INT-10
12.09.2022
Uno dei grandi film vincitori di questa edizione della Mostra di Venezia è sicuramente Saint Omer di Alice Diop. A inizio cerimonia di chiusura, la regista si è aggiudicata il premio “Luigi De Laurentis” per la miglior opera prima e dopo qualche istante anche il “Gran Premio della Giuria”, il secondo posto del Concorso ufficiale. La cineasta francese, di origini nigeriane, nel corso della sua carriera ha cercato di raccontare storie complesse di immigrati nella società contemporanea francese. Dopo aver diretto diversi documentari, tra cui Nous (2021), vincitore del miglior film nella sezione “Incontri alla Berlinale” dello scorso anno, Alice Diop ha diretto il suo primo lungometraggio di finzione mantenendo il suo sguardo autoriale sulle tematiche a lei vicine.
Il film, ambientato nel piccolo comune di Saint Omer, vede protagonista Laurence Coly, giovane donna di origini nigeriane che, dopo aver abbandonato su una spiaggia il figlio di quindici mesi, viene accusata di infanticidio. La donna, a seguito della sua confessione, afferma la propria innocenza, affermando che circostanze “particolari” l’hanno portata a compiere un gesto così estremo. In tribunale, ad ascoltare l’udienza, è presente Rama, una docente universitaria in procinto di scrivere un libro su questa vicenda dal titolo La Medea Naufragata, paragonando le azioni di Laurence a quelle del mito greco della Medea.
Sceneggiato insieme alla scrittrice Marin N’Dyaye (co-sceneggiatrice del film White Material di Claire Denis), l’opera è un racconto dal forte impatto emotivo che affronta tematiche complesse, quali la “crisi culturale” e la discriminazione razziale a cui è soggetta Laurence, ma anche le dure condizioni di isolamento nelle quali si è ritrovata la donna durante la gravidanza e la nascita del figlio. Attraverso il personaggio di Rama, Alice Diop traccia dei parallelismi tra le due donne protagoniste, inquadrando insistentemente i loro volti attraverso incisivi primi piani, senza mai scivolare nel melodrammatico. La caratterizzazione di questi due personaggi e la mise-en-scène sono notevoli, così come anche le due interpretazioni di Kayije Kagame e Guslagie Malanga, rispettivamente nei ruoli di Rama e Laurence.
Saint Omer è una delle grandi sorprese di quest’anno, siamo davvero entusiasti per i due premi ad Alice Diop e non vediamo l’ora di vedere cosa ha in serbo in futuro. Il film verrà distribuito in Italia da Minerva Pictures e bisognerà aspettare ancora qualche mese prima di vederlo sul grande schermo. Alla Mostra del Cinema di Venezia abbiamo avuto l’opportunità di intervistare la regista e di chiederle cosa l’ha spinta a raccontare questa storia.
Alice Diop durante l’intervista
Nel documentario Nous (2021), fai una piccola apparizione nell’ultima parte, dicendo una frase in cui esprimi quanto tu sia “ossessionata” dal raccontare le storie degli immigrati nei sobborghi francesi. Visto che ti sei ispirata ad una storia vera, ti sei forse immedesimata nel personaggio di Rama, che vuole, a sua volta, raccontare la storia di Laurence?
Sicuramente mi riconosco in Rama, ma, in realtà, mi rivedo in tutti i miei personaggi. Qui, il piacere di quest’opera di finzione è stato nel cogliere l’occasione per tracciare il ritratto di una donna nera che non viene definita in base al colore della propria pelle. È un tipo di rappresentazione che non esiste spesso nel cinema, nonché l’incarnazione di un sentire universale per le emozioni e i sentimenti che possono appartenere a uomini e donne. È senz’altro una mancanza che credo di aver colmato facendo un film che mostra un personaggio raro, come quello di Rama.
La narrazione del film è stilisticamente essenziale, quasi claustrofobica. Tutto avviene fuori dalla scena, per poi esplodere in momenti emotivamente intimi. Come hai costruito questa storia? Quanto sei riuscita a mettere di tuo nella narrazione e anche della storia che volevi veramente raccontare?
Io credo in realtà che sia il contrario perché la mise-en-scène è caratterizzata indubbiamente dalla staticità di una serie di inquadrature e da lunghi piani sequenza, nel tentativo di restituire l’intensità provata da chiunque abbia avuto modo di ascoltare e di vedere questo processo nella realtà. È una sorta di realtà messa in scena, una realtà interpretata. Quindi, non penso che sia una mise-en-scène che “chiude”, ma anzi questi lunghi piani, se fossero stati più corti o se avessi adottato un montaggio più serrato, non avrebbero concesso la possibilità allo spettatore, per esempio, di ascoltare Laurence per 25 minuti e provare le stesse emozioni che abbiamo provato noi ascoltandola dal vivo e, quindi, vacillare nelle nostre certezze, di sperimentare momenti di empatia invece di momenti di grande distanza.
Che cambiamento ti aspetti nel pubblico grazie a questo film?
Ritengo si tratti di film intimo, quindi, quello che spero è che possa permettere alle persone di scavare in sé stessi e magari riparare, guarire, interagire o cambiare idea su certe vicende realmente vissute. È questo il mio umile desiderio. Saint Omer non è un film che solleva direttamente delle questioni politiche, ma che spinge ciascuno ad interrogare la propria intimità e magari scardinare dei principi o delle cose acquisite e riparare a quello che si è fatto nel passato.
C’è qualche opera che ti ha ispirata o che hai usato come riferimento?
I riferimenti letterali vanno da A Sangue Freddo di Truman Capote a L’Avversario di Emmanuel Carrère, ma anche il racconto Ricordi di una corte d’assise di André Gide. Per quanto riguarda i riferimenti cinematografici, la Giovanna d’Arco sia di Bresson che quella di Dryer per la staticità delle inquadrature; 10e chambre, instants d’audience di Raymond Depardon e Gett: The Trial of Viviane Amsalem di Ronit e Shlomi Elkabetz (film israeliano di cui vi consigliamo la visione, n.d.r.) ancora una volta per il rigore dell’inquadratura, delle sequenze, per la purezza e la sobrietà delle immagini processuali che rimandano, secondo me, pur contenendo tutto l’aspetto di tragicità e di riferimenti al teatro, alla nostra contemporaneità.
INT-10
12.09.2022
Uno dei grandi film vincitori di questa edizione della Mostra di Venezia è sicuramente Saint Omer di Alice Diop. A inizio cerimonia di chiusura, la regista si è aggiudicata il premio “Luigi De Laurentis” per la miglior opera prima e dopo qualche istante anche il “Gran Premio della Giuria”, il secondo posto del Concorso ufficiale. La cineasta francese, di origini nigeriane, nel corso della sua carriera ha cercato di raccontare storie complesse di immigrati nella società contemporanea francese. Dopo aver diretto diversi documentari, tra cui Nous (2021), vincitore del miglior film nella sezione “Incontri alla Berlinale” dello scorso anno, Alice Diop ha diretto il suo primo lungometraggio di finzione mantenendo il suo sguardo autoriale sulle tematiche a lei vicine.
Il film, ambientato nel piccolo comune di Saint Omer, vede protagonista Laurence Coly, giovane donna di origini nigeriane che, dopo aver abbandonato su una spiaggia il figlio di quindici mesi, viene accusata di infanticidio. La donna, a seguito della sua confessione, afferma la propria innocenza, affermando che circostanze “particolari” l’hanno portata a compiere un gesto così estremo. In tribunale, ad ascoltare l’udienza, è presente Rama, una docente universitaria in procinto di scrivere un libro su questa vicenda dal titolo La Medea Naufragata, paragonando le azioni di Laurence a quelle del mito greco della Medea.
Sceneggiato insieme alla scrittrice Marin N’Dyaye (co-sceneggiatrice del film White Material di Claire Denis), l’opera è un racconto dal forte impatto emotivo che affronta tematiche complesse, quali la “crisi culturale” e la discriminazione razziale a cui è soggetta Laurence, ma anche le dure condizioni di isolamento nelle quali si è ritrovata la donna durante la gravidanza e la nascita del figlio. Attraverso il personaggio di Rama, Alice Diop traccia dei parallelismi tra le due donne protagoniste, inquadrando insistentemente i loro volti attraverso incisivi primi piani, senza mai scivolare nel melodrammatico. La caratterizzazione di questi due personaggi e la mise-en-scène sono notevoli, così come anche le due interpretazioni di Kayije Kagame e Guslagie Malanga, rispettivamente nei ruoli di Rama e Laurence.
Saint Omer è una delle grandi sorprese di quest’anno, siamo davvero entusiasti per i due premi ad Alice Diop e non vediamo l’ora di vedere cosa ha in serbo in futuro. Il film verrà distribuito in Italia da Minerva Pictures e bisognerà aspettare ancora qualche mese prima di vederlo sul grande schermo. Alla Mostra del Cinema di Venezia abbiamo avuto l’opportunità di intervistare la regista e di chiederle cosa l’ha spinta a raccontare questa storia.
Alice Diop durante l’intervista
Nel documentario Nous (2021), fai una piccola apparizione nell’ultima parte, dicendo una frase in cui esprimi quanto tu sia “ossessionata” dal raccontare le storie degli immigrati nei sobborghi francesi. Visto che ti sei ispirata ad una storia vera, ti sei forse immedesimata nel personaggio di Rama, che vuole, a sua volta, raccontare la storia di Laurence?
Sicuramente mi riconosco in Rama, ma, in realtà, mi rivedo in tutti i miei personaggi. Qui, il piacere di quest’opera di finzione è stato nel cogliere l’occasione per tracciare il ritratto di una donna nera che non viene definita in base al colore della propria pelle. È un tipo di rappresentazione che non esiste spesso nel cinema, nonché l’incarnazione di un sentire universale per le emozioni e i sentimenti che possono appartenere a uomini e donne. È senz’altro una mancanza che credo di aver colmato facendo un film che mostra un personaggio raro, come quello di Rama.
La narrazione del film è stilisticamente essenziale, quasi claustrofobica. Tutto avviene fuori dalla scena, per poi esplodere in momenti emotivamente intimi. Come hai costruito questa storia? Quanto sei riuscita a mettere di tuo nella narrazione e anche della storia che volevi veramente raccontare?
Io credo in realtà che sia il contrario perché la mise-en-scène è caratterizzata indubbiamente dalla staticità di una serie di inquadrature e da lunghi piani sequenza, nel tentativo di restituire l’intensità provata da chiunque abbia avuto modo di ascoltare e di vedere questo processo nella realtà. È una sorta di realtà messa in scena, una realtà interpretata. Quindi, non penso che sia una mise-en-scène che “chiude”, ma anzi questi lunghi piani, se fossero stati più corti o se avessi adottato un montaggio più serrato, non avrebbero concesso la possibilità allo spettatore, per esempio, di ascoltare Laurence per 25 minuti e provare le stesse emozioni che abbiamo provato noi ascoltandola dal vivo e, quindi, vacillare nelle nostre certezze, di sperimentare momenti di empatia invece di momenti di grande distanza.
Che cambiamento ti aspetti nel pubblico grazie a questo film?
Ritengo si tratti di film intimo, quindi, quello che spero è che possa permettere alle persone di scavare in sé stessi e magari riparare, guarire, interagire o cambiare idea su certe vicende realmente vissute. È questo il mio umile desiderio. Saint Omer non è un film che solleva direttamente delle questioni politiche, ma che spinge ciascuno ad interrogare la propria intimità e magari scardinare dei principi o delle cose acquisite e riparare a quello che si è fatto nel passato.
C’è qualche opera che ti ha ispirata o che hai usato come riferimento?
I riferimenti letterali vanno da A Sangue Freddo di Truman Capote a L’Avversario di Emmanuel Carrère, ma anche il racconto Ricordi di una corte d’assise di André Gide. Per quanto riguarda i riferimenti cinematografici, la Giovanna d’Arco sia di Bresson che quella di Dryer per la staticità delle inquadrature; 10e chambre, instants d’audience di Raymond Depardon e Gett: The Trial of Viviane Amsalem di Ronit e Shlomi Elkabetz (film israeliano di cui vi consigliamo la visione, n.d.r.) ancora una volta per il rigore dell’inquadratura, delle sequenze, per la purezza e la sobrietà delle immagini processuali che rimandano, secondo me, pur contenendo tutto l’aspetto di tragicità e di riferimenti al teatro, alla nostra contemporaneità.