NC-43
28.01.2021
Imbattersi nel cinema di Arthur J. Bressan Jr. (1943 - 1987) è un evento tanto raro quanto prezioso. Per lo più sconosciuto in Italia, il suo lavoro ha invece svolto negli Stati Uniti un ruolo decisivo per lo sviluppo del cinema queer e l’affermazione di un nuovo modo di raccontare le vite e le istanze delle comunità LGBT. Recentemente MUBI ha reso disponibile sulla sua piattaforma le due opere più importanti di questo regista, il documentario Gay Usa (1977) e il film di finzione Buddies (1985), entrambe restaurate e inedite nel nostro Paese.
Girato in un solo giorno, il 26 giugno del 1977, Gay Usa documenta le oceaniche parate del pride di quell’anno in varie città americane. Il successo riscosso nei mesi precedenti dalle politiche omofobe di Anita Bryant, attivista cristiana promotrice di diverse campagne per impedire la parità di diritti alle persone omosessuali e vietare loro la possibilità di insegnare nelle scuole, generò una straordinaria reazione di protesta e solidarietà. Durante quella giornata, centinaia di migliaia di persone sfilarono per le strade delle principali città americane mostrando il loro dissenso nei confronti di chi intendeva discriminarle. San Francisco divenne l’epicentro di un terremoto di canti e balli che in breve tempo si propagò in tutto il Paese, rendendo quel giorno di inizio estate una data memorabile per la storia dei movimenti civili. Il valore del film, oltre che nel suo carattere pioneristico e militante, risiede nella capacità di legare in modo dialettico le immagini del popolo arcobaleno alle dure opposizioni contro cui doveva fare i conti. Alla pari di un inviato sul fronte di guerra Bressan descrive il tumulto dei cortei nel loro dispiegarsi, documentando la realtà come un processo sospinto da forze contrarie e in conflitto fra loro. Gioioso ritratto di liberazione e tripudio collettivo, Gay Usa è anche una riflessione storica sulle discriminazioni subite dalle persone omosessuali durante il nazismo, nonché una fondamentale testimonianza di quel burrascoso periodo alla fine degli anni Settanta, ricco di scontri e conquiste, che segnò l’inizio di una lotta ancora oggi in corso. Bressan filma e dà voce a un’umanità varia e finalmente uscita allo scoperto, unita nell’orgogliosa rivendicazione della propria identità e nella radicale protesta affinché essa venga riconosciuta e rispettata. Inno di fratellanza e amore universale, oltre che manifesto di rara intensità, Gay Usa rappresentò un vero e proprio shock per l’epoca. In un tempo in cui le persone omosessuali dovevano vergognarsi della propria natura, Bressan le mostrò invece esibire la loro differenza con coraggio e sfrontata irrisione, raccontandone le complessità e trasformando i loro corpi in festa in provocatorie armi politiche.
Di otto anni seguente è Buddies, ultima opera del regista e primo film nella storia a trattare espressamente il tema dell’AIDS. Questa malattia, all’epoca deflagrata in tutta la nazione, colpì duramente gli omosessuali e contribuì in modo violento ad alimentare lo stigma nei loro confronti. Il film, prodotto con poche migliaia di dollari e realizzato a New York in appena due settimane, racconta lo speciale rapporto instauratosi fra David (David Schachter) e Robert (Geoff Endholm) quando il primo si offre come volontario per accudire il secondo, malato terminale di AIDS, nei suoi ultimi giorni in ospedale. La loro conoscenza, seppur breve e iniziata col piede sbagliato, sarà attraversata da momenti di dolce complicità e servirà ai due giovani uomini per confrontarsi sulla loro omosessualità, sulla società in cui vivono e sulla malattia, ma anche sulla loro concezione dell’amore e sulla paura della morte. Buddies è un film al contempo delicato e tremendo, capace di mostrare il deterioramento delle condizioni di salute di Robert e di indagarne il dolore senza retorica o sentimentalismi. La narrazione dell’incontro fra i due protagonisti è invece ancora una volta usata da Bressan in modo politico, al fine di riflettere sulla coscienza omosessuale e riaffermare la dignità della vita umana a prescindere da qualsiasi identità di genere o orientamento personale. La prima e l’ultima sequenza del film potrebbero racchiudere il fulcro dell’intero lavoro di Bressan, morto solo due anni dopo proprio per AIDS. In una osserviamo attoniti lo sterminato elenco di persone uccise in quei mesi dalla malattia, nell’altra vediamo David partecipare a una manifestazione di fronte alla Casa Bianca per richiamare l’attenzione del governo su un problema che allora veniva ancora colpevolmente considerato come esclusivo degli omosessuali. Un lavoro di denuncia e attivismo interrotto prematuramente, ma le cui tracce rimangono tutt’oggi indelebili a segnare la via. Un lavoro che dal porno all’avanguardia è stato in grado di immaginare orizzonti all’apparenza preclusi, affrontando la sessualità come strumento di gioia, potere e trasformazione della società.
È proprio questa incessabile tensione tra dimensione pubblica e sfera privata ad essere centrale nell’impegno di Bressan e a distinguere le sue opere da quelle del nostro secolo. Nei film di Xavier Dolan o in pellicole divenute cult come La vita di Adele (2013) o Chiamami col tuo nome (2017), il tema della consapevolezza dell’identità personale è sempre declinato verso l’interno, in un ripiegamento esistenziale che non permette ai protagonisti di superare se stessi e incontrare l’altro. In questi film sembra mancare quella riflessione, fondamentale in Bressan, che unisce i sentimenti del singolo alla struttura sociale in cui vengono repressi o ostacolati. Così come non esiste la vera felicità senza il riconoscimento e la condivisione del dolore, non può esistere nel cinema di Bressan una piena realizzazione che prescinda dalla critica delle condizioni per cui essa è negata.
Il suo è stato un cinema della prassi, dunque, eclettico e radicale, costantemente rivolto all’umano e alla liberazione delle sue massime possibilità espressive. Un cinema fragile e potente, da scoprire e custodire con cura.
NC-43
28.01.2021
Imbattersi nel cinema di Arthur J. Bressan Jr. (1943 - 1987) è un evento tanto raro quanto prezioso. Per lo più sconosciuto in Italia, il suo lavoro ha invece svolto negli Stati Uniti un ruolo decisivo per lo sviluppo del cinema queer e l’affermazione di un nuovo modo di raccontare le vite e le istanze delle comunità LGBT. Recentemente MUBI ha reso disponibile sulla sua piattaforma le due opere più importanti di questo regista, il documentario Gay Usa (1977) e il film di finzione Buddies (1985), entrambe restaurate e inedite nel nostro Paese.
Girato in un solo giorno, il 26 giugno del 1977, Gay Usa documenta le oceaniche parate del pride di quell’anno in varie città americane. Il successo riscosso nei mesi precedenti dalle politiche omofobe di Anita Bryant, attivista cristiana promotrice di diverse campagne per impedire la parità di diritti alle persone omosessuali e vietare loro la possibilità di insegnare nelle scuole, generò una straordinaria reazione di protesta e solidarietà. Durante quella giornata, centinaia di migliaia di persone sfilarono per le strade delle principali città americane mostrando il loro dissenso nei confronti di chi intendeva discriminarle. San Francisco divenne l’epicentro di un terremoto di canti e balli che in breve tempo si propagò in tutto il Paese, rendendo quel giorno di inizio estate una data memorabile per la storia dei movimenti civili. Il valore del film, oltre che nel suo carattere pioneristico e militante, risiede nella capacità di legare in modo dialettico le immagini del popolo arcobaleno alle dure opposizioni contro cui doveva fare i conti. Alla pari di un inviato sul fronte di guerra Bressan descrive il tumulto dei cortei nel loro dispiegarsi, documentando la realtà come un processo sospinto da forze contrarie e in conflitto fra loro. Gioioso ritratto di liberazione e tripudio collettivo, Gay Usa è anche una riflessione storica sulle discriminazioni subite dalle persone omosessuali durante il nazismo, nonché una fondamentale testimonianza di quel burrascoso periodo alla fine degli anni Settanta, ricco di scontri e conquiste, che segnò l’inizio di una lotta ancora oggi in corso. Bressan filma e dà voce a un’umanità varia e finalmente uscita allo scoperto, unita nell’orgogliosa rivendicazione della propria identità e nella radicale protesta affinché essa venga riconosciuta e rispettata. Inno di fratellanza e amore universale, oltre che manifesto di rara intensità, Gay Usa rappresentò un vero e proprio shock per l’epoca. In un tempo in cui le persone omosessuali dovevano vergognarsi della propria natura, Bressan le mostrò invece esibire la loro differenza con coraggio e sfrontata irrisione, raccontandone le complessità e trasformando i loro corpi in festa in provocatorie armi politiche.
Di otto anni seguente è Buddies, ultima opera del regista e primo film nella storia a trattare espressamente il tema dell’AIDS. Questa malattia, all’epoca deflagrata in tutta la nazione, colpì duramente gli omosessuali e contribuì in modo violento ad alimentare lo stigma nei loro confronti. Il film, prodotto con poche migliaia di dollari e realizzato a New York in appena due settimane, racconta lo speciale rapporto instauratosi fra David (David Schachter) e Robert (Geoff Endholm) quando il primo si offre come volontario per accudire il secondo, malato terminale di AIDS, nei suoi ultimi giorni in ospedale. La loro conoscenza, seppur breve e iniziata col piede sbagliato, sarà attraversata da momenti di dolce complicità e servirà ai due giovani uomini per confrontarsi sulla loro omosessualità, sulla società in cui vivono e sulla malattia, ma anche sulla loro concezione dell’amore e sulla paura della morte. Buddies è un film al contempo delicato e tremendo, capace di mostrare il deterioramento delle condizioni di salute di Robert e di indagarne il dolore senza retorica o sentimentalismi. La narrazione dell’incontro fra i due protagonisti è invece ancora una volta usata da Bressan in modo politico, al fine di riflettere sulla coscienza omosessuale e riaffermare la dignità della vita umana a prescindere da qualsiasi identità di genere o orientamento personale. La prima e l’ultima sequenza del film potrebbero racchiudere il fulcro dell’intero lavoro di Bressan, morto solo due anni dopo proprio per AIDS. In una osserviamo attoniti lo sterminato elenco di persone uccise in quei mesi dalla malattia, nell’altra vediamo David partecipare a una manifestazione di fronte alla Casa Bianca per richiamare l’attenzione del governo su un problema che allora veniva ancora colpevolmente considerato come esclusivo degli omosessuali. Un lavoro di denuncia e attivismo interrotto prematuramente, ma le cui tracce rimangono tutt’oggi indelebili a segnare la via. Un lavoro che dal porno all’avanguardia è stato in grado di immaginare orizzonti all’apparenza preclusi, affrontando la sessualità come strumento di gioia, potere e trasformazione della società.
È proprio questa incessabile tensione tra dimensione pubblica e sfera privata ad essere centrale nell’impegno di Bressan e a distinguere le sue opere da quelle del nostro secolo. Nei film di Xavier Dolan o in pellicole divenute cult come La vita di Adele (2013) o Chiamami col tuo nome (2017), il tema della consapevolezza dell’identità personale è sempre declinato verso l’interno, in un ripiegamento esistenziale che non permette ai protagonisti di superare se stessi e incontrare l’altro. In questi film sembra mancare quella riflessione, fondamentale in Bressan, che unisce i sentimenti del singolo alla struttura sociale in cui vengono repressi o ostacolati. Così come non esiste la vera felicità senza il riconoscimento e la condivisione del dolore, non può esistere nel cinema di Bressan una piena realizzazione che prescinda dalla critica delle condizioni per cui essa è negata.
Il suo è stato un cinema della prassi, dunque, eclettico e radicale, costantemente rivolto all’umano e alla liberazione delle sue massime possibilità espressive. Un cinema fragile e potente, da scoprire e custodire con cura.