di Sofia Racco
NC-197
21.03.2024
«Il mondo intero sta morendo in preda al panico» è la frase che apre Poison (1991), il primo lungometraggio di Todd Haynes. E il regista balla proprio sul precipizio di quel mondo convulso e in piena trasformazione: un mondo sul punto di spiccare il volo o di cadere nel baratro, a seconda dei punti di vista. Questi sguardi diversi si intrecciano in quella rapsodia di prospettive che è Poison, un’opera sperimentale che gioca senza timore con i generi codificati per restituire un immaginario inedito, dove la scena è dominata da personaggi relegati ai margini, all’invisibilità o alla stereotipizzazione. Un lavoro che aprirà uno spiraglio su un nuovo modo di fare cinema: Poison sarà considerato il capostipite del New Queer Cinema, quel filone di opere che esplorano nuove e radicali possibilità di narrazione e di rappresentazione delle soggettività LGBTQ+.
Poison è fatto di frammenti: Hero, Horror, Homo, i tre racconti che equivalgono a tre sguardi diversi sul tema della costruzione dell’identità e degli immaginari che la determinano e la differenziano dalle altre. «Un bambino nasce e gli viene dato un nome. Improvvisamente, riesce a vedere sé stesso. Riconosce la sua posizione nel mondo. Per molti, quest’esperienza, come quella della nascita, è un’esperienza orrorifica» è la seconda scritta che accompagna le immagini del film. Il nome nella prospettiva di partenza di Poison è un marchio inestirpabile, una condanna: una volta che si viene nominati si entra nella gabbia dell’identità, e l’identità reca con sé dei segni distintivi, dei codici da rispettare, una maschera da indossare.
Ma guardando più attentamente l’identità non è un costrutto così solido e tiranno come sembra, ma uno stato di indeterminatezza, un luogo di fluidità in cui muoversi seguendo il desiderio. Desiderio e identità sono i due cardini del cinema di Haynes, e a partire dalle moltitudini di rapporti possibili si genera il grande ventaglio del suo cinema, che abbraccia generi ed estetiche diverse, in un continuo gioco di riflessi tra teoria e pratica. Sia il primo cinema di Haynes che la corrente del New Queer Cinema sono fortemente imbevuti delle teorie che sconfessano l’idea di un’identità e di una sessualità fissa e definita naturalmente, ma interpretano queste nozioni come prodotti definiti culturalmente.
Questo discorso si sviluppa a partire dalle teorie sulla sessualità di Michel Foucault fino alla teoria della performatività di genere di Judith Butler, secondo la quale «non esiste nessuna identità di genere dietro le espressioni del genere; tale identità è costituita performativamente dalle espressioni stesse che si dice siano i suoi risultati». Il vocabolario teorico che soggiace al cinema di Haynes si arricchisce di nuovi termini: identità, desiderio, sessualità, genere, performatività. Il regista decide di indagare lo sviluppo di questi temi nel tessuto sociale passando attraverso gli elementi che più di tutti hanno un forte valore identitario e collettivo: la musica e le estetiche che si costruiscono intorno ad essa.
Velvet Goldmine (1998), ad esempio, è un omaggio al mondo del glam rock e alle sue icone, ma non si tratta di un semplice film musicale: non si limita a costruire un’agiografia della rockstar leggendaria di turno, ma sviscera le ragioni del suo successo, le individualità che si sono riconosciute nei valori che rappresenta e si sono unite sotto il suo segno. Il focus di Haynes non è incentrato tanto sulla star in ascesa ma sul terreno sociale che la circonda, sul paesaggio che modifica con la sua comparsa, sugli immaginari che costruisce. La protagonista è la Swinging London, dove nulla è come sembrava eppure tutto era esattamente come appariva, dove il travestimento e lo spettacolo erano le espressioni più autentiche di un individuo, di un gruppo, di un’intera fetta di società che guarda indietro a quegli anni e cerca di recuperare qualche scintilla residua di quell’ebrezza di libertà.
La musica è un altro dei fili conduttori di Haynes: I'm Not There (Io non sono qui, 2007) è un altro biopic musicale che si serve degli stilemi del genere solo per poterli distorcere, spezzare, confondere e ampliare. In I'm Not There Bob Dylan è interpretato nelle diverse fasi della sua vita e della sua carriera da sei attori diversi, tra cui Cate Blanchett. Dal biopic fittizio che prende come oggetto d’analisi un’intera comunità a un biopic in apparenza più tradizionale, incentrato su una personalità: ma più lo sguardo di Haynes si avvicina alla singola individualità più riesce a smascherare le pluralità che la abitano e prendono vita davanti alla sua macchina da presa.
Quando gli viene chiesto quale sia il tema ricorrente nei suoi film, Haynes risponde così: «L'elemento in comune potrebbe essere la resistenza rispetto alla nozione di identità: ad esempio, le donne nel microcosmo domestico che sfidano la loro condizione, a volte perfino attraverso la malattia. All'altro estremo abbiamo personaggi come David Bowie o Bob Dylan, i quali hanno rifiutato di farsi chiudere in una gabbia: Bowie ha rimesso in discussione le basi dell'identità sessuale con la propria androginia, mentre Dylan è stato una figura rivoluzionaria.». E se abbandoniamo la linea tematica per concentrarci su quella attoriale, decidendo di seguire Cate Blanchett nei panni di uno dei tanti Bob Dylan di Haynes, e vediamo dove ci portano i suoi passi, finiamo dentro un altro dei film più celebrati dell’autore: Carol (2015).
Attraverso questo lungometraggio scopriamo di non esserci molto allontanati dal nucleo prismatico e trasformativo dell’identità e del desiderio dal quale siamo partiti, sebbene ci troviamo in territori apparentemente meno sperimentali rispetto a quelli degli esordi: dalla Londra underground di Velvet Goldmine alla New York borghese degli anni Cinquanta, tra gli interni dei grandi magazzini Frankenberg a quelli del Ritz Hotel. La dimensione di Carol, insieme a Far From Heaven (Lontano dal paradiso, 2002) con protagonista Julianne Moore, è quella del melodramma domestico di sirkiana memoria.
Il mondo messo in scena dal melò è un mondo che muore in preda al panico ma non vuole darlo a vedere: dietro i suoi oggetti che diventano pian piano reliquie di un universo scomparso, emerge la radicalità dei desideri che viaggiano in direzione contraria. La vita sembra scorrere docile e serena tra le mura domestiche e quelle di un centro commerciale: ma negli sguardi tra Carol e Therese Belivet, la giovane fotografa interpretata da Rooney Mara, svelano l’ostilità e la violenza di una realtà apparentemente quieta e pacificata, che sotto la luce del desiderio che le lega diventa claustrofobica e brutale.
In Carol desiderio e identità diventano indissolubilmente legate e il rifiuto del primo diventa una negazione totalizzante e assoluta della seconda: la repressione della libertà di desiderare, di amare e di rappresentarsi all’interno di quel desiderio e di quell’amore svuota l’individuo, lo riduce a una bambola. Come le bambole allineate con diligenza sugli scaffali dei grandi magazzini, o come la casa di bambola ibseniana di cui Carol cerca disperatamente di abbattere le fondamenta. O come le bambole di Superstar: The Karen Carpenter Story, cortometraggio di Haynes del 1998 che inscena gli ultimi 17 anni di vita della cantante Karen Carpenter usando delle Barbie al posto degli attori. Esistenze confinate in corpi senza vita, ma anche corpi che nella loro plasticità sono capaci di travestirsi, di assumere forme diverse, di interpretare ruoli diversi, di inscenare uno spettacolo attraverso ciò che può essere nascondiglio o modalità di espressione, sopravvivenza o ribellione.
di Sofia Racco
NC-197
21.03.2024
«Il mondo intero sta morendo in preda al panico» è la frase che apre Poison (1991), il primo lungometraggio di Todd Haynes. E il regista balla proprio sul precipizio di quel mondo convulso e in piena trasformazione: un mondo sul punto di spiccare il volo o di cadere nel baratro, a seconda dei punti di vista. Questi sguardi diversi si intrecciano in quella rapsodia di prospettive che è Poison, un’opera sperimentale che gioca senza timore con i generi codificati per restituire un immaginario inedito, dove la scena è dominata da personaggi relegati ai margini, all’invisibilità o alla stereotipizzazione. Un lavoro che aprirà uno spiraglio su un nuovo modo di fare cinema: Poison sarà considerato il capostipite del New Queer Cinema, quel filone di opere che esplorano nuove e radicali possibilità di narrazione e di rappresentazione delle soggettività LGBTQ+.
Poison è fatto di frammenti: Hero, Horror, Homo, i tre racconti che equivalgono a tre sguardi diversi sul tema della costruzione dell’identità e degli immaginari che la determinano e la differenziano dalle altre. «Un bambino nasce e gli viene dato un nome. Improvvisamente, riesce a vedere sé stesso. Riconosce la sua posizione nel mondo. Per molti, quest’esperienza, come quella della nascita, è un’esperienza orrorifica» è la seconda scritta che accompagna le immagini del film. Il nome nella prospettiva di partenza di Poison è un marchio inestirpabile, una condanna: una volta che si viene nominati si entra nella gabbia dell’identità, e l’identità reca con sé dei segni distintivi, dei codici da rispettare, una maschera da indossare.
Ma guardando più attentamente l’identità non è un costrutto così solido e tiranno come sembra, ma uno stato di indeterminatezza, un luogo di fluidità in cui muoversi seguendo il desiderio. Desiderio e identità sono i due cardini del cinema di Haynes, e a partire dalle moltitudini di rapporti possibili si genera il grande ventaglio del suo cinema, che abbraccia generi ed estetiche diverse, in un continuo gioco di riflessi tra teoria e pratica. Sia il primo cinema di Haynes che la corrente del New Queer Cinema sono fortemente imbevuti delle teorie che sconfessano l’idea di un’identità e di una sessualità fissa e definita naturalmente, ma interpretano queste nozioni come prodotti definiti culturalmente.
Questo discorso si sviluppa a partire dalle teorie sulla sessualità di Michel Foucault fino alla teoria della performatività di genere di Judith Butler, secondo la quale «non esiste nessuna identità di genere dietro le espressioni del genere; tale identità è costituita performativamente dalle espressioni stesse che si dice siano i suoi risultati». Il vocabolario teorico che soggiace al cinema di Haynes si arricchisce di nuovi termini: identità, desiderio, sessualità, genere, performatività. Il regista decide di indagare lo sviluppo di questi temi nel tessuto sociale passando attraverso gli elementi che più di tutti hanno un forte valore identitario e collettivo: la musica e le estetiche che si costruiscono intorno ad essa.
Velvet Goldmine (1998), ad esempio, è un omaggio al mondo del glam rock e alle sue icone, ma non si tratta di un semplice film musicale: non si limita a costruire un’agiografia della rockstar leggendaria di turno, ma sviscera le ragioni del suo successo, le individualità che si sono riconosciute nei valori che rappresenta e si sono unite sotto il suo segno. Il focus di Haynes non è incentrato tanto sulla star in ascesa ma sul terreno sociale che la circonda, sul paesaggio che modifica con la sua comparsa, sugli immaginari che costruisce. La protagonista è la Swinging London, dove nulla è come sembrava eppure tutto era esattamente come appariva, dove il travestimento e lo spettacolo erano le espressioni più autentiche di un individuo, di un gruppo, di un’intera fetta di società che guarda indietro a quegli anni e cerca di recuperare qualche scintilla residua di quell’ebrezza di libertà.
La musica è un altro dei fili conduttori di Haynes: I'm Not There (Io non sono qui, 2007) è un altro biopic musicale che si serve degli stilemi del genere solo per poterli distorcere, spezzare, confondere e ampliare. In I'm Not There Bob Dylan è interpretato nelle diverse fasi della sua vita e della sua carriera da sei attori diversi, tra cui Cate Blanchett. Dal biopic fittizio che prende come oggetto d’analisi un’intera comunità a un biopic in apparenza più tradizionale, incentrato su una personalità: ma più lo sguardo di Haynes si avvicina alla singola individualità più riesce a smascherare le pluralità che la abitano e prendono vita davanti alla sua macchina da presa.
Quando gli viene chiesto quale sia il tema ricorrente nei suoi film, Haynes risponde così: «L'elemento in comune potrebbe essere la resistenza rispetto alla nozione di identità: ad esempio, le donne nel microcosmo domestico che sfidano la loro condizione, a volte perfino attraverso la malattia. All'altro estremo abbiamo personaggi come David Bowie o Bob Dylan, i quali hanno rifiutato di farsi chiudere in una gabbia: Bowie ha rimesso in discussione le basi dell'identità sessuale con la propria androginia, mentre Dylan è stato una figura rivoluzionaria.». E se abbandoniamo la linea tematica per concentrarci su quella attoriale, decidendo di seguire Cate Blanchett nei panni di uno dei tanti Bob Dylan di Haynes, e vediamo dove ci portano i suoi passi, finiamo dentro un altro dei film più celebrati dell’autore: Carol (2015).
Attraverso questo lungometraggio scopriamo di non esserci molto allontanati dal nucleo prismatico e trasformativo dell’identità e del desiderio dal quale siamo partiti, sebbene ci troviamo in territori apparentemente meno sperimentali rispetto a quelli degli esordi: dalla Londra underground di Velvet Goldmine alla New York borghese degli anni Cinquanta, tra gli interni dei grandi magazzini Frankenberg a quelli del Ritz Hotel. La dimensione di Carol, insieme a Far From Heaven (Lontano dal paradiso, 2002) con protagonista Julianne Moore, è quella del melodramma domestico di sirkiana memoria.
Il mondo messo in scena dal melò è un mondo che muore in preda al panico ma non vuole darlo a vedere: dietro i suoi oggetti che diventano pian piano reliquie di un universo scomparso, emerge la radicalità dei desideri che viaggiano in direzione contraria. La vita sembra scorrere docile e serena tra le mura domestiche e quelle di un centro commerciale: ma negli sguardi tra Carol e Therese Belivet, la giovane fotografa interpretata da Rooney Mara, svelano l’ostilità e la violenza di una realtà apparentemente quieta e pacificata, che sotto la luce del desiderio che le lega diventa claustrofobica e brutale.
In Carol desiderio e identità diventano indissolubilmente legate e il rifiuto del primo diventa una negazione totalizzante e assoluta della seconda: la repressione della libertà di desiderare, di amare e di rappresentarsi all’interno di quel desiderio e di quell’amore svuota l’individuo, lo riduce a una bambola. Come le bambole allineate con diligenza sugli scaffali dei grandi magazzini, o come la casa di bambola ibseniana di cui Carol cerca disperatamente di abbattere le fondamenta. O come le bambole di Superstar: The Karen Carpenter Story, cortometraggio di Haynes del 1998 che inscena gli ultimi 17 anni di vita della cantante Karen Carpenter usando delle Barbie al posto degli attori. Esistenze confinate in corpi senza vita, ma anche corpi che nella loro plasticità sono capaci di travestirsi, di assumere forme diverse, di interpretare ruoli diversi, di inscenare uno spettacolo attraverso ciò che può essere nascondiglio o modalità di espressione, sopravvivenza o ribellione.