A cura di Ludovico Cantisani
INT-04
28.06.2022
Per la nostra rubrica di interviste, nella quale chiediamo del mestiere del cinema a chi il cinema lo fa, qualche tempo fa abbiamo avuto il piacere di parlare con Consuelo Catucci, montatrice di Paolo Genovese e altri successi del cinema italiano. Ecco cosa ci ha detto sul suo lavoro e in particolare sulla realizzazione di Perfetti sconosciuti.
Qual è stata la tua formazione come montatrice e quali sono stati i tuoi primi passi nel mondo del cinema?
Io ho una formazione abbastanza bizzarra: all’università ho studiato Medicina, quindi provengo da un ambiente completamente diverso. Sin da piccola avevo avuto un interesse molto forte per il cinema e la fotografia, ma non avevo mai pensato che potesse diventare una vera professione; nella realtà dei fatti però, proseguendo gli studi, ho conosciuto tutta una serie di amici che facevano il CSC o il DAMS, e ne approfittavo per leggere e studiare i loro testi; e man mano che leggevo e scoprivo la grammatica del cinema sentivo sempre di più voglia di esprimermi creativamente. A un certo punto ho preso un anno sabatico per cercare di chiarirmi le idee su quello che volevo fare nella mia vita: durante quell’anno innanzitutto ho scoperto cos’era un montatore, che è una figura un po’ nascosta per chi non è un vero esperto del cinema, e ho frequentato alcuni corsi e workshop di montaggio. La mia fortuna è stata quella di arrivare nel momento di un passaggio tecnico epocale che ha coinvolto tutta la filiera cinematografica, l’evoluzione dalla pellicola al digitale, e c’era quindi anche bisogno di persone che sapessero usare nuovi sistemi software come Avid e affini.
Come sei entrata allora nel mondo del cinema?
Io sono arrivata a fare la montatrice di cinema in una maniera un po’ diversa da quella usuale, per la quale di solito prima sei l’assistente di un montatore affermato e poi diventi montatrice a tua volta. Io invece ho cominciato direttamente come montatrice, facendo prima un po’ di televisione e poi concentrandomi su documentari, videoclip e pubblicità. I videoclip e ancor di più le pubblicità hanno rappresentato per me un punto di svolta: una pubblicità è un’espressione puramente estetica con dei tempi e dei ritmi serrati, e una dinamica di racconto tutta interna. Riuscire a far passare un’emozione senza avere a disposizione le parole, riuscire a far passare concetti che portano con sé dei sentimenti raccontandoli in modo assolutamente “puro”, usando il mezzo visivo e la suggestione della musica, è stata una formazione per me fondamentale e mi ha permesso, sin da giovanissima, di avere a che fare con registi molto esperti, anche stranieri. Quello che è successo da lì in avanti è stato uno snocciolarsi di cose: le persone dell’ambiente man mano si passavano il mio nome, conoscevo ogni mese nuovi registi, alcuni di questi registi esordivano al cinema e mi portavano sul grande schermo con sé.
Quali sono stati i tuoi primi film da montatrice?
In un primo momento ho montato dei lungometraggi indipendenti e dei documentari, ma nulla di significativo; il primo film “formativo” per me è stato H2Odio, un film abbastanza particolare di Alex Infascelli, che è stato un punto di svolta per la mia carriera. Quel film mi ha fatto capire le potenzialità del racconto lungo, però una volta finito il montaggio sono tornata per un po’ a occuparmi di pubblicità e video più brevi. Il mio primo film appartenente al cinema “ufficiale” e industriale è stato Nero bifamiliare di Federico Zampaglione, una commedia un po’ noir che mi ha messo definitivamente in contatto col mondo del cinema. All’inizio neanche ero sicuro di essere interessata alla forma di racconto propria di un film, dispiegata lungo due ore di durata, perché mi sentivo del tutto appagata in questo racconto estetico della brevità come era pubblicità. In un mese quattro o cinque lavori diversi, cambiavo sempre argomento. Poi però il cinema mi ha conquistato e da lì la mia carriera è continuata grazie ai passaparola: ho avuto la fortuna lavorare subito dopo con Giuliano Montaldo, e da lì c’è stata una concatenazione di incontri.
Con il regista Paolo Genovese avevi già collaborato per La famiglia perfetta, Sei mai stata sulla Luna? e Tutta colpa di Freud. Come era nato il vostro incontro professionale e come ti eri trovata a collaborare con lui per il montaggio di quei primi due film insieme?
Il primo film che ho fatto con Paolo è stato La famiglia perfetta, che ho amato molto soprattutto per il suo plot geniale di un signore che “affitta” una famiglia di attori con cui passare il Natale, una cosa che anche il pubblico capisce dopo un po’. Tutto il film è composto da una serie di giochi di equivoci e di personalità che si vanno ad incastrare una sull’altra. Grazie a La famiglia perfetta con Paolo abbiamo cominciato un percorso che è passato per Sei mai stata sulla Luna?, Tutta colpa di Freud, Perfetti Sconosciuti, The Place e altri due film che sono stati girati e finiti ma che ancora non sono usciti a causa del Coronavirus. Ci siamo trovati molto bene a lavorare assieme, e, per ora, non ci siamo mai lasciati!
Il fatto che Perfetti Sconosciuti è ambientato in un’unità aristotelica quasi completa – unità di tempo, luogo e azione – quanto lo differenziava rispetto ad altri film più “classici”?
Quello che è al tempo stesso la difficoltà e il miracolo di Perfetti Sconosciuti non è solo il fatto che è un film che si svolge praticamente tutto in un’unica stanza, ma anche che si tratta di un film che non puoi creare se non hai un’équipe tutta di “primi violini” come li chiamerebbe Montaldo. Un film con quest’impostazione è difficile da girare per ogni reparto, non solo per il regista e per il montatore: ad esempio il reparto scenografia deve rendere interessante ogni ambiente della casa, non devi mai avere la sensazione di qualcosa di “già-visto” o che si ripete anche se resti sempre nello stesso ambiente.
A cosa si doveva questa difficoltà generalizzata?
Dal punto di vista dei costumi Perfetti Sconosciuti ha comportato un lavoro di ricerca incredibile: fai un unico outfit in cui rappresentare la personalità del soggetto che lo veste. In un film di solito assegni una serie di costumi a ogni singolo personaggio che permettono al pubblico di intuirne il carattere e la personalità, in Perfetti Sconosciuti devi fare lo stesso con un colpo d’occhio e con un singolo vestito a persona. Perfetti Sconosciuti è stato un film difficilissimo a livello sonoro, per molti aspetti: hai molte persone nella stessa stanza che parlano e mangiano provocando rumore, ma anche un appartamento con finestra, con i camion e tutti gli altri suoni della strada che provengono dall’esterno. Al tempo stesso un film così è anche difficoltoso da sonorizzare per chi deve fare il sound design in post-produzione: se i personaggi stessero in mezzo alla strada come in tanti film sarebbe facile sonorizzare la scena con dei foley urbani, dei suoni subliminali che noi diamo per aggiungere un altro arco narrativo attorno al mondo che stai raccontando. Perfetti Sconosciuti, essendo ambientato tutto in una casa, ti permette di fare molto poco in termini di arricchimento sonoro: puoi appoggiarti appena ai rumori dei bicchieri, delle posate, dei tovaglioli. Al culmine di questa catena, dal punto di vista registico e fotografico Perfetti Sconosciuti era un lavoro di una difficoltà immensa: e sia Paolo Genovese che il direttore della fotografia Fabrizio Lucci hanno dimostrato un grandissimo talento, sia per quanto riguarda il loro lavoro in sé, sia per quanto riguarda la capacità di tessere con le altre componenti della troupe un dialogo creativo e costante.
Dal tuo punto di vista, Paolo Genovese come ha caratterizzato la sua regia per variegare quella che in fondo è quasi tutta un’unica, macrosequenza narrativa?
Perfetti Sconosciuti era una grossa sfida perché è davvero difficile riuscire ad avere sempre inquadrature diverse, trasmettendo sempre sensazioni diverse, posizionando la macchina da presa sempre da un’ottica differente pur restando nello stesso ambiente o spostandosi sporadicamente dalla tavola al balcone o dalla tavola alla cucina. Paolo e Fabrizio hanno dimostrato una grande capacità nel rendere ogni scena in maniera differente, e su questa differenza di toni e di modi mi sono innestata io. Loro due girano tantissimo materiale quando sono sul set, hanno una visione estetica costante. Nel caso del materiale di Perfetti Sconosciuti loro mi davano sempre tantissimi punti di vista differenti da cui poter raccontare la storia, ma soprattutto una scelta.
Genovese e la sua squadra girava molto materiale di copertura, oppure procedeva con un piano delle inquadrature piuttosto preciso già sul set?
Per rendere un film del genere interessante Paolo ha girato una quantità incredibile di materiale, e questo lo puoi fare solo se hai un cast, un direttore della fotografia e una troupe così affiatata. Essendo un unico ambiente, ogni giorno si giravano decine e decine di inquadrature: si arrivava davvero a quattro o cinque ore di girato al giorno, che è tantissimo. Il master veniva girato da ogni punto di vista possibile, poi si andava sulle inquadrature più strette. Il lavoro di regia, e di concezione dei tagli già sul set, è stato incredibile. Quando arrivavano giorno per giorno le scene io ero come un bambino nel negozio di dolci, non vedevo l’ora di vedere cosa Paolo aveva ideato.
Come stabilisci il ritmo di un film, soprattutto per un film così che è ambientato quasi tutto a tavola durante una cena?
Uno pensa che il montaggio di un film sia difficile rispetto a una specifica situazione scenica, in realtà è il montaggio che è difficile a prescindere, perché è un’operazione a metà tra la dimensione tecnica e quella artistica: c’è un aspetto tecnico del montaggio, ma quello che prima di ogni altra cosa fai è codificare per immagini delle emozioni e un racconto. La cosa fondamentale che devi considerare mentre stai montando è che tu stai montando emozioni: e nel fare questo i nostri ingredienti-base sono le immagini, la musica, i suoni e anche le durate. Il montaggio è anche una questione di tempo, perché il montaggio è questione di ritmo: le emozioni le fai crescere creando un ritmo anche visivo. È tutto un incastro, che non dipende tanto dallo spazio in cui è ambientata la storia, ma dalla storia che stai raccontando in sé e per sé; e il montaggio varia anche a seconda del linguaggio, del registro adottato in quella scena.
Perfetti Sconosciuti è in effetti un film molto variegato, a livello emotivo…
In Perfetti Sconosciuti ci sono dei momenti da commedia, che in genere richiedono dei ritmi molto più veloci, ma ci sono anche momenti più drammatici e pesanti, per i quali cominci ad avere, a livello di alternanza delle inquadrature, una dilatazione temporale. Anche nella realtà quando assorbi informazione ci metti un po’ per reagire. La cosa più affascinante del montaggio è che normalmente viene visto come mettere i tagli uno dopo l’altro: in realtà i tagli sono quello che utilizziamo per fare una narrazione che è prima di ogni altra cosa emotiva. Se guardi semplicemente un’inquadratura di Perfetti Sconosciuti, poco importa se già montata o no, capisci che sei in una casa con altre cinque o sei persone, e che la casa appartiene a un determinato ceto perché è arredata in un determinato modo: ma quando capisci le dinamiche tra le persone, è lì che è subentrato davvero il montaggio.
Come è nato invece il tuo coinvolgimento per Perfetti Sconosciuti e in che fase della lavorazione del film sei subentrata? Sei mai stata sul set e/o hai iniziato a montare i giornalieri durante le riprese?
Io affronto allo stesso modo tutti i film, iniziando a montare il secondo giorno di riprese: tutto il primo giorno la troupe gira, il materiale arriva a me e io inizio a montare dall’indomani. Faccio così per due ragioni precise: innanzitutto, procedere in questo modo mi permette di avere molto più tempo a disposizione. Ho avvertito da parte di alcuni un po’ di ritegno nel dire che il montatore lavora spesso da solo, in assenza del regista, ma i montatori un po’ come i produttori musicali: è molto importante che mentre i registi girano noi possiamo già conoscere il materiale, montarlo, e fare tutta una serie di proposte. Per montare devi avere allenamento olimpionico: stare otto-dieci ore a vedere cinque ore della stessa scena che magari devi ridurre a due o tre minuti, serve grande concentrazione e grande esperienza. Io poi appartengo alla “scuola” di chi vede tutto, anche gli scarti: questo mi permette di capire anche quello che sta succedendo sul set, in che direzione Paolo sta orientando gli attori e tutta la scena.
Montando il film a partire dal secondo giorno delle riprese mentre la troupe sta sul set, da che momento inizi a relazionarti con il regista sulla linea che stai seguendo?
Il mio approccio è iniziare a montare e, appena ho un tot di scene, mi confronto con il regista. Su questo punto è l’approccio del regista a volte a cambiare: alcuni registi preferiscono vedere i giornalieri e concentrarsi sul set e solo a riprese finite iniziano a pensare al montaggio; con altri registi, tra cui Paolo, lavoriamo insieme sin dall’inizio, condividendo man mano le sequenze montate, per scambiarci fin dall'inizio note e suggestioni. Questa modalità è utile non solo a me per allinearmi alle intenzioni del regista, ma anche al regista perché man mano vede crescere il film sia sul set che da “fuori”, dalla sala di montaggio. Paolo è anche uno sceneggiatore molto fine, quello che lui scrive è esattamente quello che viene girato: però magari vedendo la resa di una scena cambi il sapore della successiva, o vi aggiungi delle inquadrature, o ti viene in mente una sequenza musicale, o ti accorgi che un personaggio sta prendendo preponderanza e allora decidi di aggiungergli o sottrargli una sfumatura…
Vai mai sul set dei film che monti?
Andare sul set invece lo trovo inutile e a dirla tutta molto noioso, perché stare su un set senza nulla da fare è di una noia mortale; poi personalmente sul set soffro tantissimo perché ho voglia di montare quello che vedo. Ad essere sincera preferisco non andare sul set: il montatore deve essere un po’ uno “psicopatico” che non ha alcun tipo di affezione per lo sforzo, la ricchezza, l’importanza di una scena. Se una determinata scena o soluzione non la ritieni giusta, non puoi restare attaccata a quello che è stato fatto durante le riprese: stare sul set e vedere tutto lo sforzo che ci vuole per girare un’inquadratura ti fa sentire un po’ in colpa a tagliare qualcosa di impegnativo! Quando vedi le cose dal vivo, sono diverse da quando le vedi in video, c’è una componente umana differente: quando rivedo i ciak visti dal vivo è come se li avessi già visti, non mi stupiscono, e io invece voglio vedere le scene che devo montare secondo l’occhio del pubblico. Sempre per questo motivo, leggo la sceneggiatura di un film prima che inizino le riprese, ma rileggo le singole scene solo dopo aver visto il girato: mi serve per mettere una distanza tra me e la storia. Se dal girato mi sorge un dubbio, probabilmente la stessa domanda può sorgere al pubblico.
Trattandosi di un’apparente macrosequenza quasi ininterrotta a livello di tempo del racconto, come hai strutturato l’organizzazione del montaggio di Perfetti Sconosciuti?
È bello ricevere le sensazioni degli spettatori perché ci rendiamo conto di aver reso il senso di una macrosequenza, ma “dall’interno” posso dire che Perfetti Sconosciuti era un film organizzato esattamente come gli altri, diviso in scene e con un piano di lavorazione preciso, e anche per le dinamiche organizzative del montaggio non si differenziava molto dal montaggio di altri film. Certo, a differenza di quello che accade di solito le riprese di Perfetti Sconosciuti sono andate quasi in sequenza, essendo il film impostato quasi tutto in un unico ambiente, cosa che raramente succede visto che di solito il piano di lavorazione è impostato in funzione delle location. In questo caso è andato quasi tutto in sequenza e, tranne le prime scene introduttive, quasi tutto il blocco della casa è stato girato in sequenza, quindi ogni giorno si aggiungeva un pezzo che si riallacciava più o meno direttamente precedente. Affrontavo le scene in modo tradizionale, una dopo l’altra. È un errore pensare che il ritmo del montaggio sia quello intrinseco a una scena però: bisogna tenere conto di tutto il film, nel montare ogni singola scena.
Nel montare un film come Perfetti Sconosciuti quanto conta la singola scena e quanto conta invece il ritmo del film nel suo complesso?
Io vedo il montaggio del film come due polmoni che respirano: ogni cosa che modifichi da una parte provoca uno spostamento da un’altra che andrai a modificare. Il ritmo interno di tutto il film è dato dalla somma dei ritmi interni delle singole scene. Se in un film hai una sequenza di titoli di testa molto lunga, con una serie di personaggi visti a casa che si preparano prima di una cena come è il caso di Perfetti Sconosciuti, o puoi mostrare una successione semplice, oppure crei un legame tra le scene, intervallandole tra di loro, per iniziare sin dai primissimi minuti un racconto che sia corale. Il ritmo che tu dai alla sequenza d’apertura non riguarda solo quella scena in sé, ma influenza tutto ciò che segue, ma il ritmo di tutto il film è dato dall’equilibrio che riesci a dare a tutte le scene insieme.
Per la lunga sequenza a tavola che di fatto compone gran parte del film, fra le molte commedie ambientate durante “cene di cretini” e altre situazioni analoghe, avevate qualche particolare reference?
Reference particolari non ne avevamo, perché queste cose sono molto istintive. A me era capitato un anno prima di montare un film che aveva in parte le stesse caratteristiche di Perfetti Sconosciuti, I nostri ragazzi di Ivano De Matteo, ma come gestire una lunga sequenza a tavola non lo decidi “a tavolino”, è qualcosa di istintivo che si basa sulla creatività del regista. Paolo ha costruito una storia e ha immaginato un mondo; conseguenzialmente, questo mondo è diventato reale nel momento in cui è andato sul set. Uno si può ispirare a qualche singolo aspetto di un film, però avere un’ispirazione così forte da ripercorrere i passi che qualcun altro ha fatto per la mia opinione è praticamente impossibile al cinema; ci sono troppe variabili in gioco, troppi fattori diversi fanno sì che un frame appaia in un certo modo: quel direttore della fotografia, quella scenografa, quell’operatore, quel regista che ha quell’idea per l’inquadratura e via dicendo. L’ispirazione ci può essere, ma è una mera suggestione: non puoi ricreare qualcos’altro.
Quali sono stati i momenti di Perfetti Sconosciuti che sono stati più articolati da montare per l’alternanza dei piani?
In realtà non c’è una scena specifica: in un film, anche se sembra banale dirlo, tutte le scene sono importanti, e qualunque scena, in generale, contiene al suo interno una sfida. Nel caso di Perfetti Sconosciuti mi verrebbe da dire che quasi tutte le scene sono state molto difficili! La problematica principale stava nella quantità di persone in scena: in Perfetti Sconosciuti ci sono sei personaggi sempre in scena, forse una decina di scene in tutto il film mostrano alcuni personaggi raccolti da parte che parlano da soli, per il resto è un film corale. È difficile in situazioni così gestire tutti i personaggi, avrai sempre alcuni che portano avanti la conversazione e altri che invece ascoltano: e a seconda se il loro ascolto è attivo o passivo, se sono coinvolti da quello che si dice o no, la loro reazione sarà diversa. È molto difficile quindi trovare un equilibrio tra chi sta parlando, tra le reazioni al dialogo di tutti i personaggi.
Ci sono state delle sequenze tagliate?
Dovrei verificare, ma se non ricordo male non abbiamo tagliato neanche una scena, la sceneggiatura era davvero perfetta da questo punto di vista e, date le caratteristiche del film, non sarebbe stato possibile senza grossi problemi di continuità. Il record di taglio è stato due battute che si scambiavano due personaggi, se non ricordo male. Normalmente in un film capita spesso che delle scene, piuttosto che tagliarle, a volte le spostiamo: il lavoro al montaggio può implicare anche spostamenti interi di assi narrativi, per rendere delle situazioni diverse, più intriganti, meno chiare, o semplicemente più ritmate. In un film come Perfetti Sconosciuti ovviamente questo non lo puoi fare, ed è la prima volta che mi capitava una cosa del genere. Essendo in un’unità di luogo e di tempo, il film ha tutta una sua conseguenzialità e, dal punto di vista del montaggio, questo è molto particolare.
Come si è svolto il montaggio delle musiche, e a che livello era arrivato il montaggio delle inquadrature prima che iniziaste ad apporvi la colonna sonora?
Rispetto alla colonna sonora ci sono due modi di procedere: o il compositore compone temi prima ancora di vedere il film, o usi delle musiche d’appoggio che sono delle reference per il compositore. Per me è impossibile montare un film senza musica, devi avere un’idea della sensazione visiva e anche della sensazione musicale che vuoi dare scena per scena. Mentre comincio a montare, di solito propongo al regista, un certo tipo di universo sonoro, dando delle suggestioni in funzione delle scene. Con Paolo normalmente lavoriamo con Maurizio Filardo, che ci affianca durante il processo di montaggio, sviluppando le nostre suggestioni.
Come si è svolto invece il montaggio sonoro del film, dei foley e della presa diretta?
Nel caso di Perfetti Sconosciuti si percepisce un’unità di tempo quasi naturale, ma tutto questo è costruito da tanti livelli che sono anche nascosti: se ci fai caso, anche dal punto di vista sonoro. Perfetti Sconosciuti è un film molto particolare musicalmente: all’inizio non c’è nessun pezzo musicale, poi a volte si sente una suoneria, altre volte una sottolineatura di altro tipo, ma per i primi tre quarti del film c’è pochissima musica; a un certo punto invece parte un’overture e la musica è quasi ininterrotta. Lo spettatore ha vissuto fino a quel momento un’esperienza temporale quasi realistica, senza emozioni che gli vengano suggerite; quando utilizziamo una musica invece implicitamente suggeriamo un’emozione che vogliamo trasmettere al pubblico. Avendo attori estremamente bravi, se non metti la musica permetti al pubblico di dare un valore diverso a ogni singola scena in funzione della tua personale esperienza. Di Perfetti Sconosciuti la cosa particolare è quello di avere un unicum totale a livello di successione delle scene, e il senso di questo unicum lo si coglie anche a livello sonoro, laddove tecnicamente Perfetti Sconosciuti è in realtà una sequenza di scene come in tutti i film.
Come si è svolto invece il montaggio dei minuti finali, più malinconici, del film?
Se guardi con attenzione Perfetti Sconosciuti ha una particolarità che è al tempo stesso una scelta di regia e una scelta di montaggio: man mano che la storia procede, le inquadrature vanno sempre più a stringersi; più vai avanti nella storia, più, volutamente, il film è montato in modo che le persone siano sempre più isolate fra loro nonostante il fatto che apparentemente stanno sempre insieme. Man mano che si entra nella parte più intima dei personaggi subentra un discorso più articolato di scambi di sguardi, di piani d’ascolto, di reazioni che diventa molto complicato. Quelle che ti fanno impazzire raramente sono le “scene madri”, ma le scene che hanno delle sottigliezze. Qui abbiamo un parterre di attori incredibile, quindi ogni scena era meravigliosa. Le scene importanti, con un loro portato emotivo chiaro, spesso ti riescono alla prima botta. A volte le scene difficili da recitare e quindi da montare sono quelle “di passaggio”, o quelle esplicative, in cui devi dare al pubblico informazioni ma non lo vuoi annoiare e devi calibrare bene. Queste sono le scene che vai a modificare fino alla fine del film, perché solo man mano che monti il film capisci se servono tutte quelle info, se il personaggio deve per forza verbalizzarle o se vi si può alludere in qualche maniera.
Perfetti Sconosciuti è stato uno dei maggiori successi italiani degli ultimi, sia a livello di botteghino che a livello di critica, e detiene il curioso primato, secondo il Guinness World Record, di film con il maggior numero di remake della storia del cinema, arrivati già a 18 fra quelli girati e quelli solo annunciati. Secondo te, a cosa si deve il grande successo internazionale del film? Quanto Perfetti Sconosciuti ha saputo cogliere una situazione realmente diffusa nella vita moderna?
È bella l’onda lunga che ha avuto il film, che abbiamo iniziato a presentire quando, al momento dell’uscita nelle sale, abbiamo iniziato a fare incontri col pubblico. La cosa che ci piaceva di più era vedere i trailer delle versioni straniere di Perfetti Sconosciuti: vederlo fatte in così tante lingue diverse è stata una grande soddisfazione. La grande capacità che ha Paolo, anche a prescindere da Perfetti Sconosciuti, è quella di individuare temi universali. Qualunque sua storia – anche Immaturi, The Place, o La famiglia perfetta – la potresti rendere in qualunque parte del mondo, continuando a sorprendere. La funzione che il telefonino ha in Italia e che si vede in Perfetti Sconosciuti ce l’ha in qualunque parte del mondo: oppure ti puoi diplomare e scoprire, da adulto, che non vale più il tuo diploma, come succede in Immaturi. È eccezionale il fatto che lui di film in film riesca sempre a trovare una storia con queste caratteristiche, ma conoscendo nel caso specifico la storia che sta alla base di Perfetti Sconosciuti non mi stupisce che sia applicabile in tutte le parti del mondo. Avrà delle dinamiche diverse a seconda della nazione, ma la storia racconta fondamentalmente dell’essere umano e del suo rapporto con la tecnologia, con i propri segreti e con quelli altrui, quindi può essere ambientata ovunque. Gli esseri umani hanno avuto da sempre le loro sfere private, ma adesso un telefonino permette che la sfera privata di un gruppo di persone diventi il centro di una cena.
Un anno dopo Perfetti Sconosciuti sei tornata a collaborare con Genovese per il montaggio del successivo The Place. Come si è svolta questa vostra quarta collaborazione? Dal momento che restava l’unità di luogo, ma non quella di tempo, e tutto il film si articolava in lunghi monologhi o dialoghi di una serie di personaggi che si confidavano con un misterioso uomo interpretato da Mastrandrea, come è cambiato il processo di montaggio rispetto a Perfetti Sconosciuti?
Anche The Place è stato un film che mi è piaciuto moltissimo. A differenza di Perfetti Sconosciuti l’ho “subìto” di più: Perfetti Sconosciuti è molto coinvolgente, è anche drammatico quando arriva alla fine ma ha una leggerezza che ti accompagna per buona parte del film; The Place, dal punto emozionale, è un altro film super-coinvolgente ma, essendo più drammatico, mi ha fatto “soffrire” di più. Può sembrare un cliché, ma la verità è questa, noi raccontiamo emozioni e, montando una scena, capisco se è commovente solo se io mi commuovo. Ecco, per The Place lungo tutto il montaggio ho provato degli scossoni emotivi, si dipana fin dall’inizio una vena empatica che non ti lascia fino all’ultima scena. In Perfetti Sconosciuti hai un crescendo, con The Place hai sin dall’inizio tante linee narrative, più asciutte e molto coinvolgenti emotivamente fin dall'inizio. Anche un film come The Place ha avuto una messa in scena altrettanto complicata di Perfetti Sconosciuti, ha richiesto un lavoro di ripresa eccezionale e complicatissimo da parte di Paolo e Fabrizio. Fabrizio ha realizzato fotografia incredibile, e lui e Paolo hanno dimostrato ancora una volta la loro grandissima capacità di fondere la narrazione con l’aspetto estetico. Un film pazzesco, molto bello. Anche The Place racconta l’animo umano: “cosa sei disposto a fare?” è una domanda che puoi porre ad ogni essere umano in ogni angolo del pianeta. Mi sono piaciuti moltissimo anche gli altri due film di Paolo che ho montato nel frattempo, e che ancora non sono usciti. Posso dire che sono bellissimi, di una bellezza totale!
A cura di Ludovico Cantisani
INT-04
28.06.2022
Per la nostra rubrica di interviste, nella quale chiediamo del mestiere del cinema a chi il cinema lo fa, qualche tempo fa abbiamo avuto il piacere di parlare con Consuelo Catucci, montatrice di Paolo Genovese e altri successi del cinema italiano. Ecco cosa ci ha detto sul suo lavoro e in particolare sulla realizzazione di Perfetti sconosciuti.
Qual è stata la tua formazione come montatrice e quali sono stati i tuoi primi passi nel mondo del cinema?
Io ho una formazione abbastanza bizzarra: all’università ho studiato Medicina, quindi provengo da un ambiente completamente diverso. Sin da piccola avevo avuto un interesse molto forte per il cinema e la fotografia, ma non avevo mai pensato che potesse diventare una vera professione; nella realtà dei fatti però, proseguendo gli studi, ho conosciuto tutta una serie di amici che facevano il CSC o il DAMS, e ne approfittavo per leggere e studiare i loro testi; e man mano che leggevo e scoprivo la grammatica del cinema sentivo sempre di più voglia di esprimermi creativamente. A un certo punto ho preso un anno sabatico per cercare di chiarirmi le idee su quello che volevo fare nella mia vita: durante quell’anno innanzitutto ho scoperto cos’era un montatore, che è una figura un po’ nascosta per chi non è un vero esperto del cinema, e ho frequentato alcuni corsi e workshop di montaggio. La mia fortuna è stata quella di arrivare nel momento di un passaggio tecnico epocale che ha coinvolto tutta la filiera cinematografica, l’evoluzione dalla pellicola al digitale, e c’era quindi anche bisogno di persone che sapessero usare nuovi sistemi software come Avid e affini.
Come sei entrata allora nel mondo del cinema?
Io sono arrivata a fare la montatrice di cinema in una maniera un po’ diversa da quella usuale, per la quale di solito prima sei l’assistente di un montatore affermato e poi diventi montatrice a tua volta. Io invece ho cominciato direttamente come montatrice, facendo prima un po’ di televisione e poi concentrandomi su documentari, videoclip e pubblicità. I videoclip e ancor di più le pubblicità hanno rappresentato per me un punto di svolta: una pubblicità è un’espressione puramente estetica con dei tempi e dei ritmi serrati, e una dinamica di racconto tutta interna. Riuscire a far passare un’emozione senza avere a disposizione le parole, riuscire a far passare concetti che portano con sé dei sentimenti raccontandoli in modo assolutamente “puro”, usando il mezzo visivo e la suggestione della musica, è stata una formazione per me fondamentale e mi ha permesso, sin da giovanissima, di avere a che fare con registi molto esperti, anche stranieri. Quello che è successo da lì in avanti è stato uno snocciolarsi di cose: le persone dell’ambiente man mano si passavano il mio nome, conoscevo ogni mese nuovi registi, alcuni di questi registi esordivano al cinema e mi portavano sul grande schermo con sé.
Quali sono stati i tuoi primi film da montatrice?
In un primo momento ho montato dei lungometraggi indipendenti e dei documentari, ma nulla di significativo; il primo film “formativo” per me è stato H2Odio, un film abbastanza particolare di Alex Infascelli, che è stato un punto di svolta per la mia carriera. Quel film mi ha fatto capire le potenzialità del racconto lungo, però una volta finito il montaggio sono tornata per un po’ a occuparmi di pubblicità e video più brevi. Il mio primo film appartenente al cinema “ufficiale” e industriale è stato Nero bifamiliare di Federico Zampaglione, una commedia un po’ noir che mi ha messo definitivamente in contatto col mondo del cinema. All’inizio neanche ero sicuro di essere interessata alla forma di racconto propria di un film, dispiegata lungo due ore di durata, perché mi sentivo del tutto appagata in questo racconto estetico della brevità come era pubblicità. In un mese quattro o cinque lavori diversi, cambiavo sempre argomento. Poi però il cinema mi ha conquistato e da lì la mia carriera è continuata grazie ai passaparola: ho avuto la fortuna lavorare subito dopo con Giuliano Montaldo, e da lì c’è stata una concatenazione di incontri.
Con il regista Paolo Genovese avevi già collaborato per La famiglia perfetta, Sei mai stata sulla Luna? e Tutta colpa di Freud. Come era nato il vostro incontro professionale e come ti eri trovata a collaborare con lui per il montaggio di quei primi due film insieme?
Il primo film che ho fatto con Paolo è stato La famiglia perfetta, che ho amato molto soprattutto per il suo plot geniale di un signore che “affitta” una famiglia di attori con cui passare il Natale, una cosa che anche il pubblico capisce dopo un po’. Tutto il film è composto da una serie di giochi di equivoci e di personalità che si vanno ad incastrare una sull’altra. Grazie a La famiglia perfetta con Paolo abbiamo cominciato un percorso che è passato per Sei mai stata sulla Luna?, Tutta colpa di Freud, Perfetti Sconosciuti, The Place e altri due film che sono stati girati e finiti ma che ancora non sono usciti a causa del Coronavirus. Ci siamo trovati molto bene a lavorare assieme, e, per ora, non ci siamo mai lasciati!
Il fatto che Perfetti Sconosciuti è ambientato in un’unità aristotelica quasi completa – unità di tempo, luogo e azione – quanto lo differenziava rispetto ad altri film più “classici”?
Quello che è al tempo stesso la difficoltà e il miracolo di Perfetti Sconosciuti non è solo il fatto che è un film che si svolge praticamente tutto in un’unica stanza, ma anche che si tratta di un film che non puoi creare se non hai un’équipe tutta di “primi violini” come li chiamerebbe Montaldo. Un film con quest’impostazione è difficile da girare per ogni reparto, non solo per il regista e per il montatore: ad esempio il reparto scenografia deve rendere interessante ogni ambiente della casa, non devi mai avere la sensazione di qualcosa di “già-visto” o che si ripete anche se resti sempre nello stesso ambiente.
A cosa si doveva questa difficoltà generalizzata?
Dal punto di vista dei costumi Perfetti Sconosciuti ha comportato un lavoro di ricerca incredibile: fai un unico outfit in cui rappresentare la personalità del soggetto che lo veste. In un film di solito assegni una serie di costumi a ogni singolo personaggio che permettono al pubblico di intuirne il carattere e la personalità, in Perfetti Sconosciuti devi fare lo stesso con un colpo d’occhio e con un singolo vestito a persona. Perfetti Sconosciuti è stato un film difficilissimo a livello sonoro, per molti aspetti: hai molte persone nella stessa stanza che parlano e mangiano provocando rumore, ma anche un appartamento con finestra, con i camion e tutti gli altri suoni della strada che provengono dall’esterno. Al tempo stesso un film così è anche difficoltoso da sonorizzare per chi deve fare il sound design in post-produzione: se i personaggi stessero in mezzo alla strada come in tanti film sarebbe facile sonorizzare la scena con dei foley urbani, dei suoni subliminali che noi diamo per aggiungere un altro arco narrativo attorno al mondo che stai raccontando. Perfetti Sconosciuti, essendo ambientato tutto in una casa, ti permette di fare molto poco in termini di arricchimento sonoro: puoi appoggiarti appena ai rumori dei bicchieri, delle posate, dei tovaglioli. Al culmine di questa catena, dal punto di vista registico e fotografico Perfetti Sconosciuti era un lavoro di una difficoltà immensa: e sia Paolo Genovese che il direttore della fotografia Fabrizio Lucci hanno dimostrato un grandissimo talento, sia per quanto riguarda il loro lavoro in sé, sia per quanto riguarda la capacità di tessere con le altre componenti della troupe un dialogo creativo e costante.
Dal tuo punto di vista, Paolo Genovese come ha caratterizzato la sua regia per variegare quella che in fondo è quasi tutta un’unica, macrosequenza narrativa?
Perfetti Sconosciuti era una grossa sfida perché è davvero difficile riuscire ad avere sempre inquadrature diverse, trasmettendo sempre sensazioni diverse, posizionando la macchina da presa sempre da un’ottica differente pur restando nello stesso ambiente o spostandosi sporadicamente dalla tavola al balcone o dalla tavola alla cucina. Paolo e Fabrizio hanno dimostrato una grande capacità nel rendere ogni scena in maniera differente, e su questa differenza di toni e di modi mi sono innestata io. Loro due girano tantissimo materiale quando sono sul set, hanno una visione estetica costante. Nel caso del materiale di Perfetti Sconosciuti loro mi davano sempre tantissimi punti di vista differenti da cui poter raccontare la storia, ma soprattutto una scelta.
Genovese e la sua squadra girava molto materiale di copertura, oppure procedeva con un piano delle inquadrature piuttosto preciso già sul set?
Per rendere un film del genere interessante Paolo ha girato una quantità incredibile di materiale, e questo lo puoi fare solo se hai un cast, un direttore della fotografia e una troupe così affiatata. Essendo un unico ambiente, ogni giorno si giravano decine e decine di inquadrature: si arrivava davvero a quattro o cinque ore di girato al giorno, che è tantissimo. Il master veniva girato da ogni punto di vista possibile, poi si andava sulle inquadrature più strette. Il lavoro di regia, e di concezione dei tagli già sul set, è stato incredibile. Quando arrivavano giorno per giorno le scene io ero come un bambino nel negozio di dolci, non vedevo l’ora di vedere cosa Paolo aveva ideato.
Come stabilisci il ritmo di un film, soprattutto per un film così che è ambientato quasi tutto a tavola durante una cena?
Uno pensa che il montaggio di un film sia difficile rispetto a una specifica situazione scenica, in realtà è il montaggio che è difficile a prescindere, perché è un’operazione a metà tra la dimensione tecnica e quella artistica: c’è un aspetto tecnico del montaggio, ma quello che prima di ogni altra cosa fai è codificare per immagini delle emozioni e un racconto. La cosa fondamentale che devi considerare mentre stai montando è che tu stai montando emozioni: e nel fare questo i nostri ingredienti-base sono le immagini, la musica, i suoni e anche le durate. Il montaggio è anche una questione di tempo, perché il montaggio è questione di ritmo: le emozioni le fai crescere creando un ritmo anche visivo. È tutto un incastro, che non dipende tanto dallo spazio in cui è ambientata la storia, ma dalla storia che stai raccontando in sé e per sé; e il montaggio varia anche a seconda del linguaggio, del registro adottato in quella scena.
Perfetti Sconosciuti è in effetti un film molto variegato, a livello emotivo…
In Perfetti Sconosciuti ci sono dei momenti da commedia, che in genere richiedono dei ritmi molto più veloci, ma ci sono anche momenti più drammatici e pesanti, per i quali cominci ad avere, a livello di alternanza delle inquadrature, una dilatazione temporale. Anche nella realtà quando assorbi informazione ci metti un po’ per reagire. La cosa più affascinante del montaggio è che normalmente viene visto come mettere i tagli uno dopo l’altro: in realtà i tagli sono quello che utilizziamo per fare una narrazione che è prima di ogni altra cosa emotiva. Se guardi semplicemente un’inquadratura di Perfetti Sconosciuti, poco importa se già montata o no, capisci che sei in una casa con altre cinque o sei persone, e che la casa appartiene a un determinato ceto perché è arredata in un determinato modo: ma quando capisci le dinamiche tra le persone, è lì che è subentrato davvero il montaggio.
Come è nato invece il tuo coinvolgimento per Perfetti Sconosciuti e in che fase della lavorazione del film sei subentrata? Sei mai stata sul set e/o hai iniziato a montare i giornalieri durante le riprese?
Io affronto allo stesso modo tutti i film, iniziando a montare il secondo giorno di riprese: tutto il primo giorno la troupe gira, il materiale arriva a me e io inizio a montare dall’indomani. Faccio così per due ragioni precise: innanzitutto, procedere in questo modo mi permette di avere molto più tempo a disposizione. Ho avvertito da parte di alcuni un po’ di ritegno nel dire che il montatore lavora spesso da solo, in assenza del regista, ma i montatori un po’ come i produttori musicali: è molto importante che mentre i registi girano noi possiamo già conoscere il materiale, montarlo, e fare tutta una serie di proposte. Per montare devi avere allenamento olimpionico: stare otto-dieci ore a vedere cinque ore della stessa scena che magari devi ridurre a due o tre minuti, serve grande concentrazione e grande esperienza. Io poi appartengo alla “scuola” di chi vede tutto, anche gli scarti: questo mi permette di capire anche quello che sta succedendo sul set, in che direzione Paolo sta orientando gli attori e tutta la scena.
Montando il film a partire dal secondo giorno delle riprese mentre la troupe sta sul set, da che momento inizi a relazionarti con il regista sulla linea che stai seguendo?
Il mio approccio è iniziare a montare e, appena ho un tot di scene, mi confronto con il regista. Su questo punto è l’approccio del regista a volte a cambiare: alcuni registi preferiscono vedere i giornalieri e concentrarsi sul set e solo a riprese finite iniziano a pensare al montaggio; con altri registi, tra cui Paolo, lavoriamo insieme sin dall’inizio, condividendo man mano le sequenze montate, per scambiarci fin dall'inizio note e suggestioni. Questa modalità è utile non solo a me per allinearmi alle intenzioni del regista, ma anche al regista perché man mano vede crescere il film sia sul set che da “fuori”, dalla sala di montaggio. Paolo è anche uno sceneggiatore molto fine, quello che lui scrive è esattamente quello che viene girato: però magari vedendo la resa di una scena cambi il sapore della successiva, o vi aggiungi delle inquadrature, o ti viene in mente una sequenza musicale, o ti accorgi che un personaggio sta prendendo preponderanza e allora decidi di aggiungergli o sottrargli una sfumatura…
Vai mai sul set dei film che monti?
Andare sul set invece lo trovo inutile e a dirla tutta molto noioso, perché stare su un set senza nulla da fare è di una noia mortale; poi personalmente sul set soffro tantissimo perché ho voglia di montare quello che vedo. Ad essere sincera preferisco non andare sul set: il montatore deve essere un po’ uno “psicopatico” che non ha alcun tipo di affezione per lo sforzo, la ricchezza, l’importanza di una scena. Se una determinata scena o soluzione non la ritieni giusta, non puoi restare attaccata a quello che è stato fatto durante le riprese: stare sul set e vedere tutto lo sforzo che ci vuole per girare un’inquadratura ti fa sentire un po’ in colpa a tagliare qualcosa di impegnativo! Quando vedi le cose dal vivo, sono diverse da quando le vedi in video, c’è una componente umana differente: quando rivedo i ciak visti dal vivo è come se li avessi già visti, non mi stupiscono, e io invece voglio vedere le scene che devo montare secondo l’occhio del pubblico. Sempre per questo motivo, leggo la sceneggiatura di un film prima che inizino le riprese, ma rileggo le singole scene solo dopo aver visto il girato: mi serve per mettere una distanza tra me e la storia. Se dal girato mi sorge un dubbio, probabilmente la stessa domanda può sorgere al pubblico.
Trattandosi di un’apparente macrosequenza quasi ininterrotta a livello di tempo del racconto, come hai strutturato l’organizzazione del montaggio di Perfetti Sconosciuti?
È bello ricevere le sensazioni degli spettatori perché ci rendiamo conto di aver reso il senso di una macrosequenza, ma “dall’interno” posso dire che Perfetti Sconosciuti era un film organizzato esattamente come gli altri, diviso in scene e con un piano di lavorazione preciso, e anche per le dinamiche organizzative del montaggio non si differenziava molto dal montaggio di altri film. Certo, a differenza di quello che accade di solito le riprese di Perfetti Sconosciuti sono andate quasi in sequenza, essendo il film impostato quasi tutto in un unico ambiente, cosa che raramente succede visto che di solito il piano di lavorazione è impostato in funzione delle location. In questo caso è andato quasi tutto in sequenza e, tranne le prime scene introduttive, quasi tutto il blocco della casa è stato girato in sequenza, quindi ogni giorno si aggiungeva un pezzo che si riallacciava più o meno direttamente precedente. Affrontavo le scene in modo tradizionale, una dopo l’altra. È un errore pensare che il ritmo del montaggio sia quello intrinseco a una scena però: bisogna tenere conto di tutto il film, nel montare ogni singola scena.
Nel montare un film come Perfetti Sconosciuti quanto conta la singola scena e quanto conta invece il ritmo del film nel suo complesso?
Io vedo il montaggio del film come due polmoni che respirano: ogni cosa che modifichi da una parte provoca uno spostamento da un’altra che andrai a modificare. Il ritmo interno di tutto il film è dato dalla somma dei ritmi interni delle singole scene. Se in un film hai una sequenza di titoli di testa molto lunga, con una serie di personaggi visti a casa che si preparano prima di una cena come è il caso di Perfetti Sconosciuti, o puoi mostrare una successione semplice, oppure crei un legame tra le scene, intervallandole tra di loro, per iniziare sin dai primissimi minuti un racconto che sia corale. Il ritmo che tu dai alla sequenza d’apertura non riguarda solo quella scena in sé, ma influenza tutto ciò che segue, ma il ritmo di tutto il film è dato dall’equilibrio che riesci a dare a tutte le scene insieme.
Per la lunga sequenza a tavola che di fatto compone gran parte del film, fra le molte commedie ambientate durante “cene di cretini” e altre situazioni analoghe, avevate qualche particolare reference?
Reference particolari non ne avevamo, perché queste cose sono molto istintive. A me era capitato un anno prima di montare un film che aveva in parte le stesse caratteristiche di Perfetti Sconosciuti, I nostri ragazzi di Ivano De Matteo, ma come gestire una lunga sequenza a tavola non lo decidi “a tavolino”, è qualcosa di istintivo che si basa sulla creatività del regista. Paolo ha costruito una storia e ha immaginato un mondo; conseguenzialmente, questo mondo è diventato reale nel momento in cui è andato sul set. Uno si può ispirare a qualche singolo aspetto di un film, però avere un’ispirazione così forte da ripercorrere i passi che qualcun altro ha fatto per la mia opinione è praticamente impossibile al cinema; ci sono troppe variabili in gioco, troppi fattori diversi fanno sì che un frame appaia in un certo modo: quel direttore della fotografia, quella scenografa, quell’operatore, quel regista che ha quell’idea per l’inquadratura e via dicendo. L’ispirazione ci può essere, ma è una mera suggestione: non puoi ricreare qualcos’altro.
Quali sono stati i momenti di Perfetti Sconosciuti che sono stati più articolati da montare per l’alternanza dei piani?
In realtà non c’è una scena specifica: in un film, anche se sembra banale dirlo, tutte le scene sono importanti, e qualunque scena, in generale, contiene al suo interno una sfida. Nel caso di Perfetti Sconosciuti mi verrebbe da dire che quasi tutte le scene sono state molto difficili! La problematica principale stava nella quantità di persone in scena: in Perfetti Sconosciuti ci sono sei personaggi sempre in scena, forse una decina di scene in tutto il film mostrano alcuni personaggi raccolti da parte che parlano da soli, per il resto è un film corale. È difficile in situazioni così gestire tutti i personaggi, avrai sempre alcuni che portano avanti la conversazione e altri che invece ascoltano: e a seconda se il loro ascolto è attivo o passivo, se sono coinvolti da quello che si dice o no, la loro reazione sarà diversa. È molto difficile quindi trovare un equilibrio tra chi sta parlando, tra le reazioni al dialogo di tutti i personaggi.
Ci sono state delle sequenze tagliate?
Dovrei verificare, ma se non ricordo male non abbiamo tagliato neanche una scena, la sceneggiatura era davvero perfetta da questo punto di vista e, date le caratteristiche del film, non sarebbe stato possibile senza grossi problemi di continuità. Il record di taglio è stato due battute che si scambiavano due personaggi, se non ricordo male. Normalmente in un film capita spesso che delle scene, piuttosto che tagliarle, a volte le spostiamo: il lavoro al montaggio può implicare anche spostamenti interi di assi narrativi, per rendere delle situazioni diverse, più intriganti, meno chiare, o semplicemente più ritmate. In un film come Perfetti Sconosciuti ovviamente questo non lo puoi fare, ed è la prima volta che mi capitava una cosa del genere. Essendo in un’unità di luogo e di tempo, il film ha tutta una sua conseguenzialità e, dal punto di vista del montaggio, questo è molto particolare.
Come si è svolto il montaggio delle musiche, e a che livello era arrivato il montaggio delle inquadrature prima che iniziaste ad apporvi la colonna sonora?
Rispetto alla colonna sonora ci sono due modi di procedere: o il compositore compone temi prima ancora di vedere il film, o usi delle musiche d’appoggio che sono delle reference per il compositore. Per me è impossibile montare un film senza musica, devi avere un’idea della sensazione visiva e anche della sensazione musicale che vuoi dare scena per scena. Mentre comincio a montare, di solito propongo al regista, un certo tipo di universo sonoro, dando delle suggestioni in funzione delle scene. Con Paolo normalmente lavoriamo con Maurizio Filardo, che ci affianca durante il processo di montaggio, sviluppando le nostre suggestioni.
Come si è svolto invece il montaggio sonoro del film, dei foley e della presa diretta?
Nel caso di Perfetti Sconosciuti si percepisce un’unità di tempo quasi naturale, ma tutto questo è costruito da tanti livelli che sono anche nascosti: se ci fai caso, anche dal punto di vista sonoro. Perfetti Sconosciuti è un film molto particolare musicalmente: all’inizio non c’è nessun pezzo musicale, poi a volte si sente una suoneria, altre volte una sottolineatura di altro tipo, ma per i primi tre quarti del film c’è pochissima musica; a un certo punto invece parte un’overture e la musica è quasi ininterrotta. Lo spettatore ha vissuto fino a quel momento un’esperienza temporale quasi realistica, senza emozioni che gli vengano suggerite; quando utilizziamo una musica invece implicitamente suggeriamo un’emozione che vogliamo trasmettere al pubblico. Avendo attori estremamente bravi, se non metti la musica permetti al pubblico di dare un valore diverso a ogni singola scena in funzione della tua personale esperienza. Di Perfetti Sconosciuti la cosa particolare è quello di avere un unicum totale a livello di successione delle scene, e il senso di questo unicum lo si coglie anche a livello sonoro, laddove tecnicamente Perfetti Sconosciuti è in realtà una sequenza di scene come in tutti i film.
Come si è svolto invece il montaggio dei minuti finali, più malinconici, del film?
Se guardi con attenzione Perfetti Sconosciuti ha una particolarità che è al tempo stesso una scelta di regia e una scelta di montaggio: man mano che la storia procede, le inquadrature vanno sempre più a stringersi; più vai avanti nella storia, più, volutamente, il film è montato in modo che le persone siano sempre più isolate fra loro nonostante il fatto che apparentemente stanno sempre insieme. Man mano che si entra nella parte più intima dei personaggi subentra un discorso più articolato di scambi di sguardi, di piani d’ascolto, di reazioni che diventa molto complicato. Quelle che ti fanno impazzire raramente sono le “scene madri”, ma le scene che hanno delle sottigliezze. Qui abbiamo un parterre di attori incredibile, quindi ogni scena era meravigliosa. Le scene importanti, con un loro portato emotivo chiaro, spesso ti riescono alla prima botta. A volte le scene difficili da recitare e quindi da montare sono quelle “di passaggio”, o quelle esplicative, in cui devi dare al pubblico informazioni ma non lo vuoi annoiare e devi calibrare bene. Queste sono le scene che vai a modificare fino alla fine del film, perché solo man mano che monti il film capisci se servono tutte quelle info, se il personaggio deve per forza verbalizzarle o se vi si può alludere in qualche maniera.
Perfetti Sconosciuti è stato uno dei maggiori successi italiani degli ultimi, sia a livello di botteghino che a livello di critica, e detiene il curioso primato, secondo il Guinness World Record, di film con il maggior numero di remake della storia del cinema, arrivati già a 18 fra quelli girati e quelli solo annunciati. Secondo te, a cosa si deve il grande successo internazionale del film? Quanto Perfetti Sconosciuti ha saputo cogliere una situazione realmente diffusa nella vita moderna?
È bella l’onda lunga che ha avuto il film, che abbiamo iniziato a presentire quando, al momento dell’uscita nelle sale, abbiamo iniziato a fare incontri col pubblico. La cosa che ci piaceva di più era vedere i trailer delle versioni straniere di Perfetti Sconosciuti: vederlo fatte in così tante lingue diverse è stata una grande soddisfazione. La grande capacità che ha Paolo, anche a prescindere da Perfetti Sconosciuti, è quella di individuare temi universali. Qualunque sua storia – anche Immaturi, The Place, o La famiglia perfetta – la potresti rendere in qualunque parte del mondo, continuando a sorprendere. La funzione che il telefonino ha in Italia e che si vede in Perfetti Sconosciuti ce l’ha in qualunque parte del mondo: oppure ti puoi diplomare e scoprire, da adulto, che non vale più il tuo diploma, come succede in Immaturi. È eccezionale il fatto che lui di film in film riesca sempre a trovare una storia con queste caratteristiche, ma conoscendo nel caso specifico la storia che sta alla base di Perfetti Sconosciuti non mi stupisce che sia applicabile in tutte le parti del mondo. Avrà delle dinamiche diverse a seconda della nazione, ma la storia racconta fondamentalmente dell’essere umano e del suo rapporto con la tecnologia, con i propri segreti e con quelli altrui, quindi può essere ambientata ovunque. Gli esseri umani hanno avuto da sempre le loro sfere private, ma adesso un telefonino permette che la sfera privata di un gruppo di persone diventi il centro di una cena.
Un anno dopo Perfetti Sconosciuti sei tornata a collaborare con Genovese per il montaggio del successivo The Place. Come si è svolta questa vostra quarta collaborazione? Dal momento che restava l’unità di luogo, ma non quella di tempo, e tutto il film si articolava in lunghi monologhi o dialoghi di una serie di personaggi che si confidavano con un misterioso uomo interpretato da Mastrandrea, come è cambiato il processo di montaggio rispetto a Perfetti Sconosciuti?
Anche The Place è stato un film che mi è piaciuto moltissimo. A differenza di Perfetti Sconosciuti l’ho “subìto” di più: Perfetti Sconosciuti è molto coinvolgente, è anche drammatico quando arriva alla fine ma ha una leggerezza che ti accompagna per buona parte del film; The Place, dal punto emozionale, è un altro film super-coinvolgente ma, essendo più drammatico, mi ha fatto “soffrire” di più. Può sembrare un cliché, ma la verità è questa, noi raccontiamo emozioni e, montando una scena, capisco se è commovente solo se io mi commuovo. Ecco, per The Place lungo tutto il montaggio ho provato degli scossoni emotivi, si dipana fin dall’inizio una vena empatica che non ti lascia fino all’ultima scena. In Perfetti Sconosciuti hai un crescendo, con The Place hai sin dall’inizio tante linee narrative, più asciutte e molto coinvolgenti emotivamente fin dall'inizio. Anche un film come The Place ha avuto una messa in scena altrettanto complicata di Perfetti Sconosciuti, ha richiesto un lavoro di ripresa eccezionale e complicatissimo da parte di Paolo e Fabrizio. Fabrizio ha realizzato fotografia incredibile, e lui e Paolo hanno dimostrato ancora una volta la loro grandissima capacità di fondere la narrazione con l’aspetto estetico. Un film pazzesco, molto bello. Anche The Place racconta l’animo umano: “cosa sei disposto a fare?” è una domanda che puoi porre ad ogni essere umano in ogni angolo del pianeta. Mi sono piaciuti moltissimo anche gli altri due film di Paolo che ho montato nel frattempo, e che ancora non sono usciti. Posso dire che sono bellissimi, di una bellezza totale!