontare l’evento destabilizzante che innesca la crisi privi della giusta rete e della possibilità di dare un ordine al loro tumulto. Non è un caso dunque che Autumn trovi in una sua coetanea, la cugina Skylar, l’unica alleata e confidente. La loro solidarietà è certo femminile, ma anche generazionale. Pur avendo caratteri molto diversi - Autumn è riflessiva e introversa mentre Skylar curiosa e socievole - condividono infatti esperienze, ruoli e violazioni all’interno di un identico sistema, riconoscendosi l’una nelle inquietudini e nei sorrisi dell’altra. Le interpretazioni delle esordienti Sidney Flanigan e Talia Ryder sbalordiscono per misura e intensità, rendendo sincero il loro legame, comprensibile il loro disagio e appassionante il loro accidentato percorso.
Cosa comporta oggi, in termini economici e culturali, per una ragazza di diciassette anni della Pennsylvania e quindi del democratico Occidente una gravidanza indesiderata? A quali dinamiche di controllo e potere, una volta deciso di interromperla, è sottoposto il suo corpo? E ancora, soprattutto, quali strumenti di supporto e spazi di autonomia le offre la società in cui vive affinché il peso della sua scelta sia in qualche misura sostenibile e alla responsabilità non si aggiunga lo stigma della colpa? Il film tenta di rispondere a queste domande senza cadere nella tentazione di spiegare una tesi, convincere della bontà di un’opinione o suscitare facili commozioni. Il cinema di Eliza Hittman si conferma in questa opera terza privo di approdi sicuri, evitando rotte prestabilite e perdendosi nella complessità del reale. In esso sembra non esserci posto per verità assolute o messaggi edificanti: l’intero campo dell’inquadratura è infatti quasi sempre occupato, riempito, sommerso dal semplice esistere delle persone. Non ci sono sottotesti, rimandi o non detti da decifrare. Non occorre spingersi al di là del fotogramma per afferrare il senso che scoppia al suo interno. Oltre al cuore del narrato non rimane nulla da narrare.
La regia di Hittman si articola quindi nella difficile sfida di mediare due tensioni fra loro contrastanti e portatrici di estetiche in teoria opposte. Da un lato l’esigenza, di ascendenza neorealista ed elevata a cifra stilistica da autori come i fratelli Dardenne e da una certa tradizione indie statunitense, di pedinare i personaggi nella loro quotidianità, immedesimandosi in loro e azzerando le barriere emotive tra film e spettatore. Dall’altro l’impassibilità di uno sguardo clinico, esterno e non giudicante, che fotografa ciò su cui si posa senza per questo addomesticarne le fratture. Staticità e movimento, freddezza e partecipazione concorrono quindi nell’affermare un limite, un punto al centro della storia oltre il quale è scorretto avventurarsi. Come se l’urgenza militante di filmare l’esistenza delle persone e il loro problematico orientarsi nella contemporaneità si scontrasse con la consapevolezza di quanto ogni individuo sia in fondo sfuggente e come la vastità di ogni dolore rimanga oscura e inafferrabile. È in questo sforzo di radiografare il battito altrui senza la presunzione di alterarne il ritmo che risiede l’umanismo di Eliza Hittman, giunta dopo i risultati altalenanti dei primi due film a una maturità artistica e una densità espressiva davvero promettenti.
Vi raccontiamo una delle voci più interessanti
del cinema indipendente americano,
di Andrea Tiradritti
TR-36
10.10.2021
Nel 2007 Cristian Mungiu vince la Palma d’oro a Cannes per 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni. Nel 2020 Mai raramente a volte sempre di Eliza Hittman ottiene il gran premio della giuria al Festival di Berlino. I due film, seppur ambientati in epoche storiche e contesti sociali molto diversi, affrontano entrambi il tema dell’aborto al di là di astratti posizionamenti ideologici, mostrando senza retorica esperienze personali in grado di scardinare tabù e pregiudizi. Che sia nella Bucarest sovietica del 1987, ormai sfinita da decenni di illiberale sistema comunista, o nell’America democratica e capitalista dei nostri giorni, il diritto delle donne di autodeterminarsi è sempre stato e continua ad essere terreno di aspra lotta civile, fragile conquista da raggiungere e salvaguardare ogni giorno. Mentre Mungiu declina la sua storia al passato, filmando la feroce ipocrisia di una società in dissoluzione e l’orrore di una prospettiva in cui scegliere di abortire equivale a una via crucis, Hittman radica il suo racconto nel presente, fra le piaghe di una mentalità che in modo più sottile di allora, ma non senza violenza e pervasività, persiste nel tentativo di prevaricare le libertà individuali e regolamentare i desideri femminili. Come nei suoi due lungometraggi precedenti la regista newyorkese indaga quel delicato momento di sconfinamento e ricerca di sé che è la transizione dall’adolescenza all’età adulta, rivelandone con bruciante oggettività i riti iniziatici, le pulsioni irrefrenabili e i dolorosi smarrimenti. Se i giovani personaggi di It Felt Like Love (2013) e Beach Rats (2017) sono alle prese con l’esplosione della loro immaginazione erotica, intuendo per la prima volta come la loro identità sessuale sia una forza tanto dirompente quanto traumatica, Autumn, la protagonista di Mai raramente a volte sempre, porta invece in grembo la differenza che la catapulta in una dimensione ostile e sconvolgente.
It Felt Like Love raccontava l’irrompere della sessualità nella vita di una quattordicenne e i suoi pericolosi tentativi di emulare le conquiste amorose dell’amica più grande. Soffermandosi sull’ebbrezza e la paura che accompagnano i primi momenti di scoperta della propria libidine, il film aveva il pregio di invertire la prospettiva comune inerente alla meccanica del desiderio. La regista infatti non rappresenta la ragazza soltanto come oggetto desiderato, ma anche e soprattutto come soggetto desiderante. La sua è una condizione attiva, libera, senz’altro malferma ma proprio per questo interessante. Lo sguardo del film è il suo sguardo, il motore le sue scelte. Se mostrare oggi, nella nostra società, il desiderio femminile come agente rispetto al maschile equivale ancora a nuotare controcorrente e a ribaltare una narrazione calcificata, rappresentare con cruda espressività le pulsioni di un’adolescente assume connotati quasi sovversivi. Hittman pone consapevolmente lo spettatore in una posizione scomoda perché lo costringe ad abbattere idealizzazioni, rivedere certezze e subire desideri estranei alla sua norma. Che un giovane ragazzo avverta il bisogno di fare sesso per accertare la sua validità sociale è da tutti ritenuto normale e persino giusto, ma cosa accade quando un desiderio speculare muove una ragazza a compiere gli stessi gesti? Quali giudizi siamo portati a esprimere su di lei, la sua moralità e il suo grado di rispettabilità pubblica?
La volontà di narrare desideri periferici, insieme alla sensibilità di esplorare il faticoso processo di costruzione della propria identità individuale in relazione al mondo sono elementi che Hittman ha conservato nei suoi due film successivi. Mentre Beach Rats si concentrava sulle difficoltà di un ragazzo bisessuale nell’accettarsi all’interno di un contesto fortemente maschile e ostentatorio, Mai raramente a volte sempre interroga le dimensione etica della regolamentazione dei corpi.
Il film, inteso come un atipico road movie a metà fra un racconto di formazione e un affresco sociologico, segmenta l’esistenza di Autumn da un punto A, la scoperta di essere incinta, a un punto B, l’intervento che compie per abortire. In mezzo a questi due estremi c’è l’odissea, il viaggio in pullman, la fuga nella notte che la obbliga a lasciare la sua cittadina - fortemente tradizionalista e in larga parte ancorata a posizioni pro-vita - alla volta della stordente e più progressista New York. Nel mezzo però c’è anche la descrizione di un’America sempre più divisa riguardo il dibattito sui diritti fondamentali; una società nella quale regna una mentalità retrograda e in cui la molestia nei confronti delle donne si configura ancora come strisciante e sistemica, presente in ogni ambito relazionale, dalla scuola alla famiglia, dal luogo di lavoro ai consultori medici. Soffermando il suo sguardo sulla lunga trafila di visite e colloqui che una ragazza nelle condizioni di Autumn è costretta ad affrontare, Hittman mette a nudo lo stato attuale delle cose, le procedure istituzionali, le mancanze politiche, i travagli interiori e le pressioni sociali che insidiano la strada verso l’aborto. Il suo merito è quello di farlo in modo radicale, senza pietismi o abbellimenti, lasciando all’immagine la potenza di scuotere e scaturire crisi.
Un tema ricorrente nella filmografia di Hittman si dimostra l’incomunicabilità del dramma, ovvero l’assenza di figure adulte in grado di comprendere la profondità del malessere attraversato dai giovani. Le famiglie dei protagonisti, compresa quella di Autumn, sono sempre disfunzionali e problematiche, microcosmi abusivi, ambienti stravolti dalla malattia o contraddistinti da violenze. Questa lontananza affettiva acuisce il distacco e la solitudine degli adolescenti, i quali si trovano ad affrontare l’evento destabilizzante che innesca la crisi privi della giusta rete e della possibilità di dare un ordine al loro tumulto. Non è un caso dunque che Autumn trovi in una sua coetanea, la cugina Skylar, l’unica alleata e confidente. La loro solidarietà è certo femminile, ma anche generazionale. Pur avendo caratteri molto diversi - Autumn è riflessiva e introversa mentre Skylar curiosa e socievole - condividono infatti esperienze, ruoli e violazioni all’interno di un identico sistema, riconoscendosi l’una nelle inquietudini e nei sorrisi dell’altra. Le interpretazioni delle esordienti Sidney Flanigan e Talia Ryder sbalordiscono per misura e intensità, rendendo sincero il loro legame, comprensibile il loro disagio e appassionante il loro accidentato percorso.
Cosa comporta oggi, in termini economici e culturali, per una ragazza di diciassette anni della Pennsylvania e quindi del democratico Occidente una gravidanza indesiderata? A quali dinamiche di controllo e potere, una volta deciso di interromperla, è sottoposto il suo corpo? E ancora, soprattutto, quali strumenti di supporto e spazi di autonomia le offre la società in cui vive affinché il peso della sua scelta sia in qualche misura sostenibile e alla responsabilità non si aggiunga lo stigma della colpa? Il film tenta di rispondere a queste domande senza cadere nella tentazione di spiegare una tesi, convincere della bontà di un’opinione o suscitare facili commozioni. Il cinema di Eliza Hittman si conferma in questa opera terza privo di approdi sicuri, evitando rotte prestabilite e perdendosi nella complessità del reale. In esso sembra non esserci posto per verità assolute o messaggi edificanti: l’intero campo dell’inquadratura è infatti quasi sempre occupato, riempito, sommerso dal semplice esistere delle persone. Non ci sono sottotesti, rimandi o non detti da decifrare. Non occorre spingersi al di là del fotogramma per afferrare il senso che scoppia al suo interno. Oltre al cuore del narrato non rimane nulla da narrare.
La regia di Hittman si articola quindi nella difficile sfida di mediare due tensioni fra loro contrastanti e portatrici di estetiche in teoria opposte. Da un lato l’esigenza, di ascendenza neorealista ed elevata a cifra stilistica da autori come i fratelli Dardenne e da una certa tradizione indie statunitense, di pedinare i personaggi nella loro quotidianità, immedesimandosi in loro e azzerando le barriere emotive tra film e spettatore. Dall’altro l’impassibilità di uno sguardo clinico, esterno e non giudicante, che fotografa ciò su cui si posa senza per questo addomesticarne le fratture. Staticità e movimento, freddezza e partecipazione concorrono quindi nell’affermare un limite, un punto al centro della storia oltre il quale è scorretto avventurarsi. Come se l’urgenza militante di filmare l’esistenza delle persone e il loro problematico orientarsi nella contemporaneità si scontrasse con la consapevolezza di quanto ogni individuo sia in fondo sfuggente e come la vastità di ogni dolore rimanga oscura e inafferrabile. È in questo sforzo di radiografare il battito altrui senza la presunzione di alterarne il ritmo che risiede l’umanismo di Eliza Hittman, giunta dopo i risultati altalenanti dei primi due film a una maturità artistica e una densità espressiva davvero promettenti.