Anatomia di un regista
che ha dettato i propri schemi,
di Alberto de Carolis Villars
TR-58
20.04.2022
Nel corso di una serie di interviste con il critico Aldo Tassone, Joseph Losey dichiarò: «un artista è un testimone inquietante e un seminatore di dubbi». Un’affermazione enigmatica ma, allo stesso tempo, applicabile alla sua intera opera. Se infatti si osserverà attentamente la filmografia del regista, ci si renderà presto conto di come queste parole riecheggino prepotentemente per tutto il suo percorso autoriale. La visione di Losey è quella di un cinema sfrontatamente barocco - nella migliore accezione del termine - e colmo di ombrosità, dove i turbinosi e convulsi movimenti di camera esaminano ossessivamente le azioni dei personaggi. Nel corso della sua tortuosa carriera, questo grande maestro riuscì a mantenere una straordinaria capacità di amalgamare, attraverso un rigoroso controllo della messa in scena, le intelaiature narrative dei generi più disparati, senza mai tradire il messaggio morale presente in ognuno dei suoi lungometraggi.
Nato negli Stati Uniti da un’importante famiglia di La Crosse, nel Wisconsin, il 14 gennaio del 1909, Losey ebbe un’educazione europeizzante. Da giovane era costantemente spronato, in particolar modo da una zia, alla lettura dei grandi classici letterari del vecchio continente, dai Dumas a Dickens, da Thackeray a Balzac e via dicendo. Ventenne partì alla volta di New York, dove cominciò a scrivere su diverse testate di critica teatrale e a frequentare i circoli artistici della città. Fu in questi ambienti che conobbe John Hammond, un facoltoso produttore discografico che, prendendolo sotto la sua ala, gli prestò i soldi per recarsi in Europa allo scopo di studiare il teatro tedesco. Nei mesi trascorsi a Berlino entrò in contatto con vertici della sinistra teatrale come il regista Erwin Piscator e il drammaturgo Bertolt Brecht. Dopo essere tornato in patria, grazie agli aiuti economici di Hammond, riuscì a realizzare le sue prime regie teatrali a Broadway. Losey fa parte di quella generazione di registi, come Orson Welles, Elia Kazan, Robert Aldrich e Nicholas Ray, arrivati dal palcoscenico e figli delle utopiche speranze degli anni Trenta. Fu quindi questa irrefrenabile spinta ideologico-creativa a orientarlo verso la direzione di pièce dal forte contenuto sociale.
Nel 1935, deluso dall’insuccesso del suo allestimento di Jayhawker, si mise nuovamente in viaggio, e, passando per la Svezia, giunse in Unione Sovietica. Li conobbe il celebre documentarista Joris Ivens, seguì le lezioni di cineasti come Sergej Ėjzenštejn, Vsevolod Pudovkin e Aleksandr Dovženko e riuscì ad assistere alle storiche prove degli spettacoli di Vsevolod Ėmil'evič Mejerchol’d, padre del metodo di recitazione della bio-meccanica. Inoltre allestì egli stesso una versione di Waiting for Lefty, di Clifford Odets, vivendo in prima persona quel clima di sperimentalismo teatrale presente nella Mosca del periodo. Questa esperienza regalò a Losey non solo l’occasione per acquisire sempre più preparazione in ambito registico, ma anche per formare definitivamente il suo pensiero politico. Dopo il suo rientro in America e durante la seconda guerra mondiale lavorò instancabilmente per la radio fin quando non venne spedito al fronte.
A guerra finita si divise tra Los Angeles, dove diresse per la MGM un’altro corto di nome Gun in His Hand (1945), e New York, dove firmò nel 1947 la prima versione di Broadway del Leben des Galilei di Bertolt Brecht. La messa in scena dello spettacolo rappresentò un momento cruciale per Losey, che si ritrovò a collaborare con il vecchio mentore e a stringere con lui un rapporto da cui avrebbe ereditato molti degli elementi presenti nel suo universo cinematografico, dalla cura scrupolosa dei gesti e dei movimenti degli attori alla fluidità della composizione, dall’economia dei mezzi fino al gioco dei contrasti. Grazie al grande successo ottenuto con il Galileo il produttore Dore Schary, della RKO, gli propose la regia di The Boy with Green Hair (Il ragazzo dai capelli verdi, 1948). Già in questo primo lungometraggio si può chiaramente vedere quell’inclinazione, tipica delle opere di Losey, per il registro simbolico e la metafora sociale. Costruito come una «fiaba allegorica», The Boy with Green Hair si pone come una denuncia delle paure - la minaccia atomica, la diversità - e dei pregiudizi - l’intolleranza, la discriminazione razziale - insiti nell’essere umano. In The Lawless (Linciaggio, 1950), con il racconto di un ragazzo messicano che, a seguito di una rissa con un bianco, diviene bersaglio di una piccola comunità che lo accusa della morte di un poliziotto, il regista introdusse uno degli elementi chiave della sua opera: i rapporti di potere tra individui e classi sociali.
Lo schema della sopraffazione e l’analisi di una borghesia, che dietro a un’illusoria maschera di perbenismo nasconde una natura perversa e malata, si acuì con The Prowler (Sciacalli nell’ombra, 1951). Il film, incentrato sul rapporto distruttivo tra due amanti, un poliziotto e una casalinga che decidono di uccidere il coniuge di quest’ultima, sembra inizialmente guardare a modelli come Double Indemnity (La fiamma del peccato,1944) e The Postman Always Rings Twice (Il postino suona sempre due volte, 1946) per poi deragliare, tramite un complesso tratteggio psicologico dei protagonisti, su uno studio dei ruoli sociali - la casalinga e il poliziotto che nell’immaginario collettivo risultano figure integre e rassicuranti - che essi devono recitare per essere accettati come individui. Non a caso Gianni Volpi parlando di The Prowler disse: «Ormai in Losey il sogno americano si è fatto incubo. E si acuisce la riflessione sulle forme dei suoi temi. Nei tanti piani sequenza, la sua cinepresa agisce la scena, ne è la coscienza, in un rapporto ravvicinato con il suo ambiguo, quasi wellesiano antieroe».
Nei successivi M (1951) - sottovalutata versione americana del capolavoro tedesco di Fritz Lang in cui l’autore sembra essere più interessato a ritrarre la psicopatologia del serial killer piuttosto che a soffermarsi sui suoi atroci delitti - e The Big Night (La grande notte, 1951) - dove un’adolescente, impugnata una pistola, si mette alla ricerca dell’uomo che ha picchiato selvaggiamente suo padre - Losey costruisce dei personaggi che sono lo specchio del suo atteggiamento etico-politico. The Prowler, M e The Big Night si possono definire infatti dei noir sociali, dove la sfortuna non è riconducibile a qualche oscuro gioco del destino ma a disagi economici concreti e a situazioni altamente disfunzionali. L’individuo è, in queste opere, schiacciato dai diabolici ingranaggi di una società in cui non riesce a trovare un proprio posto. Losey ci ripresenta la medesima parabola in tre forme diverse: il poliziotto corrotto, il pazzo criminale, l’adolescente vendicatore, personaggi che, con lo sviluppo del plot, arrivano alla consapevolezza di essere dei «prigionieri».
Contestualmente a questo periodo di successo lavorativo crebbe però, nel regista, un’insofferenza verso la stigmatizzazione, da parte dell’industria cinematografica americana, di argomenti controversi. The Prowler e M subirono pesanti tagli di censura e nel frattempo il Comitato d’inchiesta sulle attività anti-americane (HUAC) riprese le sue folli indagini su Hollywood. Nella mecca del cinema molti finirono sul banco degli interrogati, e fu lo sceneggiatore Leo Townsend a fare il nome di Losey, che intanto si trovava in Italia per le riprese dello sfortunato Stranger on the Prowl (Imbarco a mezzanotte, 1952). La lavorazione del lungometraggio, prodotto dalla Riviera Film per la United Artist, fu funestata dal clima di tensione per le vicende personali del regista e per la sua inimicizia con il producer Gioacchino Forzano. Sebbene nel 1998 fosse stato restaurato e presentato come proiezione speciale alla Mostra d’arte cinematografica di Venezia, Stranger on the Prowl è un film che aspetta ancora una reale rivalutazione critica. Esso si muove, come un curioso ibrido, tra «il noir e il cinema neorealista lattuadiano o zavattiniano, a seconda che si privilegi l’aspetto favolistico o quello melodrammatico».
Convocato dal HUAC, Losey ritardò la partenza per terminare il film aggravando così una già compromessa posizione poiché, oltre a essere inserito nella famigerata «lista nera», venne condannato per oltraggio alla corte. Così nel 1952, saputo della vittoria di Eisenhower sul democratico Adlai Stevenson e con la consapevolezza di non avere un futuro lavorativo nel suo paese, il regista riprese il suo pellegrinaggio, questa volta verso l’Inghilterra. Su questi momenti ebbe a dire: «Non ho mai considerato una tragedia il fatto di aver dovuto lasciare Hollywood, fu anzi in un certo senso una fortuna. Che ci avrei fatto laggiù? L’assurdo è che chi ci ha condannati non era certo un modello di onestà: tutti sanno che McCarthy era un ubriacone e un depravato, agiva non per patriottismo ma per sporca demagogia. C’era una mentalità infetta e si sa che la paura trasforma le persone - anche gli amici - in delatori. È passata alla storia la frase pronunciata da John Ford alla fine di una notte di interminabili discussioni dove l’accusatore di turno era Cecil B. De Mille e l’accusato Mankiewicz. Alzandosi in piedi, Ford disse solennemente: ho sentito tutta la discussione, ed ho deciso che c’è una cosa sola da fare, gettare fuori questi scellerati. Alludeva a De Mille».
Arrivato a Londra Losey si ritrovò senza soldi e senza un nome e, anche se dovette ricominciare letteralmente da capo, non dimenticò mai i nodi fondamentali del suo cinema, anzi si può affermare che egli vide questo «esilio» come un’occasione di libertà creativa, un’opportunità per far emergere molte di quelle sfumature sociali che a Hollywood sarebbero state oscurate. A seguito di non poche difficoltà, e dopo un anno di disoccupazione, diresse The Sleeping Tiger (La tigre nell’ombra, 1954), lungometraggio che segna il suo debutto nel cinema inglese e l’inizio della collaborazione con quello che sarà uno dei protagonisti indiscussi del suo cinema, l’attore Dirk Bogarde, maschera perfetta di ambiguità e disincanto. La pellicola mette in risalto uno schema fondamentale di molte delle opere loseyane successive, ossia uno stato di tensione costante e sempre maggiore che porta a un ribaltamento degli eventi. L’inconsueto triangolo tra uno psichiatra, sua moglie e un indigente fuorilegge diviene scontro fra classi e mostra, come in The Prowler, una serie di giochi di potere che si «stringono sadomasochisticamente anche nei rapporti tra i sessi».
Nel 1956, Losey filmò Time Without Pity (L’alibi all’ultima ora, 1957), storia di un padre che nell’arco di due giorni tenterà in ogni modo di far cadere le accuse di omicidio rivolte al figlio prima che egli venga impiccato. Il film viene scandito costantemente da riprese di orologi - da quello del carcere sotto cui l'uomo si dispera a quello da polso con cui si dà anche inizio ad una sequenza - che mostrano l’inevitabile incedere di quelle ore in cui il protagonista comprenderà i limiti della legge e le spietate logiche del potere.
Con Blind Date (L’inchiesta dell’ispettore Morgan, 1959) trovano una forma definitiva tutti quegli «ingredienti» che definiscono il suo cinema, dagli andamenti roteatori della macchina da presa intorno agli attori fino alla scelta di ambienti inconsueti dove far svolgere l’azione. Anche qui la trama mystery - un giovane pittore viene sedotto dalla moglie di un politico rimanendo incastrato nel losco piano della donna - diviene solo una scusa per mostrare le differenze etiche tra un bohémien spiantato, un’immorale lady ed un ispettore di polizia. Questa elaborazione della messa in scena torna in The Criminal, storia carceraria che muta in una meditazione sull’assoggettamento all’ordine costituito, dove gli interni rievocano articolatamente una claustrofobia che è non solo fisica ma anche morale. Come in una grande coreografia Losey guida ogni movimento del suo cast - il cineasta studiò i set attraverso degli storyboard e si consultò scrupolosamente con gli scenografi - e mette in atto, come mai prima d’allora, la lezione di Brecht sull’equilibrio tra movimento, parola e suono. Il lungometraggio termina con la morte del protagonista colpito da una pistola. Come era per The Prowler, dove la città fantasma e i cumuli di terra arida su cui Van Heflin si accasciava simboleggiavano «il ritorno alla repressione negli Stati Uniti e l’azzeramento della speranza di una maggiore coscienza sociale», anche qui la neve sulla quale il piccolo gangster spira va a comporre un paesaggio funereo di disturbante desolazione. Con queste due spietate riflessioni sul sistema classista inglese - Blind Date - e i legami fra capitalismo e criminalità - The Criminal - è come se lo sguardo di Losey si radicalizzasse, stilisticamente e narrativamente, portandolo verso una nuova fase della sua carriera.
Con il suo cinema riflessivo, tecnico e di rottura delle tradizioni, il regista volle, da Eva (1962) e The Servant (Il servo, 1963) in poi, conciliare due tipologie di estetica cinematografica: la «modernità all’americana» e la «modernità all’europea». La modernità all’americana - che Losey aveva cominciato a sviluppare durante il suo periodo hollywoodiano parallelamente ad autori come Raoul Walsh, Otto Preminger e Fritz Lang - è data da un dinamismo nella regia tramite cui si palesa una coerenza e si afferma una personalità, mentre quella all’europea si connette direttamente all’estetica dell’arte moderna ed è condivisa da registi-artisti come Federico Fellini, Michelangelo Antonioni o Luis Buñuel. Fino a quel momento i movimenti di macchina erano stati usati dal regista per animare la scena. Con la loro rapidità essi accompagnavano «il movimento profilmico degli attori» ed interpretavano «puntualmente valenze simboliche». In questa seconda fase l’andamento della cinepresa diventa estremamente marcato e interagisce con i personaggi tanto da intrappolarli in una gabbia visiva. Siamo quindi agli antipodi del «movimento come celebrazione della centralità del personaggio sulla scena» tipico del cinema classico. Mantenendo quella fluidità e quel compiacimento da artigiano di Hollywood, Losey impresse una coscienza ai suoi movimenti di camera rimanendo a metà strada tra il classicismo e la modernità. In Eva, storia di uno scrittore che finisce in un baratro autodistruttivo a causa della sua ossessione nei confronti di una gelida prostituta d’alto bordo, Losey svela ancora una volta un gioco di sottomissione e anticipa allo spettatore i meccanismi del ménage di The Servant.
The Servant può pienamente essere considerata come una delle opere più rilevanti del cinema inglese degli anni Sessanta. Inaugurando un felice sodalizio con il drammaturgo Harold Pinter, nel ruolo di sceneggiatore, Losey ci narra la fosca vicenda di un maggiordomo che, giunto nella casa di un aristocratico rampollo, comincerà a deviarlo fino a ribaltare il rapporto servo-padrone. Lo scontro fra classi è portato in questo film a conseguenze orrorifiche e grottesche e la sua analisi sull’inutilità vacua dei nobili e la ferocia dei subalterni è una delle più spietate mai apparse sul grande schermo. L’odio di classe si trasforma in corruzione reciproca, in quel conflitto tra apparire ed essere tipico delle società piramidali. I meditati movimenti di camera agiscono tra scenografie che si fanno estensioni della personalità malata dei personaggi. Non a caso continue sono le inquadrature di specchi - largamente usati nella filmografia loseyana - che filtrano, deformano e commentano l’azione. La casa si trasforma con The Servant in un luogo espressivo e ostile, popolato da oscuri esseri che si insinuano tra i suoi labirintici anfratti. Parlando dell’opera il regista non a caso affermò: «La difficoltà del film a farsi guardare è voluta: provocare rifiuto, reazione. Voglio che lo spettatore sia in una posizione attiva dopo lo spettacolo. Se qualcuno mi dice di essere stato disturbato da uno dei miei film, è il più bel complimento che mi possa fare».
Il seguente King and Country (Per il re e per la patria, 1964), lungometraggio ambientato nelle trincee della prima guerra mondiale, sceneggiato dal poeta giamaicano Evan Jones - già autore dello script di Eva - mette in scena ancora una volta i rapporti di supremazia tra esseri umani, in un ambiente claustrofobico e asfissiante. Sempre con la complicità di Jones il regista concepì i sadistici The Damned (Hallucination, 1963) e Modesty Blaise (1966), due opere inconsuete, trattate con sospetto dalla critica: The Damned fu erroneamente considerato come un lavoro minore, mentre Modesty Blaise venne, al momento della sua presentazione al Festival di Cannes, sminuito dalla stampa. Sono due opere che giocano con i generi, in questo caso di fantascienza e d’azione, per criticare la guerrafondaia e sordida società moderna.
Il 1967 fu l’anno della vittoria del Grand Prix Spécial du Jury al Festival di Cannes per Accident (L’incidente, 1967), feroce stoccata all’ambiente accademico e seconda collaborazione con Pinter. Il film, perfido ritratto di un’umanità repressa e alienata, è uno studio sui «conflitti di rara protervia che si nascondono nel silenzio operoso di un microcosmo universitario e dietro i gesti ed i riti più raffinati di una cultura». Strepitosa in Accident è la concezione della struttura narrativa, dove le logiche della consequenzialità vengono totalmente rielaborate da Pinter e Losey. Sceneggiatore e regista costruiscono una storia sospesa in un non-tempo, dove gli accadimenti si incastrano tra loro senza un’apparente precedenza o posteriorità. Questa ripetitività degli eventi, che organizza il plot in una spirale che ruota attorno all’episodio catartico della trama - l’incidente che dà il titolo al film - sembra guardare a quell'interazione fluida tra passato, presente e futuro delle opere di Alain Resnais che, a detta dello stesso Losey, «era virtualmente l’unico regista da cui poter imparare».
Il decadentistico Boom (La scogliera dei desideri, 1968), lo psicanalitico Secret Ceremony (Cerimonia segreta, 1968) e l’astratto Figures in a Landscape (Caccia sadica, 1970) sono invece il risultato di un periodo di sperimentalismo radicale. Come Modesty Blaise anche Boom si può considerare un precursore del cinema post-moderno, dove tutto è pervaso da un punto di vista teatrale e parodistico e niente viene concepito per essere colto in primo grado. Stessa regola vale per Secret Ceremony, dove le riprese della grande casa - somigliante a un enigmatico luogo di culto - e i rapporti di potenza tra le due protagoniste sembrano rimandare direttamente a The Servant. Figures in the Landscape segna invece il vertice della rarefazione stilistica loseyana: «Siamo già morti» affermerà il personaggio di Malcolm McDowell per sottolineare «l’impossibilità di fuga dalla struttura del dominio».
Per The Go-Between (Messaggero d’amore, 1971), storia di un tredicenne che accetta di farsi inviato delle lettere d’amore fra una giovane aristocratica e un burbero fattore, Losey venne nuovamente premiato a Cannes, ma questa volta con la Palma d’oro, all’epoca Grand Prix du Festival. Ambientato nei primi del Novecento, il film mostra, con una serie di salti temporali che lo spettatore comprenderà solo nel finale, le tragiche conseguenze che i tabù della società vittoriana hanno avuto sulla vita di due amanti dai differenti ranghi sociali. Con la sua pittorica e raffinata ricostruzione d’ambiente The Go-Between segna l’ultima esperienza con Harold Pinter - che aveva già scritto una prima versione della sceneggiatura dopo The Servant - e, attraverso un dramma sentimentale, compie una lucida indagine sociologica su un mondo dove conta più l’apparire che l’essere e dove la dignità dei personaggi è costantemente ferita da inevitabili e reciproche umiliazioni.
Successivamente, con The Assassination of Trotsky (L’assassinio di Trotsky, 1972), A Doll’s House (Casa di bambola, 1973) e Galileo (1975), ritorneranno tutti quei preziosi insegnamenti di Piscator e Mejerchol’d sui rapporti che si sviluppano tra messaggio socio-politico, testo rappresentato, pubblico e attori, mentre, con The Romantic Englishwoman (Una romantica donna inglese, 1975) si intensificherà la freddezza verso i personaggi e i loro sado-masochistici giochi al massacro. Nel 1976 Losey tornò in concorso a Cannes con Mr. Klein, un film di produzione francese salutato da gran parte della critica come uno dei suoi migliori lavori degli anni settanta. La complessa sceneggiatura dello scrittore italiano Franco Solinas segue la vicenda di un usuraio parigino che, durante l’occupazione nazista, si troverà a fare i conti con la vicenda di un suo omonimo ebreo intenzionato ad attribuirgli la propria identità per sfuggire alle persecuzioni razziali. Paranoico e agghiacciante, Mr. Klein si muove tra le atmosfere di Borges e Kafka e si presenta come un «thriller morale in cui il nodo dell’antisemitismo si combina con le logiche più sotterranee della merce e del denaro».
Nella tarda produzione loseyana si susseguirono invece la distaccata apologia anti-franchista di Les Routes du Sud (Le strade del sud, 1978), il raffinato, ma mai gratuito, esercizio di stile del Don Giovanni (1979), versione filmata dell’opera di Mozart, e l’erotismo straniante di La truite (1982), pellicola tratta dal romanzo di Roger Vailland - scrittore profondamente legato al marxismo - che Losey avrebbe voluto filmare già dai tempi di Eva ma, come disse egli stesso al critico francese Michel Ciment, «le persone chiamate a prendere le decisioni non lo trovarono abbastanza commerciale».
La carriera del regista giunse al suo finale con Steaming (Steaming - Al bagno turco,1985), un film che Losey riuscì appena a concludere senza poterne vedere la presentazione fuori concorso al Festival di Cannes e la distribuzione nelle sale. Steaming venne tratto da una piéce teatrale di Nell Dunn e prende come protagoniste un gruppo di donne di contesti ed estrazioni sociali differenti, che, incontrandosi in un bagno turco ogni settimana, si scambiano reciproche confidenze riguardo alle loro vite, ai loro dubbi e ai ruoli che ricoprono in una società puramente patriarcale. Con quest’ultima opera Losey allevia i suoi «nevrotici» movimenti di macchina con delicati andamenti rotatori ed elimina qualsiasi personaggio maschile - il cast è composto esclusivamente da donne - in modo da creare un microcosmo - il bagno turco magnificamente reso dalle scenografie di Maurice Fowler - dove le leggi degli uomini vengono bandite. Non a caso per Gilles Deleuze la donna rappresenta, per tutto il cinema dell’autore, una salvezza morale ed estetica poiché è lei a «tracciare una linea d’uscita ed a conquistare una libertà creatrice, artistica, o semplicemente pratica».
Funestato per tutta la vita da una salute fragile Joseph Losey morì, a seguito di una breve malattia, nella sua casa di Londra il 22 giugno del 1984, lasciando dietro di sé una carriera sempre coerente e profondamente legata alla sua sfaccettata personalità d’artista. Cantore della corruzione spirituale del mondo Losey riuscì, attraverso il suo «cinema della crudeltà», a descrivere lucidamente i dubbi e le contraddizioni dell’essere umano. Non si riconciliò mai completamente con il suo paese d’origine e sui suoi conflittuali rapporti con il sistema produttivo americano ebbe non a caso a dire: «Purtroppo le proposte giuntemi da Hollywood sono prive di interesse e quelle che io propongo - come il progetto sulla Recherche du temps perdu di Marcel Proust - non li interessano minimamente. Non credo di essere paranoico come McCarthy, ma ho l’impressione che appena vedano il mio nome in calce a un progetto da loro considerato controversial dicano subito di no. Mi darebbero carta bianca solo se proponessi di rifare Via col vento…ma chissà come lo rimonterebbero».
Anatomia di un regista
che ha dettato i propri schemi,
di Alberto de Carolis Villars
TR-58
20.04.2022
Nel corso di una serie di interviste con il critico Aldo Tassone, Joseph Losey dichiarò: «un artista è un testimone inquietante e un seminatore di dubbi». Un’affermazione enigmatica ma, allo stesso tempo, applicabile alla sua intera opera. Se infatti si osserverà attentamente la filmografia del regista, ci si renderà presto conto di come queste parole riecheggino prepotentemente per tutto il suo percorso autoriale. La visione di Losey è quella di un cinema sfrontatamente barocco - nella migliore accezione del termine - e colmo di ombrosità, dove i turbinosi e convulsi movimenti di camera esaminano ossessivamente le azioni dei personaggi. Nel corso della sua tortuosa carriera, questo grande maestro riuscì a mantenere una straordinaria capacità di amalgamare, attraverso un rigoroso controllo della messa in scena, le intelaiature narrative dei generi più disparati, senza mai tradire il messaggio morale presente in ognuno dei suoi lungometraggi.
Nato negli Stati Uniti da un’importante famiglia di La Crosse, nel Wisconsin, il 14 gennaio del 1909, Losey ebbe un’educazione europeizzante. Da giovane era costantemente spronato, in particolar modo da una zia, alla lettura dei grandi classici letterari del vecchio continente, dai Dumas a Dickens, da Thackeray a Balzac e via dicendo. Ventenne partì alla volta di New York, dove cominciò a scrivere su diverse testate di critica teatrale e a frequentare i circoli artistici della città. Fu in questi ambienti che conobbe John Hammond, un facoltoso produttore discografico che, prendendolo sotto la sua ala, gli prestò i soldi per recarsi in Europa allo scopo di studiare il teatro tedesco. Nei mesi trascorsi a Berlino entrò in contatto con vertici della sinistra teatrale come il regista Erwin Piscator e il drammaturgo Bertolt Brecht. Dopo essere tornato in patria, grazie agli aiuti economici di Hammond, riuscì a realizzare le sue prime regie teatrali a Broadway. Losey fa parte di quella generazione di registi, come Orson Welles, Elia Kazan, Robert Aldrich e Nicholas Ray, arrivati dal palcoscenico e figli delle utopiche speranze degli anni Trenta. Fu quindi questa irrefrenabile spinta ideologico-creativa a orientarlo verso la direzione di pièce dal forte contenuto sociale.
Nel 1935, deluso dall’insuccesso del suo allestimento di Jayhawker, si mise nuovamente in viaggio, e, passando per la Svezia, giunse in Unione Sovietica. Li conobbe il celebre documentarista Joris Ivens, seguì le lezioni di cineasti come Sergej Ėjzenštejn, Vsevolod Pudovkin e Aleksandr Dovženko e riuscì ad assistere alle storiche prove degli spettacoli di Vsevolod Ėmil'evič Mejerchol’d, padre del metodo di recitazione della bio-meccanica. Inoltre allestì egli stesso una versione di Waiting for Lefty, di Clifford Odets, vivendo in prima persona quel clima di sperimentalismo teatrale presente nella Mosca del periodo. Questa esperienza regalò a Losey non solo l’occasione per acquisire sempre più preparazione in ambito registico, ma anche per formare definitivamente il suo pensiero politico. Dopo il suo rientro in America e durante la seconda guerra mondiale lavorò instancabilmente per la radio fin quando non venne spedito al fronte.
A guerra finita si divise tra Los Angeles, dove diresse per la MGM un’altro corto di nome Gun in His Hand (1945), e New York, dove firmò nel 1947 la prima versione di Broadway del Leben des Galilei di Bertolt Brecht. La messa in scena dello spettacolo rappresentò un momento cruciale per Losey, che si ritrovò a collaborare con il vecchio mentore e a stringere con lui un rapporto da cui avrebbe ereditato molti degli elementi presenti nel suo universo cinematografico, dalla cura scrupolosa dei gesti e dei movimenti degli attori alla fluidità della composizione, dall’economia dei mezzi fino al gioco dei contrasti. Grazie al grande successo ottenuto con il Galileo il produttore Dore Schary, della RKO, gli propose la regia di The Boy with Green Hair (Il ragazzo dai capelli verdi, 1948). Già in questo primo lungometraggio si può chiaramente vedere quell’inclinazione, tipica delle opere di Losey, per il registro simbolico e la metafora sociale. Costruito come una «fiaba allegorica», The Boy with Green Hair si pone come una denuncia delle paure - la minaccia atomica, la diversità - e dei pregiudizi - l’intolleranza, la discriminazione razziale - insiti nell’essere umano. In The Lawless (Linciaggio, 1950), con il racconto di un ragazzo messicano che, a seguito di una rissa con un bianco, diviene bersaglio di una piccola comunità che lo accusa della morte di un poliziotto, il regista introdusse uno degli elementi chiave della sua opera: i rapporti di potere tra individui e classi sociali.
Lo schema della sopraffazione e l’analisi di una borghesia, che dietro a un’illusoria maschera di perbenismo nasconde una natura perversa e malata, si acuì con The Prowler (Sciacalli nell’ombra, 1951). Il film, incentrato sul rapporto distruttivo tra due amanti, un poliziotto e una casalinga che decidono di uccidere il coniuge di quest’ultima, sembra inizialmente guardare a modelli come Double Indemnity (La fiamma del peccato,1944) e The Postman Always Rings Twice (Il postino suona sempre due volte, 1946) per poi deragliare, tramite un complesso tratteggio psicologico dei protagonisti, su uno studio dei ruoli sociali - la casalinga e il poliziotto che nell’immaginario collettivo risultano figure integre e rassicuranti - che essi devono recitare per essere accettati come individui. Non a caso Gianni Volpi parlando di The Prowler disse: «Ormai in Losey il sogno americano si è fatto incubo. E si acuisce la riflessione sulle forme dei suoi temi. Nei tanti piani sequenza, la sua cinepresa agisce la scena, ne è la coscienza, in un rapporto ravvicinato con il suo ambiguo, quasi wellesiano antieroe».
Nei successivi M (1951) - sottovalutata versione americana del capolavoro tedesco di Fritz Lang in cui l’autore sembra essere più interessato a ritrarre la psicopatologia del serial killer piuttosto che a soffermarsi sui suoi atroci delitti - e The Big Night (La grande notte, 1951) - dove un’adolescente, impugnata una pistola, si mette alla ricerca dell’uomo che ha picchiato selvaggiamente suo padre - Losey costruisce dei personaggi che sono lo specchio del suo atteggiamento etico-politico. The Prowler, M e The Big Night si possono definire infatti dei noir sociali, dove la sfortuna non è riconducibile a qualche oscuro gioco del destino ma a disagi economici concreti e a situazioni altamente disfunzionali. L’individuo è, in queste opere, schiacciato dai diabolici ingranaggi di una società in cui non riesce a trovare un proprio posto. Losey ci ripresenta la medesima parabola in tre forme diverse: il poliziotto corrotto, il pazzo criminale, l’adolescente vendicatore, personaggi che, con lo sviluppo del plot, arrivano alla consapevolezza di essere dei «prigionieri».
Contestualmente a questo periodo di successo lavorativo crebbe però, nel regista, un’insofferenza verso la stigmatizzazione, da parte dell’industria cinematografica americana, di argomenti controversi. The Prowler e M subirono pesanti tagli di censura e nel frattempo il Comitato d’inchiesta sulle attività anti-americane (HUAC) riprese le sue folli indagini su Hollywood. Nella mecca del cinema molti finirono sul banco degli interrogati, e fu lo sceneggiatore Leo Townsend a fare il nome di Losey, che intanto si trovava in Italia per le riprese dello sfortunato Stranger on the Prowl (Imbarco a mezzanotte, 1952). La lavorazione del lungometraggio, prodotto dalla Riviera Film per la United Artist, fu funestata dal clima di tensione per le vicende personali del regista e per la sua inimicizia con il producer Gioacchino Forzano. Sebbene nel 1998 fosse stato restaurato e presentato come proiezione speciale alla Mostra d’arte cinematografica di Venezia, Stranger on the Prowl è un film che aspetta ancora una reale rivalutazione critica. Esso si muove, come un curioso ibrido, tra «il noir e il cinema neorealista lattuadiano o zavattiniano, a seconda che si privilegi l’aspetto favolistico o quello melodrammatico».
Convocato dal HUAC, Losey ritardò la partenza per terminare il film aggravando così una già compromessa posizione poiché, oltre a essere inserito nella famigerata «lista nera», venne condannato per oltraggio alla corte. Così nel 1952, saputo della vittoria di Eisenhower sul democratico Adlai Stevenson e con la consapevolezza di non avere un futuro lavorativo nel suo paese, il regista riprese il suo pellegrinaggio, questa volta verso l’Inghilterra. Su questi momenti ebbe a dire: «Non ho mai considerato una tragedia il fatto di aver dovuto lasciare Hollywood, fu anzi in un certo senso una fortuna. Che ci avrei fatto laggiù? L’assurdo è che chi ci ha condannati non era certo un modello di onestà: tutti sanno che McCarthy era un ubriacone e un depravato, agiva non per patriottismo ma per sporca demagogia. C’era una mentalità infetta e si sa che la paura trasforma le persone - anche gli amici - in delatori. È passata alla storia la frase pronunciata da John Ford alla fine di una notte di interminabili discussioni dove l’accusatore di turno era Cecil B. De Mille e l’accusato Mankiewicz. Alzandosi in piedi, Ford disse solennemente: ho sentito tutta la discussione, ed ho deciso che c’è una cosa sola da fare, gettare fuori questi scellerati. Alludeva a De Mille».
Arrivato a Londra Losey si ritrovò senza soldi e senza un nome e, anche se dovette ricominciare letteralmente da capo, non dimenticò mai i nodi fondamentali del suo cinema, anzi si può affermare che egli vide questo «esilio» come un’occasione di libertà creativa, un’opportunità per far emergere molte di quelle sfumature sociali che a Hollywood sarebbero state oscurate. A seguito di non poche difficoltà, e dopo un anno di disoccupazione, diresse The Sleeping Tiger (La tigre nell’ombra, 1954), lungometraggio che segna il suo debutto nel cinema inglese e l’inizio della collaborazione con quello che sarà uno dei protagonisti indiscussi del suo cinema, l’attore Dirk Bogarde, maschera perfetta di ambiguità e disincanto. La pellicola mette in risalto uno schema fondamentale di molte delle opere loseyane successive, ossia uno stato di tensione costante e sempre maggiore che porta a un ribaltamento degli eventi. L’inconsueto triangolo tra uno psichiatra, sua moglie e un indigente fuorilegge diviene scontro fra classi e mostra, come in The Prowler, una serie di giochi di potere che si «stringono sadomasochisticamente anche nei rapporti tra i sessi».
Nel 1956, Losey filmò Time Without Pity (L’alibi all’ultima ora, 1957), storia di un padre che nell’arco di due giorni tenterà in ogni modo di far cadere le accuse di omicidio rivolte al figlio prima che egli venga impiccato. Il film viene scandito costantemente da riprese di orologi - da quello del carcere sotto cui l'uomo si dispera a quello da polso con cui si dà anche inizio ad una sequenza - che mostrano l’inevitabile incedere di quelle ore in cui il protagonista comprenderà i limiti della legge e le spietate logiche del potere.
Con Blind Date (L’inchiesta dell’ispettore Morgan, 1959) trovano una forma definitiva tutti quegli «ingredienti» che definiscono il suo cinema, dagli andamenti roteatori della macchina da presa intorno agli attori fino alla scelta di ambienti inconsueti dove far svolgere l’azione. Anche qui la trama mystery - un giovane pittore viene sedotto dalla moglie di un politico rimanendo incastrato nel losco piano della donna - diviene solo una scusa per mostrare le differenze etiche tra un bohémien spiantato, un’immorale lady ed un ispettore di polizia. Questa elaborazione della messa in scena torna in The Criminal, storia carceraria che muta in una meditazione sull’assoggettamento all’ordine costituito, dove gli interni rievocano articolatamente una claustrofobia che è non solo fisica ma anche morale. Come in una grande coreografia Losey guida ogni movimento del suo cast - il cineasta studiò i set attraverso degli storyboard e si consultò scrupolosamente con gli scenografi - e mette in atto, come mai prima d’allora, la lezione di Brecht sull’equilibrio tra movimento, parola e suono. Il lungometraggio termina con la morte del protagonista colpito da una pistola. Come era per The Prowler, dove la città fantasma e i cumuli di terra arida su cui Van Heflin si accasciava simboleggiavano «il ritorno alla repressione negli Stati Uniti e l’azzeramento della speranza di una maggiore coscienza sociale», anche qui la neve sulla quale il piccolo gangster spira va a comporre un paesaggio funereo di disturbante desolazione. Con queste due spietate riflessioni sul sistema classista inglese - Blind Date - e i legami fra capitalismo e criminalità - The Criminal - è come se lo sguardo di Losey si radicalizzasse, stilisticamente e narrativamente, portandolo verso una nuova fase della sua carriera.
Con il suo cinema riflessivo, tecnico e di rottura delle tradizioni, il regista volle, da Eva (1962) e The Servant (Il servo, 1963) in poi, conciliare due tipologie di estetica cinematografica: la «modernità all’americana» e la «modernità all’europea». La modernità all’americana - che Losey aveva cominciato a sviluppare durante il suo periodo hollywoodiano parallelamente ad autori come Raoul Walsh, Otto Preminger e Fritz Lang - è data da un dinamismo nella regia tramite cui si palesa una coerenza e si afferma una personalità, mentre quella all’europea si connette direttamente all’estetica dell’arte moderna ed è condivisa da registi-artisti come Federico Fellini, Michelangelo Antonioni o Luis Buñuel. Fino a quel momento i movimenti di macchina erano stati usati dal regista per animare la scena. Con la loro rapidità essi accompagnavano «il movimento profilmico degli attori» ed interpretavano «puntualmente valenze simboliche». In questa seconda fase l’andamento della cinepresa diventa estremamente marcato e interagisce con i personaggi tanto da intrappolarli in una gabbia visiva. Siamo quindi agli antipodi del «movimento come celebrazione della centralità del personaggio sulla scena» tipico del cinema classico. Mantenendo quella fluidità e quel compiacimento da artigiano di Hollywood, Losey impresse una coscienza ai suoi movimenti di camera rimanendo a metà strada tra il classicismo e la modernità. In Eva, storia di uno scrittore che finisce in un baratro autodistruttivo a causa della sua ossessione nei confronti di una gelida prostituta d’alto bordo, Losey svela ancora una volta un gioco di sottomissione e anticipa allo spettatore i meccanismi del ménage di The Servant.
The Servant può pienamente essere considerata come una delle opere più rilevanti del cinema inglese degli anni Sessanta. Inaugurando un felice sodalizio con il drammaturgo Harold Pinter, nel ruolo di sceneggiatore, Losey ci narra la fosca vicenda di un maggiordomo che, giunto nella casa di un aristocratico rampollo, comincerà a deviarlo fino a ribaltare il rapporto servo-padrone. Lo scontro fra classi è portato in questo film a conseguenze orrorifiche e grottesche e la sua analisi sull’inutilità vacua dei nobili e la ferocia dei subalterni è una delle più spietate mai apparse sul grande schermo. L’odio di classe si trasforma in corruzione reciproca, in quel conflitto tra apparire ed essere tipico delle società piramidali. I meditati movimenti di camera agiscono tra scenografie che si fanno estensioni della personalità malata dei personaggi. Non a caso continue sono le inquadrature di specchi - largamente usati nella filmografia loseyana - che filtrano, deformano e commentano l’azione. La casa si trasforma con The Servant in un luogo espressivo e ostile, popolato da oscuri esseri che si insinuano tra i suoi labirintici anfratti. Parlando dell’opera il regista non a caso affermò: «La difficoltà del film a farsi guardare è voluta: provocare rifiuto, reazione. Voglio che lo spettatore sia in una posizione attiva dopo lo spettacolo. Se qualcuno mi dice di essere stato disturbato da uno dei miei film, è il più bel complimento che mi possa fare».
Il seguente King and Country (Per il re e per la patria, 1964), lungometraggio ambientato nelle trincee della prima guerra mondiale, sceneggiato dal poeta giamaicano Evan Jones - già autore dello script di Eva - mette in scena ancora una volta i rapporti di supremazia tra esseri umani, in un ambiente claustrofobico e asfissiante. Sempre con la complicità di Jones il regista concepì i sadistici The Damned (Hallucination, 1963) e Modesty Blaise (1966), due opere inconsuete, trattate con sospetto dalla critica: The Damned fu erroneamente considerato come un lavoro minore, mentre Modesty Blaise venne, al momento della sua presentazione al Festival di Cannes, sminuito dalla stampa. Sono due opere che giocano con i generi, in questo caso di fantascienza e d’azione, per criticare la guerrafondaia e sordida società moderna.
Il 1967 fu l’anno della vittoria del Grand Prix Spécial du Jury al Festival di Cannes per Accident (L’incidente, 1967), feroce stoccata all’ambiente accademico e seconda collaborazione con Pinter. Il film, perfido ritratto di un’umanità repressa e alienata, è uno studio sui «conflitti di rara protervia che si nascondono nel silenzio operoso di un microcosmo universitario e dietro i gesti ed i riti più raffinati di una cultura». Strepitosa in Accident è la concezione della struttura narrativa, dove le logiche della consequenzialità vengono totalmente rielaborate da Pinter e Losey. Sceneggiatore e regista costruiscono una storia sospesa in un non-tempo, dove gli accadimenti si incastrano tra loro senza un’apparente precedenza o posteriorità. Questa ripetitività degli eventi, che organizza il plot in una spirale che ruota attorno all’episodio catartico della trama - l’incidente che dà il titolo al film - sembra guardare a quell'interazione fluida tra passato, presente e futuro delle opere di Alain Resnais che, a detta dello stesso Losey, «era virtualmente l’unico regista da cui poter imparare».
Il decadentistico Boom (La scogliera dei desideri, 1968), lo psicanalitico Secret Ceremony (Cerimonia segreta, 1968) e l’astratto Figures in a Landscape (Caccia sadica, 1970) sono invece il risultato di un periodo di sperimentalismo radicale. Come Modesty Blaise anche Boom si può considerare un precursore del cinema post-moderno, dove tutto è pervaso da un punto di vista teatrale e parodistico e niente viene concepito per essere colto in primo grado. Stessa regola vale per Secret Ceremony, dove le riprese della grande casa - somigliante a un enigmatico luogo di culto - e i rapporti di potenza tra le due protagoniste sembrano rimandare direttamente a The Servant. Figures in the Landscape segna invece il vertice della rarefazione stilistica loseyana: «Siamo già morti» affermerà il personaggio di Malcolm McDowell per sottolineare «l’impossibilità di fuga dalla struttura del dominio».
Per The Go-Between (Messaggero d’amore, 1971), storia di un tredicenne che accetta di farsi inviato delle lettere d’amore fra una giovane aristocratica e un burbero fattore, Losey venne nuovamente premiato a Cannes, ma questa volta con la Palma d’oro, all’epoca Grand Prix du Festival. Ambientato nei primi del Novecento, il film mostra, con una serie di salti temporali che lo spettatore comprenderà solo nel finale, le tragiche conseguenze che i tabù della società vittoriana hanno avuto sulla vita di due amanti dai differenti ranghi sociali. Con la sua pittorica e raffinata ricostruzione d’ambiente The Go-Between segna l’ultima esperienza con Harold Pinter - che aveva già scritto una prima versione della sceneggiatura dopo The Servant - e, attraverso un dramma sentimentale, compie una lucida indagine sociologica su un mondo dove conta più l’apparire che l’essere e dove la dignità dei personaggi è costantemente ferita da inevitabili e reciproche umiliazioni.
Successivamente, con The Assassination of Trotsky (L’assassinio di Trotsky, 1972), A Doll’s House (Casa di bambola, 1973) e Galileo (1975), ritorneranno tutti quei preziosi insegnamenti di Piscator e Mejerchol’d sui rapporti che si sviluppano tra messaggio socio-politico, testo rappresentato, pubblico e attori, mentre, con The Romantic Englishwoman (Una romantica donna inglese, 1975) si intensificherà la freddezza verso i personaggi e i loro sado-masochistici giochi al massacro. Nel 1976 Losey tornò in concorso a Cannes con Mr. Klein, un film di produzione francese salutato da gran parte della critica come uno dei suoi migliori lavori degli anni settanta. La complessa sceneggiatura dello scrittore italiano Franco Solinas segue la vicenda di un usuraio parigino che, durante l’occupazione nazista, si troverà a fare i conti con la vicenda di un suo omonimo ebreo intenzionato ad attribuirgli la propria identità per sfuggire alle persecuzioni razziali. Paranoico e agghiacciante, Mr. Klein si muove tra le atmosfere di Borges e Kafka e si presenta come un «thriller morale in cui il nodo dell’antisemitismo si combina con le logiche più sotterranee della merce e del denaro».
Nella tarda produzione loseyana si susseguirono invece la distaccata apologia anti-franchista di Les Routes du Sud (Le strade del sud, 1978), il raffinato, ma mai gratuito, esercizio di stile del Don Giovanni (1979), versione filmata dell’opera di Mozart, e l’erotismo straniante di La truite (1982), pellicola tratta dal romanzo di Roger Vailland - scrittore profondamente legato al marxismo - che Losey avrebbe voluto filmare già dai tempi di Eva ma, come disse egli stesso al critico francese Michel Ciment, «le persone chiamate a prendere le decisioni non lo trovarono abbastanza commerciale».
La carriera del regista giunse al suo finale con Steaming (Steaming - Al bagno turco,1985), un film che Losey riuscì appena a concludere senza poterne vedere la presentazione fuori concorso al Festival di Cannes e la distribuzione nelle sale. Steaming venne tratto da una piéce teatrale di Nell Dunn e prende come protagoniste un gruppo di donne di contesti ed estrazioni sociali differenti, che, incontrandosi in un bagno turco ogni settimana, si scambiano reciproche confidenze riguardo alle loro vite, ai loro dubbi e ai ruoli che ricoprono in una società puramente patriarcale. Con quest’ultima opera Losey allevia i suoi «nevrotici» movimenti di macchina con delicati andamenti rotatori ed elimina qualsiasi personaggio maschile - il cast è composto esclusivamente da donne - in modo da creare un microcosmo - il bagno turco magnificamente reso dalle scenografie di Maurice Fowler - dove le leggi degli uomini vengono bandite. Non a caso per Gilles Deleuze la donna rappresenta, per tutto il cinema dell’autore, una salvezza morale ed estetica poiché è lei a «tracciare una linea d’uscita ed a conquistare una libertà creatrice, artistica, o semplicemente pratica».
Funestato per tutta la vita da una salute fragile Joseph Losey morì, a seguito di una breve malattia, nella sua casa di Londra il 22 giugno del 1984, lasciando dietro di sé una carriera sempre coerente e profondamente legata alla sua sfaccettata personalità d’artista. Cantore della corruzione spirituale del mondo Losey riuscì, attraverso il suo «cinema della crudeltà», a descrivere lucidamente i dubbi e le contraddizioni dell’essere umano. Non si riconciliò mai completamente con il suo paese d’origine e sui suoi conflittuali rapporti con il sistema produttivo americano ebbe non a caso a dire: «Purtroppo le proposte giuntemi da Hollywood sono prive di interesse e quelle che io propongo - come il progetto sulla Recherche du temps perdu di Marcel Proust - non li interessano minimamente. Non credo di essere paranoico come McCarthy, ma ho l’impressione che appena vedano il mio nome in calce a un progetto da loro considerato controversial dicano subito di no. Mi darebbero carta bianca solo se proponessi di rifare Via col vento…ma chissà come lo rimonterebbero».