NC-204
14.05.2024
Ogni competizione si porta dietro un grande sconfitto, e oggi, in occasione dell'apertura della 77ª edizione del Festival di Cannes, ODG vi propone una personale selezione di tutti quei film che, nelle passate edizioni, avrebbero meritato un premio, ma che per una ragione o per l'altra sono stati lasciati in disparte nel palmarès.
Palma d’oro: Drive My Car (2021)
Subito dopo l’annuncio della vittoria dell’opera seconda di Julia Ducournau è stato piuttosto interessante osservare le reazioni contrastanti di alcuni membri della giuria; tra queste spiccarono quelle di Kleber Mendonça Filho e Mati Diop, che non avevano nascosto il proprio disaccordo per la scelta di Titane. Secondo alcuni rumors, confermati dalla stessa Diop con un post sui social media, la giuria era divisa tra Titane e Memoria di Apichatpong Weerasethakul. L’ipotetica vittoria del regista thailandese sarebbe stata accolta più favorevolmente di quella di Ducournau, ma oggi vogliamo porre enfasi su quello che crediamo sia stato il più grande snobbato dell’edizione di Cannes 2021: Drive My Car di Ryusuke Hamaguchi. Il capolavoro del cineasta giapponese si è dovuto accontentare solo del premio alla miglior sceneggiatura, una scelta che è stata di certo meritevole, soprattutto per il magistrale lavoro nell’adattare diversi racconti brevi di Murakami connettendoli e incorporandoli in un’unica narrativa… ma ci si aspettava molto di più per un lavoro del genere. Infatti, il film é stato il più acclamato del festival a livello di critica ed ha saputo riscontrare il medesimo successo anche nei mesi successivi, riuscendo anche ad ottenere cinque nomination agli Oscar. Tramite un ritmo pacato contraddistinto da lunghe conversazioni, Hamaguchi è riuscito a dirigere un’opera nella quale il pubblico ha saputo trovare una connessione con i suoi personaggi e capire i loro dubbi esistenziali. In un primo istante, Titane è sembrata una scelta provocatoria, puntata a fare scalpore per il modo in cui Ducornau ha tentato di rivoluzionare il body horror tramite l’inserimento della tematica dell'identità di genere. Ma, dopo ben tre anni da quella “storica” vittoria, l’effetto sorpresa sembra essersi smorzato, e ai postumi verrà maggiormente ricordato Drive My Car.
Miglior attrice: Deborah Kerr per Suspense (1962)
Una delle più grandi dimenticanze nella categoria attoriale della storia di Cannes, è certamente il mancato riconoscimento a Deborah Kerr durante l’edizione del 1962. Interprete britannica dotata di uno straordinario temperamento drammatico, che spesso ha saputo sfruttare a sua vantaggio in commedie o lavori più leggeri, la Kerr è stata ripetutamente “dimenticata” nei Palmarès dei Festival internazionali o dagli Academy Awards - fu candidata alla leggendaria statuetta per ben sei volte senza mai riuscire a salire sul podio. Con Suspance, eccezionale trasposizione letteraria del celebre romanzo gotico Giro di vite di Henry James, l’attrice ebbe l’occasione di regalare una prova assolutamente superlativa. Per caratterizzare il complesso personaggio di miss Giddens la Kerr decise di adoperare un’espressività in continuo mutamento, il suo viso passava così dalla dolcezza delle prime sequenze, ad un lento, e straniante, delirio metafisico. Tutta la narrazione di Suspense si basa proprio su questa “incertezza dello sguardo”: per tutto lo svolgimento della pellicola lo spettatore e costantemente portato a chiedersi se gli inquietanti accadimenti che stanno avvenendo sotto i suoi occhi siano reali o semplicemente frutto della psiche deviata della protagonista. La Kerr riuscì quindi nell’impossibile impresa di interpretare, contemporaneamente, due versioni del medesimo personaggio. Ma, nonostante il “tris di assi” che si trovò tra le mani, l’attrice si vide “soffiare” il premio dalla veterana Katharine Hepburn - per Lungo viaggio verso la notte di Sidney Lumet - e dalla giovane Rita Tushingham - per Sapore di miele di Tony Richardson - vincitrici, in ex-aequo, del Prix d'interprétation féminine di quell’anno. Nonostante l’innegabile qualità interpretativa delle due attrici, la ragione di una dimenticanza così plateale da parte della giuria capitanata dallo scrittore giapponese Tetsuro Furukaki rimane un mistero. Dal momento che vennero premiati anche i rispettivi comprimari - nel caso della Hepburn Dean Stockwell, Ralph Richardson e Jason Robards, mentre in quello della Tushingham Murray Melvin - si può ipotizzare in una decisione di riconoscere il lavoro di un intero cast. Purtroppo le vere ragioni che si celano dietro all’assegnazione di quel premio non verranno mai svelate, l’unica cosa che si può fare è recuperare il prima possibile Suspense per godere della straordinaria forza espressiva di un’attrice indimenticabile.
Miglior Regia: Maurice Pialat per Van Gogh (1991)
Anche se ad oggi viene riconosciuto come una personalità essenziale nella storia del cinema francese, Maurice Pialat è stato un regista che ha dovuto spesso combattere per poter essere compreso pienamente. Il suo cinema, diretto, doloroso e privo di mezzi termini, ha sempre rappresentato una sfida e, spesso, una fonte di accanimento gratuito da parte della critica, incapace di comprendere l’enorme estro e l'abissale profondità di un autore innegabilmente unico. Correva l’anno 1991 è Pialat si presentò in concorso con Van Gogh, un film fortemente voluto dall’allora delegato generale del festival Gilles Jacob. Il regista tornava in concorso a seguito della Palma d’Oro vinta, nel 1987, per Sotto il sole di Satana, un trionfo dolce-amaro poichè estremamente contestato dalla stampa e da gran parte del pubblico del Palais des Festivals. Rimane negli annali il momento in cui un coraggioso Pialat, difeso strenuamente da Catherine Deneuve e Yves Montand, ritira il premio principale nel mezzo di una pioggia di fischi ed esclama «Si vous ne m'aimez pas je peux vous dire que je ne vous aime pas non plus (Se non vi piaccio, posso dirvi che neanche voi mi piacete)». Con questi presupposti qualsiasi cineasta ci avrebbe pensato due volte prima di riaccettare la competizione, ma non Pialat e, a poche settimane dall’inizio della 44ª edizione del Festival, decise che il suo nuovo lavoro avrebbe sfilato sul tappeto rosso della kermesse. La preparazione per riuscire a presentare Van Gogh a Cannes fu rocambolesca, tanto che del film venne proiettata la copia di lavorazione, l'unica disponibile in quel momento. In compenso, la serata di presentazione fu letteralmente un trionfo, e il lungometraggio ricevette una generosa, e meritatissima, standing ovation. Gli ultimi, tragici, mesi della vita del celebre pittore olandese venivano raccontati con il crudo realismo tipico del cinema di Pialat, ma questa volta il tutto era accompagnato da una splendida “poesia delle immagini”, una sinfonia di colori e suoni perfettamente calibrata e potentemente commovente. Il gioco sembrava fatto e il premio alla regia già nelle mani di Pialat, a cambiare le carte in tavola fu però l’ingresso di Barton Fink. Il quarto lungometraggio dei fratelli Coen mandò letteralmente fuori dai gangheri il presidente di giuria Roman Polanski che, entusiasmato dalla visione del film, decise avventatamente di dedicargli un intero palmarès (Palma d’oro, attore protagonista e regia) dimenticandosi di distribuire equamente i premi. Un vero peccato, poichè Van Gogh era un film da tenere decisamente in considerazione come miglior regia. A consolare, però, questo mancato riconoscimento rimane il fascino immutato del film nonostante i suoi trentaquattro anni d’età. Un’opera da riscoprire, che mostra tutta la grandezza di un regista assolutamente unico.
Palma d’oro: Millennium Mambo (2001)
La vittoria de La Stanza del Figlio di Nanni Moretti è stato un risultato piuttosto inaspettato; prima della cerimonia, era iniziata a girare una voce riguardo la possibile presenza del regista italiano nel palmarès, ci si aspettava una vittoria per la sceneggiatura oppure un premio della Giuria, ma mai una per il premio più importante, soprattutto vista la presenza e lo status di “favoriti” di Mulholland Drive di David Lynch, che vinse il premio alla regia, e La Pianiste di Michael Haneke, che invece si dovette “accontentare” dei premi di miglior attore e attrice, oltre a quello della giuria. Nonostante la qualità altissima dei tre film appena citati, questi hanno oscurato e rubato la scena ad alcuni grandi titoli del cinema asiatico. Oltre a What Time Is It There? di Tsai Ming-liang, uno dei grandi snobbati di quell’edizione fu Millennium Mambo di Hou Hsiao-hsien. L’opera del regista taiwanese ha segnato un vero e proprio punto di rottura nella sua carriera; Hou infatti era riconosciuto per i suoi film “storici”, quali A City of Sadness (1989), vincitore del Leone d’Oro, o Flowers of Shanghai (1998), e ad un primo impatto stupì vedere questo cambio di direzione. L’opera racconta la storia di Vicky (Shu Qi), una ragazza che si trasferisce in una nuova città ed inizia una travagliata, o meglio, “tossica”, relazione con Hao-Hao. Quello che affascina di più dell’opera di Hou è il modo in cui costruisce la narrazione tramite l’uso del piano sequenza; facendo ciò, il regista riuscì a rivoluzionare la concezione spazio-temporale della pellicola. Di fatto le sequenze si susseguono senza una collocazione temporale ben definita e il modo in cui la camera segue i personaggi all’interno del frame mette ancora più in risalto lo stato di alienazione della giovane protagonista. Millennium Mambo è una delle opere più significative del cinema asiatico di inizi anni 2000, ed è un vero peccato che non si sia portata a casa la Palma d’Oro.
Miglior regia: Peter Brook per Il signore delle mosche (1963)
Peter Brook è un autore che viene troppo spesso dimenticato nei libri di storia del cinema, un uomo profondamente legato al teatro, di cui ha saputo sapientemente rivoluzionare i canoni shakespeariani, le avanguardie post-belliche e le tradizioni operistiche. Probabilmente è stata questa sua fedele adesione al palcoscenico a penalizzare la fama dei suoi lavori cinematografici, contribuendo a far finire nel dimenticatoio dei pezzi inestimabili della sua filmografia. Di certo il cinema di Brooks non è per tutti i gusti e, a tratti, può rappresentare una vera e propria sfida per lo spettatore. Di forte derivazione letteraria e teatrale, i lavori di questo regista apolide, che ha girato film tra l’Inghilterra e la Francia, mettono in scena un mondo onirico e irreale, sospeso in una dimensione involuta ed ultraterrena. Quando giunse alla 16ª edizione del Festival di Cannes, Brook aveva già concorso per la Palma d’Oro nel 1960 con Moderato cantabile - lungometraggio che permise a Jeanne Moreau di vincere il Prix d'interprétation féminine - e in questo frangente si preparava a mostrare la sua versione de Il signore delle mosche, trasposizione del leggendario romanzo dello scrittore inglese William Golding. Quella che il cineasta mostrò al festival di Cannes 1963 fu una versione che riuscì a carpire perfettamente lo spirito del romanzo d’origine. Attraverso le sue stranezze e suoi toni apocalittici - che si rifacevano non poco alla tradizione del teatro della crudeltà - Brook riuscì a tradurre perfettamente in immagini la scrittura di Golding, restituendo un allucinata parabola sulla deriva della civiltà occidentale e sugli istinti primordiali dell’essere umano. In un’edizione contraddistinta dalla vittoria di un altra grande trasposizione letteraria - Il Gattopardo di Luchino Visconti - lo stile documentario ed estremamente moderno dell’opera di Brook avrebbe potuto rappresentare una facile e giusta strada verso il riconoscimento per la migliore regia, ma, malauguratamente e misteriosamente, in quell'edizione il premio non venne assegnato. Una scelta controversa, ma probabilmente dettata dal fatto che la giuria non riuscì a trovare una soluzione che accontentasse tutti.
Miglior Attrice: Sonia Braga per Aquarius (2016)
L’edizione del Festival di Cannes del 2016 verrà ricordata per le controverse scelte della giuria presieduta da George Miller; la seconda Palma d’oro a Ken Loach per I, Daniel Blake e la vittoria del Grand Prix di Xavier Dolan per Juste la fin du monde non hanno riscontrato il consenso generale di pubblico e critica, ma c’è un premio che ha stupito ancora di più, quello per miglior interpretazione femminile. Alla vigilia della cerimonia c’era molta attesa per questa categoria, ci si chiedeva se Isabelle Huppert per Elle sarebbe riuscita nell’impresa di vincere il suo terzo premio a Cannes, o se sarebbe stato il turno di Sandra Hüller per Toni Erdman, Kim Min-hee per The Handmaiden, Ruth Negga per Loving o Sonia Braga per Aquarius. La concorrenza era accanita, ma a trionfare fu, probabilmente,l’interpretazione femminile meno convincente dell’intera Competizione: quella di Jaclyn Jose per Ma’Rosa. L’opera di Brillante Mendoza delude per il modo riduttivo in cui affronta le problematiche della popolazione filippina e la corruzione del governo, trasformando una narrazione con ottimi spunti per un discorso politico complesso, in un misery porn dove il regista sembra più interessato a mostrare il continuo stato di degrado dei propri personaggi. Con queste limitazioni, la Jose cerca di trovare una certa profondità dietro alla protagonista, non riuscendo a mantenere sempre alto il livello per via di una sceneggiatura scarna e forzata. L’esatto opposto si potrebbe dire di Sonia Braga per Aquarius, la cui interpretazione racchiude perfettamente la rabbia e la frustrazione di un popolo costantemente manipolato da un governo oppressivo. Partendo da queste premessa politica, l’attrice, insieme al regista e sceneggiatore Kebler Mendonça Filho, crea un ritratto complesso di una donna che deve imparare a lasciarsi alle spalle il passato e, soprattutto capire l’importanza che l’ambiente circostante ha per un individuo, in questo caso la città di Recife. Si potrebbe scrivere a lungo di questa sensazionale interpretazione, ma dovremo limitarci a rimarcare il fatto che lo snub della leggendaria attrice brasiliana rimane uno dei più scandalosi della storia del festival.
Miglior attore: Peter Sellers per Oltre il giardino (1979)
Grazie alle sue camaleontiche capacità, Peter Sellers è stato un attore che ha plasmato dei personaggi entrati di diritto nella storia del cinema. Lolita (1962), La pantera rosa (1963), Il dottor Stranamore (1964), Hollywood Party (1968), sono solo una minuscola fetta di titoli costruiti sui suoi particolari “timbri interpretativi”. Durante la 33ª edizione del Festival di Cannes, l’attore si trovò a competere con la sua performance nel classico di Hal Ashby Oltre il giardino. La sua caratterizzazione di un giardiniere ingenuo e semi-analfabeta che per una serie di grottesche circostanze viene scambiato, o meglio usato dai potenti, come un simbolico messia moderno, rimane ancora oggi una delle interpretazioni più sottovalutate di sempre. Ad essere preferito all’attore britannico fu il bravissimo Michel Piccoli per Salto nel vuoto di Marco Bellocchio, che si aggiudicò un premio che, quell’anno, avrebbe avuto tutte le carte in regola per essere condiviso con Sellers.
NC-204
14.05.2024
Ogni competizione si porta dietro un grande sconfitto, e oggi, in occasione dell'apertura della 77ª edizione del Festival di Cannes, ODG vi propone una personale selezione di tutti quei film che, nelle passate edizioni, avrebbero meritato un premio, ma che per una ragione o per l'altra sono stati lasciati in disparte nel palmarès.
Palma d’oro: Drive My Car (2021)
Subito dopo l’annuncio della vittoria dell’opera seconda di Julia Ducournau è stato piuttosto interessante osservare le reazioni contrastanti di alcuni membri della giuria; tra queste spiccarono quelle di Kleber Mendonça Filho e Mati Diop, che non avevano nascosto il proprio disaccordo per la scelta di Titane. Secondo alcuni rumors, confermati dalla stessa Diop con un post sui social media, la giuria era divisa tra Titane e Memoria di Apichatpong Weerasethakul. L’ipotetica vittoria del regista thailandese sarebbe stata accolta più favorevolmente di quella di Ducournau, ma oggi vogliamo porre enfasi su quello che crediamo sia stato il più grande snobbato dell’edizione di Cannes 2021: Drive My Car di Ryusuke Hamaguchi. Il capolavoro del cineasta giapponese si è dovuto accontentare solo del premio alla miglior sceneggiatura, una scelta che è stata di certo meritevole, soprattutto per il magistrale lavoro nell’adattare diversi racconti brevi di Murakami connettendoli e incorporandoli in un’unica narrativa… ma ci si aspettava molto di più per un lavoro del genere. Infatti, il film é stato il più acclamato del festival a livello di critica ed ha saputo riscontrare il medesimo successo anche nei mesi successivi, riuscendo anche ad ottenere cinque nomination agli Oscar. Tramite un ritmo pacato contraddistinto da lunghe conversazioni, Hamaguchi è riuscito a dirigere un’opera nella quale il pubblico ha saputo trovare una connessione con i suoi personaggi e capire i loro dubbi esistenziali. In un primo istante, Titane è sembrata una scelta provocatoria, puntata a fare scalpore per il modo in cui Ducornau ha tentato di rivoluzionare il body horror tramite l’inserimento della tematica dell'identità di genere. Ma, dopo ben tre anni da quella “storica” vittoria, l’effetto sorpresa sembra essersi smorzato, e ai postumi verrà maggiormente ricordato Drive My Car.
Miglior attrice: Deborah Kerr per Suspense (1962)
Una delle più grandi dimenticanze nella categoria attoriale della storia di Cannes, è certamente il mancato riconoscimento a Deborah Kerr durante l’edizione del 1962. Interprete britannica dotata di uno straordinario temperamento drammatico, che spesso ha saputo sfruttare a sua vantaggio in commedie o lavori più leggeri, la Kerr è stata ripetutamente “dimenticata” nei Palmarès dei Festival internazionali o dagli Academy Awards - fu candidata alla leggendaria statuetta per ben sei volte senza mai riuscire a salire sul podio. Con Suspance, eccezionale trasposizione letteraria del celebre romanzo gotico Giro di vite di Henry James, l’attrice ebbe l’occasione di regalare una prova assolutamente superlativa. Per caratterizzare il complesso personaggio di miss Giddens la Kerr decise di adoperare un’espressività in continuo mutamento, il suo viso passava così dalla dolcezza delle prime sequenze, ad un lento, e straniante, delirio metafisico. Tutta la narrazione di Suspense si basa proprio su questa “incertezza dello sguardo”: per tutto lo svolgimento della pellicola lo spettatore e costantemente portato a chiedersi se gli inquietanti accadimenti che stanno avvenendo sotto i suoi occhi siano reali o semplicemente frutto della psiche deviata della protagonista. La Kerr riuscì quindi nell’impossibile impresa di interpretare, contemporaneamente, due versioni del medesimo personaggio. Ma, nonostante il “tris di assi” che si trovò tra le mani, l’attrice si vide “soffiare” il premio dalla veterana Katharine Hepburn - per Lungo viaggio verso la notte di Sidney Lumet - e dalla giovane Rita Tushingham - per Sapore di miele di Tony Richardson - vincitrici, in ex-aequo, del Prix d'interprétation féminine di quell’anno. Nonostante l’innegabile qualità interpretativa delle due attrici, la ragione di una dimenticanza così plateale da parte della giuria capitanata dallo scrittore giapponese Tetsuro Furukaki rimane un mistero. Dal momento che vennero premiati anche i rispettivi comprimari - nel caso della Hepburn Dean Stockwell, Ralph Richardson e Jason Robards, mentre in quello della Tushingham Murray Melvin - si può ipotizzare in una decisione di riconoscere il lavoro di un intero cast. Purtroppo le vere ragioni che si celano dietro all’assegnazione di quel premio non verranno mai svelate, l’unica cosa che si può fare è recuperare il prima possibile Suspense per godere della straordinaria forza espressiva di un’attrice indimenticabile.
Miglior Regia: Maurice Pialat per Van Gogh (1991)
Anche se ad oggi viene riconosciuto come una personalità essenziale nella storia del cinema francese, Maurice Pialat è stato un regista che ha dovuto spesso combattere per poter essere compreso pienamente. Il suo cinema, diretto, doloroso e privo di mezzi termini, ha sempre rappresentato una sfida e, spesso, una fonte di accanimento gratuito da parte della critica, incapace di comprendere l’enorme estro e l'abissale profondità di un autore innegabilmente unico. Correva l’anno 1991 è Pialat si presentò in concorso con Van Gogh, un film fortemente voluto dall’allora delegato generale del festival Gilles Jacob. Il regista tornava in concorso a seguito della Palma d’Oro vinta, nel 1987, per Sotto il sole di Satana, un trionfo dolce-amaro poichè estremamente contestato dalla stampa e da gran parte del pubblico del Palais des Festivals. Rimane negli annali il momento in cui un coraggioso Pialat, difeso strenuamente da Catherine Deneuve e Yves Montand, ritira il premio principale nel mezzo di una pioggia di fischi ed esclama «Si vous ne m'aimez pas je peux vous dire que je ne vous aime pas non plus (Se non vi piaccio, posso dirvi che neanche voi mi piacete)». Con questi presupposti qualsiasi cineasta ci avrebbe pensato due volte prima di riaccettare la competizione, ma non Pialat e, a poche settimane dall’inizio della 44ª edizione del Festival, decise che il suo nuovo lavoro avrebbe sfilato sul tappeto rosso della kermesse. La preparazione per riuscire a presentare Van Gogh a Cannes fu rocambolesca, tanto che del film venne proiettata la copia di lavorazione, l'unica disponibile in quel momento. In compenso, la serata di presentazione fu letteralmente un trionfo, e il lungometraggio ricevette una generosa, e meritatissima, standing ovation. Gli ultimi, tragici, mesi della vita del celebre pittore olandese venivano raccontati con il crudo realismo tipico del cinema di Pialat, ma questa volta il tutto era accompagnato da una splendida “poesia delle immagini”, una sinfonia di colori e suoni perfettamente calibrata e potentemente commovente. Il gioco sembrava fatto e il premio alla regia già nelle mani di Pialat, a cambiare le carte in tavola fu però l’ingresso di Barton Fink. Il quarto lungometraggio dei fratelli Coen mandò letteralmente fuori dai gangheri il presidente di giuria Roman Polanski che, entusiasmato dalla visione del film, decise avventatamente di dedicargli un intero palmarès (Palma d’oro, attore protagonista e regia) dimenticandosi di distribuire equamente i premi. Un vero peccato, poichè Van Gogh era un film da tenere decisamente in considerazione come miglior regia. A consolare, però, questo mancato riconoscimento rimane il fascino immutato del film nonostante i suoi trentaquattro anni d’età. Un’opera da riscoprire, che mostra tutta la grandezza di un regista assolutamente unico.
Palma d’oro: Millennium Mambo (2001)
La vittoria de La Stanza del Figlio di Nanni Moretti è stato un risultato piuttosto inaspettato; prima della cerimonia, era iniziata a girare una voce riguardo la possibile presenza del regista italiano nel palmarès, ci si aspettava una vittoria per la sceneggiatura oppure un premio della Giuria, ma mai una per il premio più importante, soprattutto vista la presenza e lo status di “favoriti” di Mulholland Drive di David Lynch, che vinse il premio alla regia, e La Pianiste di Michael Haneke, che invece si dovette “accontentare” dei premi di miglior attore e attrice, oltre a quello della giuria. Nonostante la qualità altissima dei tre film appena citati, questi hanno oscurato e rubato la scena ad alcuni grandi titoli del cinema asiatico. Oltre a What Time Is It There? di Tsai Ming-liang, uno dei grandi snobbati di quell’edizione fu Millennium Mambo di Hou Hsiao-hsien. L’opera del regista taiwanese ha segnato un vero e proprio punto di rottura nella sua carriera; Hou infatti era riconosciuto per i suoi film “storici”, quali A City of Sadness (1989), vincitore del Leone d’Oro, o Flowers of Shanghai (1998), e ad un primo impatto stupì vedere questo cambio di direzione. L’opera racconta la storia di Vicky (Shu Qi), una ragazza che si trasferisce in una nuova città ed inizia una travagliata, o meglio, “tossica”, relazione con Hao-Hao. Quello che affascina di più dell’opera di Hou è il modo in cui costruisce la narrazione tramite l’uso del piano sequenza; facendo ciò, il regista riuscì a rivoluzionare la concezione spazio-temporale della pellicola. Di fatto le sequenze si susseguono senza una collocazione temporale ben definita e il modo in cui la camera segue i personaggi all’interno del frame mette ancora più in risalto lo stato di alienazione della giovane protagonista. Millennium Mambo è una delle opere più significative del cinema asiatico di inizi anni 2000, ed è un vero peccato che non si sia portata a casa la Palma d’Oro.
Miglior regia: Peter Brook per Il signore delle mosche (1963)
Peter Brook è un autore che viene troppo spesso dimenticato nei libri di storia del cinema, un uomo profondamente legato al teatro, di cui ha saputo sapientemente rivoluzionare i canoni shakespeariani, le avanguardie post-belliche e le tradizioni operistiche. Probabilmente è stata questa sua fedele adesione al palcoscenico a penalizzare la fama dei suoi lavori cinematografici, contribuendo a far finire nel dimenticatoio dei pezzi inestimabili della sua filmografia. Di certo il cinema di Brooks non è per tutti i gusti e, a tratti, può rappresentare una vera e propria sfida per lo spettatore. Di forte derivazione letteraria e teatrale, i lavori di questo regista apolide, che ha girato film tra l’Inghilterra e la Francia, mettono in scena un mondo onirico e irreale, sospeso in una dimensione involuta ed ultraterrena. Quando giunse alla 16ª edizione del Festival di Cannes, Brook aveva già concorso per la Palma d’Oro nel 1960 con Moderato cantabile - lungometraggio che permise a Jeanne Moreau di vincere il Prix d'interprétation féminine - e in questo frangente si preparava a mostrare la sua versione de Il signore delle mosche, trasposizione del leggendario romanzo dello scrittore inglese William Golding. Quella che il cineasta mostrò al festival di Cannes 1963 fu una versione che riuscì a carpire perfettamente lo spirito del romanzo d’origine. Attraverso le sue stranezze e suoi toni apocalittici - che si rifacevano non poco alla tradizione del teatro della crudeltà - Brook riuscì a tradurre perfettamente in immagini la scrittura di Golding, restituendo un allucinata parabola sulla deriva della civiltà occidentale e sugli istinti primordiali dell’essere umano. In un’edizione contraddistinta dalla vittoria di un altra grande trasposizione letteraria - Il Gattopardo di Luchino Visconti - lo stile documentario ed estremamente moderno dell’opera di Brook avrebbe potuto rappresentare una facile e giusta strada verso il riconoscimento per la migliore regia, ma, malauguratamente e misteriosamente, in quell'edizione il premio non venne assegnato. Una scelta controversa, ma probabilmente dettata dal fatto che la giuria non riuscì a trovare una soluzione che accontentasse tutti.
Miglior Attrice: Sonia Braga per Aquarius (2016)
L’edizione del Festival di Cannes del 2016 verrà ricordata per le controverse scelte della giuria presieduta da George Miller; la seconda Palma d’oro a Ken Loach per I, Daniel Blake e la vittoria del Grand Prix di Xavier Dolan per Juste la fin du monde non hanno riscontrato il consenso generale di pubblico e critica, ma c’è un premio che ha stupito ancora di più, quello per miglior interpretazione femminile. Alla vigilia della cerimonia c’era molta attesa per questa categoria, ci si chiedeva se Isabelle Huppert per Elle sarebbe riuscita nell’impresa di vincere il suo terzo premio a Cannes, o se sarebbe stato il turno di Sandra Hüller per Toni Erdman, Kim Min-hee per The Handmaiden, Ruth Negga per Loving o Sonia Braga per Aquarius. La concorrenza era accanita, ma a trionfare fu, probabilmente,l’interpretazione femminile meno convincente dell’intera Competizione: quella di Jaclyn Jose per Ma’Rosa. L’opera di Brillante Mendoza delude per il modo riduttivo in cui affronta le problematiche della popolazione filippina e la corruzione del governo, trasformando una narrazione con ottimi spunti per un discorso politico complesso, in un misery porn dove il regista sembra più interessato a mostrare il continuo stato di degrado dei propri personaggi. Con queste limitazioni, la Jose cerca di trovare una certa profondità dietro alla protagonista, non riuscendo a mantenere sempre alto il livello per via di una sceneggiatura scarna e forzata. L’esatto opposto si potrebbe dire di Sonia Braga per Aquarius, la cui interpretazione racchiude perfettamente la rabbia e la frustrazione di un popolo costantemente manipolato da un governo oppressivo. Partendo da queste premessa politica, l’attrice, insieme al regista e sceneggiatore Kebler Mendonça Filho, crea un ritratto complesso di una donna che deve imparare a lasciarsi alle spalle il passato e, soprattutto capire l’importanza che l’ambiente circostante ha per un individuo, in questo caso la città di Recife. Si potrebbe scrivere a lungo di questa sensazionale interpretazione, ma dovremo limitarci a rimarcare il fatto che lo snub della leggendaria attrice brasiliana rimane uno dei più scandalosi della storia del festival.
Miglior attore: Peter Sellers per Oltre il giardino (1979)
Grazie alle sue camaleontiche capacità, Peter Sellers è stato un attore che ha plasmato dei personaggi entrati di diritto nella storia del cinema. Lolita (1962), La pantera rosa (1963), Il dottor Stranamore (1964), Hollywood Party (1968), sono solo una minuscola fetta di titoli costruiti sui suoi particolari “timbri interpretativi”. Durante la 33ª edizione del Festival di Cannes, l’attore si trovò a competere con la sua performance nel classico di Hal Ashby Oltre il giardino. La sua caratterizzazione di un giardiniere ingenuo e semi-analfabeta che per una serie di grottesche circostanze viene scambiato, o meglio usato dai potenti, come un simbolico messia moderno, rimane ancora oggi una delle interpretazioni più sottovalutate di sempre. Ad essere preferito all’attore britannico fu il bravissimo Michel Piccoli per Salto nel vuoto di Marco Bellocchio, che si aggiudicò un premio che, quell’anno, avrebbe avuto tutte le carte in regola per essere condiviso con Sellers.