NC-142
05.03.2023
La 73esima edizione del Festival di Berlino si è conclusa da poco più di una settimana e, come lo scorso anno, ha superato ampiamente le nostre aspettative. I direttori Carlo Chatrian e Mariette Rissenbeek hanno saputo selezionare una lineup intrigante e variopinta, formata da opere prime, ritorni di grandi cineasti e un sorprendente mix di generi e di film provenienti da ogni parte del mondo. A vincere l’Orso d’Oro è stato il documentarista Nicholas Philibert con Sur L’Adamant, opera che tratta di un centro di cura situato sulla Senna. Philibert esplora le dinamiche tra i pazienti, e le loro esperienze personali con grande sensibilità, mostrando come la musica, e più in generale l’arte, possano aiutare a migliorare la condizione psicologica di alcune persone. Come nel precedente Étre et avoir (2002), il lavoro compiuto dal cineasta in Sur l’Adamant non risulta “intrusivo” e mostra l’affetto dietro al progetto. Questo approccio permetterà al pubblico di connettersi alla storia delle persone che vengono raccontate nel lungometraggio. Bisogna notare inoltre che, per il secondo festival europeo di fila, il premio principale è stato assegnato ad un documentario, dopo che a Venezia aveva trionfato All the Beauty and the Bloodshed di Laura Poitras. Vedere due documentari come vincitori assoluti è sorprendente, soprattutto se si prende in considerazione il fatto che il panorama cinematografico moderno è ormai dominato da blockbuster e film commerciali di matrice hollywoodiana. Per anni, infatti, i documentari non sono mai riusciti a trovare un’ampia distribuzione in sala, e queste vittorie potrebbero portare a questo trend una maggiore visibilità.
Ma Sur l’Adamant non è stato l’unico documentario che ci ha colpito. Nella sezione Forum è stata presentata la nuova opera di Claire Simon, Notre Corps: un maestoso lavoro dove la cineasta indaga e analizza diversi problemi sanitari legati al corpo femminile. Nella sezione Encounters invece, El Echo, il nuovo documentario di Tatiana Huezo, si è aggiudicato il premio alla miglior regia, un’altra vittoria che ci ha confermato l’enorme talento dell’autrice messicana. El Echo, cronaca delle difficoltà giornaliere di una povera famiglia del Messico, affronta le storie dei suoi personaggi con uno sguardo intimo e delicato. Come per la sua opera precedente, Noche de Fuego (2021), la regista si focalizza per lo più sul punto di vista dei giovani della famiglia, mostrando come gli ostacoli della vita influiscano sulla loro crescita.
Sempre nella sezione Encounters, merita una citazione il documentario Le Mura di Bergamo, dove il regista Stefano Savona mostra le devastanti conseguenze della pandemia sulla provincia bergamasca, la zona italiana più colpita dal Covid. Savona si concentra per lo più sulla tragedia collettiva e su come le persone stiano cercando di superare il lutto dei propri cari e riprendere la vita di tutti i giorni. Mon Pire Ennemi è invece un ibrido tra documentario e finzione in cui il filmmaker Mehran Tamadon cerca di ricreare l’esperienza traumatica di quando era stato arrestato e interrogato dalle autorità iraniane. Con la partecipazione di Zar Amir Ebrahimi (Holy Spider) nel ruolo del “torturatore”, Tamadon realizza un’opera indimenticabile e fondamentale, che mostra la terribile condizione di molte persone in Iran. La partecipazione di Ebrahimi, e la condivisione della propria esperienza personale, creano un’interessante contrasto ed elevano la qualità del progetto.
Ma veniamo ora al resto delle premiazioni del Concorso principale. Gran Premio della Giuria a Roter Himmel (Afire) di Christian Petzold, secondo film di un’immaginaria trilogia degli elementi. Fuoco e acqua, due forze in continua lotta. In Rother Himmel il fuoco prevale tragicamente per poi permettere all’acqua di continuare a scorrere indisturbata. I due elementi in contrasto sono specchio dello stato d’animo del protagonista: uno scrittore in crisi creativa ritratto in un viaggio alla scoperta di sé. In concorso per la sesta volta, Petzold porta alla Berlinale un film poetico, magistralmente interpretato e più complesso di quanto possa apparire ad un primo impatto. Avrebbe finalmente meritato l’Orso d’Oro? Probabilmente si, ma tenendo conto del suo profondo valore significativo la vittoria di Sur L’Adamant è una scelta più che comprensibile.
Vincitore del Premio della Giuria è stato invece Mal Viver, del regista portoghese Joào Canijo. Emblema della più alta forma di cinema d’autore, Mal Viver è il ritratto di una famiglia di donne proprietarie di uno splendido albergo situato nelle campagne portoghesi. L’impossibilità di amare, e la necessità di ricevere amore, scateneranno un confronto tra madri e figlie. Lo spazio ha un ruolo fondamentale nella costruzione di un dramma scaturito dall’ansia di dover ricoprire il ruolo di madre e l’obbligo, quasi consequenziale, di dover amare i propri figli incondizionatamente. L’albergo è un elemento fondamentale, circondato da campagne deserte esso diviene una gabbia dorata, un luogo dell’anima a cui le protagoniste vorrebbero sottrarsi. Mal Viver non è un film semplice e i personaggi che lo popolano vengono completamente messi a nudo. Persone, più che personaggi, in preda alle loro bassezze e ai loro difetti. Nonostante la tiepida accoglienza ricevuta sia nelle proiezioni stampa che alla prima con il pubblico, l’ultimo film di Canijo - parte di un dittico insieme a Viver Mal, presentato nella sezione Encounters - è un’opera di enorme valore artistico ed umano, tra i premi, a nostro parere, più meritati di questa edizione. I riconoscimenti per le migliori interpretazioni, senza distinzione di genere, vedono invece vittoriose la piccola Sofia Otero - nel ruolo di un bambino intrappolato nel corpo di una bambina - per 20.000 especies de abejas, e Thea Ehre, attrice trans esordiente in Bis ans Ende der Nacht.
Veniamo però alle note dolenti. Tra le premiazioni meno condivisibili, e forse più prevedibili, non possiamo non citare il premio alla miglior sceneggiatura assegnato ad Angela Schanelec. Indubbiamente tra i titoli più discussi di questa edizione, Music, scritto dalla regista stessa, è una rivisitazione del mito di Edipo. A livello stilistico l’autrice adotta una forma di grado zero del linguaggio cinematografico: uso statico della mdp, sequenze in cui gli attori entrano ed escono dalle inquadrature ed una quasi totale assenza di dialoghi. Una scelta tesa a consolidare il rapporto tra la regista, già vincitrice dell’Orso d’Argento nel 2019, e il festival.
Un’altro premio che non ci ha convinto è stato quello alla migliore regia assegnato a Philippe Garrel per Le Grand Chariot. L’ultimo film del regista, pilastro della cinematografia francese, riunisce i suoi figli attori in un film malinconico e delicato che riflette sul mondo dell’arte in relazione al tempo. Una regia che abbraccia un racconto familiare dolce e amaro che, se pur ben strutturato e toccante, risulta molto, forse troppo, classico.
In conclusione, per quanto riguarda la Competizione Ufficiale, la vera sorpresa, accolta con grande entusiasmo, è stato il premio per la migliore fotografia a Hélèn Louvart per Disco Boy. Coproduzione franco-italiana, Disco Boy è espressione del migliore cinema contemporaneo. Debutto al lungometraggio del tarantino Giacomo Abbruzzese, Disco boy è un film che si distanzia dagli standard nostrani non solo in termini produttivi ma anche di costruzione del linguaggio filmico. Percorso di crescita, liberazione e ritrovamento del vero io attraverso il confronto con l’altro, il film vede Franz Rogowski nei panni di Aleksei, bielorusso in fuga dal suo passato che si arruola nella Legione Straniera per ottenere il passaporto francese. Il suo destino finirà per incrociarsi con quello di due fratelli Jomo e Udoka.
Palmares di tutto rispetto se non fosse per l’insostenibile assenza di uno dei lavori più forti in competizione: Past Lives. L’esordio al lungometraggio della regista di origine coreana Celine Song è un film intimo e intenso, inno all’amore come atto di fede. Inyeon (인연), la cui traduzione potrebbe essere connessione o legame, è quel concetto secondo cui ogni evento della nostra esistenza è strettamente concatenato all’idea di predestinazione e di vite passate. Un idea semplice fornisce il terreno di partenza ad una storia tanto basilare quanto profondamente toccante ed universale. La regia di Song si mette a servizio di una narrazione essenziale e calibrata. Past Lives è in grado di trasportare lo spettatore all’interno di una dimensione nuova, magica, da cui è difficile staccarsi una volta terminata la visione.
Un altro grande assente dalla serata dei premi è stato Tótem, secondo lungometraggio di Lila Avilés. Ambientato nel corso di una giornata, e in una sola location, il film narra le vicende di un nucleo famigliare che sta organizzando una festa a sorpresa per Napo, padre di famiglia a cui non manca molto da vivere a causa di un tumore. Avíles dirige un’opera dal forte impatto emotivo che tratta la complessità del lasciar andare i propri cari. Anche se composto da una struttura corale al femminile, Tótem segue per lo più il punto di vista della piccola Sol, la figlia di Napo. È interessante notare come la tematica centrale di Tótem venga affrontata, quasi esclusivamente, attraverso personaggi femminili, un’operazione simile a quella compiuta da João Canijo in Mal Viver e da Estibaliz Urresola in 20.000 especies de abejas. Rimane a mani vuote anche The Shadowless Tower, un complesso dramma dove il regista Zhang Lu mostra come le generazioni passate influenzano inevitabilmente le azioni dei più giovani. Il lungometraggio è anche una brillante riflessione sull’abbandono e l’alienazione, tematiche già esplorate in passato dal cineasta.
Passando alla sezione Encounters, oltre alla già citata Tatiana Huezo, gli altri tre grandi vincitori sono stati Here di Bae Devos, Samsara di Lois Patiño e Orlando, My Political Biography di Paul B. Preciado. Il primo è un film dall’approccio poetico che analizza la malinconia urbana della vita di tutti i giorni tramite l’incontro casuale tra un muratore rumeno e una giovane studentessa belga-cinese. Il ritmo pacato, il tono magico e il superbo uso della location naturale rendono Here una visione interessante ed accattivante. La nuova opera di Patiño invece racconta il viaggio di transizione di un giovane monaco attraverso una nuova vita e, più nello specifico, un nuovo corpo animale, quella di una piccola capra. Ambientato tra Laos e Zanzibar, Samsara è stata una delle esperienze cinematografiche più mistiche dell’intero Festival e la sua vittoria ci ha ampiamente soddisfatto. Folgorante, intelligente e pieno di vita, Orlando My Political Biography intreccia perfettamente documentario e finzione, simbolismi ed un senso dell’umorismo brillante. Un film libero e potente che nasce da un pensiero lucido e ben strutturato.
La categoria Encounters è spesso caratterizzata da film con un approccio sperimentale e il nuovo film di Hong Sang-soo non fa eccezione. In Water, la sua quarta opera di fila presentata a Berlino, narra di un giovane attore che decide di dirigere il suo primo progetto cinematografico grazie all’aiuto di due vecchi compagni di classe. La peculiarità di questo film consiste nell’avere un’immagine quasi sempre fuori fuoco che disorienta ma nello stesso tempo aggiunge un’affascinante ambivalenza nelle conversazioni tra i personaggi. Inoltre l’uso di questa tecnica richiama, in qualche modo, al film low-budget che il protagonista deve girare. In Water è l’ennesima, interessante, opera di un regista in grado di reinventarsi in ogni suo film.
Un esordio davvero interessante e degno di nota è stato The Klezmer Project, per la regia di Leandro Koch e Paloma Schachmann. A metà tra documentario e film di finzione, Koch e Schachmann accompagnano lo spettatore in un interessante viaggio al confine tra Ucraina, Romania e Moldavia. Cosa definisce un popolo come tale? Quale è il confine della sua identità? Si tratta della lingua, della religione, della musica o delle tradizioni?
Per concludere, vogliamo citare qualche film che ci ha colpito dalle sezioni Forum e Panorama. Arturo a los 30 di Martin Shanly è una commedia dolce e amara che, interpretata dal regista stesso, riflette sul tema del disagio mentale, sulla voglia di affrontarlo e sulla consequenziale mancanza degli strumenti adatti. Body horror, teen movie o coming of age, Perpetrator, ultimo film di Jennifer Reeder, si muove invece tra il serio ed il comico/grottesco. Pur con qualche incertezza di tono l’opera è in grado di ricreare atmosfere affascinanti e di trasmettere un messaggio chiaro e diretto. I restanti The Burdened di Amr Gamal, Femme di Sam H. Freeman e Ng Choon Ping, Silver Haze di Sacha Polak, The Teacher’s Lounge di İlker Çatak e Passages di Ira Sachs, dimostrano come le sezioni Forum e Panorama sappiano presentare opere ispirate e poliedriche che spaziano sapientemente di genere in genere. Sorretti dalle solide performance dei loro attori, questi film si dimostrano in grado di centrare l’obbiettivo, stupendo lo spettatore con storie incisive raccontate attraverso stili estremamente ispirati e differenziati tra loro.
NC-142
05.03.2023
La 73esima edizione del Festival di Berlino si è conclusa da poco più di una settimana e, come lo scorso anno, ha superato ampiamente le nostre aspettative. I direttori Carlo Chatrian e Mariette Rissenbeek hanno saputo selezionare una lineup intrigante e variopinta, formata da opere prime, ritorni di grandi cineasti e un sorprendente mix di generi e di film provenienti da ogni parte del mondo. A vincere l’Orso d’Oro è stato il documentarista Nicholas Philibert con Sur L’Adamant, opera che tratta di un centro di cura situato sulla Senna. Philibert esplora le dinamiche tra i pazienti, e le loro esperienze personali con grande sensibilità, mostrando come la musica, e più in generale l’arte, possano aiutare a migliorare la condizione psicologica di alcune persone. Come nel precedente Étre et avoir (2002), il lavoro compiuto dal cineasta in Sur l’Adamant non risulta “intrusivo” e mostra l’affetto dietro al progetto. Questo approccio permetterà al pubblico di connettersi alla storia delle persone che vengono raccontate nel lungometraggio. Bisogna notare inoltre che, per il secondo festival europeo di fila, il premio principale è stato assegnato ad un documentario, dopo che a Venezia aveva trionfato All the Beauty and the Bloodshed di Laura Poitras. Vedere due documentari come vincitori assoluti è sorprendente, soprattutto se si prende in considerazione il fatto che il panorama cinematografico moderno è ormai dominato da blockbuster e film commerciali di matrice hollywoodiana. Per anni, infatti, i documentari non sono mai riusciti a trovare un’ampia distribuzione in sala, e queste vittorie potrebbero portare a questo trend una maggiore visibilità.
Ma Sur l’Adamant non è stato l’unico documentario che ci ha colpito. Nella sezione Forum è stata presentata la nuova opera di Claire Simon, Notre Corps: un maestoso lavoro dove la cineasta indaga e analizza diversi problemi sanitari legati al corpo femminile. Nella sezione Encounters invece, El Echo, il nuovo documentario di Tatiana Huezo, si è aggiudicato il premio alla miglior regia, un’altra vittoria che ci ha confermato l’enorme talento dell’autrice messicana. El Echo, cronaca delle difficoltà giornaliere di una povera famiglia del Messico, affronta le storie dei suoi personaggi con uno sguardo intimo e delicato. Come per la sua opera precedente, Noche de Fuego (2021), la regista si focalizza per lo più sul punto di vista dei giovani della famiglia, mostrando come gli ostacoli della vita influiscano sulla loro crescita.
Sempre nella sezione Encounters, merita una citazione il documentario Le Mura di Bergamo, dove il regista Stefano Savona mostra le devastanti conseguenze della pandemia sulla provincia bergamasca, la zona italiana più colpita dal Covid. Savona si concentra per lo più sulla tragedia collettiva e su come le persone stiano cercando di superare il lutto dei propri cari e riprendere la vita di tutti i giorni. Mon Pire Ennemi è invece un ibrido tra documentario e finzione in cui il filmmaker Mehran Tamadon cerca di ricreare l’esperienza traumatica di quando era stato arrestato e interrogato dalle autorità iraniane. Con la partecipazione di Zar Amir Ebrahimi (Holy Spider) nel ruolo del “torturatore”, Tamadon realizza un’opera indimenticabile e fondamentale, che mostra la terribile condizione di molte persone in Iran. La partecipazione di Ebrahimi, e la condivisione della propria esperienza personale, creano un’interessante contrasto ed elevano la qualità del progetto.
Ma veniamo ora al resto delle premiazioni del Concorso principale. Gran Premio della Giuria a Roter Himmel (Afire) di Christian Petzold, secondo film di un’immaginaria trilogia degli elementi. Fuoco e acqua, due forze in continua lotta. In Rother Himmel il fuoco prevale tragicamente per poi permettere all’acqua di continuare a scorrere indisturbata. I due elementi in contrasto sono specchio dello stato d’animo del protagonista: uno scrittore in crisi creativa ritratto in un viaggio alla scoperta di sé. In concorso per la sesta volta, Petzold porta alla Berlinale un film poetico, magistralmente interpretato e più complesso di quanto possa apparire ad un primo impatto. Avrebbe finalmente meritato l’Orso d’Oro? Probabilmente si, ma tenendo conto del suo profondo valore significativo la vittoria di Sur L’Adamant è una scelta più che comprensibile.
Vincitore del Premio della Giuria è stato invece Mal Viver, del regista portoghese Joào Canijo. Emblema della più alta forma di cinema d’autore, Mal Viver è il ritratto di una famiglia di donne proprietarie di uno splendido albergo situato nelle campagne portoghesi. L’impossibilità di amare, e la necessità di ricevere amore, scateneranno un confronto tra madri e figlie. Lo spazio ha un ruolo fondamentale nella costruzione di un dramma scaturito dall’ansia di dover ricoprire il ruolo di madre e l’obbligo, quasi consequenziale, di dover amare i propri figli incondizionatamente. L’albergo è un elemento fondamentale, circondato da campagne deserte esso diviene una gabbia dorata, un luogo dell’anima a cui le protagoniste vorrebbero sottrarsi. Mal Viver non è un film semplice e i personaggi che lo popolano vengono completamente messi a nudo. Persone, più che personaggi, in preda alle loro bassezze e ai loro difetti. Nonostante la tiepida accoglienza ricevuta sia nelle proiezioni stampa che alla prima con il pubblico, l’ultimo film di Canijo - parte di un dittico insieme a Viver Mal, presentato nella sezione Encounters - è un’opera di enorme valore artistico ed umano, tra i premi, a nostro parere, più meritati di questa edizione. I riconoscimenti per le migliori interpretazioni, senza distinzione di genere, vedono invece vittoriose la piccola Sofia Otero - nel ruolo di un bambino intrappolato nel corpo di una bambina - per 20.000 especies de abejas, e Thea Ehre, attrice trans esordiente in Bis ans Ende der Nacht.
Veniamo però alle note dolenti. Tra le premiazioni meno condivisibili, e forse più prevedibili, non possiamo non citare il premio alla miglior sceneggiatura assegnato ad Angela Schanelec. Indubbiamente tra i titoli più discussi di questa edizione, Music, scritto dalla regista stessa, è una rivisitazione del mito di Edipo. A livello stilistico l’autrice adotta una forma di grado zero del linguaggio cinematografico: uso statico della mdp, sequenze in cui gli attori entrano ed escono dalle inquadrature ed una quasi totale assenza di dialoghi. Una scelta tesa a consolidare il rapporto tra la regista, già vincitrice dell’Orso d’Argento nel 2019, e il festival.
Un’altro premio che non ci ha convinto è stato quello alla migliore regia assegnato a Philippe Garrel per Le Grand Chariot. L’ultimo film del regista, pilastro della cinematografia francese, riunisce i suoi figli attori in un film malinconico e delicato che riflette sul mondo dell’arte in relazione al tempo. Una regia che abbraccia un racconto familiare dolce e amaro che, se pur ben strutturato e toccante, risulta molto, forse troppo, classico.
In conclusione, per quanto riguarda la Competizione Ufficiale, la vera sorpresa, accolta con grande entusiasmo, è stato il premio per la migliore fotografia a Hélèn Louvart per Disco Boy. Coproduzione franco-italiana, Disco Boy è espressione del migliore cinema contemporaneo. Debutto al lungometraggio del tarantino Giacomo Abbruzzese, Disco boy è un film che si distanzia dagli standard nostrani non solo in termini produttivi ma anche di costruzione del linguaggio filmico. Percorso di crescita, liberazione e ritrovamento del vero io attraverso il confronto con l’altro, il film vede Franz Rogowski nei panni di Aleksei, bielorusso in fuga dal suo passato che si arruola nella Legione Straniera per ottenere il passaporto francese. Il suo destino finirà per incrociarsi con quello di due fratelli Jomo e Udoka.
Palmares di tutto rispetto se non fosse per l’insostenibile assenza di uno dei lavori più forti in competizione: Past Lives. L’esordio al lungometraggio della regista di origine coreana Celine Song è un film intimo e intenso, inno all’amore come atto di fede. Inyeon (인연), la cui traduzione potrebbe essere connessione o legame, è quel concetto secondo cui ogni evento della nostra esistenza è strettamente concatenato all’idea di predestinazione e di vite passate. Un idea semplice fornisce il terreno di partenza ad una storia tanto basilare quanto profondamente toccante ed universale. La regia di Song si mette a servizio di una narrazione essenziale e calibrata. Past Lives è in grado di trasportare lo spettatore all’interno di una dimensione nuova, magica, da cui è difficile staccarsi una volta terminata la visione.
Un altro grande assente dalla serata dei premi è stato Tótem, secondo lungometraggio di Lila Avilés. Ambientato nel corso di una giornata, e in una sola location, il film narra le vicende di un nucleo famigliare che sta organizzando una festa a sorpresa per Napo, padre di famiglia a cui non manca molto da vivere a causa di un tumore. Avíles dirige un’opera dal forte impatto emotivo che tratta la complessità del lasciar andare i propri cari. Anche se composto da una struttura corale al femminile, Tótem segue per lo più il punto di vista della piccola Sol, la figlia di Napo. È interessante notare come la tematica centrale di Tótem venga affrontata, quasi esclusivamente, attraverso personaggi femminili, un’operazione simile a quella compiuta da João Canijo in Mal Viver e da Estibaliz Urresola in 20.000 especies de abejas. Rimane a mani vuote anche The Shadowless Tower, un complesso dramma dove il regista Zhang Lu mostra come le generazioni passate influenzano inevitabilmente le azioni dei più giovani. Il lungometraggio è anche una brillante riflessione sull’abbandono e l’alienazione, tematiche già esplorate in passato dal cineasta.
Passando alla sezione Encounters, oltre alla già citata Tatiana Huezo, gli altri tre grandi vincitori sono stati Here di Bae Devos, Samsara di Lois Patiño e Orlando, My Political Biography di Paul B. Preciado. Il primo è un film dall’approccio poetico che analizza la malinconia urbana della vita di tutti i giorni tramite l’incontro casuale tra un muratore rumeno e una giovane studentessa belga-cinese. Il ritmo pacato, il tono magico e il superbo uso della location naturale rendono Here una visione interessante ed accattivante. La nuova opera di Patiño invece racconta il viaggio di transizione di un giovane monaco attraverso una nuova vita e, più nello specifico, un nuovo corpo animale, quella di una piccola capra. Ambientato tra Laos e Zanzibar, Samsara è stata una delle esperienze cinematografiche più mistiche dell’intero Festival e la sua vittoria ci ha ampiamente soddisfatto. Folgorante, intelligente e pieno di vita, Orlando My Political Biography intreccia perfettamente documentario e finzione, simbolismi ed un senso dell’umorismo brillante. Un film libero e potente che nasce da un pensiero lucido e ben strutturato.
La categoria Encounters è spesso caratterizzata da film con un approccio sperimentale e il nuovo film di Hong Sang-soo non fa eccezione. In Water, la sua quarta opera di fila presentata a Berlino, narra di un giovane attore che decide di dirigere il suo primo progetto cinematografico grazie all’aiuto di due vecchi compagni di classe. La peculiarità di questo film consiste nell’avere un’immagine quasi sempre fuori fuoco che disorienta ma nello stesso tempo aggiunge un’affascinante ambivalenza nelle conversazioni tra i personaggi. Inoltre l’uso di questa tecnica richiama, in qualche modo, al film low-budget che il protagonista deve girare. In Water è l’ennesima, interessante, opera di un regista in grado di reinventarsi in ogni suo film.
Un esordio davvero interessante e degno di nota è stato The Klezmer Project, per la regia di Leandro Koch e Paloma Schachmann. A metà tra documentario e film di finzione, Koch e Schachmann accompagnano lo spettatore in un interessante viaggio al confine tra Ucraina, Romania e Moldavia. Cosa definisce un popolo come tale? Quale è il confine della sua identità? Si tratta della lingua, della religione, della musica o delle tradizioni?
Per concludere, vogliamo citare qualche film che ci ha colpito dalle sezioni Forum e Panorama. Arturo a los 30 di Martin Shanly è una commedia dolce e amara che, interpretata dal regista stesso, riflette sul tema del disagio mentale, sulla voglia di affrontarlo e sulla consequenziale mancanza degli strumenti adatti. Body horror, teen movie o coming of age, Perpetrator, ultimo film di Jennifer Reeder, si muove invece tra il serio ed il comico/grottesco. Pur con qualche incertezza di tono l’opera è in grado di ricreare atmosfere affascinanti e di trasmettere un messaggio chiaro e diretto. I restanti The Burdened di Amr Gamal, Femme di Sam H. Freeman e Ng Choon Ping, Silver Haze di Sacha Polak, The Teacher’s Lounge di İlker Çatak e Passages di Ira Sachs, dimostrano come le sezioni Forum e Panorama sappiano presentare opere ispirate e poliedriche che spaziano sapientemente di genere in genere. Sorretti dalle solide performance dei loro attori, questi film si dimostrano in grado di centrare l’obbiettivo, stupendo lo spettatore con storie incisive raccontate attraverso stili estremamente ispirati e differenziati tra loro.