La nostra selezione dei migliori film
usciti quest'anno,
scritto da redazione ODG
TR-118
24.12.2024
Il 2024 è stato un anno dominato da eterni ritorni, nostalgia, reboot, cross-over, remake e idee non originali, ma anche da opere che, nell’epoca dell'abbondanza e della disillusione - in cui "era già tutto previsto", in cui l'artificio del narrare è definitivamente svelato -
riflettono su nuovi modi, nuove possibilità del racconto, del cinema stesso. Un cinema che, per interrogare l'essere dell'individuo nel mondo, non può ignorare il modo che questo ha di guardarlo e narrarlo.
Un anno che può essere racchiuso attraverso due opere: da una parte l'avvenirismo esondante del Francis Ford Coppola di Megalopolis, dall'altra l'esistenzialismo ossuto e rarefatto de La stanza accanto di Pedro Almodóvar. Due festival, due decani, due opere imperfette, divisive ma vivacissime nel defibrillare il dibattito critico e nell'orizzontare un cinema diverso, non ovvio, emancipato dagli standard dei fiumi di titoli, sempre di più, sempre meno diversificati.
Da Bestiari, erbari e lapidari di D'Anolfi e Parenti a L'Impero di Dumont, da Baby invasion di Korine a Tardes de soledad di Serra, da Civil war di Garland a Il ragazzo e l'airone di Miyazaki, da Anora di Baker a Challengers di Guadagnino, tracciamo un itinerario del miglior cinema della stagione, un cinema emozionato e teorico, profondo e liberatorio. Ecco la nostra selezione dei migliori film di quest'anno, presentati ai festival, in streaming o usciti nelle sale italiane a partire dallo scorso gennaio. Buon viaggio.
Challengers
di Luca Guadagnino
Challengers, schematico e languido come il più archetipico dei triangoli - da Godard a Truffaut, da Losey ad Araki, da Bertolucci a Ira Sachs - rende l'amore un campo da gioco, sfida infantile per la scoperta del sé e dell'Altro. In Guadagnino, l'indagine identitaria marcia sempre al ritmo di una passione e sbatte sempre contro i bordi di percorsi predefiniti da profanare: in We are who we are (2020) erano quelli di una caserma militare veneta, qui sono le linee invalicabili del campo da tennis: non luogo, tempio della performance, recinto ideale, televisivo e simmetrico in cui il rapporto tra corpi diventa agonismo, competizione, dispositivo sportivo e mediatico.
Nella prossemica tra campo e fuoricampo (da tennis e cinematografico), le traiettorie tra Art, Patrick e Trisha creano un prisma dei rapporti di potere insiti al desiderio, in cui lo sguardo è tele-controllo, la rete una regia tra le persone, la pallina un modo per dire all'altro dove guardare.
Tra piani d'ascolto, soggettive impazzite e plongeè, il corpo visto e voyeur oscilla tra essere amante e sfidante, oggetto coreografato nel gioco prospettico del desiderio, in una sintesi perfetta tra match ed erotismo, agonismo e seduzione, meló e action movie, tra film d’autore e film d'intrattenimento su commissione - la sceneggiatura è dello stesso Justin Kuritzkes di Queer (2024). Alla fine, sono proprio le regole del gioco (e del cinema) a riscattare i corpi dal loro ruolo impostore di avversario, da un destino che li vede saper danzare, giocare, massaggiarsi solamente da soli. “Stiamo ancora parlando di tennis?”.
Scritto da Matteo Bonfiglioli
Queer
di Luca Guadagnino
A meno di sei mesi dal successo di Challengers, a settembre Luca Guadagnino è ritornato al Festival di Venezia per presentare Queer, adattamento dell’omonimo romanzo di William S. Burroughs. Con protagonisti Daniel Craig (nella sua migliore interpretazione) e Drew Starkey, il film si ambienta nella Città del Messico del 1950, teatro dell'ambivalente relazione tra Lee e Allerton. Una delle produzioni più riuscite del regista, ne confluiscono l’interesse verso le complessità relazionali umane, come avveniva in Call me by your name (2017), e la propensione verso il grottesco, ereditato da Suspiria (2018), in un equilibrio maggiormente consapevole rispetto al precedente Bones and All (2022)
A dare forma al film, è l’azzardo nell’adattare una riflessione complessa come quella postulata dal soggetto di Burroughs; si intende, amore come massima forma di connessione e, allo stesso tempo, di dispetto. Nella normalità, difatti, si presuppongono il desiderio come anticamera del sentimento, l’intimità come un’estensione naturale dell’amarsi, la sintonia fisica acclusa alla sintonia spirituale. L’amore, qualora sia sincero, è una provvidenza da ricambiare, ed è ingrato, chi, rifiutandolo, non ne glorifica la virtù. Burroughs, invece, qualifica l’amore come una giustificazione della tendenza umana verso la dipendenza. Nasce, egoisticamente, dal desiderio di possedere qualcosa privandolo della propria autonomia; ricambiarlo o meno dipende dalla sussistenza di un sistema di bisogni che possa essere reciprocamente soddisfatto, in una transazione che ha come valuta l’intimità. L’amore "effettivo" tra due individui è, per l’autore, qualcosa di più grezzo, confluente nel non-naturale e non necessariamente appagante.
Queer, ad oggi la pellicola forse più personale di Guadagnino, adatta in maniera impeccabile il suo soggetto, eccezionale nella sua ambivalenza. Con un'uscita internazionale attesa nel 2025, denota, non solo un’identità autoriale realmente definita, ma anche la perfetta sublimazione del mezzo cinematografico come organismo narrativo, consapevole e ramificato.
Scritto da Beatrice Gangi
Vogter
di Gustav Möller
Dov’è il limite tra giustizia e vendetta? L’ultimo film di Gustav Möller si pone proprio questo interrogativo, navigando nel più controverso dei Tartari. Una prigione è di per sé un non-luogo, che non fa distinzione alcuna tra criminali e guardie: solo delle labili regole umane determinano i ruoli da assumere. E infatti, la brutalità di quell’ambiente è capace di annebbiare anche l’anima di coloro che si votano alla giustizia e alla cura, come Eva, una donna che prima di essere guardia penitenziaria è madre. E che cosa farebbe una madre se nello stesso carcere in cui lavora e si prende rigidamente cura dei suoi detenuti venisse trasferito l’assassino di suo figlio? Nemmeno la divisa che porta è in tal caso capace di fermare gli istinti.
Sì, perché proprio di istinti bisogna parlare: Vogter è un film primordiale, archetipico, che spoglia i personaggi delle vesti che portano. Anche qui Eva, come quella di cui si narra nelle sacre scritture, compie una discesa lontano dal suo Paradiso, stavolta per affrontare il suo altro figlio Caino, qui sotto il nome di Mikkel. Ma fin dove può spingersi la tolleranza?
Scritto da Mattia Cirilli
La storia di Souleymane
di Boris Lojkine
L'Histoire de Souleymane segue la vicenda di un giovane originario della Guinea che lavora come rider per le strade di Parigi. Con solo due giorni a disposizione prima di un’intervista cruciale per ottenere asilo in Francia, Souleymane deve costruire una narrazione convincente, consapevole che il suo futuro dipenderà da quel colloquio. In cerca di aiuto, si rivolge a un “approfittatore” che, a pagamento, assiste i migranti nell’elaborazione di racconti falsi destinati a garantire il permesso di soggiorno. Ma, al culmine del film, il protagonista si troverà di fronte a un dilemma morale: continuare a mentire per ottenere ciò che desidera, o abbracciare la verità e rischiare tutto?
Il film di Lojkine non è solo un ritratto realistico della vita precaria di un lavoratore clandestino in una metropoli cinica. Si inserisce in un filone di opere francesi recenti che raccontano, con spietata autenticità, le difficoltà quotidiane dei ceti sociali più bassi - basti pensare a À plein temps (2021) o Rien à foutre (2021). Tuttavia, L'Histoire de Souleymane va oltre la semplice denuncia sociale. Nel finale, la pellicola si eleva a una riflessione più profonda sulla natura stessa del cinema. La scelta di Souleymane, tra verità e menzogna, assume una dimensione meta-filmica: il cinema diventa strumento per raccontare la realtà nella sua forma più cruda, ma anche compassionevole.
L'Histoire de Souleymane non si limita a narrare una storia di immigrazione e speranza, ma pone interrogativi più ampi sul ruolo del racconto, sulla moralità e sulla ricerca di una dignità che sfida le convenzioni sociali. Con una regia attenta e una performance straordinaria da parte di Abou Sangaré, il film non solo denuncia, ma invita anche alla riflessione sulla natura del nostro impegno verso chi cerca rifugio e un posto nel mondo.
Scritto da Eric Scabar
Megalopolis
di Francis Ford Coppola
Alla fine della visione di Megalopolis, la domanda che sorge spontanea è tanto semplice quanto spietata: Coppola ci è o ci fa? Il pubblico sembra essersi diviso in due macro-categorie, da un lato chi vede nel film l'opera di un anziano folle, travolto da un’eccessiva autonomia creativa e da un'ambizione fuori controllo (ci è), dall'altro chi ne percepisce la consapevolezza, lo spirito provocatorio e la lucida intenzionalità (ci fa).
L’ultima fatica del leggendario regista statunitense è un film-mondo tanto ambizioso quanto spiazzante, una riflessione politica che affronta le più oscure problematiche dell’America contemporanea, utilizzando il medesimo linguaggio che definisce gli U.S.A di oggi, un linguaggio intriso di trash, ironia clownesca e atmosfere distopiche (basta osservare la politica per averne conferma).
Ciò che distingue Megalopolis è soprattutto la forma. Sembra di assistere a un romanzo postmoderno trasposto sul grande schermo, con le sue torsioni narrative e la sua estetica del sovraccarico che diventa specchio deformante della realtà. I fondali sovraesposti e le immagini ipersature suggeriscono che guardare troppo lontano, verso un futuro, un orizzonte, equivale a bruciarsi gli occhi. Come se scavare in profondità nell’anima di una nazione significasse inevitabilmente sprofondare nel vuoto che la abita. Coppola osserva e ci mostra senza filtri un immenso circo dove il sublime e il grottesco convivono, dove l’America si è ridotta a uno spettacolo di se stessa. In fondo, Megalopolis è un atto di resistenza, un’opera che rifiuta ogni forma di compromesso, che sfida lo spettatore a decifrarla, a prenderla sul serio o a rigettarla del tutto. In questo stralunato e titanico manifesto, Coppola si erge a ultimo poeta della rovina e della possibilità.
Scritto da Eric Scabar
Vermiglio
di Maura Delpero
È dapprima un sussurro quello di Vermiglio. Il sussurro invernale, aspro ed ovattato, di tre giovani ragazze non ancora donne, figlie del severo maestro che fa scuola nel piccolo paese nascosto tra vette del trentino. C’è chi prega, chi spera e chi studia, per scelta, abitudine o obbedienza. C’è la neve, che asseconda il sussurro delle tre finché una, la maggiore, rompe la precaria simmetria familiare, innamorandosi di un disertore. È allora, che arriva la primavera. E poi, ancora, l’inverno.
Vermiglio è un film che, con equilibrio esemplare e straordinaria raffinatezza, racconta un tempo, quello della fine della Seconda guerra mondiale, un luogo, una frazione di passaggio e confine in Val di Sole; ma soprattutto una famiglia ed il contorno di anime che sono, a tutti gli effetti, Vermiglio. Tutto ha voce e spazio, la natura piena e maestosa, il susseguirsi delle stagioni emotive dei personaggi, la nascita e, la morte. E se un’opera cinematografica ora più che mai, dev’essere ben più di un registro di nazionalità e proiezioni obbligate, l’augurio è che questa coraggiosa impresa collettiva, non solo artistica ma produttiva, abbia oltreoceano l’eco che si merita.
Scritto da Maria Clara Taglienti
Anora
di Sean Baker
Vincitore della Palma d’Oro, Anora è uno dei film più discussi del 2024. Non è facile raccontare una storia come quella di una simile protagonista, tantomeno nel modo in cui lo fa Sean Baker. Un susseguirsi di scene grottesche, dal ritmo rapido e violento, scombussola lo spettatore, che a tratti resta interdetto, mentre in altri istanti ride sonoramente, incapace di definire precisamente le emozioni che lo attraversano.
Anora non si pone limiti: una realtà cruda che viene rappresentata negli aspetti più duri e dove i personaggi contengono raramente i propri comportamenti. I due giovani attori protagonisti lavorano in maniera impeccabile, risultando pienamente immersi in due figure costantemente in bilico. Insieme riescono a far provare al pubblico un generale senso di rabbia e impotenza, alimentato dalla dissonante atmosfera di caos comico.
Il cerchio di questa storia trova la perfetta chiusura in un finale chiarificatore. Nell’assistere alle scene finali dell'opera di Baker, riusciamo probabilmente a comprendere il senso più profondo di una pellicola che non mostra apertamente il proprio intimo significato. Si tratta di uno di quei film di cui, usciti dalla sala, assaporiamo ancora per qualche istante la confusione, generata da una mescolanza di sentimenti contrastanti, nel tentativo di trovare una definizione.
Scritto da Sofia Sardella
Limonov
di Kirill Serebrennikov
Nel 2011, lo scrittore Emmanuel Carrère pubblica Limonov, resoconto della vita di un personaggio immerso nelle vicende della storia recente. L’autore scrive di non voler dare un giudizio sugli avvenimenti: sente però la necessità di descriverli. Proprio da questo testo trae origine il recente adattamento cinematografico, che ben riesce a delineare le caratteristiche di un personaggio tanto multiforme. Ben Whishaw si immedesima in maniera totalizzante nei panni del rivoluzionario Ėduard Limonov, incorniciato da canzoni memorabili mentre si muove attraverso epoche e luoghi, nel costante tentativo di raggiungere il nucleo di un qualcosa, un significato al quale aggrapparsi.
Limonov fa esperienza di paesi diversi, di ideologie opposte, di stili di vita distanti gli uni dagli altri e vive tutto con sincera intensità. Sono tanti i modi di reagire davanti ad una pellicola del genere: c’è chi da un giudizio, chi resta affascinato, chi si limita al silenzio. Non c’è una strada giusta, ognuno percepisce questa storia in maniera differente, ma è certamente corretto rappresentare il vissuto di chi ha osservato (ed esperito) gli avvenimenti più notevoli della seconda metà del Novecento sino ai giorni nostri con profonda partecipazione.
Scritto da Sofia Sardella
Maria
di Pablo Larraín
Con Maria si conclude la trilogia di Pablo Larraín dedicata a tre figure femminili che hanno segnato l’immaginario novecentesco. Dopo Jacqueline Kennedy (in Jackie, 2016) e Lady Diana (in Spencer, 2021), è la volta dell’inarrivabile Maria Callas. Lo sguardo cinematografico di Larraín cade, questa volta, sull’epilogo di una diva che appare smarrita di fronte ai sogni e alle illusioni della vita.
Segregata e quasi totalmente sola, se non fosse per il maggiordomo Ferruccio (Pierfrancesco Favino) e la domestica Bruna (Alba Rohrwacher), Maria è la sintesi di un soprano che trova nel canto la sua ultima forma di resistenza. Il lento avanzamento verso la morte passa attraverso la vita: tra la realtà dolorosa di una diva a cui si è spenta la voce e le continue visioni oniriche, dettate dal bisogno di una fuga interiore, si traccia un biopic astratto, divisivo ed amaro.
L’estetica del film combacia con l’interiorità della protagonista: l’atmosfera pittorica della casa parigina è resa intima e sacrale da movimenti lenti e inquadrature simboliche; il gioco di luci e ombre aderisce al continuo spostarsi da una realtà ad un’altra; il repertorio musicale è usato in favore di un montaggio che contrappone le grandi performance di una volta a una voce ormai logorata. Angelina Jolie conferisce a Maria quella dicotomia che la caratterizza: da un lato è eleganza e talento; dall’altro è dolore e tormento, un corpo troppo debole per un’arte troppo potente.
Scritto da Martina Di Gesu
Grand Tour
di Miguel Gomes
La maestria di un autore come Miguel Gomes, sta nel non percorrere l’atto creativo in modo progressivo come si è soliti fare nel cinema - ovvero partire dalla scrittura, proseguendo con la pre-produzione per poi arrivare alle riprese - ma piuttosto mischiare tutto allo scopo di ottenere un'opera assolutamente libera da qualsiasi costrutto metodico, offrendoci così un genuino sguardo di osservazione sul mondo di oggi.
Gomes, infatti, ci conduce in terre poco esplorate e ci mostra l’Asia come un Continente pieno di storie; l’importante è sapere attendere e guardare senza pregiudizio alcuno, cosa che i due protagonisti del suo film non fanno mai. In questo gioco di fuga e inseguimento, sembrano infatti non soffermarsi su quel mondo eccezionale che li circonda. Essi incarnano l’Occidente che non guarda nient’altro se non il proprio benessere e il proprio sentire.
Questa storia d’amore al contrario, non convenzionale, dove l’amore si rafforza al pari della distanza, crea il ritratto di un uomo e di una donna che lo spettatore non riesce a comprendere fino in fondo (per via delle loro azioni e decisioni) ma, che soprattutto, non giustifica; sembrano essere gli antagonisti di loro stessi, ed è proprio in questo elemento che si trova tutta la forza dell'ultimo lungometraggio del cineasta portoghese. Gomes ci permette di empatizzare con il bizzarro, con esseri umani imperfetti, regalandoci un viaggio esperienziale che non ha nessuna pretesa se non svelarci ciò che le immagini incarnano al loro interno. L’importante è saperle osservare.
Scritto da Aureliana Bontempo
Pepe
di Nelson Carlo De Los Santos Arias
Il regista di quest’opera ha un nome che potrebbe riassumere il suo stesso film: Nelson Carlo De Los Santos Arias. Forse un po’ troppo lungo, forse un po’ troppo pretenzioso, ma pur sempre poetico per la fonetica del suo significante e nell’inventiva del suo significato. Pepe, infatti, vincitore dell’Orso d’Argento per la Miglior regia alla Berlinale di quest’anno, è sicuramente una pellicola originale, come ormai se ne vedono poche, per la sua forma e il suo contenuto. Un film che potrebbe essere inserito in una serie di opere appartenenti a una quasi corrente cinematografica, che hanno come punto di vista principale quello di un animale - vedasi Cow (2021), EO (2022), L’orso (1988), Au hasard Balthazar (1966) e sì, perché no, anche Free Willy (1993) - con l’unica differenza che l’anima è l’ippopotamo di Pablo Escobar, scappato dopo la morte del suo padrone, ucciso nella giungla colombiana e poi divenuto fantasma.
Pepe, il nome dell’animale, è un esemplare cresciuto in cattività che, finalmente, vede la libertà in un paese e un habitat a lui sconosciuto. L'ippopotamo si fa simbolo di un colonialismo che, nella lotta contro “l’estraneo”, ha permesso alle comunità del popolo di riunificarsi contro una piaga che minacciava il suo benessere e la sua sicurezza. Pepe, quindi, non è solo la vicenda di un animale indifeso e soprattutto, innocente, ma la storia del capro espiatorio di millenni di supremazia straniera in una terra, la giungla, inadatta alla vita eppure piena della speranza dei suoi abitanti.
Forse per chi sta leggendo, queste parole possono voler dire tutto e niente, ma è proprio questa la sensazione vedendo il film: la mappa per l’interpretazione di un contemporaneo complesso, oppure quella che, sui social più populisti, qualcuno, nascosto dietro un’icona, potrebbe definire come “nà pippa mentale colossale”. Ma la verità è che a noi ci piace proprio farci perculare.
Scritto da Aureliana Bontempo
The Substance
di Coralie Fargeat
Due donne, due caratteri diversi: un solo corpo. The Substance è la storia di Elisabeth (interpretata divinamente dalla splendida Demi Moore), star di Hollywood appena cinquantenne licenziata dalla sua trasmissione di aerobica perché giudicata troppo “vecchia”. A seguito di un terribile incidente la donna viene avvicinata in ospedale da un giovane ed attraente infermiere che, analizzando attentamente la sua spina dorsale, la dichiara perfetta per sottoporsi ad un misterioso trattamento sperimentale dall’efficacia ineguagliabile. Tutto quello che Elisabeth dovrà fare per ottenere una cosiddetta versione migliore di sé sarà semplicemente iniettarsi un siero (The Substance appunto) e seguire pedissequamente ogni passaggio. Da qui lo sdoppiamento, il bivio. Ed ecco allora prendere vita sullo schermo Sue, interpretata da Margaret Qualley, bellissima e affamata di successo.
Coralie Fargeat dirige un lungometraggio feroce e brillante, che critica, nella maniera più coraggiosa e aspra mai vista finora, il male gaze che domina la società contemporanea. Una donna che è vittima e al contempo prodotto della società patriarcale, che in The Substance viene perfettamente, e disgustosamente, incarnata dal volto di un allucinato Dennis Quaid. Sue, con il suo corpo perfetto, ammicca e seduce il pubblico maschile - che guarda, giudica approva e vomita una serie di orribili commenti senza nemmeno rendersene conto - e propone al pubblico standard impossibili da raggiungere, con la conseguenza, ancor più grave, dell'iper-sessualizzazione della fisicità femminile.
In un pendolo che oscilla vorticosamente, e pericolosamente, tra un estremo e l’altro, The Substance è la letterale esplosione di un conflitto, al contempo interno ed esterno, di pressioni che la società impone al corpo, un body horror che, con estrema intelligenza ed ironia, sa rendersi accattivante, divertente e spietato.
Scritto da Diana Incorvaia
By The Stream
di Hong Sang-soo
Pochi autori del cinema contemporaneo hanno la prolificità di Hong Sang-soo. Ancora meno sono quelli in grado di stupire ad ogni loro film. Girato in soli cinque giorni, By The Stream si consacra come uno dei vertici della filmografia del regista sud-coreano. Un cinema intimo, ma non per questo autoriflessivo e chiuso in sé stesso, ma che - al contrario - si presenta come una finestra dal quale osservare, senza stacchi di montaggio, lo svilupparsi delle relazioni umane in tutta la loro semplice complessità. Tra cene, bevute, lunghissimi piani sequenza e fiumi di parole, lo spettatore è chiamato a entrare nei mondi relazionali dei personaggi cercando di cogliere in essi quella minuscola evoluzione - mai oggetto del cinema - che li muove al cambiamento.
Un cambiamento quasi invisibile, impercettibile, che solo la precisione dello sguardo di Hong Sang-soo è in grado di far trasparire. Questa è la magia del cinema del regista sud-coreano. Un regista in grado di catturare il vuoto, lo scarto, il monotono, e restituircelo sullo schermo con una purezza e una sincerità che non lascia mai indifferenti.
Scritto da Arturo Garavaglia
Baby Invasion
di Harmony Korine
Ogni volta che esce un film di Harmony Korine il cinema deve mettere in discussione il proprio rapporto con la percezione del reale e con lo statuto delle immagini. Laddove con Aggro Dr1ft (2023) il folle regista aveva girato il suo "Adieu au langage" contaminato dall’immaginario videoludico, inaugurando la fase del suo cinema dedicata al post-reale, con Baby Invasion (2024) esplora l’impossibilità stessa di definire una realtà plasmata dall’universo digitale.
“This is not cinema”, recita una delle scritte che appaiono sullo schermo, delimitando fin da subito la dimensione di sospensione in cui galleggia Baby Invasion: non è un film, non è finzione, non è un videogioco, non è la realtà e, allo stesso tempo, è tutte queste cose contemporaneamente. L'opera di Korine è un’unica grande soggettiva, una live-stream di Twitch che viviamo in un unico flusso di immagini senza stacchi nel mezzo, come in una continua discesa nella tana del bianconiglio, in cui ogni schermo rappresenta il ponte per continuare a scendere verso un altro microcosmo virtuale. I mercenari con indosso maschere da neonati non agiscono per un fine, ma vivono nell’immediatezza, nel presente colto nel suo farsi, seguendo i mutamenti dell’algoritmo.
Se è vero che il prossimo passo per il cinema sarà quello di sognare i film, è anche vero che nell’eterno presente in cui aleggiano i personaggi di Korine la realtà è già un sogno senza fine che continua a ripetersi, in cui l’attesa dell’azione ha lo stesso valore di qualunque altro gesto. In un anno in cui tra Megalopolis (2024) di Coppola e Sleep #2 (2024) di Radu Jude ci si è interrogati molto sul futuro del cinema e sull’inutilità di riprodurre fedelmente il reale, Baby Invasion ci ricorda che viviamo in un’epoca in cui non ha più senso definire i limiti di una forma espressiva che sta pian piano assimilando medium e linguaggi distanti dai canoni classici.
Scritto da Lorenzo Sartor
All We Imagine as Light
di Payal Kapadiya
È sera, il cielo si fa sempre più buio e tutto ciò che illumina la città sono le luci dei lampioni. Le strade sembrano come dipinte di blu e nell’aria si respira ancora quell’aria intrisa di pioggia, tipica delle giornate uggiose. Ed è proprio in questa città dalle varie tinte blu che una metro passa tra le abitazioni, catapultandoci in un mondo fatto di voci, desideri e paure. È con quest’immagine che ha inizio All We Imagine as Light, il film della regista indiana Payal Kapadia presentato in concorso a Cannes 2024.
Con il personaggio di Prabha, Kapadia segue le vicende di una donna non analizzandola necessariamente attraverso una forte chiave femminista - stile Barbie (2023) di Greta Gerwig per intenderci-, ma semplicemente raccontandola, e facendosi osservatrice (con lei) delle vite di altre tre figure femminili, raccogliendo storie che si compongono di amore, dolore, solitudine ma anche amicizia. Nel film della giovane regista, vi è però un'altra grande protagonista: la città di Mumbai, attraente oracolo di promesse, sogni e infinite possibilità che, alla fine, rischiano di diventare solo flebili illusioni.
Nel lungometraggio, la cineasta non rinuncia alle sue origini da documentarista, e ci regala una regia che gioca con gli aspetti più interessanti del genere. Come, ad esempio, l'utilizzo del voice-over in delle conversazioni “rubate” per descrivere la sua India. All We Imagine as Light è un vero e proprio gioiello cinematografico in questo 2024, praticamente perfetto dalla regia, alla sceneggiatura, fino alla musica, elementi esemplarmente amalgamati che avvolgono i paesaggi e i personaggi che li vivono. Con quest'opera profonda e commovente Payal Kapadia vuole ricordarci che non dobbiamo temere il buio che ci circonda, ma dobbiamo imparare a brillarci dentro.
Scritto da Cecilia Parini
Sterben
di Matthias Glasner
Sterben, prima ancora di essere un film, si può considerare una magistrale sinfonia composta e diretta da Matthias Glasner. L'opera si può paragonare ad un insolito requiem - non a caso il titolo tradotto significa letteralmente morire - che parte adagio, per poi passare in allegretto, fino a giungere a un solenne e sentito tempo grave.
Descritto da molti come una black comedy, il lungometraggio del regista tedesco riesce a farci ridere e, allo stesso tempo, riflettere. Infatti Sterben non si limita solamente a descrivere le buffe relazioni umane tra i quattro membri della strana famiglia Lunies e il resto del mondo, ma, pian piano che la storia procede, si trasforma in una realistica, quanto veritiera, fotografia del nostro tempo.
È difficile parlare di Sterben senza fare spoiler o rischiare di cadere nel banale, mentre si tenta di spiegarne la bellezza e la potenza. I personaggi descritti da Glasner, all’apparenza grotteschi, si fanno nuovi archetipi della società che viviamo: una madre senza istinto materno, una figlia ribelle e anticonvenzionale che ricerca l’amore classico, un figlio artista in piena crisi esistenziale e un padre che riesce a diventare presente nella propria assenza.
Nonostante il titolo richiami alla morte, Sterben, infine, si rivela un inno alla vita, anche perché, come ci insegna Glasner, alla fine si può sempre trovare un lato comico, anche nel dolore.
Scritto da Cecilia Parini
Flow
di Gints Zilbalodis
Gints Zilbalodis, autore lettone già apprezzato per l'onirico Away (2019), torna sul grande schermo con Flow, un'opera che conferma e amplifica le sue doti di narratore visionario.
In un mondo post-apocalittico dove della civiltà umana sono rimaste solo macerie, un gatto nero, solitario e diffidente, si trova a fronteggiare un'inondazione che lo costringe a condividere una zattera di fortuna con un eterogeneo gruppo di animali. Ha inizio così un'odissea fluviale che porterà il protagonista a mettere in discussione se stesso, aprendosi a un universo emotivo prima sconosciuto.
Zilbalodis, ancora una volta, si fa carico di ogni aspetto della produzione, dalla regia all'animazione, dalle musiche al montaggio. Il suo stile, caratterizzato da un tratto essenziale e da una tavolozza cromatica vibrante, crea un'atmosfera onirica e sospesa, in cui la bellezza della natura rigogliosa si intreccia con la malinconia di un mondo perduto. L'assenza di dialoghi, lungi dall'impoverire la narrazione, amplifica la potenza espressiva delle immagini, lasciando che siano la musica e i suoni della natura a scandire il ritmo del racconto.
Flow rappresenta anche una riflessione sul delicato rapporto tra uomo e natura, le rovine di una civiltà scomparsa, inghiottite dalla vegetazione lussureggiante, rappresentano un monito silenzioso sulla fragilità del nostro ecosistema. Un'opera poetica e profonda che discute il post-umano e la vita. Da vedere e rivedere, per lasciarsi cullare dal suo flusso e riscoprire la bellezza di un mondo che, pur nella sua fragilità, continua a pulsare.
Scritto da Aldo Lauro
Civil War
di Alex Garland
Sono sguardi dalla stanca compassione quelli di Civil War di Alex Garland, opera sull’etica di fotografare la morte. D’altronde, “la fotografia è un omicidio sublimato”, scriveva Susan Sontag in Davanti al dolore degli altri, testo illuminante che potrebbe benissimo essere il commentario di Lee Smith (Kristen Dunst); navigata fotografa di guerra dagli occhi (i suoi e quelli della fotocamera) che non sanno più commiserare ma, assenti, immortalano tragedie.
E così la fotografia non è che la morte del reale preda del fermo-immagine. Lo sa bene Lee quando si imbatte nella danza finale del suo mortuario mestiere: partire verso Washington per strappare l’ultima intervista all’ultimo dei Presidenti, mentre la guerra civile tra governativi e secessionisti mette a ferro e fuoco un’America in stile The Twilight Zone (1959). Ad accompagnarla - assieme ai colleghi Joel e il veterano affaticato Sammy - l’aspirante fotografa Jessie (Cailee Spaney), intromessa nella spedizione con la sincera cocciutaggine delle passioni giovanili.
È subito un dramma del riflesso - Jessie e Lee, l’ingenuità dell’impeto e il distacco dell’età - dal cuore così pulsante in mezzo al gelido cinema di Garland. “Se mi sparassero fotograferesti quel momento?” chiede Jessie alla sua eroina; spera in una rassicurazione, un rimasuglio per l’umanità. Ma nella fiumana di immagini che sono i nostri giorni la cronaca non ha più tempo per l’etica. E allora tra i simulacri di dei surreali Stati (non più) Uniti - più simili al loro immaginario che a sé stessi - un evento accade se qualcuno lo immortala. È nella corsa alle istantanee in mezzo alla battaglia, nei respiri o negli ultimi secondi di un Capo di Stato che il reale diventa notizia. Vince chi mira all’obiettivo, con un rullino fotografico o un proiettile poco importa nel Civil War di Alex Garland.
Scritto da Lorenzo Nuzzo
The Girl with the Needle
di Magnus von Horn
Un resoconto dettagliato di uno degli episodi di cronaca nera più conosciuti in Danimarca? Il ribaltamento di una favola gotica in cui la giovane protagonista incontra dei personaggi che sembrano usciti direttamente da un racconto dei Fratelli Grimm? Oppure un’analisi sugli orrori contemporanei filtrati attraverso un'ambientazione da primo Novecento? Non ci sono risposte sbagliate, è questo ciò che rende The Girl with the Needle uno dei film più interessati dell’intera annata. Ambientato nel 1919, il terzo lungometraggio di Magnus von Horn segue le vicende di Karoline (Vic Carmen Sonne), giovane ragazza costretta a vivere in povertà dopo che il marito è scomparso durante la Prima Guerra Mondiale, che ha la possibilità di ricominciare una nuova vita grazie a persone che, inizialmente, sembrano ben intenzionate, tra cui la misteriosa Dagmar (Tryne Dhyrholm), la gestrice di un negozio di dolciumi.
La situazione infernale della protagonista, la quale entra in un loop di sofferenza e desolazione, è messa in risalto dalla claustrofobica atmosfera imbastita da von Horn, dove spiccano un austero uso del bianco e nero ed una colonna sonora che amplifica le atrocità che si pongono davanti a Karoline. Recitato superbamente dalle due protagoniste, con Sonne che richiama lo stile espressivo delle dive del cinema muto, e Dyrholm, semplicemente terrificante nel modo in cui costruisce un ritratto ambiguo, e allo stesso tempo empatico, di una donna manipolatrice.
Scritto da Omar Franini
Nickel Boys
di RaMell Ross
Raramente al giorno d’oggi si riescono a trovare adattamenti di celebri romanzi con la voglia di sperimentare sulla storia di partenza allo scopo di creare qualcosa di radicale a livello cinematografico. Spesso si trovano opere che seguono pedissequamente (ed erroneamente) i testi originali, parola per parola, scena per scena, ed è per questo che, quando si trovano film come Nickel Boys, ci si rende conto delle vere potenzialità della Settima Arte. Il romanzo Premio Pulitzer di Colson Whitehead narra la storia di due giovani che, a seguito di dei “crimini”, vengono rinchiusi alla Nickel Academy (nome fittizio della vera Dozier School), riformatorio salito agli oneri della cronaca per il trattamento, brutale e discriminatorio, nei confronti dei ragazzi di colore. Il testo di Whitehead raccontava le vicende di Elwood e Turner, oltre a quelle degli altri ragazzi della Nickel, tramite l’uso della terza persona, una voce narrante onnipresente nella storia.
RaMell Ross decide di estrapolare questo approccio e stravolgerlo, ideando un adattamento girato interamente in soggettiva, tramite il punto di vista ottico, costringendo di fatto lo spettatore a vedere il mondo dei due protagonisti tramite i loro stessi occhi. Questa operazione stilistica permette di seguire il duplice punto di vista dei ragazzi: mostrando come vivono determinati momenti in prima persona e come questi siano vissuti dal punto di vista dell’amico.
L’ambizione stilistica di Ross trova perfettamente riscontro con il testo di Whitehead e il tono introspettivo dell'opera si presta anche ad essere un esemplare spaccato della società statunitense degli anni ‘60, con vari riferimenti storici, come i discorsi di Martin Luther King o l'allunaggio dell’Apollo 8, usati come espedienti narrativi per dare una locazione temporale a determinati avvenimenti. Nickel Boys è una visione radicale ed innovativa, un'opera che negli anni a venire diventerà una delle più importanti del cinema americano indipendente.
Scritto da Omar Franini
April
di Dea Kulumbegashvili
Vincitore del Premio della Giuria al Festival di Venezia, il secondo lungometraggio di Dea Kulumbegashvili si concentra sulla duplice esistenza di Nina; quella di ostetrica in un ospedale locale e quella di aborzionista illegale nei villaggi circostanti. Queste azioni, proibite in Georgia, mettono in pericolo non solo la sua carriera ma anche la sua stessa vita, poiché si troverà spesso in situazioni estremamente intricate. L’esistenza della donna è quindi condizionata da un malessere interiore perpetuo, per via del dovere morale a cui sente di dover adempiere.
In April il rigore stilistico di Kulumbegashvili - con il suo costante uso di tableaux vivants, già mostrato in Beginning (2020) - mostra una leggera evoluzione: i precisi ritratti presenti nel film precedente vengono qui sostituiti da riprese maggiormente grezze, dove la camera non è più fissa, per sottolineare proprio lo stato mentale instabile della protagonista.
Partendo da questa premessa, la regista sviluppa il medesimo linguaggio simbolico già presente nella sua opera prima. Esemplificativi in April sono la giustapposizione tra la desolata condizione umana di Nina (con la distruzione mentale che spesso segue i suoi "interventi") e le varie apparizioni di una creatura umanoide, che sembra incanalare tutto il suo dolore e la sua sofferenza. April non risulta essere una visione facile e in alcuni istanti metterà a dura prova la pazienza dello spettatore, ma rimane comunque un’opera distintiva di questo 2024, che mostra la visione audace di una delle voci più interessanti del cinema europeo.
Scritto da Omar Franini
Nosferatu
di Robert Eggers
Nel mondo del cinema la figura di Nosferatu, o più in generale quella di Dracula, è stata trasposta diverse volte ed è ormai raro trovare una versione che si discosti da alcuni grandi adattamenti come quelli di Murnau, Herzog o Coppola. Nel 2024, ad addentrarsi in questa sfida è stato Robert Eggers, che ha avuto finalmente l’occasione di realizzare la sua versione, un progetto a cui è particolarmente legato. Nosferatu rimarca ancora di più la recente direzione che sta prendendo il cinema di Eggers; un meticoloso esercizio di stile adattato ad un grande classico, come Nosferatu in questo caso, o Amleto in The Northman.
L’approccio risulta piuttosto competente, sia a livello tecnico che narrativo, ma pecca di quella sfrontatezza che aveva caratterizzato The Lighthouse (2019), soprattutto quando bisogna sviluppare il legame centrale tra il Conte Orlok (Bill Skarsgard) ed Ellen Hutter (Lily Rose Depp). Nonostante questa leggera critica, la visione del film risulta piuttosto accattivante e terrificante; il lavoro svolto da Eggers e Bill Skarsgard (interprete del Conte Orlok) sull'iconico personaggio domina la scena, seguito dall'interpretazione “impossessata” di Lily-Rose Depp. Anche se il di Nosferatu di Eggers non tocca gli stessi apici delle opere dei suoi predecessori, il suo adattamento rimane pur sempre una grande aggiunta alla lista.
Scritto da Omar Franini
Io sono ancora qui
di Walter Salles
Dopo una lunga assenza durata dodici anni, Walter Salles torna a girare in Brasile e sceglie un soggetto molto vicino alla storia del suo paese d’origine. Io sono ancora qui è l’adattamento dell'omonimo romanzo di Marcelo Rubens Paiva, che racconta la storia della propria famiglia e della lotta compiuta da sua madre Eunice (nel film Fernanda Torres) per scoprire la verità dietro la sparizione del marito Marcelo. Il lungometraggio, come il romanzo, è ambientato negli anni ‘70, durante il terrificante periodo dei desaparecidos, dei rapimenti e delle uccisioni a scopo politico.
Salles riesce abilmente a mostrare tutte le varie sfaccettature della storia e a rappresentare come la famiglia Paiva, e più nello specifico Eunice, siano stati il simbolo della resilienza di un popolo che si è rifiutato di marcire sotto un dominio dittatoriale. Di conseguenza, l'opera mescola aspetti da thriller, legati alla scomparsa di Marcelo, a momenti di quiete, dove Salles esplora il forte legame del nucleo familiare, soprattutto quello tra i due coniugi Paiva. Io sono ancora qui ammalia per la sua compostezza a livello narrativo e per la potenza emotiva della sua protagonista, portata magistralmente sullo schermo dalla sublime Fernanda Torres.
Scritto da Omar Franini
Tardes de Soledad
di Albert Serra
In questo film, in tutti i film, altro non c’è se non quello che viene ripreso, registrato, filmato. Ciò che rimane fuori, fuori dallo spazio (l’inquadratura, che esclude), fuori dal tempo (il montaggio, che taglia), non esiste. È la solitudine dell’immagine, che precede tutte le altre: quella del toro, quella del torero, quella del regista e, infine, quella dello spettatore. Questo è il punto di caduta a cui Albert Serra sottopone il suo stesso cinema, che si fa “altro” dalla finzione e dal documentario e scappa, finalmente, dalle distinzioni e dalle definizioni di chi lo vorrebbe imbrigliare nei linguaggi, nei generi, nelle cose già viste. Perché è già stato tutto visto. E giudicato. E allora tanto vale, dice Serra, filmare e basta, non giudicare, non commentare, non attivare lo spettatore di fronte a una barbaria legalizzata - ancora legalizzata, perché antichissima e ritualistica - come la corrida.
Tornare all’inquadratura, al quadro, alla plasticità dell’esperienza artistica: non al cinema come catena di espressioni già codificate al suo interno, non alla grammatica chiusa su se stessa - come suggerisce l’inesistenza di punti di vista omnicomprensivi e facilitatori di una comprensione oggettiva, e quindi didattica e documentaristica fino in fondo, della corrida, che è invece ridotta, mai mostrata nella sua interezza. Roca Rey, il torero protagonista di Tardes de soledad, è maschera perché filmato, è personaggio solo poiché santificato dalla macchina da presa, che lo isola e lo trasporta fuori dal mondo reale. I gesti, le posture, le mimiche dei preparativi e della corrida, le parole scambiate con lo staff, sono iterate e allo stesso tempo prelevate da una performance live, irripetuta e irripetibile, in parte documento e in parte installazione audiovisiva di un rituale sociale mortale e solitario, ma vivo nel momento in cui viene filmato dal un cineasta sempre pronto a celebrare il funerale del (suo) cinema.
Scritto da Paolo Rissicini
Le Déluge
di Gianluca Jodice
“Io oggi ho paura, e ho bisogno che tu abbia paura con me”, in questa breve frase è racchiuso l’intero senso di Le Déluge, l’ultimo lavoro di Gianluca Jodice. Dopo Il cattivo poeta (2020), interessante focus sulla figura di Gabriele D’Annunzio, il regista napoletano torna a confrontarsi nuovamente con la Storia e gli imprevedibili destini delle figure che la abitano. Questa volta decide di osservare, con impressionante lucidità e profondo coinvolgimento, la caduta dei Borbone durante gli sgoccioli del loro potere.
Le Déluge è un film catastrofico, nel reale senso della parola, un’opera sulla fine del mondo e sul crollo delle certezze. Una coppia, il re e la regina, sull’orlo della desposizione, che, improvvisamente spogliati dei loro ruoli, vengono per la prima volta sommersi dal peso delle emozioni umane. Rinchiusi in una fortezza e in attesa della morte, i personaggi del film sognano la possibilità di vivere, di tentare di costruire un futuro, anche quando tutto sembra sgretolarsi.
Una commovente tragedia umana che, attraverso una narrazione intimista, riesce perfettamente a simbolizzare un evento che ha cambiato per sempre il volto dell’Europa. Tutto, nell’ultima pellicola di Jodice, sembra funzionare alla perfezione: dalla scelta di rinchiudere i protagonisti in spazi asettici e fuori dal tempo (regalando al lungometraggio un tono surreale e, appunto, post-apocalittico), agli inappuntabili costumi di Massimo Cantini Parrini, fino alle straordinarie performance attoriali di Mélanie Laurent e Guillaume Canet, maschere tragiche che, nell’ora più buia, si riscoprono teneramente vicine.
Scritto da Alberto de Carolis Villars
The Brutalist
di Brady Corbet
Vincitrice del Leone d’Argento per la Miglior regia alla Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia 2024, The Brutalist di Brady Corbet è probabilmente l’opera che, all’interno della filmografia del suo autore, rispecchia maggiormente la complessità del suo discorso cinematografico. Un’impresa narrativamente mastodontica, e superbamente inscenata, che attraverso le parabole dei suoi stessi personaggi costruisce un'articolatissima apologia sull’esperienza dell’immigrazione e sull’illusoria maschera di un'America che, dietro le sue ingannevoli promesse, nasconde un oscuro marciume.
Imperscrutabile e ambiguo, The Brutalist è un labirinto di trappole narrative che richiama alla mente le atmosfere, e le sublimi storture, de Il petroliere (2007) di Anderson. La scelta di girare con una pellicola 35mm formato VistaVision regala all’esperienza della visione una bellezza formale ipnotica.
Impressionanti sono le caratterizzazioni dei tre personaggi principali: il milionario capitalista (incarnato da un brillante Guy Pearce), l’architetto espatriato (un Adrian Brody in stato di grazia) e la sua enigmatica moglie (una Felicity Jones che troneggia su tutto il cast regalando un’interpretazione da manuale).
Scritto da Alberto de Carolis Villars
Baby Girl
di Halina Reijn
Halina Reijn ritorna dietro l’obbiettivo della macchina da presa con il suo secondo lavoro americano. Ancora una volta impegnata in un cinema carnale e vivo la regista olandese ci trasporta in un tortuoso viaggio nella sessualità umana. Dipingendo l’accurato ritratto di Romy (Nicole Kidman), CEO di una potente azienda newyorkese che intraprende una adulterina relazione erotica con lo stagista Samuel (Harris Dickinson), Reijn progetta nel dettaglio, e tesse abilmente, un intelligente discorso sulle dinamiche di potere.
Tramite la sua vena provocatorio-satirica Baby Girl è un film che rielabora intelligentemente il cinema post-moderno di impudici maestri come Adrian Lyne e Paul Verhoeven, riuscendo però a costruire un discorso a sè. Il suo costante andamento ondivago (che lo orienta tra, il dramma, la commedia e il thriller erotico) ne fa un prodotto unico, estremamente consapevole del suo non voler essere etichettato sotto una precisa categoria di genere.
La grande interpretazione di Nicole Kidman, che ancora una volta dimostra la sua costante volontà di trovare ruoli che la mettano alla prova, la incorona come una delle regine indiscusse della sua generazione. Giustamente premiata al Festival di Venezia 2024, Kidman è felina e dominante, ma allo stesso tempo fragile e inconsapevole. Una grande interpretazione per un film sorprendente.
Scritto da Alberto de Carolis Villars
Gloria!
di Margherita Vicario
Piedi a terra e mani in aria! Margherita Vicario esordisce alla regia con Gloria! ma stavolta non racconta la morte di un trap boy bensì una splendida favola sulla nascita del pop. Ambientato in un collegio femminile nella Venezia di fine ‘700, Gloria! narra la storia di Teresa, una giovane serva di grande talento, che, insieme a quattro orfane, giovani musiciste dell’istituto, supera i secoli e sfida i grandi maestri inventando una musica ribelle, moderna e leggera. Il film della giovane cantautrice romana è una lettera d’amore alla musica ed un omaggio a tutte le musiciste del passato che, come fiori secchi, sono rimaste nascoste tra le pagine dei libri della Storia. In un presente di opere prime troppo ambiziose e tutte estremamente simili tra loro, Gloria! rappresenta un cambio di rotta, un’utopia entusiastica, che riesce ad emozionare e divertire un pubblico ampio e che sacrifica l’ideologia del cinema impegnato in funzione di un cinema vivo, animato da un’energia creativa che non può essere rinchiusa in nessun limite di accuratezza storica.
La musica permea ogni aspetto della pellicola, la scrittura è un vero e proprio spartito musicale in cui regia, montaggio e recitazione seguono con cura il ritmo di un componimento. È la musica stessa che permette al lungometraggio di combinare insieme generi diversi e periodi storici molto lontani fra loro: così come si fondono insieme la musica classica e la musica pop allo stesso modo si uniscono il film in costume e la commedia, il tardo Settecento e il 2024. Margherita Vicario con la sua poliedricità ci regala un trionfo musicale, nuovo, coraggioso e imprescindibilmente suo. Gloria! è forse una delle più belle rivelazioni che il nostro cinema ha prodotto negli ultimi anni.
Scritto da Bianca Susi
Estranei
di Andrew Haigh
Dall’interno di un condominio, nel quale si materializzano i fantasmi della visione associati ad un passato di mancata accettazione familiare, lo spettatore può comprendere come Adam, il protagonista, sia in grado di tornare metafisicamente sui luoghi della propria infanzia con l’intento di riuscire, finalmente, a dialogare con i propri genitori. Il film di Andrew Haigh si sviluppa così su un doppio piano, quello metafisico e quello apparentemente realistico, di una storia d’amore che sembra prendere forma all’interno di un appartamento sospeso sul vuoto dei sensi di colpa. Quattro interpreti in totale e luoghi/non luoghi nei quali è possibile udire l'eco di un passato traumatico che ci racconta molto di chi siamo e di chi, al contempo, vorremmo essere. Haigh riesce nel compito di dipanare tale matassa emotiva componendola nelle giuste gradazioni, con precisione introspettiva e forza drammatica. Filma la solitudine con esatta sensibilità, un passo sospeso e friabile capace di planare sulle cose e le persone con grazia, quasi sottovoce.
Tutto sembra riflettersi coscienziosamente su specchi, vetrate e sui finestrini di quel treno che conduce Adam verso il proprio passato familiare. L’affetto strappato e lacerato nel brusco fragore di un incidente, nel dialogo e negli sguardi umidi. Adam si specchia nel co-protagonista Harry e viceversa, le loro anime in pena si compenetrano e l'atmosfera rarefatta si espande oltre i loro necessari silenzi. I vampiri che persistono fuori dalle porte del nostro cuore, magicamente decantati dai Frankie Goes to Hollywood, si rintanano appositamente per assalirci nella notte, quando le nostre difese sono più vulnerabili. Il tempo e lo spazio raramente sono stati così impermanenti e fluidi, eppure crudi e malfermi, nudi infine. E nonostante i recessi sopiti, ora e per sempre le anime si ritrovano infinitamente unite.
Scritto da Federico Mattioni
Piccole cose come questa
di Tim Mielants
A monopolizzare le attenzioni di questo cristallino e intenso dramma irlandese, tratto dall’omonimo romanzo di Claire Keegan, sono gli occhi impietriti e ipnotizzanti di Cillian Murphy, in una performance interpretativa superiore persino a quella del mastodontico Oppenheimer (2023). Non è complicato rimanere incollati al suo sguardo, conscio di quanto sia difficile accettare i crudeli trattamenti ai quali vengono sottoposte orfane e ragazze madri. Naturalmente, l’apporto del regista belga Tim Mielants, oltre che per la sua direzione, è da elogiare per la precisione con cui racconta lo stato in cui si trovavano le donne prigioniere all’interno delle case Magdalene (tema già trattato in un buon film diretto dal grande attore Peter Mullan), gestite da suore intransigenti e irremovibili nelle loro direttive, e fin troppo ligie al “dovere”.
Bill Furlong, il protagonista, è un umile, introverso, rispettoso carbonaio, padre di cinque figli che, memore dei suoi dolorosi trascorsi familiari, non può non porgere una mano ad una ragazza che scopre essere in pericolo durante uno dei suoi trasporti di carbone all’istituto. Si apre un dilemma su cui poggia l'intero baricentro drammaturgico di Piccole cose come queste: compiere un’opera di bene, profondamente umana, oppure battersi contro l’egemonia religiosa della comunità? Un conflitto che scalda le nevralgie del film, mostrate attraverso immagini che Mielants costruisce con il "maniacale" contributo del direttore della fotografia Frank van den Eeden, intensificando la visione in maniera dolente e crepuscolare. Completa il tutto Enda Walsh, la sceneggiatrice-adattatrice, che mette perfettamente a fuoco i tormenti morali dell'indimenticabile personaggio principale.
Scritto da Federico Mattioni
Memoir of a Snail
di Adam Elliot
Ahinoi, la vita è fatta anche di momenti molto tristi e cupi. Momenti che, a volte, rischiano di diventare periodi che ci segnano nel profondo, portandoci solamente alla chiusura in noi stessi. Per Grace, protagonista di Memoir of a Snail - la cui sfortunata infanzia viene segnata dalla morte di entrambi i genitori - dopo la separazione dal suo caro fratello e l’operazione al labbro superiore, non sembra esserci via di scampo.
Neanche la passione per i libri o per le lumache - capaci solo di muoversi in avanti - possono salvarla da una vita apparentemente destinata a essere vissuta tra le quattro mura di una camera sempre più stretta. Ma per Adam Elliot (che ritorna al lungometraggio a distanza di quindici anni da Mary and Max) può e deve esistere una speranza. Perché la vita è solamente una e merita di essere vissuta come fanno le piccole e lente compagne di viaggio della protagonista: andando continuamente avanti.
Il film, applauditissimo sin dalle prime proiezioni al Festival di Annecy, ha saputo stupire di nuovo per il singolare approccio del regista australiano alla materia della stop-motion: rigoroso, ancorato ad una concezione dell’animazione poco (o per nulla) influenzata dal ricorso alla tecnologia. In Memoir of a Snail quasi tutto tende al grigiore, a partire dal pallore dei volti dei personaggi. La palette scelta da Elliot e dal reparto di animazione premia, infatti, i colori spenti e scuri che, in accordo al ricorsivo utilizzo di elementi che “rinchiudono” Grace in una gabbia - come il guscio di lumaca che rimanda all’immagine di una spirale -, restituiscono un’idea precisa sulla sua condizione esistenziale.
Scritto da Luca Di Giulio
I Saw the Tv Glow
di Jane Schoenbrun
È vero che alcune storie sembrano più reali della realtà - ma questa è un’intuizione riservata a pochi eletti. Jane Schoenbrun attinge da un paradigma comune, la passione dei millennials per la serialità televisiva degli anni ‘90, e immagina un’epica dove la monotonia del reale diventa la maledizione da cui le protagoniste del tuo show preferito devono liberarsi. L’incantesimo va spezzato, pena l’esclusione dal futuro, la frustrazione dei propri sogni, la condanna alla realtà. Tra noi cinefili c’è chi, da giovane, la propria storia la scriveva vivendola, e chi invece la viveva sognando qualcosa al di là della vita stessa.
Tutti amano il cinema, ma solo per pochi lo schermo è oracolo che rivela molto più di quanto non facciano le parole. Schoenbrun narra l’ossessione per il formato televisivo come un’avventura dalle declinazioni fantastiche, una parabola i cui esiti incidono davvero sul presente. Metafora del mondo queer, allegoria dell’identità trans: su I Saw the Tv Glow si sono espressi molti, e tutti amano etichettare. Ma io ho visto la tv brillare sul serio, ci potete giurare. La seconda opera della regista newyorkese sfugge da classificazioni e rifiuta le descrizioni: è horror e anche dramma; è un thriller e al contempo una commedia nera. È il sogno di un immaginario perduto, incubo di una solitudine forzata, riscatto di una realtà che nessuno guarda.
Condensando la malinconia dello schermo, I Saw the Tv Glow racconta il lutto per ciò che abbiamo prima amato e poi perso. È una storia che trasforma il dolore in un mondo da cui fuggono tutti coloro che, come noi cinefili, soffrono del grigiore organico e sognano lo scintillio dei cristalli liquidi. Anche il maestro Scorsese l’ha lodato, e allora pure tutti i piccoli, grandi Lebowski che amano le storie di uomini, del loro onore e delle loro armi, dovrebbero prendersi un attimo (o una vita intera) per lasciarsi stregare da questa nuova, luminosa fiaba contemporanea.
Scritto da Pavel Belli Micati
La stanza accanto
di Pedro Almodóvar
Il primo film in lingua inglese di Pedro Almodóvar, reduce dalla vittoria del prestigioso Leone D’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia, porta due grandi nomi della recitazione, come Tilda Swinton e Julianne Moore, a confrontarsi con l’altra faccia del desiderio, ovvero la morte. Il film è un melò che raccoglie suggestioni artistiche a 360°, confrontandosi con giganti dell'immagine - come Edward Hopper, di cui Almodóvar omaggia il dipinto People In The Sun, Andrew Wyeth, con la sequenza dell’incendio che inevitabilmente riporta con la mente a Christina’s World - e della letteratura - come Virginia Woolf e James Joyce, citato indirettamente attraverso le immagini di The Dead (1988) di John Huston.
L'ultima opera del grande autore iberico pone al suo epicentro, oltre agli amori perduti e riacquistati, una lezione di vita che va al di là della Settima Arte, investendo un dilemma morale che coinvolge in prima persona tutti gli spettatori e ponendo l’accento su due donne (poli opposti della narrazione) caratterizzate attraverso un uso di abiti di scena dai colori complementari tali da sottolinearne le visioni opposte e, al tempo stesso, dividersi tra chi resta e chi se ne va. Tramite le sue protagoniste Almodóvar sfrutta l’occasione per mostrare, da un lato una presa di posizione ferrea, molto forte rispetto al modo in cui eutanasia e religione manifestano punti di vista inconciliabili tra loro, e dall'altro un punto di vista che non perde occasione di assumere un pensiero conservatore, mettendo in vista tutte le contraddizioni e le ottusità che animano la Chiesa cattolica nei confronti della libera scelta di porre fine alla propria sofferenza.
Ma La stanza accanto è soprattutto una lezione su come narrare il cinema parlando di oggi, ieri e domani, espressa mediante omaggi del tutto rispettosi ai “maestri” del regista - da All That Heaven Allows (1955) di Douglas Sirk fino ai riferimenti estetici a Ingmar Bergman e Hitchcock - che suonano come un monito: tramite l’arte tutto può essere reso più lieve e accettabile, anche la morte.
Scritto da Antonio Orrico
L’Impero
di Bruno Dumont
Con L’Impero Bruno Dumont rafforza il percorso ironico che il suo cinema sta intraprendendo da un decennio a questa parte, svolta materializzatasi a partire dalla serie-fiume P’tit Quinquin (2015). Il film utilizza metaforicamente l’interpolazione tra corpi apparentemente estranei (come accade ad Anamaria Vartolomei e Brandon Vlieghe, alle prese con scene sessuali singolari) per connettere le due nature (quella poetica e quella slapstick/demenziale) che animano la poetica del regista francese, un aggancio tra la sensorialità del suo realismo “pasoliniano” visto in L’Humanitè (1999) e la satira dei suoi progetti più recenti, come Ma Loute (2016) e France (2021).
L’irrisione della farsa che ha animato l’ultimo Dumont contrasta quindi con la durezza della provincia francese, e il risultato è un nuovo modo per confrontarsi con l’attualità cinematografica, scomodando in modo irriverente non solo Star Wars (1977), ma proponendo a tutti gli effetti una propria versione, del tutto riconoscibile, autoriale e riconducibile ad una cifra stilistica, della poetica dei multiversi che, negli ultimi anni, sta occupando in modo sempre più prorompente il cinema.
L’Empire è dunque un nuovo modo, da parte di un “alieno” come Dumont, di rapportarsi all’attualità cinematografica.
Scritto da Antonio Orrico
Caught By The Tides
di Jia Zhang-ke
Il cinema di Jia Zhang-ke, regista cardine della Sesta Generazione cinese, è da sempre uno specchio diretto dei cambiamenti che il Paese asiatico attraversa con il passare del tempo.
Nel suo ultimo film, Caught By The Tides, presentato nell’ultima edizione del Festival di Cannes, il regista cinese ripropone un best of della sua poetica mediante un formato sperimentale che connette Settima Arte e Storia, reinventando e rimontando le immagini dei suoi stessi film - da Unknown Pleasures (2002) a Platform (2000) passando per Still Life (2006) - in maniera tale da tramandare allo spettatore una lezione universale che si propaga attraverso la quarta dimensione.
Tramite essa, Jia Zhang-ke ripensa il proprio cinema e lo proietta verso il futuro tramite il personaggio di Zhao Tao, musa, ideale collante tra passato e futuro e costante “joyciana” di una narrazione che, partendo dal cinema già vissuto e ideato, spinge - attraverso uno straordinario collage - il popolo cinese verso un cinema che sarà, come mostra il finale connesso inevitabilmente a Still Life.
Il suo film più teorico e intellettuale, nonché un’opera-fiume che immortala la Cina in una crescita esponenziale e apparentemente senza freni.
Scritto da Antonio Orrico
Cloud
di Kiyoshi Kurosawa
In questo 2024, il regista giapponese Kiyoshi Kurosawa è ritornato al Lido di Venezia con uno dei suoi nuovi (tre) film: Cloud, un aggiornamento delle ossessioni tipiche del cinema del regista giapponese filtrate, in questo caso, attraverso il thriller/action. Kurosawa si rifà direttamente a prodotti come Creepy (2016) e Serpent’s Path (1998), ma ribaltandone radicalmente le logiche narrative, adoperando la metafora del capitalismo per indagare sul fallace benessere che la digitalizzazione può garantire.
Benessere che, seguendo la poetica del cineasta, diventa ossessione per le immagini, per gli schermi e che, man mano, si sviluppa come un virus in grado di infettare tutti coloro che gravitano attorno alla sua orbita. Un feticcio simulacrale dagli effetti devastanti, che porta il protagonista (Masaki Suda) al degrado psicologico dettato da un utilizzo sbagliato e ossessivo di Internet, del virtuale e di ciò che concerne gli schermi.
Scritto da Antonio Orrico
Il robot selvaggio
di Chris Sanders
Può la gentilezza essere uno strumento utile per sopravvivere in un mondo pieno di avversità? A questa domanda prova a rispondere l’ultimo film scritto e diretto da Chris Sanders, Il robot selvaggio: una favola contemporanea che attraverso il linguaggio della metafora animata compie una ricerca ontologica sulla natura dell’uomo.
Chiunque si confronti con quest’opera non può non sentirsi travolto emotivamente, in quanto, nonostante un’estetica rivolta principalmente ad un pubblico giovane, i temi trattati attraverso i rapporti fra personaggi sono indirizzati tanto ai bambini quanto agli adulti.
Con un stile grafico che si ispira alle pitture impressioniste, l’avventura del robot Roz e dell’anatroccolo Beccolustro mette in scena un rapporto genitore-figlio che ricorda La gabbianella e il gatto di Enzo D’Alò, al quale si aggiunge l’elemento ambientale: la natura diventa un vero e proprio personaggio e come i protagonisti imparano reciprocamente l’uno dall’altro, lo stesso accade fra loro e l’ambiente che li circonda.
Esempio egregio di racconto di formazione, Il robot selvaggio ricorda agli spettatori che anche nelle situazioni più avverse una buona azione può essere la soluzione.
Scritto da Francesco Sellitti
La Cocina
di Alonso Ruizpalacios
Con La Cocina Alonzo Ruizpalacios compie un piccolo miracolo narrativo, fondendo lo spazio e il tempo in un affollato ristorante di New York, il The Grill. La pellicola è un’opera di natura corale che acquista forza e carattere tramite i rapporti interpersonali tra i personaggi. I dipendenti del ristorante sono per lo più immigrati privi del permesso di soggiorno: latinoamericani, magrebini, orientali e asiatici, un misto di persone e culture unite dal desiderio di emergere, una disperata clandestinità collocata nel cuore dell’America.
L’autore realizza un microcosmo composto da turni di lavoro insostenibili e ritmi usuranti, smacco al sistema capitalistico pronto sacrificare le classi meno abbienti disumanizzando la persona, trasformandola nell'ingranaggio di una macchina impossibile da arrestare. La semantica del sogno americano assume un aspetto grottesco ed effimero, un’illusione tragicamente concreta a sfavore di tutti gli elementi "sostituibili” di una società irrimediabilmente deviata. I legami inscenati posseggono dolcezza e malinconica consapevolezza, rappresentando l’incessante guerra del tentare di ritagliarsi la propria porzione di genuina felicità.
La Cocina è un’opera politica necessaria nel panorama cinematografico contemporaneo, determinata presa di posizione al fianco dagli ultimi che, seppur dimenticati e volutamente emarginati, rappresentano un tassello chiave per la società.
Scritto da Luca Romani
Furiosa
di George Miller
La genialità artistica di George Miller non ha certo bisogno di presentazioni, dovizia tecnica e narrazione ritmata ne hanno fatto uno dei più grandi registi di action adventure della Storia del Cinema, Furiosa: a Mad Max Saga ne è l’ennesima conferma. Prequel del cult Mad Max: Fury Road (2015), l’ultima pellicola di Miller ci regala un approfondimento a tutto tondo sul personaggio di Furiosa, mostrando allo spettatore diversi luoghi solamente citati nel film precedente. Un viaggio crudele e sgraziato nella tormentata vita della protagonista (interpretata convincentemente da Anya Taylor Joy) ci guiderà nuovamente in una macabra danza sulla Fury Road.
Villain nuovi e iconici entrano in simbiosi ricostruendo scenari che arricchiscono la lore del Franchise, ritrovare Immortan Joe (Lachy Hulm) non può che provocare un sussulto a tutti i fan storici, e lo stesso discorso vale per il Mangia uomini (John Howard). Furiosa: a Mad Max Saga raffigura l’ultima fatica di un autore di altri tempi, un’odissea che ricerca disperatamente pace e speranza in un mondo ormai edificato su odio e violenza, un classico per le generazioni future.
Scritto da Luca Romani
Bestiari, erbari, lapidari
di Martina Parenti e Massimo D'Anolfi
Di fronte all’enciclopedica opera di Massimo D’Anolfi e Laura Parenti, dall’imponente durata di 205 minuti, è impossibile non rimanere turbati. Tre sono le parti di cui si compone (cioè quelle del titolo), così come sono tre gli elementi del cosmo che i due registi, di conseguenza, vogliono indagare in rapporto alle vicissitudini umane: ovvero gli animali, le piante e le pietre.
Allo stesso modo, ancora tre sono i metodi di indagine archivistica che compongono le sezioni film: nella prima parte, ad essere esplorato, è un archivio cinematografico di rappresentazioni animali, che diventa una riflessione sui continui tentativi umani di dominio tramite l’immagine; nella seconda parte è in scena l’archivio vegetale dell’orto botanico di Padova (costruito in memoria di Bruno Ugolini, soldato italiano della prima guerra mondiale), una commovente messa a fuoco sulla cura delle piante e sulla loro incredibile natura; la terza parte, invece, mostra l’archivio delle pietre di inciampo contenuto nel tessuto urbano, elemento di costruzione di una memoria collettiva.
Lo studio millimetrico e disteso dei due, ormai affermatissimi, registi giunge qui a una forma perfettamente limata, in cui la riflessione sull’uomo e la temporalità arriva a toccare esiti di rara bellezza. In una struttura a climax è l'essere umano che esce sconfitto e rimesso ai margini del cosmo, dalla linearità animale, passando per la circolarità botanica fino all’immortalità delle pietre.
Scritto da Matteo Burburan
Bird
di Andrea Arnold
Se parliamo di coming of age, Bird è probabilmente uno dei più bei lavori legati a questo genere usciti negli ultimi anni. C’è chi ha detto che è un Truffaut-Fantasy o un racconto di Julio Cortázar. Di sicuro, pare che Andrea Arnold conosca Misericordia (2023), perché il suo protagonista, interpretato da Franz Rogowski, assomiglia sorprendentemente al Simone Zambelli del film di Emma Dante. La trasfigurazione, infatti, è il tema portante di un'opera che gioca tra le finzioni di cui raccontava Jorge Luis Borges, tra l’incanto e il disincanto.
Se Bird è una fiaba, l’elemento magico è la terra dell’abbastanza direbbero i Fratelli d’Innocenzo. La periferia, dunque, da non-luogo, culla della mitomania, diventa l’alveo della redenzione, in cui l’assenza di possibilità e di riscatto dalla propria condizione sociale rappresentano l’innesco di un’immaginazione bulimica, lacerante. Per citare un noto film italiano: nessuno si salva da solo.
Nei piccoli cortometraggi che Bailey registra con lo smartphone, Arnold ha canalizzato il sentimento di una generazione che cerca disperatamente un senso di appartenenza. Per credere all’augurio finale - andrà tutto bene - che Bird rivolge all’altra protagonista, è necessario escludere dalla finzione la menzogna, se per menzogna intendiamo che la realtà sia solo la realtà (scriveva Giuseppe Berto). Di conseguenza, forse, andrà tutto bene.
Scritto da Davide Spinelli
Il seme del fico sacro
di Mohammad Rasoulof
Sappiamo tutti che Raskòl'nikov, protagonista del romanzo Delitto e Castigo, dopo aver ammazzato l’usuraia e sua sorella, non sa come scappare dall’appartamento in cui ha appena commesso l’omicidio. The Seed of the Sacred Fig racconta cosa vuol dire non poter scappare da quell’appartamento (a differenza di Raskòl'nikov), che nel caso del film di Mohammad Rasoulof è l’Iran.
Se con il film precedente, Il male non esiste (2020), Rasoulof impostava un discorso teoretico sul metodo, The Seed of the Sacred Fig rappresenta il controcampo della ragion pratica, tra la legge morale e il diritto positivo: la storia, infatti, fotografa le violenze scaturite dalle grandi proteste di piazza che hanno fatto eco alla morte di Mahsa Amini, studentessa ammazzata dalla polizia iraniana nel 2022.
Il regista, forse, non replica l’intensità del film precedente, a tratti travolgente, ineluttabile nella sua ferocia; tuttavia, ancora una volta, alla sua decima pellicola, prosegue con grande compostezza formale la sua poetica fatti di simbolismi, meta-narrazione e, appunto, interrogativi morali alla Tolstoj: dove c’è giudizio, non c’è giustizia è scritto in Guerra e pace.
Scritto da Davide Spinelli
Emilia Pérez
di Jacques Audiard
Emilia Pérez di Jacques Audiard è una grande e sgargiante epica contemporanea: sopra le righe, melodrammatico, musicale. La storia del percorso di transizione di genere del temuto narcotrafficante Manitas Del Montes è raccontata attraverso un pastiche di generi, toni, stili, racconti che si contengono in un gioco di scatole cinesi. Ogni personaggio racconta sé stesso e qualcos’altro, qualcun’altro: un grande mosaico fatto di stralci di esistenza che si contaminano, di voci che riverberano, di passioni che collidono ed esplodono.
Le performance delle quattro attrici protagoniste, tutte vincitrici del Prix d'interprétation féminine al Festival di Cannes 2024, sono complesse, dinamiche: Karla Sofia Guascon, Zoe Saldana, Adriana Paz e Selena Gomez con le loro voci, i loro corpi e la loro gestualità non si tirano indietro, non giocano per sottrazione: danno tutto quello che hanno, infondono vita e dramma nei loro personaggi, infuocano la scena. Perché Emilia Pérez è un grande palcoscenico e non lo nasconde, al contrario valorizza la sua natura di spettacolo e si prende tutto lo spazio del grande schermo sfruttando ogni mezzo che il cinema può offrire. E nello sfruttare la sua natura fittizia ci offre il quadro più ambizioso e autentico di un’umanità che travalica le norme, i ruoli, il linguaggio e si racconta attraverso il dolore, l’amore, la crudeltà e il cambiamento. Un film unico, che sgretola le narrazioni e tutte le loro zavorre simboliche.
Scritto da Sofia Racco
Parthenope
di Paolo Sorrentino
Con Parthenope Paolo Sorrentino insegue la chimera della giovinezza che non ha mai vissuto. È lo stesso regista che riassume in questo modo gli intenti alla base del suo ultimo film, mettendolo in relazione con il suo lavoro più autobiografico: È stata la mano di Dio (2021). Giovinezze reali e immaginate che si consumano tra le strade di Napoli, madre e tiranna che intesse e disfa i fili del destino, il dolore sordo e furioso del lutto che si insinua nella spensieratezza e impregna lo scorrere del tempo: questi sono gli elementi che legano le ultime due opere di Sorrentino.
Parthenope, interpretata da Celeste Dalla Porta è barocca, magniloquente ed evasiva, onnipresente e sfuggente, imperiosa quanto inconsistente. È sfrontata, usa le parole come maschera e come scudo: frasi fatte come incantesimi che, nella loro finzione, rivelano qualcosa di essenziale, elementare, viscerale.
Seguendo Parthenope nel corso della sua vita assistiamo all’avvilupparsi di un grande mistero e il suo riflesso. Sospesi in una Napoli dove innocenza e perdizione si mescolano, non possiamo fare a meno di chiederci: è un mistero o una truffa?
Scritto da Sofia Racco
Broken Rage
di Takeshi Kitano
“Il regista ha un volto di pietra e una voce profonda che, aggiunti alla durezza del suo accento giapponese, davano alle risposte un tono dogmatico e asciutto. Una volta tradotte, però, si rivelavano ironiche o autocritiche. Kitano in realtà è incapace di dire qualunque cosa senza trasformarla in una specie di battuta, ma lo fa con una faccia da baro a poker che non hai il coraggio di ridere, hai la sensazione che se non annuisci con rispetto potrebbe ucciderti”. Così Laurent Tirard descrive Takeshi Kitano dopo averlo incontrato a Cannes nel 1999. Una breve descrizione che riesce a riassumere l’affascinante poetica dualistica del cineasta.
Quest'anno è stato presentato fuori concorso a Venezia 81 Broken Rage, il suo ultimo film, diviso in due atti, che, appunto, come fosse una summa della sua opera, racconta la commedia slapstick e il serioso mondo gangsteristico. Nezumi (faccia di pietra-Takeshi Kitano) è un sicario che si muove nei bassifondi della malavita, e si ritrova a collaborare con la polizia per incastrare un boss della yakuza. Poi il film si interrompe. La seconda parte riprende lo stesso schema, la stessa storia, ma assume toni parodistici e dissacranti che distruggono - ancora una volta ma qui con modi inesplorati dal cineasta - ogni regola narrativa imposta dal gangster movie (canoni che Kitano stesso ha contribuito a creare).
Sono due identità (e possibilità, o due punti di vista) che convivono in un unico racconto, intramezzato da alcuni commenti che esprimono un parere sulla sezione passata. L'opera, che dura appena un’ora, è costruita su una consapevole semplicità, funzionale a creare due (anche se forse si tratta di una singola) icone, due simboli autoriflessivi che analizzano un’intera filmografia. Finché non si arriva alla fine con un terzo, inaspettato, e brevissimo episodio. Noi continuiamo a ridere, ma sempre con la sensazione che Takeshi Kitano potrebbe ucciderci.
Scritto da Edoardo Marchetti
Dune parte II
di Denis Villeneuve
Il cinema è arte o intrattenimento? Questione di soldi al botteghino o di dibattiti al cineforum? Per alcuni film è vera una risposta, e per alcuni film l'altra. Ma è anche vero che soltanto pochi titoli, nel corso della storia del cinema, sono riusciti a sposare perfettamente la dimensione commerciale con quella artistica inserendosi così nella categoria "grandi successi per grandi film". Quest'anno, però, si può aggiungere un nuovo titolo alla lista: Dune - parte II.
Denis Villeneuve non è solo riuscito a scalare le classifiche del botteghino, a completare un progetto considerato infilmabile ed a sfornare un sequel migliore del suo precedessore, ma anche a dar vita ad un mondo. Un mondo fatto dalla bellissima musica di Hans Zimmer (che compone alcune delle migliori tracce della sua discografia), dall'artistica fotografia di Greig Fraiser (e dall'incredibile sequenza in bianco e nero girata con obiettivi a infrarossi) o dalle imponenti scenografie di Patrice Vermette.
Ma un film non è fatto solo di affascinanti immagini, e Villeneuve lo sa bene: la storia di Dune - parte II coinvolge tanto quanto la sua estetica, riuscendo a stupire senza rinunciare a interrogare, non abbandonandosi alla mera spettacolarizzazione ma anzi mettendola al servizio della narrazione. Così il regista canadese racconta l’intimità di una storia d’amore attraverso la lente di un’epica sci-fi, intrecciando dilemmi morali a coreografie impeccabili e sequenze d’azione memorabili.
Scritto da Eduardo Bigazzi
Dahomey
di Mati Diop
Orso d’oro all’ultima Berlinale, il documentario di Mati Diop testimonia la memorabile restituzione da parte del governo francese di ventisei tesori reali del Dahomey, regione dell’attuale Benin. Il viaggio di queste opere, trafugate insieme ad altre migliaia durante l’invasione coloniale francese di fine Ottocento, è lo spunto per una peregrinazione nella memoria alla ricerca di un’identità condivisa e non più sradicata.
Tramite le voci di giovani studenti africani e quella magica, proveniente dal sottosuolo della storia, di una delle statue sottratte, Dahomey affronta temi cruciali come la giustizia e il risarcimento, riflettendo con folgorante lucidità su quanto ancora oggi una visione colonialista e gerarchica informi il modo occidentale di pensare la differenza culturale, allestire mostre, guardare con occhi predatori ciò che è lontano e straniero.
Il film-dibattito di Diop allarga le conoscenze dello spettatore senza volerlo istruire. Per chi ha bisogno di nuove coordinate e di ripulire il suo sguardo, orientandosi tra privilegio e sopraffazione, orgoglio e potere.
Scritto da Andrea Tiradritti
Il ragazzo e l'airone
di Hayao Miyazaki
Giunto in una casa di campagna insieme al padre, mentre Tokyo è sotto le bombe, il giovane Mahito scopre una vecchia torre abbandonata. Un misterioso airone antropomorfo lo convincerà a entrarci con la promessa di rivedere la madre, scomparsa durante un attacco aereo. Ed è già qui, all’inizio del viaggio, che Miyazaki svela le sue carte. Per accedere alla torre bisogna passare per una galleria sotterranea, e all’ingresso, appena visibile nella penombra, c’è una scritta: “Fecemi la divina potestate”.
Il viaggio di Mahito paragonato a quello di Dante, quindi, che nel terzo canto della Commedia aveva letto le stesse parole sulla porta dell’Inferno, parole che attestavano la natura divina di quella soglia. E questo è solo il primo e il più esplicito dei rimandi danteschi nel film: la guida di Virgilio diventa quella dello spirito-airone, la ricerca della madre sostituisce quella di Beatrice, il susseguirsi dei tremendi gironi infernali si declina qui in una serie di immagini visionarie e spaventose, come l’attacco dei pellicani contro i wara-wara, gli spiritelli dei non-nati.
Ma ciò che accomuna più di ogni cosa le due opere è la perfezione formale raggiunta dai loro autori: lì il verso, portato al suo apice, qui l’immagine animata, rifinita per settimane alla ricerca di una particolare espressione su un volto, di un dettaglio su uno sfondo, di un movimento impercettibile in un fotogramma chiave. Il ragazzo e l’airone, uscito dopo quasi dieci anni di lavoro dalle officine dello Studio Ghibli, è forse l’ultimo lascito di Hayao Miyazaki al mondo.
Scritto da Luigi Muneratto
Kinds of Kindness
di Yorgos Lanthimos
Chissà se Yorgos Lanthimos, in questa scia di grande produttività e di prolifica creazione (due film agli Oscar, uno a Cannes e due cortometraggi in meno di sei anni) non abbia fatto un po’ di confusione e, in preda alla smania creativa, abbia scelto erroneamente i titoli delle sue ultime opere. Sì, perché a sembrare delle vere Povere Creature! (2023) sono in realtà gli esseri umani che abitano l’ultimo film del regista greco, dal titolo (dunque sbagliato) di Kinds of Kindness.
Un’opera antologica, tre storie accomunate dalle interpretazioni della medesima rosa attoriale (in prima linea Plemons - Stone - Dafoe - Qualley) impegnata in un gioco delle parti dove ci si diverte a cambiarsi reciprocamente di posto. Se c'è una cosa che infatti Lanthimos ha saputo tenere salda nel corso della sua filmografia è la costruzione di giochi dove calare i suoi personaggi, che si fanno prima di tutto carne e poi pensiero, e dove i dettami vengono decisi da lui. Sono direttive ferree, date per assunte.
E anche se tutto sembra un grande punto interrogativo non c'è mai un perché, sono le regole. E le regole non si discutono, si rispettano. E se non c'è un perché, Lanthimos ci lascia quantomeno divertirci con il "come”. Dopotutto, la forza di Kinds of Kindness sta proprio nella sua natura dichiaratamente ludica. Un girotondo impazzito dove i personaggi tornano ad essere prima di tutto corpi, goffi e incapaci di capire le regole a cui sono soggetti da sempre. Un po' come noi povere creature.
Scritto da Lorenzo Vitrone
A Different Man
di Aaron Schimberg
A Different Man è un’esplorazione audace e inquietante di ciò che significa essere sé stessi. Attraverso un intreccio che unisce thriller psicologico, dramma esistenziale e umorismo nero, Aaron Schimberg pone domande profonde: siamo ciò che gli altri vedono, o ciò che noi ci raccontiamo? La chirurgia che trasforma Ethan, interpretato da Sebastian Stan, diventa una potente metafora sul desiderio umano di sfuggire a sé stessi, ma il film non concede facili risposte. Le luci fredde amplificano il senso di disagio, garantendo un’esperienza che risuona anche dopo la visione.
La promessa è quella di un nuovo inizio per Ethan, e in un certo senso lo sarà davvero. La sua faccia, la sua pelle, sono una maschera fresca, però ciò che contiene resta identico. In A Different Man questo tema è centrale: cambiando il suo volto Ethan cerca di abbandonare l’alienazione del suo passato, ma scopre che la sua nuova identità è solo un altro modo per affrontare il peso di ciò che era.
L'opera di Schimberg non presenta un protagonista eroico: Ethan è tormentato, contraddittorio, eppure impossibile da ignorare. Attorno a lui gravita una storia che scava nel bisogno di accettazione che permea la società, costringendo a guardare oltre la superficie e a riflettere su quanto si è disposti a sacrificare per sentirsi accolti.
Scritto da Lorenzo Messina
C’est pas moi
di Leos Carax
Nel 1997 il Festival di Cannes, nell’anno del suo cinquantesimo anniversario, commissionò a Leos Carax un cortometraggio pensato come una cartolina da dedicare alla Croisette. Il regista francese consegnò Sans Titre, opera sperimentale e di rimontaggio in cui viene filtrato anche un pezzo della sua vita. Nel 2024 il Centre Pompidou gli chiede, per una mostra mai svolta, di rispondere per immagini alla domanda “Dove sei, Leos Carax?”. Lui risponde così: C’est pas moi.
Per analizzare questo suo ultimo lavoro bisognerebbe forse partire dalla fine, quando Carax stesso ci dice che gli esseri umani sbattono le palpebre 15-20 volte al minuto. 1200 volte all’ora. 28000 volte al giorno. Devono farlo, perché gli occhi si seccano e rischiamo di diventare ciechi. Per vedere dobbiamo non vedere un po’. Ma le immagini, oggi, vivono di un flusso ininterrotto, un bombardamento continuo che ci impedisce di osservare. Per un avanguardista come Carax la forma breve (o media, come in questo caso) è sempre stata un veicolo di sperimentazione.
In C’est pas moi il regista ripercorre la sua carriera attraverso tutte le sue immagini: ripercorre la sua vita attraverso il cinema e ripercorre il cinema attraverso la storia. Ne risulta un videosaggio che riflette sull(e)’immagine/i attraverso l(e)’immagine/i, con modalità affini al contemporaneo - il riutilizzo di materiali (anche, e forse soprattutto, di altri), l’ibridazione dei contenuti, la risignificazione dei testi - ma con uno spirito tenacemente novecentesco (come Carax stesso rivendica). Una sorta di Histoire(s) du cinéma (1988-1998) o di Adieu au langage (2014) di godardiana memoria.
Dov’è quindi Leos Carax? Nell’arte, nel cinema, nella vita (?), che in fondo sono un po’ la stessa cosa. Bisogna solo prendersi il tempo di non vedere, per cercare di sentire.
Scritto da Mario Vannoni
Longlegs
di Oz Perkins
Negli Stati Uniti è stato l’evento cinematografico dell’estate. Con un budget stimato sotto i 10 milioni ne ha guadagnati circa 127 in tutto il mondo, grazie soprattutto a una campagna di marketing virale e intelligente, capace di stimolare la curiosità (e il terrore) negli spettatori. Qui in Italia Longlegs è stato presentato come “il nuovo silenzio degli innocenti”. Sicuramente i due film presentano alcune affinità: una su tutte la presenza di un serial killer dal modus operandi decifrabile come un codice che viene cacciato da una giovane agente dell’FBI. Ma a ben vedere le somiglianze finiscono qui.
Infatti, Longlegs stupisce per la svolta sovrannaturale a cui la trama va incontro, da molti osteggiata ma che, al contrario, costituisce il vero punto nodale di tutta la costruzione che il regista Oz Perkins decide di mettere in piedi, qui come nel resto del suo cinema, da sempre ancorato a una riflessione sul Male, in apparenza indagato nei suoi tratti sociologici ma che infine diviene imprendibile rivelandosi oltremondano - pensiamo in particolare a The Blackcoat's Daughter (2015).
In ultima analisi, Lee Harker (Maika Monroe), la protagonista del film, somiglia nettamente di più al Dale Cooper delle prime due stagioni di Twin Peaks (1990-1991), che non alla Clarice Sterling de Il silenzio degli innocenti: con lui condivide abilità che vanno oltre il razionale e sconfinano nel magico, nella preveggenza, nella predestinazione. È questo il contrasto interno che fa di Longlegs un grande lungometraggio. A fronteggiare una costruzione filmica che fa dell’eleganza della messa in scena - a tratti maniacale e posh - e della precisione espressiva i suoi cardini stilistici, interviene l’inafferrabilità del reale e l’impossibilità di ridurlo a schema. Questo spaesamento, questa perturbazione delle aspettative è il vero orrore di Longlegs. La ragione e l’assurdo. L’ordine e l’insensato. L’intelletto e il pensiero magico.
Scritto da Mario Vannoni
La nostra selezione dei migliori film
usciti quest'anno,
scritto da redazione ODG
TR-118
24.12.2024
Il 2024 è stato un anno dominato da eterni ritorni, nostalgia, reboot, cross-over, remake e idee non originali, ma anche da opere che, nell’epoca dell'abbondanza e della disillusione - in cui "era già tutto previsto", in cui l'artificio del narrare è definitivamente svelato -
riflettono su nuovi modi, nuove possibilità del racconto, del cinema stesso. Un cinema che, per interrogare l'essere dell'individuo nel mondo, non può ignorare il modo che questo ha di guardarlo e narrarlo.
Un anno che può essere racchiuso attraverso due opere: da una parte l'avvenirismo esondante del Francis Ford Coppola di Megalopolis, dall'altra l'esistenzialismo ossuto e rarefatto de La stanza accanto di Pedro Almodóvar. Due festival, due decani, due opere imperfette, divisive ma vivacissime nel defibrillare il dibattito critico e nell'orizzontare un cinema diverso, non ovvio, emancipato dagli standard dei fiumi di titoli, sempre di più, sempre meno diversificati.
Da Bestiari, erbari e lapidari di D'Anolfi e Parenti a L'Impero di Dumont, da Baby invasion di Korine a Tardes de soledad di Serra, da Civil war di Garland a Il ragazzo e l'airone di Miyazaki, da Anora di Baker a Challengers di Guadagnino, tracciamo un itinerario del miglior cinema della stagione, un cinema emozionato e teorico, profondo e liberatorio. Ecco la nostra selezione dei migliori film di quest'anno, presentati ai festival, in streaming o usciti nelle sale italiane a partire dallo scorso gennaio. Buon viaggio.
Challengers
di Luca Guadagnino
Challengers, schematico e languido come il più archetipico dei triangoli - da Godard a Truffaut, da Losey ad Araki, da Bertolucci a Ira Sachs - rende l'amore un campo da gioco, sfida infantile per la scoperta del sé e dell'Altro. In Guadagnino, l'indagine identitaria marcia sempre al ritmo di una passione e sbatte sempre contro i bordi di percorsi predefiniti da profanare: in We are who we are (2020) erano quelli di una caserma militare veneta, qui sono le linee invalicabili del campo da tennis: non luogo, tempio della performance, recinto ideale, televisivo e simmetrico in cui il rapporto tra corpi diventa agonismo, competizione, dispositivo sportivo e mediatico.
Nella prossemica tra campo e fuoricampo (da tennis e cinematografico), le traiettorie tra Art, Patrick e Trisha creano un prisma dei rapporti di potere insiti al desiderio, in cui lo sguardo è tele-controllo, la rete una regia tra le persone, la pallina un modo per dire all'altro dove guardare.
Tra piani d'ascolto, soggettive impazzite e plongeè, il corpo visto e voyeur oscilla tra essere amante e sfidante, oggetto coreografato nel gioco prospettico del desiderio, in una sintesi perfetta tra match ed erotismo, agonismo e seduzione, meló e action movie, tra film d’autore e film d'intrattenimento su commissione - la sceneggiatura è dello stesso Justin Kuritzkes di Queer (2024). Alla fine, sono proprio le regole del gioco (e del cinema) a riscattare i corpi dal loro ruolo impostore di avversario, da un destino che li vede saper danzare, giocare, massaggiarsi solamente da soli. “Stiamo ancora parlando di tennis?”.
Scritto da Matteo Bonfiglioli
Queer
di Luca Guadagnino
A meno di sei mesi dal successo di Challengers, a settembre Luca Guadagnino è ritornato al Festival di Venezia per presentare Queer, adattamento dell’omonimo romanzo di William S. Burroughs. Con protagonisti Daniel Craig (nella sua migliore interpretazione) e Drew Starkey, il film si ambienta nella Città del Messico del 1950, teatro dell'ambivalente relazione tra Lee e Allerton. Una delle produzioni più riuscite del regista, ne confluiscono l’interesse verso le complessità relazionali umane, come avveniva in Call me by your name (2017), e la propensione verso il grottesco, ereditato da Suspiria (2018), in un equilibrio maggiormente consapevole rispetto al precedente Bones and All (2022)
A dare forma al film, è l’azzardo nell’adattare una riflessione complessa come quella postulata dal soggetto di Burroughs; si intende, amore come massima forma di connessione e, allo stesso tempo, di dispetto. Nella normalità, difatti, si presuppongono il desiderio come anticamera del sentimento, l’intimità come un’estensione naturale dell’amarsi, la sintonia fisica acclusa alla sintonia spirituale. L’amore, qualora sia sincero, è una provvidenza da ricambiare, ed è ingrato, chi, rifiutandolo, non ne glorifica la virtù. Burroughs, invece, qualifica l’amore come una giustificazione della tendenza umana verso la dipendenza. Nasce, egoisticamente, dal desiderio di possedere qualcosa privandolo della propria autonomia; ricambiarlo o meno dipende dalla sussistenza di un sistema di bisogni che possa essere reciprocamente soddisfatto, in una transazione che ha come valuta l’intimità. L’amore "effettivo" tra due individui è, per l’autore, qualcosa di più grezzo, confluente nel non-naturale e non necessariamente appagante.
Queer, ad oggi la pellicola forse più personale di Guadagnino, adatta in maniera impeccabile il suo soggetto, eccezionale nella sua ambivalenza. Con un'uscita internazionale attesa nel 2025, denota, non solo un’identità autoriale realmente definita, ma anche la perfetta sublimazione del mezzo cinematografico come organismo narrativo, consapevole e ramificato.
Scritto da Beatrice Gangi
Vogter
di Gustav Möller
Dov’è il limite tra giustizia e vendetta? L’ultimo film di Gustav Möller si pone proprio questo interrogativo, navigando nel più controverso dei Tartari. Una prigione è di per sé un non-luogo, che non fa distinzione alcuna tra criminali e guardie: solo delle labili regole umane determinano i ruoli da assumere. E infatti, la brutalità di quell’ambiente è capace di annebbiare anche l’anima di coloro che si votano alla giustizia e alla cura, come Eva, una donna che prima di essere guardia penitenziaria è madre. E che cosa farebbe una madre se nello stesso carcere in cui lavora e si prende rigidamente cura dei suoi detenuti venisse trasferito l’assassino di suo figlio? Nemmeno la divisa che porta è in tal caso capace di fermare gli istinti.
Sì, perché proprio di istinti bisogna parlare: Vogter è un film primordiale, archetipico, che spoglia i personaggi delle vesti che portano. Anche qui Eva, come quella di cui si narra nelle sacre scritture, compie una discesa lontano dal suo Paradiso, stavolta per affrontare il suo altro figlio Caino, qui sotto il nome di Mikkel. Ma fin dove può spingersi la tolleranza?
Scritto da Mattia Cirilli
La storia di Souleymane
di Boris Lojkine
L'Histoire de Souleymane segue la vicenda di un giovane originario della Guinea che lavora come rider per le strade di Parigi. Con solo due giorni a disposizione prima di un’intervista cruciale per ottenere asilo in Francia, Souleymane deve costruire una narrazione convincente, consapevole che il suo futuro dipenderà da quel colloquio. In cerca di aiuto, si rivolge a un “approfittatore” che, a pagamento, assiste i migranti nell’elaborazione di racconti falsi destinati a garantire il permesso di soggiorno. Ma, al culmine del film, il protagonista si troverà di fronte a un dilemma morale: continuare a mentire per ottenere ciò che desidera, o abbracciare la verità e rischiare tutto?
Il film di Lojkine non è solo un ritratto realistico della vita precaria di un lavoratore clandestino in una metropoli cinica. Si inserisce in un filone di opere francesi recenti che raccontano, con spietata autenticità, le difficoltà quotidiane dei ceti sociali più bassi - basti pensare a À plein temps (2021) o Rien à foutre (2021). Tuttavia, L'Histoire de Souleymane va oltre la semplice denuncia sociale. Nel finale, la pellicola si eleva a una riflessione più profonda sulla natura stessa del cinema. La scelta di Souleymane, tra verità e menzogna, assume una dimensione meta-filmica: il cinema diventa strumento per raccontare la realtà nella sua forma più cruda, ma anche compassionevole.
L'Histoire de Souleymane non si limita a narrare una storia di immigrazione e speranza, ma pone interrogativi più ampi sul ruolo del racconto, sulla moralità e sulla ricerca di una dignità che sfida le convenzioni sociali. Con una regia attenta e una performance straordinaria da parte di Abou Sangaré, il film non solo denuncia, ma invita anche alla riflessione sulla natura del nostro impegno verso chi cerca rifugio e un posto nel mondo.
Scritto da Eric Scabar
Megalopolis
di Francis Ford Coppola
Alla fine della visione di Megalopolis, la domanda che sorge spontanea è tanto semplice quanto spietata: Coppola ci è o ci fa? Il pubblico sembra essersi diviso in due macro-categorie, da un lato chi vede nel film l'opera di un anziano folle, travolto da un’eccessiva autonomia creativa e da un'ambizione fuori controllo (ci è), dall'altro chi ne percepisce la consapevolezza, lo spirito provocatorio e la lucida intenzionalità (ci fa).
L’ultima fatica del leggendario regista statunitense è un film-mondo tanto ambizioso quanto spiazzante, una riflessione politica che affronta le più oscure problematiche dell’America contemporanea, utilizzando il medesimo linguaggio che definisce gli U.S.A di oggi, un linguaggio intriso di trash, ironia clownesca e atmosfere distopiche (basta osservare la politica per averne conferma).
Ciò che distingue Megalopolis è soprattutto la forma. Sembra di assistere a un romanzo postmoderno trasposto sul grande schermo, con le sue torsioni narrative e la sua estetica del sovraccarico che diventa specchio deformante della realtà. I fondali sovraesposti e le immagini ipersature suggeriscono che guardare troppo lontano, verso un futuro, un orizzonte, equivale a bruciarsi gli occhi. Come se scavare in profondità nell’anima di una nazione significasse inevitabilmente sprofondare nel vuoto che la abita. Coppola osserva e ci mostra senza filtri un immenso circo dove il sublime e il grottesco convivono, dove l’America si è ridotta a uno spettacolo di se stessa. In fondo, Megalopolis è un atto di resistenza, un’opera che rifiuta ogni forma di compromesso, che sfida lo spettatore a decifrarla, a prenderla sul serio o a rigettarla del tutto. In questo stralunato e titanico manifesto, Coppola si erge a ultimo poeta della rovina e della possibilità.
Scritto da Eric Scabar
Vermiglio
di Maura Delpero
È dapprima un sussurro quello di Vermiglio. Il sussurro invernale, aspro ed ovattato, di tre giovani ragazze non ancora donne, figlie del severo maestro che fa scuola nella frazione trentina. C’è chi prega, chi spera e chi studia, per scelta, abitudine o obbedienza. C’è la neve, che asseconda il sussurro delle tre finché una, la maggiore, rompe la precaria simmetria familiare, innamorandosi di un disertore. È allora, che arriva primavera. E poi, ancora, l’inverno.
Vermiglio è un film che, con equilibrio esemplare e straordinaria raffinatezza, racconta un tempo, quello della fine della Seconda guerra mondiale, un luogo, una frazione di passaggio e confine in Val di Sole; ma soprattutto una famiglia ed il contorno di anime che sono, a tutti gli effetti, Vermiglio. Tutto ha voce e spazio, la natura piena e maestosa, il susseguirsi delle stagioni emotive dei personaggi, la nascita e, la morte. E se un’opera cinematografica ora più che mai, dev’essere ben più di un registro di nazionalità e proiezioni obbligate, l’augurio è che questa coraggiosa impresa collettiva, non solo artistica ma produttiva, abbia oltreoceano l’eco che si merita.
Scritto da Maria Clara Taglienti
Anora
di Sean Baker
Vincitore della Palma d’Oro, Anora è uno dei film più discussi del 2024. Non è facile raccontare una storia come quella di una simile protagonista, tantomeno nel modo in cui lo fa Sean Baker. Un susseguirsi di scene grottesche, dal ritmo rapido e violento scombussola lo spettatore, che a tratti resta interdetto, mentre in altri istanti ride sonoramente, incapace di definire precisamente le emozioni che lo attraversano.
Anora non si pone limiti: una realtà cruda che viene rappresentata negli aspetti più duri e dove i personaggi contengono raramente i propri comportamenti. I due giovani attori protagonisti lavorano in maniera impeccabile, risultando pienamente immersi in due figure costantemente in bilico. Insieme riescono a far provare al pubblico un generale senso di rabbia e impotenza, alimentato dalla dissonante atmosfera di caos comico.
Il cerchio di questa storia trova la perfetta chiusura in un finale chiarificatore. Nell’assistere alle scene finali dell'opera di Baker, riusciamo probabilmente a comprendere il senso più profondo di una pellicola che non mostra apertamente il proprio intimo significato. Si tratta di uno di quei film di cui, usciti dalla sala, assaporiamo ancora per qualche istante la confusione, generata da una mescolanza di sentimenti contrastanti, nel tentativo di trovare una definizione.
Scritto da Sofia Sardella
Limonov
di Kirill Serebrennikov
Nel 2011, lo scrittore Emmanuel Carrère pubblica Limonov, resoconto della vita di un personaggio immerso nelle vicende della storia recente. L’autore scrive di non voler dare un giudizio sugli avvenimenti: sente però la necessità di descriverli. Proprio da questo testo trae origine il recente adattamento cinematografico, che ben riesce a delineare le caratteristiche di un personaggio tanto multiforme. Ben Whishaw si immedesima in maniera totalizzante nei panni del rivoluzionario Ėduard Limonov, incorniciato da canzoni memorabili mentre si muove attraverso epoche e luoghi, nel costante tentativo di raggiungere il nucleo di un qualcosa, un significato al quale aggrapparsi.
Limonov fa esperienza di paesi diversi, di ideologie opposte, di stili di vita distanti gli uni dagli altri e vive tutto con sincera intensità. Sono tanti i modi di reagire davanti ad una pellicola del genere: c’è chi da un giudizio, chi resta affascinato, chi si limita al silenzio. Non c’è una strada giusta, ognuno percepisce questa storia in maniera differente, ma è certamente corretto rappresentare il vissuto di chi ha osservato (ed esperito) gli avvenimenti più notevoli della seconda metà del Novecento sino ai giorni nostri con profonda partecipazione.
Scritto da Sofia Sardella
Maria
di Pablo Larraín
Con Maria si conclude la trilogia di Pablo Larraín dedicata a tre figure femminili che hanno segnato l’immaginario novecentesco. Dopo Jacqueline Kennedy (in Jackie, 2016) e Lady Diana (in Spencer, 2021), è la volta dell’inarrivabile Maria Callas. Lo sguardo cinematografico di Larraín cade, questa volta, sull’epilogo di una diva che appare smarrita di fronte ai sogni e alle illusioni della vita.
Segregata e quasi totalmente sola, se non fosse per il maggiordomo Ferruccio (Pierfrancesco Favino) e la domestica Bruna (Alba Rohrwacher), Maria è la sintesi di un soprano che trova nel canto la sua ultima forma di resistenza. Il lento avanzamento verso la morte passa attraverso la vita: tra la realtà dolorosa di una diva a cui si è spenta la voce e le continue visioni oniriche, dettate dal bisogno di una fuga interiore, si traccia un biopic astratto, divisivo ed amaro.
L’estetica del film combacia con l’interiorità della protagonista: l’atmosfera pittorica della casa parigina è resa intima e sacrale da movimenti lenti e inquadrature simboliche; il gioco di luci e ombre aderisce al continuo spostarsi da una realtà ad un’altra; il repertorio musicale è usato in favore di un montaggio che contrappone le grandi performance di una volta a una voce ormai logorata. Angelina Jolie conferisce a Maria quella dicotomia che la caratterizza: da un lato è eleganza e talento; dall’altro è dolore e tormento, un corpo troppo debole per un’arte troppo potente.
Scritto da Martina Di Gesu
Grand Tour
di Miguel Gomes
La maestria di un autore come Miguel Gomes, sta nel non percorrere l’atto creativo in modo progressivo come si è soliti fare nel cinema - ovvero partire dalla scrittura, proseguendo con la pre-produzione per poi arrivare alle riprese - ma piuttosto mischiare tutto allo scopo di ottenere un'opera assolutamente libera da qualsiasi costrutto metodico, offrendoci così un genuino sguardo di osservazione sul mondo di oggi.
Gomes, infatti, ci conduce in terre poco esplorate e ci mostra l’Asia come un Continente pieno di storie; l’importante è sapere attendere e guardare senza pregiudizio alcuno, cosa che i due protagonisti del suo film non fanno mai. In questo gioco di fuga e inseguimento, sembrano infatti non soffermarsi su quel mondo eccezionale che li circonda. Essi incarnano l’Occidente che non guarda nient’altro se non il proprio benessere e il proprio sentire.
Questa storia d’amore al contrario, non convenzionale, dove l’amore si rafforza al pari della distanza, crea il ritratto di un uomo e di una donna che lo spettatore non riesce a comprendere fino in fondo (per via delle loro azioni e decisioni) ma, che soprattutto, non giustifica; sembrano essere gli antagonisti di loro stessi, ed è proprio in questo elemento che si trova tutta la forza dell'ultimo lungometraggio del cineasta portoghese. Gomes ci permette di empatizzare con il bizzarro, con esseri umani imperfetti, regalandoci un viaggio esperienziale che non ha nessuna pretesa se non svelarci ciò che le immagini incarnano al loro interno. L’importante è saperle osservare.
Scritto da Aureliana Bontempo
Pepe
di Nelson Carlo De Los Santos Arias
Il regista di quest’opera ha un nome che potrebbe riassumere il suo stesso film: Nelson Carlo De Los Santos Arias. Forse un po’ troppo lungo, forse un po’ troppo pretenzioso, ma pur sempre poetico per la fonetica del suo significante e nell’inventiva del suo significato. Pepe, infatti, vincitore dell’Orso d’Argento per la Miglior regia alla Berlinale di quest’anno, è sicuramente una pellicola originale, come ormai se ne vedono poche, per la sua forma e il suo contenuto. Un film che potrebbe essere inserito in una serie di opere appartenenti a una quasi corrente cinematografica, che hanno come punto di vista principale quello di un animale - vedasi Cow (2021), EO (2022), L’orso (1988), Au hasard Balthazar (1966) e sì, perché no, anche Free Willy (1993) - con l’unica differenza che l’anima è l’ippopotamo di Pablo Escobar, scappato dopo la morte del suo padrone, ucciso nella giungla colombiana e poi divenuto fantasma.
Pepe, il nome dell’animale, è un esemplare cresciuto in cattività che, finalmente, vede la libertà in un paese e un habitat a lui sconosciuto. L'ippopotamo si fa simbolo di un colonialismo che, nella lotta contro “l’estraneo”, ha permesso alle comunità del popolo di riunificarsi contro una piaga che minacciava il suo benessere e la sua sicurezza. Pepe, quindi, non è solo la vicenda di un animale indifeso e soprattutto, innocente, ma la storia del capro espiatorio di millenni di supremazia straniera in una terra, la giungla, inadatta alla vita eppure piena della speranza dei suoi abitanti.
Forse per chi sta leggendo, queste parole possono voler dire tutto e niente, ma è proprio questa la sensazione vedendo il film: la mappa per l’interpretazione di un contemporaneo complesso, oppure quella che, sui social più populisti, qualcuno, nascosto dietro un’icona, potrebbe definire come “nà pippa mentale colossale”. Ma la verità è che a noi ci piace proprio farci perculare.
Scritto da Aureliana Bontempo
The Substance
di Coralie Fargeat
Due donne, due caratteri diversi: un solo corpo. The Substance è la storia di Elisabeth (interpretata divinamente dalla splendida Demi Moore), star di Hollywood appena cinquantenne licenziata dalla sua trasmissione di aerobica perché giudicata troppo “vecchia”. A seguito di un terribile incidente la donna viene avvicinata in ospedale da un giovane ed attraente infermiere che, analizzando attentamente la sua spina dorsale, la dichiara perfetta per sottoporsi ad un misterioso trattamento sperimentale dall’efficacia ineguagliabile. Tutto quello che Elisabeth dovrà fare per ottenere una cosiddetta versione migliore di sé sarà semplicemente iniettarsi un siero (The Substance appunto) e seguire pedissequamente ogni passaggio. Da qui lo sdoppiamento, il bivio. Ed ecco allora prendere vita sullo schermo Sue, interpretata da Margaret Qualley, bellissima e affamata di successo.
Coralie Fargeat dirige un lungometraggio feroce e brillante, che critica, nella maniera più coraggiosa e aspra mai vista finora, il male gaze che domina la società contemporanea. Una donna che è vittima e al contempo prodotto della società patriarcale, che in The Substance viene perfettamente, e disgustosamente, incarnata dal volto di un allucinato Dennis Quaid. Sue, con il suo corpo perfetto, ammicca e seduce il pubblico maschile - che guarda, giudica approva e vomita una serie di orribili commenti senza nemmeno rendersene conto - e propone al pubblico standard impossibili da raggiungere, con la conseguenza, ancor più grave, dell'iper-sessualizzazione della fisicità femminile.
In un pendolo che oscilla vorticosamente, e pericolosamente, tra un estremo e l’altro, The Substance è la letterale esplosione di un conflitto, al contempo interno ed esterno, di pressioni che la società impone al corpo, un body horror che, con estrema intelligenza ed ironia, sa rendersi accattivante, divertente e spietato.
Scritto da Diana Incorvaia
By The Stream
di Hong Sang-soo
Pochi autori del cinema contemporaneo hanno la prolificità di Hong Sang-soo. Ancora meno sono quelli in grado di stupire ad ogni loro film. Girato in soli cinque giorni, By The Stream si consacra come uno dei vertici della filmografia del regista sud-coreano. Un cinema intimo, ma non per questo autoriflessivo e chiuso in sé stesso, ma che - al contrario - si presenta come una finestra dal quale osservare, senza stacchi di montaggio, lo svilupparsi delle relazioni umane in tutta la loro semplice complessità. Tra cene, bevute, lunghissimi piani sequenza e fiumi di parole, lo spettatore è chiamato a entrare nei mondi relazionali dei personaggi cercando di cogliere in essi quella minuscola evoluzione - mai oggetto del cinema - che li muove al cambiamento.
Un cambiamento quasi invisibile, impercettibile, che solo la precisione dello sguardo di Hong Sang-soo è in grado di far trasparire. Questa è la magia del cinema del regista sud-coreano. Un regista in grado di catturare il vuoto, lo scarto, il monotono, e restituircelo sullo schermo con una purezza e una sincerità che non lascia mai indifferenti.
Scritto da Arturo Garavaglia
Baby Invasion
di Harmony Korine
Ogni volta che esce un film di Harmony Korine il cinema deve mettere in discussione il proprio rapporto con la percezione del reale e con lo statuto delle immagini. Laddove con Aggro Dr1ft (2023) il folle regista aveva girato il suo "Adieu au langage" contaminato dall’immaginario videoludico, inaugurando la fase del suo cinema dedicata al post-reale, con Baby Invasion (2024) esplora l’impossibilità stessa di definire una realtà plasmata dall’universo digitale.
“This is not cinema”, recita una delle scritte che appaiono sullo schermo, delimitando fin da subito la dimensione di sospensione in cui galleggia Baby Invasion: non è un film, non è finzione, non è un videogioco, non è la realtà e, allo stesso tempo, è tutte queste cose contemporaneamente. L'opera di Korine è un’unica grande soggettiva, una live-stream di Twitch che viviamo in un unico flusso di immagini senza stacchi nel mezzo, come in una continua discesa nella tana del bianconiglio, in cui ogni schermo rappresenta il ponte per continuare a scendere verso un altro microcosmo virtuale. I mercenari con indosso maschere da neonati non agiscono per un fine, ma vivono nell’immediatezza, nel presente colto nel suo farsi, seguendo i mutamenti dell’algoritmo.
Se è vero che il prossimo passo per il cinema sarà quello di sognare i film, è anche vero che nell’eterno presente in cui aleggiano i personaggi di Korine la realtà è già un sogno senza fine che continua a ripetersi, in cui l’attesa dell’azione ha lo stesso valore di qualunque altro gesto. In un anno in cui tra Megalopolis (2024) di Coppola e Sleep #2 (2024) di Radu Jude ci si è interrogati molto sul futuro del cinema e sull’inutilità di riprodurre fedelmente il reale, Baby Invasion ci ricorda che viviamo in un’epoca in cui non ha più senso definire i limiti di una forma espressiva che sta pian piano assimilando medium e linguaggi distanti dai canoni classici.
Scritto da Lorenzo Sartor
All We Imagine as Light
di Payal Kapadiya
È sera, il cielo si fa sempre più buio e tutto ciò che illumina la città sono le luci dei lampioni. Le strade sembrano come dipinte di blu e nell’aria si respira ancora quell’aria intrisa di pioggia, tipica delle giornate uggiose. Ed è proprio in questa città dalle varie tinte blu che una metro passa tra le abitazioni, catapultandoci in un mondo fatto di voci, desideri e paure. È con quest’immagine che ha inizio All We Imagine as Light, il film della regista indiana Payal Kapadia presentato in concorso a Cannes 2024.
Con il personaggio di Prabha, Kapadia segue le vicende di una donna non analizzandola necessariamente attraverso una forte chiave femminista - stile Barbie (2023) di Greta Gerwig per intenderci-, ma semplicemente raccontandola, e facendosi osservatrice (con lei) delle vite di altre tre figure femminili, raccogliendo storie che si compongono di amore, dolore, solitudine ma anche amicizia. Nel film della giovane regista, vi è però un'altra grande protagonista: la città di Mumbai, attraente oracolo di promesse, sogni e infinite possibilità che, alla fine, rischiano di diventare solo flebili illusioni.
Nel lungometraggio, la cineasta non rinuncia alle sue origini da documentarista, e ci regala una regia che gioca con gli aspetti più interessanti del genere. Come, ad esempio, l'utilizzo del voice-over in delle conversazioni “rubate” per descrivere la sua India. All We Imagine as Light è un vero e proprio gioiello cinematografico in questo 2024, praticamente perfetto dalla regia, alla sceneggiatura, fino alla musica, elementi esemplarmente amalgamati che avvolgono i paesaggi e i personaggi che li vivono. Con quest'opera profonda e commovente Payal Kapadia vuole ricordarci che non dobbiamo temere il buio che ci circonda, ma dobbiamo imparare a brillarci dentro.
Scritto da Cecilia Parini
Sterben
di Matthias Glasner
Sterben, prima ancora di essere un film, si può considerare una magistrale sinfonia composta e diretta da Matthias Glasner. L'opera si può paragonare ad un insolito requiem - non a caso il titolo tradotto significa letteralmente morire - che parte adagio, per poi passare in allegretto, fino a giungere a un solenne e sentito tempo grave.
Descritto da molti come una black comedy, il lungometraggio del regista tedesco riesce a farci ridere e, allo stesso tempo, riflettere. Infatti Sterben non si limita solamente a descrivere le buffe relazioni umane tra i quattro membri della strana famiglia Lunies e il resto del mondo, ma, pian piano che la storia procede, si trasforma in una realistica, quanto veritiera, fotografia del nostro tempo.
È difficile parlare di Sterben senza fare spoiler o rischiare di cadere nel banale, mentre si tenta di spiegarne la bellezza e la potenza. I personaggi descritti da Glasner, all’apparenza grotteschi, si fanno nuovi archetipi della società che viviamo: una madre senza istinto materno, una figlia ribelle e anticonvenzionale che ricerca l’amore classico, un figlio artista in piena crisi esistenziale e un padre che riesce a diventare presente nella propria assenza.
Nonostante il titolo richiami alla morte, Sterben, infine, si rivela un inno alla vita, anche perché, come ci insegna Glasner, alla fine si può sempre trovare un lato comico, anche nel dolore.
Scritto da Cecilia Parini
Flow
di Gints Zilbalodis
Gints Zilbalodis, autore lettone già apprezzato per l'onirico Away (2019), torna sul grande schermo con Flow, un'opera che conferma e amplifica le sue doti di narratore visionario.
In un mondo post-apocalittico dove della civiltà umana sono rimaste solo macerie, un gatto nero, solitario e diffidente, si trova a fronteggiare un'inondazione che lo costringe a condividere una zattera di fortuna con un eterogeneo gruppo di animali. Ha inizio così un'odissea fluviale che porterà il protagonista a mettere in discussione se stesso, aprendosi a un universo emotivo prima sconosciuto.
Zilbalodis, ancora una volta, si fa carico di ogni aspetto della produzione, dalla regia all'animazione, dalle musiche al montaggio. Il suo stile, caratterizzato da un tratto essenziale e da una tavolozza cromatica vibrante, crea un'atmosfera onirica e sospesa, in cui la bellezza della natura rigogliosa si intreccia con la malinconia di un mondo perduto. L'assenza di dialoghi, lungi dall'impoverire la narrazione, amplifica la potenza espressiva delle immagini, lasciando che siano la musica e i suoni della natura a scandire il ritmo del racconto.
Flow rappresenta anche una riflessione sul delicato rapporto tra uomo e natura, le rovine di una civiltà scomparsa, inghiottite dalla vegetazione lussureggiante, rappresentano un monito silenzioso sulla fragilità del nostro ecosistema. Un'opera poetica e profonda che discute il post-umano e la vita. Da vedere e rivedere, per lasciarsi cullare dal suo flusso e riscoprire la bellezza di un mondo che, pur nella sua fragilità, continua a pulsare.
Scritto da Aldo Lauro
Civil War
di Alex Garland
Sono sguardi dalla stanca compassione quelli di Civil War di Alex Garland, opera sull’etica di fotografare la morte. D’altronde, “la fotografia è un omicidio sublimato”, scriveva Susan Sontag in Davanti al dolore degli altri, testo illuminante che potrebbe benissimo essere il commentario di Lee Smith (Kristen Dunst); navigata fotografa di guerra dagli occhi (i suoi e quelli della fotocamera) che non sanno più commiserare ma, assenti, immortalano tragedie.
E così la fotografia non è che la morte del reale preda del fermo-immagine. Lo sa bene Lee quando si imbatte nella danza finale del suo mortuario mestiere: partire verso Washington per strappare l’ultima intervista all’ultimo dei Presidenti, mentre la guerra civile tra governativi e secessionisti mette a ferro e fuoco un’America in stile The Twilight Zone (1959). Ad accompagnarla - assieme ai colleghi Joel e il veterano affaticato Sammy - l’aspirante fotografa Jessie (Cailee Spaney), intromessa nella spedizione con la sincera cocciutaggine delle passioni giovanili.
È subito un dramma del riflesso - Jessie e Lee, l’ingenuità dell’impeto e il distacco dell’età - dal cuore così pulsante in mezzo al gelido cinema di Garland. “Se mi sparassero fotograferesti quel momento?” chiede Jessie alla sua eroina; spera in una rassicurazione, un rimasuglio per l’umanità. Ma nella fiumana di immagini che sono i nostri giorni la cronaca non ha più tempo per l’etica. E allora tra i simulacri di dei surreali Stati (non più) Uniti - più simili al loro immaginario che a sé stessi - un evento accade se qualcuno lo immortala. È nella corsa alle istantanee in mezzo alla battaglia, nei respiri o negli ultimi secondi di un Capo di Stato che il reale diventa notizia. Vince chi mira all’obiettivo, con un rullino fotografico o un proiettile poco importa nel Civil War di Alex Garland.
Scritto da Lorenzo Nuzzo
The Girl with the Needle
di Magnus von Horn
Un resoconto dettagliato di uno degli episodi di cronaca nera più conosciuti in Danimarca? Il ribaltamento di una favola gotica in cui la giovane protagonista incontra dei personaggi che sembrano usciti direttamente da un racconto dei Fratelli Grimm? Oppure un’analisi sugli orrori contemporanei filtrati attraverso un'ambientazione da primo Novecento? Non ci sono risposte sbagliate, è questo ciò che rende The Girl with the Needle uno dei film più interessati dell’intera annata. Ambientato nel 1919, il terzo lungometraggio di Magnus von Horn segue le vicende di Karoline (Vic Carmen Sonne), giovane ragazza costretta a vivere in povertà dopo che il marito è scomparso durante la Prima Guerra Mondiale, che ha la possibilità di ricominciare una nuova vita grazie a persone che, inizialmente, sembrano ben intenzionate, tra cui la misteriosa Dagmar (Tryne Dhyrholm), la gestrice di un negozio di dolciumi.
La situazione infernale della protagonista, la quale entra in un loop di sofferenza e desolazione, è messa in risalto dalla claustrofobica atmosfera imbastita da von Horn, dove spiccano un austero uso del bianco e nero ed una colonna sonora che amplifica le atrocità che si pongono davanti a Karoline. Recitato superbamente dalle due protagoniste, con Sonne che richiama lo stile espressivo delle dive del cinema muto, e Dyrholm, semplicemente terrificante nel modo in cui costruisce un ritratto ambiguo, e allo stesso tempo empatico, di una donna manipolatrice.
Scritto da Omar Franini
Nickel Boys
di RaMell Ross
Raramente al giorno d’oggi si riescono a trovare adattamenti di celebri romanzi con la voglia di sperimentare sulla storia di partenza allo scopo di creare qualcosa di radicale a livello cinematografico. Spesso si trovano opere che seguono pedissequamente (ed erroneamente) i testi originali, parola per parola, scena per scena, ed è per questo che, quando si trovano film come Nickel Boys, ci si rende conto delle vere potenzialità della Settima Arte. Il romanzo Premio Pulitzer di Colson Whitehead narra la storia di due giovani che, a seguito di dei “crimini”, vengono rinchiusi alla Nickel Academy (nome fittizio della vera Dozier School), riformatorio salito agli oneri della cronaca per il trattamento, brutale e discriminatorio, nei confronti dei ragazzi di colore. Il testo di Whitehead raccontava le vicende di Elwood e Turner, oltre a quelle degli altri ragazzi della Nickel, tramite l’uso della terza persona, una voce narrante onnipresente nella storia.
RaMell Ross decide di estrapolare questo approccio e stravolgerlo, ideando un adattamento girato interamente in soggettiva, tramite il punto di vista ottico, costringendo di fatto lo spettatore a vedere il mondo dei due protagonisti tramite i loro stessi occhi. Questa operazione stilistica permette di seguire il duplice punto di vista dei ragazzi: mostrando come vivono determinati momenti in prima persona e come questi siano vissuti dal punto di vista dell’amico.
L’ambizione stilistica di Ross trova perfettamente riscontro con il testo di Whitehead e il tono introspettivo dell'opera si presta anche ad essere un esemplare spaccato della società statunitense degli anni ‘60, con vari riferimenti storici, come i discorsi di Martin Luther King o l'allunaggio dell’Apollo 8, usati come espedienti narrativi per dare una locazione temporale a determinati avvenimenti. Nickel Boys è una visione radicale ed innovativa, un'opera che negli anni a venire diventerà una delle più importanti del cinema americano indipendente.
Scritto da Omar Franini
April
di Dea Kulumbegashvili
Vincitore del Premio della Giuria al Festival di Venezia, il secondo lungometraggio di Dea Kulumbegashvili si concentra sulla duplice esistenza di Nina; quella di ostetrica in un ospedale locale e quella di aborzionista illegale nei villaggi circostanti. Queste azioni, proibite in Georgia, mettono in pericolo non solo la sua carriera ma anche la sua stessa vita, poiché si troverà spesso in situazioni estremamente intricate. L’esistenza della donna è quindi condizionata da un malessere interiore perpetuo, per via del dovere morale a cui sente di dover adempiere.
In April il rigore stilistico di Kulumbegashvili - con il suo costante uso di tableaux vivants, già mostrato in Beginning (2020) - mostra una leggera evoluzione: i precisi ritratti presenti nel film precedente vengono qui sostituiti da riprese maggiormente grezze, dove la camera non è più fissa, per sottolineare proprio lo stato mentale instabile della protagonista.
Partendo da questa premessa, la regista sviluppa il medesimo linguaggio simbolico già presente nella sua opera prima. Esemplificativi in April sono la giustapposizione tra la desolata condizione umana di Nina (con la distruzione mentale che spesso segue i suoi "interventi") e le varie apparizioni di una creatura umanoide, che sembra incanalare tutto il suo dolore e la sua sofferenza. April non risulta essere una visione facile e in alcuni istanti metterà a dura prova la pazienza dello spettatore, ma rimane comunque un’opera distintiva di questo 2024, che mostra la visione audace di una delle voci più interessanti del cinema europeo.
Scritto da Omar Franini
Nosferatu
di Robert Eggers
Nel mondo del cinema la figura di Nosferatu, o più in generale quella di Dracula, è stata trasposta diverse volte ed è ormai raro trovare una versione che si discosti da alcuni grandi adattamenti come quelli di Murnau, Herzog o Coppola. Nel 2024, ad addentrarsi in questa sfida è stato Robert Eggers, che ha avuto finalmente l’occasione di realizzare la sua versione, un progetto a cui è particolarmente legato. Nosferatu rimarca ancora di più la recente direzione che sta prendendo il cinema di Eggers; un meticoloso esercizio di stile adattato ad un grande classico, come Nosferatu in questo caso, o Amleto in The Northman.
L’approccio risulta piuttosto competente, sia a livello tecnico che narrativo, ma pecca di quella sfrontatezza che aveva caratterizzato The Lighthouse (2019), soprattutto quando bisogna sviluppare il legame centrale tra il Conte Orlok (Bill Skarsgard) ed Ellen Hutter (Lily Rose Depp). Nonostante questa leggera critica, la visione del film risulta piuttosto accattivante e terrificante; il lavoro svolto da Eggers e Bill Skarsgard (interprete del Conte Orlok) sull'iconico personaggio domina la scena, seguito dall'interpretazione “impossessata” di Lily-Rose Depp. Anche se il di Nosferatu di Eggers non tocca gli stessi apici delle opere dei suoi predecessori, il suo adattamento rimane pur sempre una grande aggiunta alla lista.
Scritto da Omar Franini
Io sono ancora qui
di Walter Salles
Dopo una lunga assenza durata dodici anni, Walter Salles torna a girare in Brasile e sceglie un soggetto molto vicino alla storia del suo paese d’origine. Io sono ancora qui è l’adattamento dell'omonimo romanzo di Marcelo Rubens Paiva, che racconta la storia della propria famiglia e della lotta compiuta da sua madre Eunice (nel film Fernanda Torres) per scoprire la verità dietro la sparizione del marito Marcelo. Il lungometraggio, come il romanzo, è ambientato negli anni ‘70, durante il terrificante periodo dei desaparecidos, dei rapimenti e delle uccisioni a scopo politico.
Salles riesce abilmente a mostrare tutte le varie sfaccettature della storia e a rappresentare come la famiglia Paiva, e più nello specifico Eunice, siano stati il simbolo della resilienza di un popolo che si è rifiutato di marcire sotto un dominio dittatoriale. Di conseguenza, l'opera mescola aspetti da thriller, legati alla scomparsa di Marcelo, a momenti di quiete, dove Salles esplora il forte legame del nucleo familiare, soprattutto quello tra i due coniugi Paiva. Io sono ancora qui ammalia per la sua compostezza a livello narrativo e per la potenza emotiva della sua protagonista, portata magistralmente sullo schermo dalla sublime Fernanda Torres.
Scritto da Omar Franini
Tardes de Soledad
di Albert Serra
In questo film, in tutti i film, altro non c’è se non quello che viene ripreso, registrato, filmato. Ciò che rimane fuori, fuori dallo spazio (l’inquadratura, che esclude), fuori dal tempo (il montaggio, che taglia), non esiste. È la solitudine dell’immagine, che precede tutte le altre: quella del toro, quella del torero, quella del regista e, infine, quella dello spettatore. Questo è il punto di caduta a cui Albert Serra sottopone il suo stesso cinema, che si fa “altro” dalla finzione e dal documentario e scappa, finalmente, dalle distinzioni e dalle definizioni di chi lo vorrebbe imbrigliare nei linguaggi, nei generi, nelle cose già viste. Perché è già stato tutto visto. E giudicato. E allora tanto vale, dice Serra, filmare e basta, non giudicare, non commentare, non attivare lo spettatore di fronte a una barbaria legalizzata - ancora legalizzata, perché antichissima e ritualistica - come la corrida.
Tornare all’inquadratura, al quadro, alla plasticità dell’esperienza artistica: non al cinema come catena di espressioni già codificate al suo interno, non alla grammatica chiusa su se stessa - come suggerisce l’inesistenza di punti di vista omnicomprensivi e facilitatori di una comprensione oggettiva, e quindi didattica e documentaristica fino in fondo, della corrida, che è invece ridotta, mai mostrata nella sua interezza. Roca Rey, il torero protagonista di Tardes de soledad, è maschera perché filmato, è personaggio solo poiché santificato dalla macchina da presa, che lo isola e lo trasporta fuori dal mondo reale. I gesti, le posture, le mimiche dei preparativi e della corrida, le parole scambiate con lo staff, sono iterate e allo stesso tempo prelevate da una performance live, irripetuta e irripetibile, in parte documento e in parte installazione audiovisiva di un rituale sociale mortale e solitario, ma vivo nel momento in cui viene filmato dal un cineasta sempre pronto a celebrare il funerale del (suo) cinema.
Scritto da Paolo Rissicini
Le Déluge
di Gianluca Jodice
“Io oggi ho paura, e ho bisogno che tu abbia paura con me”, in questa breve frase è racchiuso l’intero senso di Le Déluge, l’ultimo lavoro di Gianluca Jodice. Dopo Il cattivo poeta (2020), interessante focus sulla figura di Gabriele D’Annunzio, il regista napoletano torna a confrontarsi nuovamente con la Storia e gli imprevedibili destini delle figure che la abitano. Questa volta decide di osservare, con impressionante lucidità e profondo coinvolgimento, la caduta dei Borbone durante gli sgoccioli del loro potere.
Le Déluge è un film catastrofico, nel reale senso della parola, un’opera sulla fine del mondo e sul crollo delle certezze. Una coppia, il re e la regina, sull’orlo della desposizione, che, improvvisamente spogliati dei loro ruoli, vengono per la prima volta sommersi dal peso delle emozioni umane. Rinchiusi in una fortezza e in attesa della morte, i personaggi del film sognano la possibilità di vivere, di tentare di costruire un futuro, anche quando tutto sembra sgretolarsi.
Una commovente tragedia umana che, attraverso una narrazione intimista, riesce perfettamente a simbolizzare un evento che ha cambiato per sempre il volto dell’Europa. Tutto, nell’ultima pellicola di Jodice, sembra funzionare alla perfezione: dalla scelta di rinchiudere i protagonisti in spazi asettici e fuori dal tempo (regalando al lungometraggio un tono surreale e, appunto, post-apocalittico), agli inappuntabili costumi di Massimo Cantini Parrini, fino alle straordinarie performance attoriali di Mélanie Laurent e Guillaume Canet, maschere tragiche che, nell’ora più buia, si riscoprono teneramente vicine.
Scritto da Alberto de Carolis Villars
The Brutalist
di Brady Corbet
Vincitrice del Leone d’Argento per la Miglior regia alla Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia 2024, The Brutalist di Brady Corbet è probabilmente l’opera che, all’interno della filmografia del suo autore, rispecchia maggiormente la complessità del suo discorso cinematografico. Un’impresa narrativamente mastodontica, e superbamente inscenata, che attraverso le parabole dei suoi stessi personaggi costruisce un'articolatissima apologia sull’esperienza dell’immigrazione e sull’illusoria maschera di un'America che, dietro le sue ingannevoli promesse, nasconde un oscuro marciume.
Imperscrutabile e ambiguo, The Brutalist è un labirinto di trappole narrative che richiama alla mente le atmosfere, e le sublimi storture, de Il petroliere (2007) di Anderson. La scelta di girare con una pellicola 35mm formato VistaVision regala all’esperienza della visione una bellezza formale ipnotica.
Impressionanti sono le caratterizzazioni dei tre personaggi principali: il milionario capitalista (incarnato da un brillante Guy Pearce), l’architetto espatriato (un Adrian Brody in stato di grazia) e la sua enigmatica moglie (una Felicity Jones che troneggia su tutto il cast regalando un’interpretazione da manuale).
Scritto da Alberto de Carolis Villars
Baby Girl
di Halina Reijn
Halina Reijn ritorna dietro l’obbiettivo della macchina da presa con il suo secondo lavoro americano. Ancora una volta impegnata in un cinema carnale e vivo la regista olandese ci trasporta in un tortuoso viaggio nella sessualità umana. Dipingendo l’accurato ritratto di Romy (Nicole Kidman), CEO di una potente azienda newyorkese che intraprende una adulterina relazione erotica con lo stagista Samuel (Harris Dickinson), Reijn progetta nel dettaglio, e tesse abilmente, un intelligente discorso sulle dinamiche di potere.
Tramite la sua vena provocatorio-satirica Baby Girl è un film che rielabora intelligentemente il cinema post-moderno di impudici maestri come Adrian Lyne e Paul Verhoeven, riuscendo però a costruire un discorso a sè. Il suo costante andamento ondivago (che lo orienta tra, il dramma, la commedia e il thriller erotico) ne fa un prodotto unico, estremamente consapevole del suo non voler essere etichettato sotto una precisa categoria di genere.
La grande interpretazione di Nicole Kidman, che ancora una volta dimostra la sua costante volontà di trovare ruoli che la mettano alla prova, la incorona come una delle regine indiscusse della sua generazione. Giustamente premiata al Festival di Venezia 2024, Kidman è felina e dominante, ma allo stesso tempo fragile e inconsapevole. Una grande interpretazione per un film sorprendente.
Scritto da Alberto de Carolis Villars
Gloria!
di Margherita Vicario
Piedi a terra e mani in aria! Margherita Vicario esordisce alla regia con Gloria! ma stavolta non racconta la morte di un trap boy bensì una splendida favola sulla nascita del pop. Ambientato in un collegio femminile nella Venezia di fine ‘700, Gloria! narra la storia di Teresa, una giovane serva di grande talento, che, insieme a quattro orfane, giovani musiciste dell’istituto, supera i secoli e sfida i grandi maestri inventando una musica ribelle, moderna e leggera. Il film della giovane cantautrice romana è una lettera d’amore alla musica ed un omaggio a tutte le musiciste del passato che, come fiori secchi, sono rimaste nascoste tra le pagine dei libri della Storia. In un presente di opere prime troppo ambiziose e tutte estremamente simili tra loro, Gloria! rappresenta un cambio di rotta, un’utopia entusiastica, che riesce ad emozionare e divertire un pubblico ampio e che sacrifica l’ideologia del cinema impegnato in funzione di un cinema vivo, animato da un’energia creativa che non può essere rinchiusa in nessun limite di accuratezza storica.
La musica permea ogni aspetto della pellicola, la scrittura è un vero e proprio spartito musicale in cui regia, montaggio e recitazione seguono con cura il ritmo di un componimento. È la musica stessa che permette al lungometraggio di combinare insieme generi diversi e periodi storici molto lontani fra loro: così come si fondono insieme la musica classica e la musica pop allo stesso modo si uniscono il film in costume e la commedia, il tardo Settecento e il 2024. Margherita Vicario con la sua poliedricità ci regala un trionfo musicale, nuovo, coraggioso e imprescindibilmente suo. Gloria! è forse una delle più belle rivelazioni che il nostro cinema ha prodotto negli ultimi anni.
Scritto da Bianca Susi
Estranei
di Andrew Haigh
Dall’interno di un condominio, nel quale si materializzano i fantasmi della visione associati ad un passato di mancata accettazione familiare, lo spettatore può comprendere come Adam, il protagonista, sia in grado di tornare metafisicamente sui luoghi della propria infanzia con l’intento di riuscire, finalmente, a dialogare con i propri genitori. Il film di Andrew Haigh si sviluppa così su un doppio piano, quello metafisico e quello apparentemente realistico, di una storia d’amore che sembra prendere forma all’interno di un appartamento sospeso sul vuoto dei sensi di colpa. Quattro interpreti in totale e luoghi/non luoghi nei quali è possibile udire l'eco di un passato traumatico che ci racconta molto di chi siamo e di chi, al contempo, vorremmo essere. Haigh riesce nel compito di dipanare tale matassa emotiva componendola nelle giuste gradazioni, con precisione introspettiva e forza drammatica. Filma la solitudine con esatta sensibilità, un passo sospeso e friabile capace di planare sulle cose e le persone con grazia, quasi sottovoce.
Tutto sembra riflettersi coscienziosamente su specchi, vetrate e sui finestrini di quel treno che conduce Adam verso il proprio passato familiare. L’affetto strappato e lacerato nel brusco fragore di un incidente, nel dialogo e negli sguardi umidi. Adam si specchia nel co-protagonista Harry e viceversa, le loro anime in pena si compenetrano e l'atmosfera rarefatta si espande oltre i loro necessari silenzi. I vampiri che persistono fuori dalle porte del nostro cuore, magicamente decantati dai Frankie Goes to Hollywood, si rintanano appositamente per assalirci nella notte, quando le nostre difese sono più vulnerabili. Il tempo e lo spazio raramente sono stati così impermanenti e fluidi, eppure crudi e malfermi, nudi infine. E nonostante i recessi sopiti, ora e per sempre le anime si ritrovano infinitamente unite.
Scritto da Federico Mattioni
Piccole cose come questa
di Tim Mielants
A monopolizzare le attenzioni di questo cristallino e intenso dramma irlandese, tratto dall’omonimo romanzo di Claire Keegan, sono gli occhi impietriti e ipnotizzanti di Cillian Murphy, in una performance interpretativa superiore persino a quella del mastodontico Oppenheimer (2023). Non è complicato rimanere incollati al suo sguardo, conscio di quanto sia difficile accettare i crudeli trattamenti ai quali vengono sottoposte orfane e ragazze madri. Naturalmente, l’apporto del regista belga Tim Mielants, oltre che per la sua direzione, è da elogiare per la precisione con cui racconta lo stato in cui si trovavano le donne prigioniere all’interno delle case Magdalene (tema già trattato in un buon film diretto dal grande attore Peter Mullan), gestite da suore intransigenti e irremovibili nelle loro direttive, e fin troppo ligie al “dovere”.
Bill Furlong, il protagonista, è un umile, introverso, rispettoso carbonaio, padre di cinque figli che, memore dei suoi dolorosi trascorsi familiari, non può non porgere una mano ad una ragazza che scopre essere in pericolo durante uno dei suoi trasporti di carbone all’istituto. Si apre un dilemma su cui poggia l'intero baricentro drammaturgico di Piccole cose come queste: compiere un’opera di bene, profondamente umana, oppure battersi contro l’egemonia religiosa della comunità? Un conflitto che scalda le nevralgie del film, mostrate attraverso immagini che Mielants costruisce con il "maniacale" contributo del direttore della fotografia Frank van den Eeden, intensificando la visione in maniera dolente e crepuscolare. Completa il tutto Enda Walsh, la sceneggiatrice-adattatrice, che mette perfettamente a fuoco i tormenti morali dell'indimenticabile personaggio principale.
Scritto da Federico Mattioni
Memoir of a Snail
di Adam Elliot
Ahinoi, la vita è fatta anche di momenti molto tristi e cupi. Momenti che, a volte, rischiano di diventare periodi che ci segnano nel profondo, portandoci solamente alla chiusura in noi stessi. Per Grace, protagonista di Memoir of a Snail - la cui sfortunata infanzia viene segnata dalla morte di entrambi i genitori - dopo la separazione dal suo caro fratello e l’operazione al labbro superiore, non sembra esserci via di scampo.
Neanche la passione per i libri o per le lumache - capaci solo di muoversi in avanti - possono salvarla da una vita apparentemente destinata a essere vissuta tra le quattro mura di una camera sempre più stretta. Ma per Adam Elliot (che ritorna al lungometraggio a distanza di quindici anni da Mary and Max) può e deve esistere una speranza. Perché la vita è solamente una e merita di essere vissuta come fanno le piccole e lente compagne di viaggio della protagonista: andando continuamente avanti.
Il film, applauditissimo sin dalle prime proiezioni al Festival di Annecy, ha saputo stupire di nuovo per il singolare approccio del regista australiano alla materia della stop-motion: rigoroso, ancorato ad una concezione dell’animazione poco (o per nulla) influenzata dal ricorso alla tecnologia. In Memoir of a Snail quasi tutto tende al grigiore, a partire dal pallore dei volti dei personaggi. La palette scelta da Elliot e dal reparto di animazione premia, infatti, i colori spenti e scuri che, in accordo al ricorsivo utilizzo di elementi che “rinchiudono” Grace in una gabbia - come il guscio di lumaca che rimanda all’immagine di una spirale -, restituiscono un’idea precisa sulla sua condizione esistenziale.
Scritto da Luca Di Giulio
I Saw the Tv Glow
di Jane Schoenbrun
È vero che alcune storie sembrano più reali della realtà - ma questa è un’intuizione riservata a pochi eletti. Jane Schoenbrun attinge da un paradigma comune, la passione dei millennials per la serialità televisiva degli anni ‘90, e immagina un’epica dove la monotonia del reale diventa la maledizione da cui le protagoniste del tuo show preferito devono liberarsi. L’incantesimo va spezzato, pena l’esclusione dal futuro, la frustrazione dei propri sogni, la condanna alla realtà. Tra noi cinefili c’è chi, da giovane, la propria storia la scriveva vivendola, e chi invece la viveva sognando qualcosa al di là della vita stessa.
Tutti amano il cinema, ma solo per pochi lo schermo è oracolo che rivela molto più di quanto non facciano le parole. Schoenbrun narra l’ossessione per il formato televisivo come un’avventura dalle declinazioni fantastiche, una parabola i cui esiti incidono davvero sul presente. Metafora del mondo queer, allegoria dell’identità trans: su I Saw the Tv Glow si sono espressi molti, e tutti amano etichettare. Ma io ho visto la tv brillare sul serio, ci potete giurare. La seconda opera della regista newyorkese sfugge da classificazioni e rifiuta le descrizioni: è horror e anche dramma; è un thriller e al contempo una commedia nera. È il sogno di un immaginario perduto, incubo di una solitudine forzata, riscatto di una realtà che nessuno guarda.
Condensando la malinconia dello schermo, I Saw the Tv Glow racconta il lutto per ciò che abbiamo prima amato e poi perso. È una storia che trasforma il dolore in un mondo da cui fuggono tutti coloro che, come noi cinefili, soffrono del grigiore organico e sognano lo scintillio dei cristalli liquidi. Anche il maestro Scorsese l’ha lodato, e allora pure tutti i piccoli, grandi Lebowski che amano le storie di uomini, del loro onore e delle loro armi, dovrebbero prendersi un attimo (o una vita intera) per lasciarsi stregare da questa nuova, luminosa fiaba contemporanea.
Scritto da Pavel Belli Micati
La stanza accanto
di Pedro Almodóvar
Il primo film in lingua inglese di Pedro Almodóvar, reduce dalla vittoria del prestigioso Leone D’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia, porta due grandi nomi della recitazione, come Tilda Swinton e Julianne Moore, a confrontarsi con l’altra faccia del desiderio, ovvero la morte. Il film è un melò che raccoglie suggestioni artistiche a 360°, confrontandosi con giganti dell'immagine - come Edward Hopper, di cui Almodóvar omaggia il dipinto People In The Sun, Andrew Wyeth, con la sequenza dell’incendio che inevitabilmente riporta con la mente a Christina’s World - e della letteratura - come Virginia Woolf e James Joyce, citato indirettamente attraverso le immagini di The Dead (1988) di John Huston.
L'ultima opera del grande autore iberico pone al suo epicentro, oltre agli amori perduti e riacquistati, una lezione di vita che va al di là della Settima Arte, investendo un dilemma morale che coinvolge in prima persona tutti gli spettatori e ponendo l’accento su due donne (poli opposti della narrazione) caratterizzate attraverso un uso di abiti di scena dai colori complementari tali da sottolinearne le visioni opposte e, al tempo stesso, dividersi tra chi resta e chi se ne va. Tramite le sue protagoniste Almodóvar sfrutta l’occasione per mostrare, da un lato una presa di posizione ferrea, molto forte rispetto al modo in cui eutanasia e religione manifestano punti di vista inconciliabili tra loro, e dall'altro un punto di vista che non perde occasione di assumere un pensiero conservatore, mettendo in vista tutte le contraddizioni e le ottusità che animano la Chiesa cattolica nei confronti della libera scelta di porre fine alla propria sofferenza.
Ma La stanza accanto è soprattutto una lezione su come narrare il cinema parlando di oggi, ieri e domani, espressa mediante omaggi del tutto rispettosi ai “maestri” del regista - da All That Heaven Allows (1955) di Douglas Sirk fino ai riferimenti estetici a Ingmar Bergman e Hitchcock - che suonano come un monito: tramite l’arte tutto può essere reso più lieve e accettabile, anche la morte.
Scritto da Antonio Orrico
L’Impero
di Bruno Dumont
Con L’Impero Bruno Dumont rafforza il percorso ironico che il suo cinema sta intraprendendo da un decennio a questa parte, svolta materializzatasi a partire dalla serie-fiume P’tit Quinquin (2015). Il film utilizza metaforicamente l’interpolazione tra corpi apparentemente estranei (come accade ad Anamaria Vartolomei e Brandon Vlieghe, alle prese con scene sessuali singolari) per connettere le due nature (quella poetica e quella slapstick/demenziale) che animano la poetica del regista francese, un aggancio tra la sensorialità del suo realismo “pasoliniano” visto in L’Humanitè (1999) e la satira dei suoi progetti più recenti, come Ma Loute (2016) e France (2021).
L’irrisione della farsa che ha animato l’ultimo Dumont contrasta quindi con la durezza della provincia francese, e il risultato è un nuovo modo per confrontarsi con l’attualità cinematografica, scomodando in modo irriverente non solo Star Wars (1977), ma proponendo a tutti gli effetti una propria versione, del tutto riconoscibile, autoriale e riconducibile ad una cifra stilistica, della poetica dei multiversi che, negli ultimi anni, sta occupando in modo sempre più prorompente il cinema.
L’Impero è dunque un nuovo modo, da parte di un “alieno” come Dumont, di rapportarsi all’attualità cinematografica.
Scritto da Antonio Orrico
Caught By The Tides
di Jia Zhang-ke
Il cinema di Jia Zhang-ke, regista cardine della Sesta Generazione cinese, è da sempre uno specchio diretto dei cambiamenti che il Paese asiatico attraversa con il passare del tempo.
Nel suo ultimo film, Caught By The Tides, presentato nell’ultima edizione del Festival di Cannes, il regista cinese ripropone un best of della sua poetica mediante un formato sperimentale che connette Settima Arte e Storia, reinventando e rimontando le immagini dei suoi stessi film - da Unknown Pleasures (2002) a Platform (2000) passando per Still Life (2006) - in maniera tale da tramandare allo spettatore una lezione universale che si propaga attraverso la quarta dimensione.
Tramite essa, Jia Zhang-ke ripensa il proprio cinema e lo proietta verso il futuro tramite il personaggio di Zhao Tao, musa, ideale collante tra passato e futuro e costante “joyciana” di una narrazione che, partendo dal cinema già vissuto e ideato, spinge - attraverso uno straordinario collage - il popolo cinese verso un cinema che sarà, come mostra il finale connesso inevitabilmente a Still Life.
Il suo film più teorico e intellettuale, nonché un’opera-fiume che immortala la Cina in una crescita esponenziale e apparentemente senza freni.
Scritto da Antonio Orrico
Cloud
di Kiyoshi Kurosawa
In questo 2024, il regista giapponese Kiyoshi Kurosawa è ritornato al Lido di Venezia con uno dei suoi nuovi (tre) film: Cloud, un aggiornamento delle ossessioni tipiche del cinema del regista giapponese filtrate, in questo caso, attraverso il thriller/action. Kurosawa si rifà direttamente a prodotti come Creepy (2016) e Serpent’s Path (1998), ma ribaltandone radicalmente le logiche narrative, adoperando la metafora del capitalismo per indagare sul fallace benessere che la digitalizzazione può garantire.
Benessere che, seguendo la poetica del cineasta, diventa ossessione per le immagini, per gli schermi e che, man mano, si sviluppa come un virus in grado di infettare tutti coloro che gravitano attorno alla sua orbita. Un feticcio simulacrale dagli effetti devastanti, che porta il protagonista (Masaki Suda) al degrado psicologico dettato da un utilizzo sbagliato e ossessivo di Internet, del virtuale e di ciò che concerne gli schermi.
Scritto da Antonio Orrico
Il robot selvaggio
di Chris Sanders
Può la gentilezza essere uno strumento utile per sopravvivere in un mondo pieno di avversità? A questa domanda prova a rispondere l’ultimo film scritto e diretto da Chris Sanders, Il robot selvaggio: una favola contemporanea che attraverso il linguaggio della metafora animata compie una ricerca ontologica sulla natura dell’uomo.
Chiunque si confronti con quest’opera non può non sentirsi travolto emotivamente, in quanto, nonostante un’estetica rivolta principalmente ad un pubblico giovane, i temi trattati attraverso i rapporti fra personaggi sono indirizzati tanto ai bambini quanto agli adulti.
Con un stile grafico che si ispira alle pitture impressioniste, l’avventura del robot Roz e dell’anatroccolo Beccolustro mette in scena un rapporto genitore-figlio che ricorda La gabbianella e il gatto di Enzo D’Alò, al quale si aggiunge l’elemento ambientale: la natura diventa un vero e proprio personaggio e come i protagonisti imparano reciprocamente l’uno dall’altro, lo stesso accade fra loro e l’ambiente che li circonda.
Esempio egregio di racconto di formazione, Il robot selvaggio ricorda agli spettatori che anche nelle situazioni più avverse una buona azione può essere la soluzione.
Scritto da Francesco Sellitti
La Cocina
di Alonso Ruizpalacios
Con La Cocina Alonzo Ruizpalacios compie un piccolo miracolo narrativo, fondendo lo spazio e il tempo in un affollato ristorante di New York, il The Grill. La pellicola è un’opera di natura corale che acquista forza e carattere tramite i rapporti interpersonali tra i personaggi. I dipendenti del ristorante sono per lo più immigrati privi del permesso di soggiorno: latinoamericani, magrebini, orientali e asiatici, un misto di persone e culture unite dal desiderio di emergere, una disperata clandestinità collocata nel cuore dell’America.
L’autore realizza un microcosmo composto da turni di lavoro insostenibili e ritmi usuranti, smacco al sistema capitalistico pronto sacrificare le classi meno abbienti disumanizzando la persona, trasformandola nell'ingranaggio di una macchina impossibile da arrestare. La semantica del sogno americano assume un aspetto grottesco ed effimero, un’illusione tragicamente concreta a sfavore di tutti gli elementi "sostituibili” di una società irrimediabilmente deviata. I legami inscenati posseggono dolcezza e malinconica consapevolezza, rappresentando l’incessante guerra del tentare di ritagliarsi la propria porzione di genuina felicità.
La Cocina è un’opera politica necessaria nel panorama cinematografico contemporaneo, determinata presa di posizione al fianco dagli ultimi che, seppur dimenticati e volutamente emarginati, rappresentano un tassello chiave per la società.
Scritto da Luca Romani
Furiosa
di George Miller
La genialità artistica di George Miller non ha certo bisogno di presentazioni, dovizia tecnica e narrazione ritmata ne hanno fatto uno dei più grandi registi di action adventure della Storia del Cinema, Furiosa: a Mad Max Saga ne è l’ennesima conferma. Prequel del cult Mad Max: Fury Road (2015), l’ultima pellicola di Miller ci regala un approfondimento a tutto tondo sul personaggio di Furiosa, mostrando allo spettatore diversi luoghi solamente citati nel film precedente. Un viaggio crudele e sgraziato nella tormentata vita della protagonista (interpretata convincentemente da Anya Taylor Joy) ci guiderà nuovamente in una macabra danza sulla Fury Road.
Villain nuovi e iconici entrano in simbiosi ricostruendo scenari che arricchiscono la lore del Franchise, ritrovare Immortan Joe (Lachy Hulm) non può che provocare un sussulto a tutti i fan storici, e lo stesso discorso vale per il Mangia uomini (John Howard). Furiosa: a Mad Max Saga raffigura l’ultima fatica di un autore di altri tempi, un’odissea che ricerca disperatamente pace e speranza in un mondo ormai edificato su odio e violenza, un classico per le generazioni future.
Scritto da Luca Romani
Bestiari, erbari, lapidari
di Martina Parenti e Massimo D'Anolfi
Di fronte all’enciclopedica opera di Massimo D’Anolfi e Laura Parenti, dall’imponente durata di 205 minuti, è impossibile non rimanere turbati. Tre sono le parti di cui si compone (cioè quelle del titolo), così come sono tre gli elementi del cosmo che i due registi, di conseguenza, vogliono indagare in rapporto alle vicissitudini umane: ovvero gli animali, le piante e le pietre.
Allo stesso modo, ancora tre sono i metodi di indagine archivistica che compongono le sezioni film: nella prima parte, ad essere esplorato, è un archivio cinematografico di rappresentazioni animali, che diventa una riflessione sui continui tentativi umani di dominio tramite l’immagine; nella seconda parte è in scena l’archivio vegetale dell’orto botanico di Padova (costruito in memoria di Bruno Ugolini, soldato italiano della prima guerra mondiale), una commovente messa a fuoco sulla cura delle piante e sulla loro incredibile natura; la terza parte, invece, mostra l’archivio delle pietre di inciampo contenuto nel tessuto urbano, elemento di costruzione di una memoria collettiva.
Lo studio millimetrico e disteso dei due, ormai affermatissimi, registi giunge qui a una forma perfettamente limata, in cui la riflessione sull’uomo e la temporalità arriva a toccare esiti di rara bellezza. In una struttura a climax è l'essere umano che esce sconfitto e rimesso ai margini del cosmo, dalla linearità animale, passando per la circolarità botanica fino all’immortalità delle pietre.
Scritto da Matteo Burburan
Bird
di Andrea Arnold
Se parliamo di coming of age, Bird è probabilmente uno dei più bei lavori legati a questo genere usciti negli ultimi anni. C’è chi ha detto che è un Truffaut-Fantasy o un racconto di Julio Cortázar. Di sicuro, pare che Andrea Arnold conosca Misericordia (2023), perché il suo protagonista, interpretato da Franz Rogowski, assomiglia sorprendentemente al Simone Zambelli del film di Emma Dante. La trasfigurazione, infatti, è il tema portante di un'opera che gioca tra le finzioni di cui raccontava Jorge Luis Borges, tra l’incanto e il disincanto.
Se Bird è una fiaba, l’elemento magico è la terra dell’abbastanza direbbero i Fratelli d’Innocenzo. La periferia, dunque, da non-luogo, culla della mitomania, diventa l’alveo della redenzione, in cui l’assenza di possibilità e di riscatto dalla propria condizione sociale rappresentano l’innesco di un’immaginazione bulimica, lacerante. Per citare un noto film italiano: nessuno si salva da solo.
Nei piccoli cortometraggi che Bailey registra con lo smartphone, Arnold ha canalizzato il sentimento di una generazione che cerca disperatamente un senso di appartenenza. Per credere all’augurio finale - andrà tutto bene - che Bird rivolge all’altra protagonista, è necessario escludere dalla finzione la menzogna, se per menzogna intendiamo che la realtà sia solo la realtà (scriveva Giuseppe Berto). Di conseguenza, forse, andrà tutto bene.
Scritto da Davide Spinelli
Il seme del fico sacro
di Mohammad Rasoulof
Sappiamo tutti che Raskòl'nikov, protagonista del romanzo Delitto e Castigo, dopo aver ammazzato l’usuraia e sua sorella, non sa come scappare dall’appartamento in cui ha appena commesso l’omicidio. The Seed of the Sacred Fig racconta cosa vuol dire non poter scappare da quell’appartamento (a differenza di Raskòl'nikov), che nel caso del film di Mohammad Rasoulof è l’Iran.
Se con il film precedente, Il male non esiste (2020), Rasoulof impostava un discorso teoretico sul metodo, The Seed of the Sacred Fig rappresenta il controcampo della ragion pratica, tra la legge morale e il diritto positivo: la storia, infatti, fotografa le violenze scaturite dalle grandi proteste di piazza che hanno fatto eco alla morte di Mahsa Amini, studentessa ammazzata dalla polizia iraniana nel 2022.
Il regista, forse, non replica l’intensità del film precedente, a tratti travolgente, ineluttabile nella sua ferocia; tuttavia, ancora una volta, alla sua decima pellicola, prosegue con grande compostezza formale la sua poetica fatti di simbolismi, meta-narrazione e, appunto, interrogativi morali alla Tolstoj: dove c’è giudizio, non c’è giustizia è scritto in Guerra e pace.
Scritto da Davide Spinelli
Emilia Pérez
di Jacques Audiard
Emilia Pérez di Jacques Audiard è una grande e sgargiante epica contemporanea: sopra le righe, melodrammatico, musicale. La storia del percorso di transizione di genere del temuto narcotrafficante Manitas Del Montes è raccontata attraverso un pastiche di generi, toni, stili, racconti che si contengono in un gioco di scatole cinesi. Ogni personaggio racconta sé stesso e qualcos’altro, qualcun’altro: un grande mosaico fatto di stralci di esistenza che si contaminano, di voci che riverberano, di passioni che collidono ed esplodono.
Le performance delle quattro attrici protagoniste, tutte vincitrici del Prix d'interprétation féminine al Festival di Cannes 2024, sono complesse, dinamiche: Karla Sofia Guascon, Zoe Saldana, Adriana Paz e Selena Gomez con le loro voci, i loro corpi e la loro gestualità non si tirano indietro, non giocano per sottrazione: danno tutto quello che hanno, infondono vita e dramma nei loro personaggi, infuocano la scena. Perché Emilia Pérez è un grande palcoscenico e non lo nasconde, al contrario valorizza la sua natura di spettacolo e si prende tutto lo spazio del grande schermo sfruttando ogni mezzo che il cinema può offrire. E nello sfruttare la sua natura fittizia ci offre il quadro più ambizioso e autentico di un’umanità che travalica le norme, i ruoli, il linguaggio e si racconta attraverso il dolore, l’amore, la crudeltà e il cambiamento. Una grande narrazione che sgretola le narrazioni e tutte le loro zavorre simboliche.
Scritto da Sofia Racco
Parthenope
di Paolo Sorrentino
Con Parthenope Paolo Sorrentino insegue la chimera della giovinezza che non ha mai vissuto. È lo stesso regista che riassume in questo modo gli intenti alla base del suo ultimo film, mettendolo in relazione con il suo lavoro più autobiografico: È stata la mano di Dio (2021). Giovinezze reali e immaginate che si consumano tra le strade di Napoli, madre e tiranna che intesse e disfa i fili del destino, il dolore sordo e furioso del lutto che si insinua nella spensieratezza e impregna lo scorrere del tempo: questi sono gli elementi che legano le ultime due opere di Sorrentino.
Parthenope, interpretata da Celeste Dalla Porta è barocca, magniloquente ed evasiva, onnipresente e sfuggente, imperiosa quanto inconsistente. È sfrontata, usa le parole come maschera e come scudo: frasi fatte come incantesimi che, nella loro finzione, rivelano qualcosa di essenziale, elementare, viscerale.
Seguendo Parthenope nel corso della sua vita assistiamo all’avvilupparsi di un grande mistero e il suo riflesso. Sospesi in una Napoli dove innocenza e perdizione si mescolano, non possiamo fare a meno di chiederci: è un mistero o una truffa?
Scritto da Sofia Racco
Broken Rage
di Takeshi Kitano
“Il regista ha un volto di pietra e una voce profonda che, aggiunti alla durezza del suo accento giapponese, davano alle risposte un tono dogmatico e asciutto. Una volta tradotte, però, si rivelavano ironiche o autocritiche. Kitano in realtà è incapace di dire qualunque cosa senza trasformarla in una specie di battuta, ma lo fa con una faccia da baro a poker che non hai il coraggio di ridere, hai la sensazione che se non annuisci con rispetto potrebbe ucciderti”. Così Laurent Tirard descrive Takeshi Kitano dopo averlo incontrato a Cannes nel 1999. Una breve descrizione che riesce a riassumere l’affascinante poetica dualistica del cineasta.
Quest'anno è stato presentato fuori concorso a Venezia 81 Broken Rage, il suo ultimo film, diviso in due atti, che, appunto, come fosse una summa della sua opera, racconta la commedia slapstick e il serioso mondo gangsteristico. Nezumi (faccia di pietra-Takeshi Kitano) è un sicario che si muove nei bassifondi della malavita, e si ritrova a collaborare con la polizia per incastrare un boss della yakuza. Poi il film si interrompe. La seconda parte riprende lo stesso schema, la stessa storia, ma assume toni parodistici e dissacranti che distruggono - ancora una volta ma qui con modi inesplorati dal cineasta - ogni regola narrativa imposta dal gangster movie (canoni che Kitano stesso ha contribuito a creare).
Sono due identità (e possibilità, o due punti di vista) che convivono in un unico racconto, intramezzato da alcuni commenti che esprimono un parere sulla sezione passata. L'opera, che dura appena un’ora, è costruita su una consapevole semplicità, funzionale a creare due (anche se forse si tratta di una singola) icone, due simboli autoriflessivi che analizzano un’intera filmografia. Finché non si arriva alla fine con un terzo, inaspettato, e brevissimo episodio. Noi continuiamo a ridere, ma sempre con la sensazione che Takeshi Kitano potrebbe ucciderci.
Scritto da Edoardo Marchetti
Dune parte II
di Denis Villeneuve
Il cinema è arte o intrattenimento? Questione di soldi al botteghino o di dibattiti al cineforum? Per alcuni film è vera una risposta, e per alcuni film l'altra. Ma è anche vero che soltanto pochi titoli, nel corso della storia del cinema, sono riusciti a sposare perfettamente la dimensione commerciale con quella artistica inserendosi così nella categoria "grandi successi per grandi film". Quest'anno, però, si può aggiungere un nuovo titolo alla lista: Dune - parte II.
Denis Villeneuve non è solo riuscito a scalare le classifiche del botteghino, a completare un progetto considerato infilmabile ed a sfornare un sequel migliore del suo precedessore, ma anche a dar vita ad un mondo. Un mondo fatto dalla bellissima musica di Hans Zimmer (che compone alcune delle migliori tracce della sua discografia), dall'artistica fotografia di Greig Fraiser (e dall'incredibile sequenza in bianco e nero girata con obiettivi a infrarossi) o dalle imponenti scenografie di Patrice Vermette.
Ma un film non è fatto solo di affascinanti immagini, e Villeneuve lo sa bene: la storia di Dune - parte II coinvolge tanto quanto la sua estetica, riuscendo a stupire senza rinunciare a interrogare, non abbandonandosi alla mera spettacolarizzazione ma anzi mettendola al servizio della narrazione. Così il regista canadese racconta l’intimità di una storia d’amore attraverso la lente di un’epica sci-fi, intrecciando dilemmi morali a coreografie impeccabili e sequenze d’azione memorabili.
Scritto da Eduardo Bigazzi
Dahomey
di Mati Diop
Orso d’oro all’ultima Berlinale, il documentario di Mati Diop testimonia la memorabile restituzione da parte del governo francese di ventisei tesori reali del Dahomey, regione dell’attuale Benin. Il viaggio di queste opere, trafugate insieme ad altre migliaia durante l’invasione coloniale francese di fine Ottocento, è lo spunto per una peregrinazione nella memoria alla ricerca di un’identità condivisa e non più sradicata.
Tramite le voci di giovani studenti africani e quella magica, proveniente dal sottosuolo della storia, di una delle statue sottratte, Dahomey affronta temi cruciali come la giustizia e il risarcimento, riflettendo con folgorante lucidità su quanto ancora oggi una visione colonialista e gerarchica informi il modo occidentale di pensare la differenza culturale, allestire mostre, guardare con occhi predatori ciò che è lontano e straniero.
Il film-dibattito di Diop allarga le conoscenze dello spettatore senza volerlo istruire. Per chi ha bisogno di nuove coordinate e di ripulire il suo sguardo, orientandosi tra privilegio e sopraffazione, orgoglio e potere.
Scritto da Andrea Tiradritti
Il ragazzo e l'airone
di Hayao Miyazaki
Giunto in una casa di campagna insieme al padre, mentre Tokyo è sotto le bombe, il giovane Mahito scopre una vecchia torre abbandonata. Un misterioso airone antropomorfo lo convincerà a entrarci con la promessa di rivedere la madre, scomparsa durante un attacco aereo. Ed è già qui, all’inizio del viaggio, che Miyazaki svela le sue carte. Per accedere alla torre bisogna passare per una galleria sotterranea, e all’ingresso, appena visibile nella penombra, c’è una scritta: “Fecemi la divina potestate”.
Il viaggio di Mahito paragonato a quello di Dante, quindi, che nel terzo canto della Commedia aveva letto le stesse parole sulla porta dell’Inferno, parole che attestavano la natura divina di quella soglia. E questo è solo il primo e il più esplicito dei rimandi danteschi nel film: la guida di Virgilio diventa quella dello spirito-airone, la ricerca della madre sostituisce quella di Beatrice, il susseguirsi dei tremendi gironi infernali si declina qui in una serie di immagini visionarie e spaventose, come l’attacco dei pellicani contro i wara-wara, gli spiritelli dei non-nati.
Ma ciò che accomuna più di ogni cosa le due opere è la perfezione formale raggiunta dai loro autori: lì il verso, portato al suo apice, qui l’immagine animata, rifinita per settimane alla ricerca di una particolare espressione su un volto, di un dettaglio su uno sfondo, di un movimento impercettibile in un fotogramma chiave. Il ragazzo e l’airone, uscito dopo quasi dieci anni di lavoro dalle officine dello Studio Ghibli, è forse l’ultimo lascito di Hayao Miyazaki al mondo.
Scritto da Luigi Muneratto
Kinds of Kindness
di Yorgos Lanthimos
Chissà se Yorgos Lanthimos, in questa scia di grande produttività e di prolifica creazione (due film agli Oscar, uno a Cannes e due cortometraggi in meno di sei anni) non abbia fatto un po’ di confusione e, in preda alla smania creativa, abbia scelto erroneamente i titoli delle sue ultime opere. Sì, perché a sembrare delle vere Povere Creature! (2023) sono in realtà gli esseri umani che abitano l’ultimo film del regista greco, dal titolo (dunque sbagliato) di Kinds of Kindness.
Un’opera antologica, tre storie accomunate dalle interpretazioni della medesima rosa attoriale (in prima linea Plemons - Stone - Dafoe - Qualley) impegnata in un gioco delle parti dove ci si diverte a cambiarsi reciprocamente di posto. Se c'è una cosa che infatti Lanthimos ha saputo tenere salda nel corso della sua filmografia è la costruzione di giochi dove calare i suoi personaggi, che si fanno prima di tutto carne e poi pensiero, e dove i dettami vengono decisi da lui. Sono direttive ferree, date per assunte.
E anche se tutto sembra un grande punto interrogativo non c'è mai un perché, sono le regole. E le regole non si discutono, si rispettano. E se non c'è un perché, Lanthimos ci lascia quantomeno divertirci con il "come”. Dopotutto, la forza di Kinds of Kindness sta proprio nella sua natura dichiaratamente ludica. Un girotondo impazzito dove i personaggi tornano ad essere prima di tutto corpi, goffi e incapaci di capire le regole a cui sono soggetti da sempre. Un po' come noi povere creature.
Scritto da Lorenzo Vitrone
A Different Man
di Aaron Schimberg
A Different Man è un’esplorazione audace e inquietante di ciò che significa essere sé stessi. Attraverso un intreccio che unisce thriller psicologico, dramma esistenziale e umorismo nero, Aaron Schimberg pone domande profonde: siamo ciò che gli altri vedono, o ciò che noi ci raccontiamo? La chirurgia che trasforma Ethan, interpretato da Sebastian Stan, diventa una potente metafora sul desiderio umano di sfuggire a sé stessi, ma il film non concede facili risposte. Le luci fredde amplificano il senso di disagio, garantendo un’esperienza che risuona anche dopo la visione.
La promessa è quella di un nuovo inizio per Ethan, e in un certo senso lo sarà davvero. La sua faccia, la sua pelle, sono una maschera fresca, però ciò che contiene resta identico. In A Different Man questo tema è centrale: cambiando il suo volto Ethan cerca di abbandonare l’alienazione del suo passato, ma scopre che la sua nuova identità è solo un altro modo per affrontare il peso di ciò che era.
L'opera di Schimberg non presenta un protagonista eroico: Ethan è tormentato, contraddittorio, eppure impossibile da ignorare. Attorno a lui gravita una storia che scava nel bisogno di accettazione che permea la società, costringendo a guardare oltre la superficie e a riflettere su quanto si è disposti a sacrificare per sentirsi accolti.
Scritto da Lorenzo Messina
C’est pas moi
di Leos Carax
Nel 1997 il Festival di Cannes, nell’anno del suo cinquantesimo anniversario, commissionò a Leos Carax un cortometraggio pensato come una cartolina da dedicare alla Croisette. Il regista francese consegnò Sans Titre, opera sperimentale e di rimontaggio in cui viene filtrato anche un pezzo della sua vita. Nel 2024 il Centre Pompidou gli chiede, per una mostra mai svolta, di rispondere per immagini alla domanda “Dove sei, Leos Carax?”. Lui risponde così: C’est pas moi.
Per analizzare questo suo ultimo lavoro bisognerebbe forse partire dalla fine, quando Carax stesso ci dice che gli esseri umani sbattono le palpebre 15-20 volte al minuto. 1200 volte all’ora. 28000 volte al giorno. Devono farlo, perché gli occhi si seccano e rischiamo di diventare ciechi. Per vedere dobbiamo non vedere un po’. Ma le immagini, oggi, vivono di un flusso ininterrotto, un bombardamento continuo che ci impedisce di osservare. Per un avanguardista come Carax la forma breve (o media, come in questo caso) è sempre stata un veicolo di sperimentazione.
In C’est pas moi il regista ripercorre la sua carriera attraverso tutte le sue immagini: ripercorre la sua vita attraverso il cinema e ripercorre il cinema attraverso la storia. Ne risulta un videosaggio che riflette sull(e)’immagine/i attraverso l(e)’immagine/i, con modalità affini al contemporaneo - il riutilizzo di materiali (anche, e forse soprattutto, di altri), l’ibridazione dei contenuti, la risignificazione dei testi - ma con uno spirito tenacemente novecentesco (come Carax stesso rivendica). Una sorta di Histoire(s) du cinéma (1988-1998) o di Adieu au langage (2014) di godardiana memoria.
Dov’è quindi Leos Carax? Nell’arte, nel cinema, nella vita (?), che in fondo sono un po’ la stessa cosa. Bisogna solo prendersi il tempo di non vedere, per cercare di sentire.
Scritto da Mario Vannoni
Longlegs
di Oz Perkins
Negli Stati Uniti è stato l’evento cinematografico dell’estate. Con un budget stimato sotto i 10 milioni ne ha guadagnati circa 127 in tutto il mondo, grazie soprattutto a una campagna di marketing virale e intelligente, capace di stimolare la curiosità (e il terrore) negli spettatori. Qui in Italia Longlegs è stato presentato come “il nuovo silenzio degli innocenti”. Sicuramente i due film presentano alcune affinità: una su tutte la presenza di un serial killer dal modus operandi decifrabile come un codice che viene cacciato da una giovane agente dell’FBI. Ma a ben vedere le somiglianze finiscono qui.
Infatti, Longlegs stupisce per la svolta sovrannaturale a cui la trama va incontro, da molti osteggiata ma che, al contrario, costituisce il vero punto nodale di tutta la costruzione che il regista Oz Perkins decide di mettere in piedi, qui come nel resto del suo cinema, da sempre ancorato a una riflessione sul Male, in apparenza indagato nei suoi tratti sociologici ma che infine diviene imprendibile rivelandosi oltremondano - pensiamo in particolare a The Blackcoat's Daughter (2015).
In ultima analisi, Lee Harker (Maika Monroe), la protagonista del film, somiglia nettamente di più al Dale Cooper delle prime due stagioni di Twin Peaks (1990-1991), che non alla Clarice Sterling de Il silenzio degli innocenti: con lui condivide abilità che vanno oltre il razionale e sconfinano nel magico, nella preveggenza, nella predestinazione. È questo il contrasto interno che fa di Longlegs un grande lungometraggio. A fronteggiare una costruzione filmica che fa dell’eleganza della messa in scena - a tratti maniacale e posh - e della precisione espressiva i suoi cardini stilistici, interviene l’inafferrabilità del reale e l’impossibilità di ridurlo a schema. Questo spaesamento, questa perturbazione delle aspettative è il vero orrore di Longlegs. La ragione e l’assurdo. L’ordine e l’insensato. L’intelletto e il pensiero magico.
Scritto da Mario Vannoni