NC-163
30.08.2023
La Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia sta per cominciare, per ricordare questo appuntamento imprescindibile ODG vi propone una personale selezione dei grandi Leoni d’Oro che si sono susseguiti nei decenni passati.
Rashomon (1950), di Akira Kurosawa
L’opera che consacrò la carriera di Akira Kurosawa, portando la critica a scoprire le opere del grande maestro fino a quel momento sconosciute in Occidente. Premiato con il Leone d’Oro (che all’epoca veniva ancora chiamato Leone di San Marco) alla 12esima edizione della mostra del cinema di Venezia, Rashomon fu il primo film nipponico a trionfare al Lido e ad aprire, definitivamente, le porte dei grandi festival europei al cinema orientale. Una storia sfuggente, intrisa di mistero e doppiezza, dove la realtà mostrata non fa capo ad un’unica e coerente verità, ma a molteplici e misteriosi punti di vista. In un'edizione colma di grandi titoli, il regista arrivò a trionfare su nomi come Robert Bresson (Diario di un curato di campagna), Billy Wilder (L’asso nella manica), Elia Kazan (Un tram che si chiama desiderio), George Cukor (Nata ieri) e Fred Zinneman (Teresa).
Tre Colori: Film Blu (1993), di Krzysztof Kieślowski
Dopo trent’anni dalla vittoria del Leone d’Oro, Tre Colori: Film Blu di Krzysztof Kieślowski ritornerà nelle nostre sale con Lucky Red dall’11 al 13 settembre. Uno dei film più rinomati del cineasta polacco, nonché il primo capitolo della trilogia sui colori della bandiera francese, l’opera narra le vicende di una donna alle prese con l’elaborazione di una tragedia. Dopo essere rimasta illesa in un incidente stradale che ha causato la morte del marito e della figlia, Julie fatica a ritrovare la voglia di vivere e inizia a isolarsi pian piano da ogni persona. Il colore blu esprime la liberté e Kieślowski la rappresenta tramite Julie e il modo in cui non nasconde ogni emozione che prova. Interpretata da una strepitosa Juliette Binoche, Tre Colori: Film Blu è un’analisi tanto complessa quanto veritiera sul lutto e l’attrice francese porta sullo schermo una devastante rappresentazione dei diversi stadi che lo caratterizzano. Infatti, l’interprete eccelle in un primo momento nel mostrare le sensazioni più istintive, tra cui la rabbia e la negazione, e in seguito la rassegnazione e un “nuovo” inizio.
Deserto Rosso (1964), di Michelangelo Antonioni
Dopo le vittorie del Prix du Jury al Festival di Cannes 1960 - per L’avventura - e dell’Orso d’Oro alla berlinale del 1961 - per La notte - Antonioni salì sul podio veneziano, nel 1964, con Deserto Rosso. In questo lungometraggio il regista abbandona definitivamente il bianco e nero - fino ad allora adoperato in tutti i suoi lavori - per cercare, nelle amare tonalità del paesaggio, quella deriva esistenziale di cui fu arguto narratore. Dirigendo una Monica Vitti in stato di grazia, il cineasta ci mostra la “crisi dei sentimenti” della protagonista attraverso l’angosciante visione di una terra già vessata dall’inquinamento ambientale, compiendo, in anticipo sui tempi, un discorso sulle devastanti conseguenze dello sperpero umano. Tale era la funzione espressiva che il colore doveva ricoprire che Antonioni e il direttore della fotografia, Carlo di Palma, fecero tingere gli alberi e l’erba per accentuare il senso di distruzione e morte che pervade l'intera pellicola.
Somewhere (2010), di Sofia Coppola
In questa edizione di Venezia 80 Sofia Coppola tornerà in Concorso, con il tanto atteso Priscilla, dopo la vittoria di tredici anni fa: un verdetto che rappresentò una grande sorpresa e che fece storcere il naso a molti. Ma, nonostante ciò che si possa pensare, Somewhere risulta un film essenziale nella carriera di questa brillante cineasta. Esso rappresenta la maturazione di un artista, la compensazione delle sue ossessioni cinematografiche, la sua capacità di rivedere, attraverso un’ottica estremamente personale, la grande tradizione del dramma intimista.
The Circle (2000), di Jafar Panahi
Dopo la scioccante notizia dell’arresto del regista Saeed Roustaee (Leila e i suoi Fratelli), è doveroso citare la vittoria di The Circle (2000) di Jafar Panahi, uno dei massimi esponenti del neorealismo iraniano. Il film, tramite una struttura a vignette, dove ogni storia è ambientata nel corso della stessa giornata, segue le ingiustizie di genere che caratterizzano, e continuano a ostacolare, la libertà di molte donne nella società contemporanea iraniana. Nonostante l’inusuale struttura formale da parte del cineasta, la denuncia che compie nei confronti del proprio paese è sempre diretta ed esplicita, e ciò ha sempre causato problemi con il governo. The Circle è una visione tanto essenziale quanto terrificante, soprattutto se si prende in considerazione che la società iraniana non è assolutamente mutata nel corso dei decenni.
Il segreto di Vera Drake (2004), di Mike Leigh
Un equilibrato melodramma realista come solo Mike Leigh è capace di fare, la toccante storia di una donna perseguitata da una società ostile ed insensibile. Opera chiave del panorama cinematografico inglese di inizio millennio, Il segreto di Vera Drake deve la sua straordinaria forza espressiva alla superba prova di Imelda Staunton - che qui si sottopone ad un vero tour-de force attoriale - un’interpretazione che venne giustamente premiata assieme al film.
Senza tetto ne legge (1985), di Agnès Varda
Con Senza tetto ne legge Agnes Varda diventò la seconda cineasta donna - dopo Margharete von Trotta per Anni di Piombo (1981) - ad aggiudicarsi il Leone d’Oro. La regista si presentò al Festival con un’opera profondamente sentita, commovente e a tratti destabilizzante. Come ne Il verde prato dell’amore (1965) e Kung-fu Master (1988) il film si trasforma, man mano che la storia avanza, in una feroce critica alla borghesia. Sandrine Bonnaire, nel ruolo della tragica anti-eroina, regala una delle più grandi interpretazioni della sua carriera.
A City of Sadness (1989), di Hou Hsiao-hsien
Uno dei riceventi del Leone d’Oro alla Carriera di quest’anno sarà Tony Leung Chiu-wai, protagonista di tre film che hanno vinto il Leone d’Oro. Tra questi spicca A City of Sadness, una delle opere maestre di Hou Hsiao-hsien, ed è proprio grazie a questo film che Tony Leung è stato consacrato davanti ad un grande pubblico internazionale. Ambientato a Taiwan tra il 1945 e il 1949, il film racconta alcuni degli eventi più tragici dell’Isola di Formosa attraverso la storia di quattro fratelli, seguendo più nel dettaglio Wen-chin (Tony Leung), un fotografo sordomuto. L’approccio narrativo ellittico adoperato da Hou è affascinante poiché in contrasto con l’epico scopo del regista nel raccontare diversi eventi storici. Il punto di forza, però, risiede nella interpretazione di Tony Leung, in grado di mostrare magistralmente, solo tramite il suo intenso sguardo, lo spirito ottimista, in un primo momento, e poi la graduale perdita di speranza che rispecchia appieno la condizione di Taiwan in quel periodo.
Bella di giorno (1967), di Luis Buñuel
L’opera e la vittoria che permisero a Luis Buñuel di entrare per sempre nel gotha dei grandi autori del cinema. Dopo il rifiuto del film da parte del Festival di Cannes, che intratteneva con il cineasta un rapporto privilegiato - Buñuel aveva già vinto sulla croisette un premio alla regia per Los Olvidados (1951), un Prix International per Nazarìn (1959), una menzione speciale per Violenza per una giovane (1960) e una Palma d’Oro per Viridiana (1962) - Bella di giorno venne ammesso a Venezia dall’allora direttore Luigi Charini. La giuria, capitanata dallo scrittore Alberto Moravia, rimase ipnotizzata dalle peculiari caratteristiche della pellicola e più in generale dalla poetica buñueliana: un viaggio dove non si riesce a scindere sogno e realtà, follia e ragione, materialità e immaginazione.
Vaghe stelle dell’Orsa (1965), di Luchino Visconti
La fine di un lungo inseguimento del Leone d’Oro che Luchino Visconti compì per oltre un decennio, Vaghe stelle dell’Orsa è il termine di una feroce battaglia che il regista intraprese contro i poteri forti. Alla Mostra, già nel 1949, si dava per certo che Visconti avrebbe vinto con La terra trema - venendo invece battuto dall’Amleto di Laurence Olivier - un film troppo scomodo per essere premiato. Questo fatto si ripresentò nel 1955, quando il sicuro trionfo di Senso venne boicottato a causa della sua visione - critica e revisionista - del Risorgimento italiano. I successivi Leoni d’Argento a Le notti bianche (1957) e Rocco e i suoi fratelli (1960), non riuscirono a ricompensare due opere che avrebbero meritato molto di più. Fu così che nel 1965, il cineasta milanese trionfò, finalmente, con un’opera gotica, oscura e inconsueta. Una storia di mistero, di fantasmi che infestano la memoria, di spettrali dimore che celano, nei loro minacciosi anfratti, segreti inconfessabili.
Ordet - La parola (1955), di Carl Theodor Dreyer
Carl Theodor Dreyer all’apice della sua parabola artistica. Una delle rare vittorie nella storia del Festival che riuscirono a mettere d’accordo tutti, finalmente arrivava il tanto atteso riconoscimento di un cineasta, fino a quel momento, estremamente sottovalutato. In Ordet il maestro danese ci ricorda che i miracoli avvengono nella semplicità, attraverso gli occhi di chi sa guardare. Mentre si osserva il lungometraggio, l’uso degli spazi, lo splendido bianco e nero, l’impeccabile direzione degli attori e i soavi movimenti di camera, ci mostrano tutta la grandezza di uno degli autori più influenti della storia del cinema.
NC-163
30.08.2023
La Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia sta per cominciare, per ricordare questo appuntamento imprescindibile ODG vi propone una personale selezione dei grandi Leoni d’Oro che si sono susseguiti nei decenni passati.
Rashomon (1950), di Akira Kurosawa
L’opera che consacrò la carriera di Akira Kurosawa, portando la critica a scoprire le opere del grande maestro fino a quel momento sconosciute in Occidente. Premiato con il Leone d’Oro (che all’epoca veniva ancora chiamato Leone di San Marco) alla 12esima edizione della mostra del cinema di Venezia, Rashomon fu il primo film nipponico a trionfare al Lido e ad aprire, definitivamente, le porte dei grandi festival europei al cinema orientale. Una storia sfuggente, intrisa di mistero e doppiezza, dove la realtà mostrata non fa capo ad un’unica e coerente verità, ma a molteplici e misteriosi punti di vista. In un'edizione colma di grandi titoli, il regista arrivò a trionfare su nomi come Robert Bresson (Diario di un curato di campagna), Billy Wilder (L’asso nella manica), Elia Kazan (Un tram che si chiama desiderio), George Cukor (Nata ieri) e Fred Zinneman (Teresa).
Tre Colori: Film Blu (1993), di Krzysztof Kieślowski
Dopo trent’anni dalla vittoria del Leone d’Oro, Tre Colori: Film Blu di Krzysztof Kieślowski ritornerà nelle nostre sale con Lucky Red dall’11 al 13 settembre. Uno dei film più rinomati del cineasta polacco, nonché il primo capitolo della trilogia sui colori della bandiera francese, l’opera narra le vicende di una donna alle prese con l’elaborazione di una tragedia. Dopo essere rimasta illesa in un incidente stradale che ha causato la morte del marito e della figlia, Julie fatica a ritrovare la voglia di vivere e inizia a isolarsi pian piano da ogni persona. Il colore blu esprime la liberté e Kieślowski la rappresenta tramite Julie e il modo in cui non nasconde ogni emozione che prova. Interpretata da una strepitosa Juliette Binoche, Tre Colori: Film Blu è un’analisi tanto complessa quanto veritiera sul lutto e l’attrice francese porta sullo schermo una devastante rappresentazione dei diversi stadi che lo caratterizzano. Infatti, l’interprete eccelle in un primo momento nel mostrare le sensazioni più istintive, tra cui la rabbia e la negazione, e in seguito la rassegnazione e un “nuovo” inizio.
Deserto Rosso (1964), di Michelangelo Antonioni
Dopo le vittorie del Prix du Jury al Festival di Cannes 1960 - per L’avventura - e dell’Orso d’Oro alla berlinale del 1961 - per La notte - Antonioni salì sul podio veneziano, nel 1964, con Deserto Rosso. In questo lungometraggio il regista abbandona definitivamente il bianco e nero - fino ad allora adoperato in tutti i suoi lavori - per cercare, nelle amare tonalità del paesaggio, quella deriva esistenziale di cui fu arguto narratore. Dirigendo una Monica Vitti in stato di grazia, il cineasta ci mostra la “crisi dei sentimenti” della protagonista attraverso l’angosciante visione di una terra già vessata dall’inquinamento ambientale, compiendo, in anticipo sui tempi, un discorso sulle devastanti conseguenze dello sperpero umano. Tale era la funzione espressiva che il colore doveva ricoprire che Antonioni e il direttore della fotografia, Carlo di Palma, fecero tingere gli alberi e l’erba per accentuare il senso di distruzione e morte che pervade l'intera pellicola.
Somewhere (2010), di Sofia Coppola
In questa edizione di Venezia 80 Sofia Coppola tornerà in Concorso, con il tanto atteso Priscilla, dopo la vittoria di tredici anni fa: un verdetto che rappresentò una grande sorpresa e che fece storcere il naso a molti. Ma, nonostante ciò che si possa pensare, Somewhere risulta un film essenziale nella carriera di questa brillante cineasta. Esso rappresenta la maturazione di un artista, la compensazione delle sue ossessioni cinematografiche, la sua capacità di rivedere, attraverso un’ottica estremamente personale, la grande tradizione del dramma intimista.
The Circle (2000), di Jafar Panahi
Dopo la scioccante notizia dell’arresto del regista Saeed Roustaee (Leila e i suoi Fratelli), è doveroso citare la vittoria di The Circle (2000) di Jafar Panahi, uno dei massimi esponenti del neorealismo iraniano. Il film, tramite una struttura a vignette, dove ogni storia è ambientata nel corso della stessa giornata, segue le ingiustizie di genere che caratterizzano, e continuano a ostacolare, la libertà di molte donne nella società contemporanea iraniana. Nonostante l’inusuale struttura formale da parte del cineasta, la denuncia che compie nei confronti del proprio paese è sempre diretta ed esplicita, e ciò ha sempre causato problemi con il governo. The Circle è una visione tanto essenziale quanto terrificante, soprattutto se si prende in considerazione che la società iraniana non è assolutamente mutata nel corso dei decenni.
Il segreto di Vera Drake (2004), di Mike Leigh
Un equilibrato melodramma realista come solo Mike Leigh è capace di fare, la toccante storia di una donna perseguitata da una società ostile ed insensibile. Opera chiave del panorama cinematografico inglese di inizio millennio, Il segreto di Vera Drake deve la sua straordinaria forza espressiva alla superba prova di Imelda Staunton - che qui si sottopone ad un vero tour-de force attoriale - un’interpretazione che venne giustamente premiata assieme al film.
Senza tetto ne legge (1985), di Agnès Varda
Con Senza tetto ne legge Agnes Varda diventò la seconda cineasta donna - dopo Margharete von Trotta per Anni di Piombo (1981) - ad aggiudicarsi il Leone d’Oro. La regista si presentò al Festival con un’opera profondamente sentita, commovente e a tratti destabilizzante. Come ne Il verde prato dell’amore (1965) e Kung-fu Master (1988) il film si trasforma, man mano che la storia avanza, in una feroce critica alla borghesia. Sandrine Bonnaire, nel ruolo della tragica anti-eroina, regala una delle più grandi interpretazioni della sua carriera.
A City of Sadness (1989), di Hou Hsiao-hsien
Uno dei riceventi del Leone d’Oro alla Carriera di quest’anno sarà Tony Leung Chiu-wai, protagonista di tre film che hanno vinto il Leone d’Oro. Tra questi spicca A City of Sadness, una delle opere maestre di Hou Hsiao-hsien, ed è proprio grazie a questo film che Tony Leung è stato consacrato davanti ad un grande pubblico internazionale. Ambientato a Taiwan tra il 1945 e il 1949, il film racconta alcuni degli eventi più tragici dell’Isola di Formosa attraverso la storia di quattro fratelli, seguendo più nel dettaglio Wen-chin (Tony Leung), un fotografo sordomuto. L’approccio narrativo ellittico adoperato da Hou è affascinante poiché in contrasto con l’epico scopo del regista nel raccontare diversi eventi storici. Il punto di forza, però, risiede nella interpretazione di Tony Leung, in grado di mostrare magistralmente, solo tramite il suo intenso sguardo, lo spirito ottimista, in un primo momento, e poi la graduale perdita di speranza che rispecchia appieno la condizione di Taiwan in quel periodo.
Bella di giorno (1967), di Luis Buñuel
L’opera e la vittoria che permisero a Luis Buñuel di entrare per sempre nel gotha dei grandi autori del cinema. Dopo il rifiuto del film da parte del Festival di Cannes, che intratteneva con il cineasta un rapporto privilegiato - Buñuel aveva già vinto sulla croisette un premio alla regia per Los Olvidados (1951), un Prix International per Nazarìn (1959), una menzione speciale per Violenza per una giovane (1960) e una Palma d’Oro per Viridiana (1962) - Bella di giorno venne ammesso a Venezia dall’allora direttore Luigi Charini. La giuria, capitanata dallo scrittore Alberto Moravia, rimase ipnotizzata dalle peculiari caratteristiche della pellicola e più in generale dalla poetica buñueliana: un viaggio dove non si riesce a scindere sogno e realtà, follia e ragione, materialità e immaginazione.
Vaghe stelle dell’Orsa (1965), di Luchino Visconti
La fine di un lungo inseguimento del Leone d’Oro che Luchino Visconti compì per oltre un decennio, Vaghe stelle dell’Orsa è il termine di una feroce battaglia che il regista intraprese contro i poteri forti. Alla Mostra, già nel 1949, si dava per certo che Visconti avrebbe vinto con La terra trema - venendo invece battuto dall’Amleto di Laurence Olivier - un film troppo scomodo per essere premiato. Questo fatto si ripresentò nel 1955, quando il sicuro trionfo di Senso venne boicottato a causa della sua visione - critica e revisionista - del Risorgimento italiano. I successivi Leoni d’Argento a Le notti bianche (1957) e Rocco e i suoi fratelli (1960), non riuscirono a ricompensare due opere che avrebbero meritato molto di più. Fu così che nel 1965, il cineasta milanese trionfò, finalmente, con un’opera gotica, oscura e inconsueta. Una storia di mistero, di fantasmi che infestano la memoria, di spettrali dimore che celano, nei loro minacciosi anfratti, segreti inconfessabili.
Ordet - La parola (1955), di Carl Theodor Dreyer
Carl Theodor Dreyer all’apice della sua parabola artistica. Una delle rare vittorie nella storia del Festival che riuscirono a mettere d’accordo tutti, finalmente arrivava il tanto atteso riconoscimento di un cineasta, fino a quel momento, estremamente sottovalutato. In Ordet il maestro danese ci ricorda che i miracoli avvengono nella semplicità, attraverso gli occhi di chi sa guardare. Mentre si osserva il lungometraggio, l’uso degli spazi, lo splendido bianco e nero, l’impeccabile direzione degli attori e i soavi movimenti di camera, ci mostrano tutta la grandezza di uno degli autori più influenti della storia del cinema.