NC-190
15.02.2024
Oggi si apre la 74ª edizione del Festival di Berlino, per ricordare questo appuntamento imprescindibile ODG vi propone una personale selezione dei grandi Orsi d’Oro che si sono susseguiti nel corso dei decenni.
Magnolia (1999), di Paul Thomas Anderson
Ogni volta che si cita Magnolia, una delle opere maestre di Paul Thomas Anderson, è impossibile non pensare alla scena finale del film: sulle note di Save Me di Aileen Mann, la camera si avvicina sempre di più su Claudia Gator (Melora Walters), ad un primo istante si può notare lo sguardo triste e disperato del personaggio, ma dopo poco tempo un sorriso inizia a comparire sul suo volto. La presenza del poliziotto Jim Kurring (John C. Reilly) la rassicura, e lei è pronta ad aprirsi verso un futuro più roseo. Questa bellissima sequenza racchiude appieno le tematiche principali del film. Siamo in grado di “salvare”, aiutare e in certi casi, perdonare qualcuno? Siamo disposti ad accettare aiuto nei momenti più bui della nostra esistenza? Non ci sono risposte semplici a queste domande, ma Magnolia ci dice che bisogna provare a compiere uno sforzo per comprendere la condizione altrui. Adoperando una struttura ad ensemble, che richiama esplicitamente Short Cuts (1993) di Robert Altman, l’iconico regista statunitense analizza le condizioni dei vari personaggi, mettendo in risalto le diverse sfaccettature e la complessità morale dietro a determinati comportamenti. Magnolia è il lavoro più umanista, e ottimista, di Anderson, un lungometraggio che gli valse la vittoria dell’Orso d’Oro nel 2000: il suo primo, grande, riconoscimento presso un festival europeo.
Il posto delle fragole (1957), di Ingmar Bergman
Una delle opere più osannate della lunga carriera di Ingmar Bergman, Il posto delle fragole ricopre un ruolo di primaria importanza nella storia del cinema. Attraverso una sorta di road-movie spirituale, Bergman scruta la figura del vecchio professore Isak Borg - interpretato da un commovente Victor Sjöström, pilastro della cinematografia scandinava - che, ormai giunto alla vecchiaia, compie un bilancio della sua esistenza e dei rapporti che l’hanno animata. Una pellicola che ancora oggi mantiene integra tutta la sua intensità drammatica; una riflessione sul ricordo, la vita, il passato e la struggente fatuità della giovinezza. Le sue atmosfere - in determinati momenti fiabesche ed oniriche, in altri orrorifiche e conturbanti - riescono, con straordinaria potenza, ad immergere lo spettatore in quel “mondo di ombre” tanto caro al leggendario regista svedese. Il critico Gianni Volpi lo definì «un film in cui si stratificano le grandi lezioni del pensiero nordico, di Kierkegaard e Strindberg, e le ricerche sul tempo della letteratura del Novecento, che riassorbe le scosse segrete di una società nella normale tragicità dell’esistenza». Premiato da Frank Capra, presidente di giuria nell’edizione del 1958, Il posto delle fragole è senza dubbio uno dei più iconici Orsi d’Oro del Festival di Berlino.
Central do Brasil (1998), di Walter Salles
Dora è un ex insegnante che, per guadagnarsi da vivere, scrive lettere per persone analfabete, dove queste le confessano i propri segreti e le condizioni tragiche in cui vivono. Queste lettere, però, non vengono sempre spedite; Dora non riesce a comprendere certe situazioni e spesso si crede superiore a queste persone, un comportamento al limite dell’ignobile. Tutto cambia quando, a causa di un incidente, Dora inizierà a prendersi cura di un giovane ragazzo appena rimasto orfano. Questo incontro accenderà qualcosa nel cuore della donna che, pian piano, inizierà a cambiare atteggiamento lasciandosi alle spalle il suo cinismo. Central do Brasil di Walter Salles, premiato nel 1998 con l’Orso d’Oro, è diventato in poco tempo uno dei grandi cult del cinema brasiliano per diversi motivi: su tutti, la straordinaria interpretazione di Fernanda Montenegro. Da citare è anche la rappresentazione schietta e senza fronzoli della dura realtà nelle metropoli brasiliane, aspetto messo in risalto da un eccezionale cast di attori non professionisti. Anche se non raggiunge gli apici di Pixote (1981), il capolavoro di Hector Babenco che ricalca tematiche simili, Central do Brasil rimane uno dei film più importanti della cinematografia sudamericana.
La parola ai giurati (1957), di Sidney Lumet
Undici giurati convinti della colpevolezza di un giovane ragazzo accusato di omicidio sono in procinto di sottoscrivere la sua condanna a morte, ma la loro assoluta certezza comincierà seriamente a vacillare quando il dodicesimo componente del gruppo - un fenomenale Henry Fonda, in una delle prove più convincenti della sua carriera - si opporrà alla versione dei fatti riportata durante il processo. Opera prima del trentatreenne Sidney Lumet, che con questo film inaugurerà una lunga e brillante carriera, La parola ai giurati è un geniale e tesissimo Kammerspiel che, facendo praticamente uso di un solo set, cattura con sublime maestria, l’attenzione di chi lo guarda fino all’ultimo secondo. I personaggi si muovono in un unico spazio che sembra restringersi sempre più man mano che la storia avanza. Straordinario il lavoro che Lumet riesce a compiere sulla suspance, la direzione degli attori e i movimenti di camera; tutti elementi che sfociano in una chiara denuncia ad un sistema giudiziario pressapochista, prevenuto e disumano.
Sorgo Rosso (1988), di Zhang Yimou
Dopo aver parlato de La Parola ai Giurati, è arrivato il momento di introdurre un’altra opera prima che venne riconosciuta con l’Orso d’Oro: Sorgo Rosso di Zhang Yimou. Come nel caso di Sidney Lumet, è davvero raro riscontrare una tale sicurezza dietro alla macchina da presa da parte di un cineasta esordiente. Nel caso di Zhang, questa padronanza si individua soprattutto nel modo in cui è riesce ad amalgamare gli elementi di alcuni racconti folkloristici e un tono melodrammatico, con il contesto storico dell’epoca rappresentata, ovvero quella della seconda guerra Cino-Giapponese. Sono inoltre da esaltare due aspetti chiave che condizioneranno le opere seguenti di Zhang; il lungo sodalizio con l’attrice Gong Li, che girerà insieme al regista altri sette film, e l’impressionante uso della palette, dove il colore rosso assume un significato metaforico oltre che estetico. La vittoria dell’Orso d’Oro, nel 1988, è da ricordare anche come il primo trionfo di un film cinese sulla scena internazionale. Un premio che sarà poi bissato da La donna del lago delle anime profumate (Xian Hunnü, 1993) di Xie Fei, Il matrimonio di Tuya (Tuya de hun shi, 2006) di Quan'an Wang e Fuochi d’artificio in pieno giorno (Báirì yànhuǒ, 2014) di Diao Yinan.
L'ascesa (1977), di Larisa Efimovna Šepit'ko
Nel corso di un gelido ed innevato inverno, due partigiani della Grande Guerra Patriottica - per i russi la Seconda Guerra Mondiale - vagano in cerca di cibo nelle spettrali pianure dell’Ucraina. Catturati dai tedeschi si imbarcheranno in un calvario, morale e fisico, che li porterà agli stadi più estremi della sopportazione umana. Un Orso d’Oro veramente complesso e all’epoca altamente discusso dalla giuria della 27ª edizione della berlinale - infatti molti si sarebbero aspettati di veder assegnato il premio principale a Robert Bresson per il suo Le Diable probablement (Il diavolo probabilmente). Se però osserviamo con gli occhi di oggi la vittoria del film di Larisa Efimovna Šepit'ko, non possiamo che constatare l’acutezza di questa scelta. Attraverso i recenti fatti del conflitto russo-ucraino, la pellicola della regista sovietica acquisisce un profondo significato simbolico e si trasforma in un monito che precorre i tempi. Per via del suo tono fortemente allegorico, L’ascesa è un film che si svela placidamente solo a chi decide di seguirlo con fedele attenzione. Fu lo storico del cinema George Sadoul a comprendere perfettamente la sua natura di opera scissa tra una parabola cristiana sulla redenzione e una tragedia umana di Dostoevskij. Grazie ad un magistrale uso del bianco e nero, e ad una ricerca formale che raggiunge picchi superbi, l’ultima pellicola della Šepit'ko - che verrà prematuramente a mancare in un incidente automobilistico lasciando dietro di se cinque, straordinari, lungometraggi - posiziona la regista come una delle maggiori rappresentati della cinematografia sovietica a cavallo tra gli anni sessanta e settanta.
Una separazione (2011), di Asghar Farhadi
Nel corso della sua illustre carriera, Asghar Farhadi ha diretto alcune delle opere più rinomate del cinema iraniano moderno. Quello che lo contraddistingue dai suoi contemporanei è l’abilità nel costruire una costante ambiguità all’interno delle sue opere, caratteristica che gli ha permesso di indagare, in maniera approfondita, la “condizione umana” dei suoi personaggi. Anche se ad un primo istante sembra esserci una chiara distinzione tra ciò che è giusto e sbagliato, questa concezione muta nel corso dei suoi film. Un esempio eclatante è proprio A Separation, lungometraggio che si è aggiudicato l’Orso d’Oro nel 2011, nel quale Farhadi cerca di sviscerare e indagare le motivazioni che portano una coppia sposata alla separazione. Partendo da questo input, il cineasta utilizza il dramma dei suoi protagonisti per compiere un discorso più ampio, nel quale riflette su vari aspetti della cultura iraniana, dalla differenza di classe alla visione della religione, dalla relazione fra i sessi al ruolo della donna. A Separation è uno dei film più belli e importanti dello scorso decennio, un capolavoro che non si dimentica facilmente.
Vite vendute (1953), di Henri-George Clouzot
A seguito del Leone d’Oro vinto per il bellissimo Manon (1949), il regista Henri-George Clouzot riuscì ad aggiudicarsi, dopo breve tempo, anche il premio principale della terza edizione della berlinale. L’Orso d’Oro veniva ancora assegnato dal pubblico - sarà così fino al 1956 - e la pellicola in questione vinse anche il Prix du Festival a Cannes - era ancora di uso comune per i Festival non avere l’esclusiva sui film presentati in competizione. Vite vendute segue le vicende di quattro uomini alla deriva - meravigliosamente interpretati da Yves Montand, Peter van Eyck, Charles Vanel e l’italiano Folco Lulli - che, trapiantati in un remoto villaggio del Guatemala, decideranno di imbarcarsi in un’impresa suicida che ha come scopo il trasporto, in un territorio ostile, di un carico di nitroglicerina utile a spegnere un pozzo petrolifero in fiamme. Clouzot passò alla storia come l’“Hitchcock francese”, e di fatto questo lungometraggio ce lo dimostra appieno: il controllo della tensione è da manuale e tutto viene calibrato con millimetrica precisione. È così che il thriller si fonde con il dramma umanista, in un insieme dove non si riesce più a scindere dove inizi l’uno e finisca l’altro. Oltre al trionfo della “composizione estetica” delle immagini - di cui Clouzot fu maestro - Vite vendute rimane ancora oggi un film disarmante, che mostra un mondo alla deriva abitato da personaggi sordidi e disillusi - una caratterizzazione che percorre tutta la filmografia del regista, da Le Corbeau (Il corvo, 1943) e Quai des Orfèvres (Legittima difesa, 1947) fino ad arrivare a Les Diaboliques (I diabolici, 1955), Les Espions (Le spie, 1957) e La Vérité (La verità, 1960). Da segnalare che, ventiquattro anni dopo, anche William Friedkin girò una versione del romanzo di Georges Arnaud, testo di partenza di entrambe le pellicole.
Il mistero di Wetherby (1984), di David Hare
L’apparente placidità di un piccolo paesino dello Yorkshire viene spezzata dal ritrovamento del cadavere di un giovane ragazzo rinvenuto nel cottage di una solitaria e brillante professoressa universitaria. Il primo lavoro del drammaturgo e sceneggiatore inglese David Hare - che si siederà dietro alla macchina da presa soltanto per altre due splendide regie - si annuncia come il più tipico dei gialli, salvo poi incedere, deciso, verso una deriva maggiormente complessa e sfaccettata. Un lungometraggio estremamente difficile da collocare, che basa il suo intero equilibrio su una geniale e perenne ambiguità, e che trova il suo definitivo “senso di essere” attraverso la decostruzione dei generi. Hare guida un cast di interpreti in stato di grazia - da Tim McInnerny a Ian Holm, fino a Judy Dench, Tom Wilkinson e Joely Richardson - su cui svetta una sconvolgente Vanessa Redgrave. Le atmosfere di dichiarata ispirazione pinteriana, i personaggi così profondamente loseyani nella loro perturbante equivocità, e quel senso di malinconica ambivalenza, incoronano Il mistero di Wetherby come uno dei film anglosassoni più originali degli anni ottanta.
Veronika Voss (1982), di Rainer Werner Fassbinder
Allucinata e scioccante cronaca sulla fine di un'ex star del cinema, la cui sceneggiatura, scritta dal regista stesso, prende direttamente ispirazione dalla triste vicenda dell’attrice Sybil Schmitz, celebrata interprete dell’UFA durante il nazionalsocialismo, caduta in disgrazia nel corso della seconda guerra mondiale e probabilmente morta suicida. A seguito della due mancate vittorie - nonostante i pronostici dei critici affermassero ogni volta il contrario - degli incantevoli Effie Briest (1974) e Il matrimonio di Maria Brown (1979), anche Rainer Werner Fassbinder riuscì a salire sul palco della berlinale per il ritirare il suo Orso d’Oro. Fu l’ultima vittoria del giovane pioniere del Nuovo Cinema Tedesco, poiché il regista verrà trovato, pochi mesi dopo, senza vita nel suo appartamento, ucciso da un mix letale di sonniferi e cocaina. Fassbinder riuscì, appena in tempo, a girare il suo ultimo capolavoro: Querelle de brest, pellicola che provocò un grande scandalo alla Mostra del Cinema di Venezia del 1982. Veronika Voss termina la galleria degli indimenticabili ritratti di donna di cui la filmografia fassbinderiana è costellata, e chiude la cosiddetta “BRD-Trilogie”, una serie di film - che comprende Il matrimonio di Maria Brawn e Lola (1981) - incentrata su tre condizioni femminili nella Germania post bellica. Girato come un melodramma che, pian piano, si tinge fortemente degli stilemi del crime thriller, la pellicola rappresenta un’inquietante parabola sulla deriva psicologica e l'incapacità di vivere in un mondo che non si riconosce più. La protagonista è costantemente abortita dalla società che la circonda, e così non le rimane altro che consegnarsi, come un animale spaurito, nella mani dei suoi stessi aguzzini. Ripreso in un bianco e nero fortemente espressionista, Veronika Voss riprende, e rielabora, i temi dell’alienzione e dell’isolamento sociale di un altro grande capolavoro della settima arte: Sunset Boulevard (Viale del tramonto, 1950) di Billy Wilder. Grande appassionato del cinema classico americano, Fassbinder rende omaggio alle sue ossessioni cinefile adattandole al suo “cinema della crudeltà”. Un oscuro racconto che si avventura negli inferi di una psiche tormentata e scossa
I racconti di Canterbury (1972), di Pier Paolo Pasolini
Secondo capitolo della “trilogia della vita” pasoliniana, I racconti di Canterbury rielabora - come era stato per Il Decameron (1971) e come fu in seguito per I fiori delle mille e una notte (1974) - attraverso quello sguardo irriverente e grottesco, tipico del poeta bolognese, dei racconti epico-medievali per trasformarli in una provocatoria denuncia sulla chiusura della borghesia nei confronti della sessualità. Come gran parte delle opere cinematografiche di Pasolini, alla sua uscita in sala anche I racconti di Canterbury venne pesantemente censurato. Tuttavia questi accadimenti non gli impedirono di assicurarsi la vittoria alla berlinale del 1972, dove la presidente di giuria Eleonor Perry decise di premiarlo nel mezzo di non pochi dissensi. Rimane però il fatto che l’incredibile rilettura da parte di Pasolini del capolavoro letterario di Geoffrey Chaucer cattura irrimediabilmente lo sguardo e, ogni volta che la si rivede, svela frammenti di minuscoli ma efficaci particolari sfuggiti precedentemente all’occhio.
NC-190
15.02.2024
Oggi si apre la 74ª edizione del Festival di Berlino, per ricordare questo appuntamento imprescindibile ODG vi propone una personale selezione dei grandi Orsi d’Oro che si sono susseguiti nel corso dei decenni.
Magnolia (1999), di Paul Thomas Anderson
Ogni volta che si cita Magnolia, una delle opere maestre di Paul Thomas Anderson, è impossibile non pensare alla scena finale del film: sulle note di Save Me di Aileen Mann, la camera si avvicina sempre di più su Claudia Gator (Melora Walters), ad un primo istante si può notare lo sguardo triste e disperato del personaggio, ma dopo poco tempo un sorriso inizia a comparire sul suo volto. La presenza del poliziotto Jim Kurring (John C. Reilly) la rassicura, e lei è pronta ad aprirsi verso un futuro più roseo. Questa bellissima sequenza racchiude appieno le tematiche principali del film. Siamo in grado di “salvare”, aiutare e in certi casi, perdonare qualcuno? Siamo disposti ad accettare aiuto nei momenti più bui della nostra esistenza? Non ci sono risposte semplici a queste domande, ma Magnolia ci dice che bisogna provare a compiere uno sforzo per comprendere la condizione altrui. Adoperando una struttura ad ensemble, che richiama esplicitamente Short Cuts (1993) di Robert Altman, l’iconico regista statunitense analizza le condizioni dei vari personaggi, mettendo in risalto le diverse sfaccettature e la complessità morale dietro a determinati comportamenti. Magnolia è il lavoro più umanista, e ottimista, di Anderson, un lungometraggio che gli valse la vittoria dell’Orso d’Oro nel 2000: il suo primo, grande, riconoscimento presso un festival europeo.
Il posto delle fragole (1957), di Ingmar Bergman
Una delle opere più osannate della lunga carriera di Ingmar Bergman, Il posto delle fragole ricopre un ruolo di primaria importanza nella storia del cinema. Attraverso una sorta di road-movie spirituale, Bergman scruta la figura del vecchio professore Isak Borg - interpretato da un commovente Victor Sjöström, pilastro della cinematografia scandinava - che, ormai giunto alla vecchiaia, compie un bilancio della sua esistenza e dei rapporti che l’hanno animata. Una pellicola che ancora oggi mantiene integra tutta la sua intensità drammatica; una riflessione sul ricordo, la vita, il passato e la struggente fatuità della giovinezza. Le sue atmosfere - in determinati momenti fiabesche ed oniriche, in altri orrorifiche e conturbanti - riescono, con straordinaria potenza, ad immergere lo spettatore in quel “mondo di ombre” tanto caro al leggendario regista svedese. Il critico Gianni Volpi lo definì «un film in cui si stratificano le grandi lezioni del pensiero nordico, di Kierkegaard e Strindberg, e le ricerche sul tempo della letteratura del Novecento, che riassorbe le scosse segrete di una società nella normale tragicità dell’esistenza». Premiato da Frank Capra, presidente di giuria nell’edizione del 1958, Il posto delle fragole è senza dubbio uno dei più iconici Orsi d’Oro del Festival di Berlino.
Central do Brasil (1998), di Walter Salles
Dora è un ex insegnante che, per guadagnarsi da vivere, scrive lettere per persone analfabete, dove queste le confessano i propri segreti e le condizioni tragiche in cui vivono. Queste lettere, però, non vengono sempre spedite; Dora non riesce a comprendere certe situazioni e spesso si crede superiore a queste persone, un comportamento al limite dell’ignobile. Tutto cambia quando, a causa di un incidente, Dora inizierà a prendersi cura di un giovane ragazzo appena rimasto orfano. Questo incontro accenderà qualcosa nel cuore della donna che, pian piano, inizierà a cambiare atteggiamento lasciandosi alle spalle il suo cinismo. Central do Brasil di Walter Salles, premiato nel 1998 con l’Orso d’Oro, è diventato in poco tempo uno dei grandi cult del cinema brasiliano per diversi motivi: su tutti, la straordinaria interpretazione di Fernanda Montenegro. Da citare è anche la rappresentazione schietta e senza fronzoli della dura realtà nelle metropoli brasiliane, aspetto messo in risalto da un eccezionale cast di attori non professionisti. Anche se non raggiunge gli apici di Pixote (1981), il capolavoro di Hector Babenco che ricalca tematiche simili, Central do Brasil rimane uno dei film più importanti della cinematografia sudamericana.
La parola ai giurati (1957), di Sidney Lumet
Undici giurati convinti della colpevolezza di un giovane ragazzo accusato di omicidio sono in procinto di sottoscrivere la sua condanna a morte, ma la loro assoluta certezza comincierà seriamente a vacillare quando il dodicesimo componente del gruppo - un fenomenale Henry Fonda, in una delle prove più convincenti della sua carriera - si opporrà alla versione dei fatti riportata durante il processo. Opera prima del trentatreenne Sidney Lumet, che con questo film inaugurerà una lunga e brillante carriera, La parola ai giurati è un geniale e tesissimo Kammerspiel che, facendo praticamente uso di un solo set, cattura con sublime maestria, l’attenzione di chi lo guarda fino all’ultimo secondo. I personaggi si muovono in un unico spazio che sembra restringersi sempre più man mano che la storia avanza. Straordinario il lavoro che Lumet riesce a compiere sulla suspance, la direzione degli attori e i movimenti di camera; tutti elementi che sfociano in una chiara denuncia ad un sistema giudiziario pressapochista, prevenuto e disumano.
Sorgo Rosso (1988), di Zhang Yimou
Dopo aver parlato de La Parola ai Giurati, è arrivato il momento di introdurre un’altra opera prima che venne riconosciuta con l’Orso d’Oro: Sorgo Rosso di Zhang Yimou. Come nel caso di Sidney Lumet, è davvero raro riscontrare una tale sicurezza dietro alla macchina da presa da parte di un cineasta esordiente. Nel caso di Zhang, questa padronanza si individua soprattutto nel modo in cui è riesce ad amalgamare gli elementi di alcuni racconti folkloristici e un tono melodrammatico, con il contesto storico dell’epoca rappresentata, ovvero quella della seconda guerra Cino-Giapponese. Sono inoltre da esaltare due aspetti chiave che condizioneranno le opere seguenti di Zhang; il lungo sodalizio con l’attrice Gong Li, che girerà insieme al regista altri sette film, e l’impressionante uso della palette, dove il colore rosso assume un significato metaforico oltre che estetico. La vittoria dell’Orso d’Oro, nel 1988, è da ricordare anche come il primo trionfo di un film cinese sulla scena internazionale. Un premio che sarà poi bissato da La donna del lago delle anime profumate (Xian Hunnü, 1993) di Xie Fei, Il matrimonio di Tuya (Tuya de hun shi, 2006) di Quan'an Wang e Fuochi d’artificio in pieno giorno (Báirì yànhuǒ, 2014) di Diao Yinan.
L'ascesa (1977), di Larisa Efimovna Šepit'ko
Nel corso di un gelido ed innevato inverno, due partigiani della Grande Guerra Patriottica - per i russi la Seconda Guerra Mondiale - vagano in cerca di cibo nelle spettrali pianure dell’Ucraina. Catturati dai tedeschi si imbarcheranno in un calvario, morale e fisico, che li porterà agli stadi più estremi della sopportazione umana. Un Orso d’Oro veramente complesso e all’epoca altamente discusso dalla giuria della 27ª edizione della berlinale - infatti molti si sarebbero aspettati di veder assegnato il premio principale a Robert Bresson per il suo Le Diable probablement (Il diavolo probabilmente). Se però osserviamo con gli occhi di oggi la vittoria del film di Larisa Efimovna Šepit'ko, non possiamo che constatare l’acutezza di questa scelta. Attraverso i recenti fatti del conflitto russo-ucraino, la pellicola della regista sovietica acquisisce un profondo significato simbolico e si trasforma in un monito che precorre i tempi. Per via del suo tono fortemente allegorico, L’ascesa è un film che si svela placidamente solo a chi decide di seguirlo con fedele attenzione. Fu lo storico del cinema George Sadoul a comprendere perfettamente la sua natura di opera scissa tra una parabola cristiana sulla redenzione e una tragedia umana di Dostoevskij. Grazie ad un magistrale uso del bianco e nero, e ad una ricerca formale che raggiunge picchi superbi, l’ultima pellicola della Šepit'ko - che verrà prematuramente a mancare in un incidente automobilistico lasciando dietro di se cinque, straordinari, lungometraggi - posiziona la regista come una delle maggiori rappresentati della cinematografia sovietica a cavallo tra gli anni sessanta e settanta.
Una separazione (2011), di Asghar Farhadi
Nel corso della sua illustre carriera, Asghar Farhadi ha diretto alcune delle opere più rinomate del cinema iraniano moderno. Quello che lo contraddistingue dai suoi contemporanei è l’abilità nel costruire una costante ambiguità all’interno delle sue opere, caratteristica che gli ha permesso di indagare, in maniera approfondita, la “condizione umana” dei suoi personaggi. Anche se ad un primo istante sembra esserci una chiara distinzione tra ciò che è giusto e sbagliato, questa concezione muta nel corso dei suoi film. Un esempio eclatante è proprio A Separation, lungometraggio che si è aggiudicato l’Orso d’Oro nel 2011, nel quale Farhadi cerca di sviscerare e indagare le motivazioni che portano una coppia sposata alla separazione. Partendo da questo input, il cineasta utilizza il dramma dei suoi protagonisti per compiere un discorso più ampio, nel quale riflette su vari aspetti della cultura iraniana, dalla differenza di classe alla visione della religione, dalla relazione fra i sessi al ruolo della donna. A Separation è uno dei film più belli e importanti dello scorso decennio, un capolavoro che non si dimentica facilmente.
Vite vendute (1953), di Henri-George Clouzot
A seguito del Leone d’Oro vinto per il bellissimo Manon (1949), il regista Henri-George Clouzot riuscì ad aggiudicarsi, dopo breve tempo, anche il premio principale della terza edizione della berlinale. L’Orso d’Oro veniva ancora assegnato dal pubblico - sarà così fino al 1956 - e la pellicola in questione vinse anche il Prix du Festival a Cannes - era ancora di uso comune per i Festival non avere l’esclusiva sui film presentati in competizione. Vite vendute segue le vicende di quattro uomini alla deriva - meravigliosamente interpretati da Yves Montand, Peter van Eyck, Charles Vanel e l’italiano Folco Lulli - che, trapiantati in un remoto villaggio del Guatemala, decideranno di imbarcarsi in un’impresa suicida che ha come scopo il trasporto, in un territorio ostile, di un carico di nitroglicerina utile a spegnere un pozzo petrolifero in fiamme. Clouzot passò alla storia come l’“Hitchcock francese”, e di fatto questo lungometraggio ce lo dimostra appieno: il controllo della tensione è da manuale e tutto viene calibrato con millimetrica precisione. È così che il thriller si fonde con il dramma umanista, in un insieme dove non si riesce più a scindere dove inizi l’uno e finisca l’altro. Oltre al trionfo della “composizione estetica” delle immagini - di cui Clouzot fu maestro - Vite vendute rimane ancora oggi un film disarmante, che mostra un mondo alla deriva abitato da personaggi sordidi e disillusi - una caratterizzazione che percorre tutta la filmografia del regista, da Le Corbeau (Il corvo, 1943) e Quai des Orfèvres (Legittima difesa, 1947) fino ad arrivare a Les Diaboliques (I diabolici, 1955), Les Espions (Le spie, 1957) e La Vérité (La verità, 1960). Da segnalare che, ventiquattro anni dopo, anche William Friedkin girò una versione del romanzo di Georges Arnaud, testo di partenza di entrambe le pellicole.
Il mistero di Wetherby (1984), di David Hare
L’apparente placidità di un piccolo paesino dello Yorkshire viene spezzata dal ritrovamento del cadavere di un giovane ragazzo rinvenuto nel cottage di una solitaria e brillante professoressa universitaria. Il primo lavoro del drammaturgo e sceneggiatore inglese David Hare - che si siederà dietro alla macchina da presa soltanto per altre due splendide regie - si annuncia come il più tipico dei gialli, salvo poi incedere, deciso, verso una deriva maggiormente complessa e sfaccettata. Un lungometraggio estremamente difficile da collocare, che basa il suo intero equilibrio su una geniale e perenne ambiguità, e che trova il suo definitivo “senso di essere” attraverso la decostruzione dei generi. Hare guida un cast di interpreti in stato di grazia - da Tim McInnerny a Ian Holm, fino a Judy Dench, Tom Wilkinson e Joely Richardson - su cui svetta una sconvolgente Vanessa Redgrave. Le atmosfere di dichiarata ispirazione pinteriana, i personaggi così profondamente loseyani nella loro perturbante equivocità, e quel senso di malinconica ambivalenza, incoronano Il mistero di Wetherby come uno dei film anglosassoni più originali degli anni ottanta.
Veronika Voss (1982), di Rainer Werner Fassbinder
Allucinata e scioccante cronaca sulla fine di un'ex star del cinema, la cui sceneggiatura, scritta dal regista stesso, prende direttamente ispirazione dalla triste vicenda dell’attrice Sybil Schmitz, celebrata interprete dell’UFA durante il nazionalsocialismo, caduta in disgrazia nel corso della seconda guerra mondiale e probabilmente morta suicida. A seguito della due mancate vittorie - nonostante i pronostici dei critici affermassero ogni volta il contrario - degli incantevoli Effie Briest (1974) e Il matrimonio di Maria Brown (1979), anche Rainer Werner Fassbinder riuscì a salire sul palco della berlinale per il ritirare il suo Orso d’Oro. Fu l’ultima vittoria del giovane pioniere del Nuovo Cinema Tedesco, poiché il regista verrà trovato, pochi mesi dopo, senza vita nel suo appartamento, ucciso da un mix letale di sonniferi e cocaina. Fassbinder riuscì, appena in tempo, a girare il suo ultimo capolavoro: Querelle de brest, pellicola che provocò un grande scandalo alla Mostra del Cinema di Venezia del 1982. Veronika Voss termina la galleria degli indimenticabili ritratti di donna di cui la filmografia fassbinderiana è costellata, e chiude la cosiddetta “BRD-Trilogie”, una serie di film - che comprende Il matrimonio di Maria Brawn e Lola (1981) - incentrata su tre condizioni femminili nella Germania post bellica. Girato come un melodramma che, pian piano, si tinge fortemente degli stilemi del crime thriller, la pellicola rappresenta un’inquietante parabola sulla deriva psicologica e l'incapacità di vivere in un mondo che non si riconosce più. La protagonista è costantemente abortita dalla società che la circonda, e così non le rimane altro che consegnarsi, come un animale spaurito, nella mani dei suoi stessi aguzzini. Ripreso in un bianco e nero fortemente espressionista, Veronika Voss riprende, e rielabora, i temi dell’alienzione e dell’isolamento sociale di un altro grande capolavoro della settima arte: Sunset Boulevard (Viale del tramonto, 1950) di Billy Wilder. Grande appassionato del cinema classico americano, Fassbinder rende omaggio alle sue ossessioni cinefile adattandole al suo “cinema della crudeltà”. Un oscuro racconto che si avventura negli inferi di una psiche tormentata e scossa
I racconti di Canterbury (1972), di Pier Paolo Pasolini
Secondo capitolo della “trilogia della vita” pasoliniana, I racconti di Canterbury rielabora - come era stato per Il Decameron (1971) e come fu in seguito per I fiori delle mille e una notte (1974) - attraverso quello sguardo irriverente e grottesco, tipico del poeta bolognese, dei racconti epico-medievali per trasformarli in una provocatoria denuncia sulla chiusura della borghesia nei confronti della sessualità. Come gran parte delle opere cinematografiche di Pasolini, alla sua uscita in sala anche I racconti di Canterbury venne pesantemente censurato. Tuttavia questi accadimenti non gli impedirono di assicurarsi la vittoria alla berlinale del 1972, dove la presidente di giuria Eleonor Perry decise di premiarlo nel mezzo di non pochi dissensi. Rimane però il fatto che l’incredibile rilettura da parte di Pasolini del capolavoro letterario di Geoffrey Chaucer cattura irrimediabilmente lo sguardo e, ogni volta che la si rivede, svela frammenti di minuscoli ma efficaci particolari sfuggiti precedentemente all’occhio.