INT-65
04.04.2024
Nello scenario del cinema rumeno, Andrei Cohn si è fatto notare con il suo secondo lungometraggio, Arrest, presentato nel 2019 in competizione al Karlovy Vary Film Festival, da sempre la “vetrina” internazionale del mondo sul cinema dell’Europa orientale. Il film si è distinto per la crudità e la violenza con la quale inscena un interrogatorio dell’era Ceausescu. Alla Berlinale di quest’anno, nella sezione Forum, Cohn ha presentato Holy Week, un film di ambientazione ottocentesca, ispirato ad un racconto di Ion Luca Caragiale che narra il dramma dell’antisemitismo attraverso le vicende di una famiglia di stirpe ebraica che vive in una locanda incastonata in uno scenario mozzafiato.
Abbiamo incontrato Andrei Cohn, e discusso con lui dei vari elementi che compongono Holy Week e del suo cinema in generale.
Cosa l'ha attratto del racconto che ha ispirato il film?
È stata una coincidenza, diciamo. Un momento fortuito, perché ero interessato a questo argomento. Certo, forse c’entrano le mie origini, ed il fatto che non sono riuscito a scrivere io una storia, ma mi sono improvvisamente ricordato del racconto di Caragiale, che adoravo da quando ero piccolo, ed ho provato a vedere se poteva funzionare sullo schermo. Penso sia avvenuto così, nulla di più. Resto molto tempo a riflettere sui miei film e quindi mi è difficile identificare un preciso momento. Sicuramente ha a che fare però con le mie origini.
In Arrest c’erano alcuni riferimenti all’antisemitismo, una questione che diventa centrale in questo film.
Si, anche se in Arrest erano solo in vaghi momenti del dialogo. È qualcosa con cui ho convissuto. Devo sottolineare che non ne ho mai sofferto, ma resta questa sensazione continua. Anche se sono solo battute, si percepisce un alone nell’aria. Non ho nulla in comune con quello che vive il protagonista del film. Ho deciso di raccontare non un momento estremo ma proprio questa condizione esistenziale che può portare a conseguenze gravi, in base al carattere di chi vive sotto questa pressione. La pressione e la paura portano alla spirale dell’odio, che ancora non sappiamo come rompere.
Vedendo Holy Week si ha la sensazione di un’accuratezza assoluta dell’ambientazione storica.
Dopo una ricerca più approfondita, posso affermare che alla fine non è accurato al 100%, anche perché ho deciso intenzionalmente di non rendere chiara la periodizzazione esatta, sappiamo solo che siamo vagamente a fine Ottocento o inizio Novecento. Non sento il bisogno di descrivere il tempo sotto forma di cifre, preferisco dire che questo film è ambientato prima dei più grandi incubi della storia moderna. Al contempo, non voglio che la storia sia percepita come più “ampia” di quella che è.
C’è poi il contrasto tra la natura rigogliosa che si vede nei paesaggi, e il tema cupo del film.
Sul paesaggio, l’idea di base che avevamo parte da un concetto secondo il quale noi umani siamo la “sporcizia” dell’universo, e che il mondo e la natura non hanno colpe. La natura è l’unico luogo in cui troviamo la categoria estetica del “sublime”, e quindi non indossa la “vestigia del dramma” solo perché avvengono fatti tragici. Il film è ambientato in primavera, in prossimità della Pasqua, per cui la natura resta immutabile e rigogliosa nonostante le disgrazie dei protagonisti.
Dato che Arrest è quasi tutto ambientato in una cella, e Holy Week si svolge principalmente in una locanda, mi chiedo se ci sia un suo interesse particolare nell’unità di spazio dei suoi film.
Solitamente non ci penso. Non decido mai coscientemente di girare in poche location, nel caso di Arrest, ad esempio, la storia doveva essere molto più complessa, con molti set, ma mi sono chiesto quale fosse il motivo trainante per me di fare il film e la risposta è stata che volevo osservare le interazioni "isolate” di due personaggi in un piccolo spazio. Invece, il racconto che ha ispirato Holy Week è ambientato interamente nella locanda, io ho aggiunto alcune ambientazioni in più. Nel racconto c’erano molte scene di sogno che ho trasformato in realismo. La scena iniziale, per esempio, era un sogno. Non sentivo di voler utilizzare sogni, non è una cosa da me. Ho visto così tanti film con troppi sogni.
Un aspetto interessante del suo film è l’ambiguità morale, difficile dire quale personaggio sia nel giusto a fine film.
Odio quando le cose sono rese in modo chiaro. Odio quanto le persone additano con troppa facilità ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Ad un certo livello l’interpretazione è ovvia, un personaggio nel film commette un crimine, ma la storia che lo porta a compiere quel gesto è molto più complessa. In qualche modo finisce per commettere quell’azione immorale come in una tragedia greca, nella quale il protagonista non riesce ad affrontare la vita e questo porta a conseguenze oscure.
Rispetto ad Arrest, che era molto cruento, in Holy Week più che violenza diretta, c’è l’attesa di una violenza imminente.
Non mi piace rappresentare la violenza, ma in Arrest ho dovuto fare una sorta di omaggio al tema del film, altrimenti sarebbe stato come nelle pellicole degli anni venti, in cui le scene di violenza avvengono sempre fuori campo, e avrei dato l’impressione di voler nascondere qualcosa. Holy Week, invece, non si concentra sulla violenza, ma sulla paura e sull’essere influenzati da essa.
Spesso utilizza inquadrature molto lunghe per durata nel film, qual è la motivazione?
Ha molto a che fare con il mio background, l’educazione alle Belle Arti. Dico spesso che mi piace esprimermi rimuovendo pezzi dalla realtà e riassemblandoli, e se poi questi raccontano una storia, sono contento. Quando invece faccio cortometraggi uso spesso la cinepresa a mano libera, quindi ho la sensazione di perdere di vista ciò che mi interessa davvero, in questo continuo movimento vertiginoso. Forse adesso uso la telecamera fissa un po’ troppo. Dovrei trovare un equilibrio.
Qual è il ruolo del realismo nel suo cinema? Mi pare di capire che è di particolare importanza.
Certamente. Penso sia una questione morale. Adoro quello che vedo e non ho bisogno di aggiungere nulla alla vita così com’è. Non ho bisogno di musiche o effetti per trasmettere emozioni o sensazioni, e se ci fossero strati di finzione, ucciderebbero questo gusto iniziale che percepisco.
INT-65
04.04.2024
Nello scenario del cinema rumeno, Andrei Cohn si è fatto notare con il suo secondo lungometraggio, Arrest, presentato nel 2019 in competizione al Karlovy Vary Film Festival, da sempre la “vetrina” internazionale del mondo sul cinema dell’Europa orientale. Il film si è distinto per la crudità e la violenza con la quale inscena un interrogatorio dell’era Ceausescu. Alla Berlinale di quest’anno, nella sezione Forum, Cohn ha presentato Holy Week, un film di ambientazione ottocentesca, ispirato ad un racconto di Ion Luca Caragiale che narra il dramma dell’antisemitismo attraverso le vicende di una famiglia di stirpe ebraica che vive in una locanda incastonata in uno scenario mozzafiato.
Abbiamo incontrato Andrei Cohn, e discusso con lui dei vari elementi che compongono Holy Week e del suo cinema in generale.
Cosa l'ha attratto del racconto che ha ispirato il film?
È stata una coincidenza, diciamo. Un momento fortuito, perché ero interessato a questo argomento. Certo, forse c’entrano le mie origini, ed il fatto che non sono riuscito a scrivere io una storia, ma mi sono improvvisamente ricordato del racconto di Caragiale, che adoravo da quando ero piccolo, ed ho provato a vedere se poteva funzionare sullo schermo. Penso sia avvenuto così, nulla di più. Resto molto tempo a riflettere sui miei film e quindi mi è difficile identificare un preciso momento. Sicuramente ha a che fare però con le mie origini.
In Arrest c’erano alcuni riferimenti all’antisemitismo, una questione che diventa centrale in questo film.
Si, anche se in Arrest erano solo in vaghi momenti del dialogo. È qualcosa con cui ho convissuto. Devo sottolineare che non ne ho mai sofferto, ma resta questa sensazione continua. Anche se sono solo battute, si percepisce un alone nell’aria. Non ho nulla in comune con quello che vive il protagonista del film. Ho deciso di raccontare non un momento estremo ma proprio questa condizione esistenziale che può portare a conseguenze gravi, in base al carattere di chi vive sotto questa pressione. La pressione e la paura portano alla spirale dell’odio, che ancora non sappiamo come rompere.
Vedendo Holy Week si ha la sensazione di un’accuratezza assoluta dell’ambientazione storica.
Dopo una ricerca più approfondita, posso affermare che alla fine non è accurato al 100%, anche perché ho deciso intenzionalmente di non rendere chiara la periodizzazione esatta, sappiamo solo che siamo vagamente a fine Ottocento o inizio Novecento. Non sento il bisogno di descrivere il tempo sotto forma di cifre, preferisco dire che questo film è ambientato prima dei più grandi incubi della storia moderna. Al contempo, non voglio che la storia sia percepita come più “ampia” di quella che è.
C’è poi il contrasto tra la natura rigogliosa che si vede nei paesaggi, e il tema cupo del film.
Sul paesaggio, l’idea di base che avevamo parte da un concetto secondo il quale noi umani siamo la “sporcizia” dell’universo, e che il mondo e la natura non hanno colpe. La natura è l’unico luogo in cui troviamo la categoria estetica del “sublime”, e quindi non indossa la “vestigia del dramma” solo perché avvengono fatti tragici. Il film è ambientato in primavera, in prossimità della Pasqua, per cui la natura resta immutabile e rigogliosa nonostante le disgrazie dei protagonisti.
Dato che Arrest è quasi tutto ambientato in una cella, e Holy Week si svolge principalmente in una locanda, mi chiedo se ci sia un suo interesse particolare nell’unità di spazio dei suoi film.
Solitamente non ci penso. Non decido mai coscientemente di girare in poche location, nel caso di Arrest, ad esempio, la storia doveva essere molto più complessa, con molti set, ma mi sono chiesto quale fosse il motivo trainante per me di fare il film e la risposta è stata che volevo osservare le interazioni "isolate” di due personaggi in un piccolo spazio. Invece, il racconto che ha ispirato Holy Week è ambientato interamente nella locanda, io ho aggiunto alcune ambientazioni in più. Nel racconto c’erano molte scene di sogno che ho trasformato in realismo. La scena iniziale, per esempio, era un sogno. Non sentivo di voler utilizzare sogni, non è una cosa da me. Ho visto così tanti film con troppi sogni.
Un aspetto interessante del suo film è l’ambiguità morale, difficile dire quale personaggio sia nel giusto a fine film.
Odio quando le cose sono rese in modo chiaro. Odio quanto le persone additano con troppa facilità ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Ad un certo livello l’interpretazione è ovvia, un personaggio nel film commette un crimine, ma la storia che lo porta a compiere quel gesto è molto più complessa. In qualche modo finisce per commettere quell’azione immorale come in una tragedia greca, nella quale il protagonista non riesce ad affrontare la vita e questo porta a conseguenze oscure.
Rispetto ad Arrest, che era molto cruento, in Holy Week più che violenza diretta, c’è l’attesa di una violenza imminente.
Non mi piace rappresentare la violenza, ma in Arrest ho dovuto fare una sorta di omaggio al tema del film, altrimenti sarebbe stato come nelle pellicole degli anni venti, in cui le scene di violenza avvengono sempre fuori campo, e avrei dato l’impressione di voler nascondere qualcosa. Holy Week, invece, non si concentra sulla violenza, ma sulla paura e sull’essere influenzati da essa.
Spesso utilizza inquadrature molto lunghe per durata nel film, qual è la motivazione?
Ha molto a che fare con il mio background, l’educazione alle Belle Arti. Dico spesso che mi piace esprimermi rimuovendo pezzi dalla realtà e riassemblandoli, e se poi questi raccontano una storia, sono contento. Quando invece faccio cortometraggi uso spesso la cinepresa a mano libera, quindi ho la sensazione di perdere di vista ciò che mi interessa davvero, in questo continuo movimento vertiginoso. Forse adesso uso la telecamera fissa un po’ troppo. Dovrei trovare un equilibrio.
Qual è il ruolo del realismo nel suo cinema? Mi pare di capire che è di particolare importanza.
Certamente. Penso sia una questione morale. Adoro quello che vedo e non ho bisogno di aggiungere nulla alla vita così com’è. Non ho bisogno di musiche o effetti per trasmettere emozioni o sensazioni, e se ci fossero strati di finzione, ucciderebbero questo gusto iniziale che percepisco.