Martin Scorsese e Masahiro Shinoda
alle prese con il romanzo di Shusaku Endo,
di Arturo Garavaglia
TR-89
25.11.2023
Nel 1966 veniva edito in Giappone Silenzio, romanzo di Shusaku Endo (1923-1996), all’epoca uno dei più celebri scrittori giapponesi. L’opera ebbe un grande successo in patria e fu presto pubblicata nel resto del mondo. Pochi anni dopo, nel 1971, il regista giapponese Masahiro Shinoda ne dirigeva un adattamento cinematografico sceneggiato dallo stesso Endo. Alla fine degli anni ’90 un film liberamente tratto dal romanzo, intitolato Os olhos de Asia, usciva in Portogallo per la regia di João Mário Grilo. Nel 2016, cinquant’anni dopo la pubblicazione del libro, arrivava in sala un nuovo adattamento cinematografico di Silenzio, diretto da Martin Scorsese.
Questa rapida carrellata di nomi, luoghi e date suggerisce l’enorme successo che il romanzo giapponese ha avuto in tutto il mondo e l’interesse che l’opera ha suscitato, in diversi momenti storici, in autori appartenenti a panorami culturali differenti.
Ambientato nel ‘600, dopo la rivolta di Shimabara e la conseguente messa al bando del cristianesimo operata dallo shogunato Tokugawa, Silenzio è la storia di tre missionari gesuiti portoghesi che si recano in Giappone per avere notizie su padre Ferreira, loro precettore, del quale non si hanno più notizie e sul quale grava il sospetto di apostasia. Il viaggio dei tre preti - che diventeranno due nel corso del romanzo - li porterà a fare i conti con un mondo e una cultura a loro sconosciuti e con la propria fede.
Adottando una forma ibrida fra romanzo epistolare e racconto in terza persona, l’autore ha modo di ripercorrere il turbamento di padre Rodrigues, vero protagonista dell’opera, e di sondarne la fede di fronte a un Dio che rimane silenzioso ad assistere al dolore degli uomini. Al tema del silenzio di Dio viene affiancato quello del sacrificio, molto caro sia all’occidente cristiano sia all’estremo oriente, che l’autore cerca di sondare per coglierne il significato più autentico. L’ibridazione di generi (storico e religioso), la forma che favorisce una forte immedesimazione e l’insospettabile universalità degli argomenti trattati hanno garantito al romanzo un grande successo sia in patria - dove il cristianesimo è una religione praticata dall’1% della popolazione - sia nel resto del mondo.
Focalizzandoci sugli adattamenti del 1971 e del 2016, girati a distanza di molti anni da Masahiro Shinoda e dal più celebre Martin Scorsese, osserviamo come il romanzo abbia generato due film estremamente diversi sia nelle premesse sia nelle conclusioni, in grado però di dialogare criticamente sia con il proprio pubblico sia con l’opera di riferimento.
Chinmoku di Masahiro Shinoda: il Giappone come teatro dello scontro tra fede e potere
Quando dirige la sua versione di Silenzio Masahiro Shinoda (1931-) è un regista ampiamente affermato. Formatosi nel vivace e prorompente contesto della nūberu bāgu – semplificando, la nouvelle vague giapponese –, è reduce da una serie di film di discreto successo come Pale flower (1961), Samurai Spy (1966) e Double Suicide (1969). Un tratto distintivo del suo cinema è l’indagine sulle forme con cui una società configura sé stessa mediante la rappresentazione. Centrale nella sua filmografia, caratterizzata per la maggior parte da film storici, è l’indagine sulla rappresentazione teatrale e su come essa si faccia, nella sua dimensione estetica ed etica, manifestazione pubblica dell’ordine sociale.
Produttore di tutti i suoi film dal 1965, nel 1971 Shinoda è un autore già maturo che ha già avuto modo di trasporre romanzi di celebri compatrioti per il grande schermo. Può quindi cimentarsi in un jidai-geki - termine che definisce il tradizionale film ad ambientazione storica giapponese - ben lontano dai canoni classici. Un film che ha come protagonista uno sconosciuto attore occidentale, David Lampson, e che sembra avere come tematica principale il rapporto fra l’uomo e la fede. Per scrivere la sceneggiatura del film si fa assistere dallo stesso Shusaku Endo, ma già da questo dato emerge una prima, singolare, anomalia. Fin dal suo incipit, in cui una voce fuori campo introduce lo scenario in cui si svolge la storia, il film è tutt’altro che fedele al romanzo. Nel presentare il periodo antecedente alla rivolta di Shimabara (1637), la voce narrante istituisce un’analogia fra le armi da fuoco e la religione, portate ambedue dagli occidentali. Assieme alla voce fuori campo si alternano sullo schermo stampe giapponesi risalenti al diciassettesimo secolo, che narrano l’arrivo degli occidentali in Giappone, e immagini di oggetti propri del culto cristiano.
Shinoda, ateo a differenza di Endo che si convertì al cristianesimo in giovane età, nel prologo del film riconosce nella religione uno strumento di controllo equivalente alle armi. Se il romanzo inizia in Portogallo e racconta, tramite resoconti epistolari, l’arrivo dei protagonisti a Macao, i tentativi di convincere il padre gesuita Valignano a salpare per il Giappone, l’incontro con l’ambigua guida Kichijiro e quindi il viaggio per mare verso l’arcipelago, il film di Shinoda inizia quando i due preti portoghesi Rodrigues e Garrpe, accompagnati dalla loro guida, sbarcano in Giappone. Il lento processo di avvicinamento ai personaggi e alla terra del Sol Levante, funzionale nel romanzo all’immedesimazione, viene completamente omesso. Sin dai primi minuti del film appare quindi chiaro che a Shinoda non interessa tanto il piano teologico-religioso del racconto, quanto quello storico-sociale. A interessargli non è il non-visibile, un trascendente che viene dall’esterno assieme alle armi da fuoco, ma come esso si traduce e si manifesta nel visibile. Quel visibile è il Giappone del diciassettesimo secolo.
Shinoda focalizza l’attenzione sulla manifestazione del culto cristiano in Giappone e sul modo in cui il potere dello shogunato, mediante procedimenti puramente rappresentativi, esercita la repressione. Centrale nel film è infatti la cerimonia del fumi-e, ovvero il calpestamento di immagini sacre a cui i cristiani giapponesi venivano sottoposti. La pratica, meramente formale, aveva successo proprio perché le autorità dello shogunato erano consapevoli che i cristiani giapponesi vedevano negli oggetti di culto la manifestazione della divinità. Erano cioè incapaci di scindere il non-visibile, il dio cristiano, dagli oggetti che rappresentavano e mostravano la loro fede. La formalità dell’atto e il suo manifestarsi cerimonialmente sembrano essere il vero interesse di Shinoda, che appare interessato proprio a dimostrare come sia la fede sia il potere si manifestino tramite forme rappresentative codificate e rivolte a un pubblico.
Molte sono le scene in cui padre Rodrigues è chiamato ad assistere da spettatore al modo in cui il potere giapponese rappresenta sé stesso. Le torture pubbliche, strumento rappresentativo del potere per eccellenza, a cui i cristiani giapponesi sono sottoposti si configurano come un vero e proprio spettacolo. Vengono infatti restituite tramite un montaggio che enfatizza la presenza di molteplici spettatori e le pone al centro di un ideale palco a cielo aperto. Le scene della crocifissione dei tre contadini giapponesi e della morte di padre Garrpe presentano proprio questo schema. Anche quelle della cattura di padre Rodrigues e del suo successivo interrogatorio hanno una struttura analoga.
Se le sequenze della cattura configurano il protagonista come emulo di Gesù Cristo - le vie crucis sono, del resto, fra le prime forme di rappresentazione teatrale a svilupparsi nel medioevo e tutto il teatro medievale ha una matrice religiosa - quelle dedicate agli scambi fra padre Rodrigues e il magistrato Inoue marcano ancora di più questa tendenza.
Vi è però una scena, assente nel romanzo di Endo, che rivela in maniera emblematica tutto ciò: la tortura del samurai convertito Okada Sanemon. La sequenza viene costruita da Shinoda tramite una rapida alternanza fra la tortura subita dall’uomo - eseguita per costringere sua moglie ad abiurare – gli sguardi carichi di terrore della donna e quelli degli altri cristiani, compreso padre Rodrigues, che, chiusi nelle loro celle, assistono al macabro spettacolo. Avvenuto il calpestamento dell’icona da parte della donna, la tortura si conclude e con esso anche i rapidi raccordi di sguardo che lo avevano accompagnato. La conseguente uccisione del samurai avviene in disparte, nascosta, lontana dagli occhi di coloro che hanno assistito alla tortura. Una volta che la formalità ha avuto luogo e la rappresentazione ha esaurito il suo potere dimostrativo sul popolo, l’omicidio diventa una questione privata.
Fra le scene di tortura presenti nel film, quella di Okada Sanemon occupa lo spazio maggiore perché in essa trovano sintesi sia il piano estetico-formale del film sia quello storico-sociale. A essere ucciso, nonostante la richiesta di apostasia, è infatti il samurai, non la moglie. Se per un contadino o per una donna basta espletare la formalità del fumi-e per essere rilasciato, la stessa cosa non può valere per un samurai. La tortura avviene sotto gli occhi del popolo, il regolamento di conti interno al potere avviene dietro le quinte.
Questa sequenza - che modifica radicalmente un episodio presente nel romanzo che non vede però come protagonista un samurai - è emblematica anche per comprendere il finale del film, che si discosta da quello del libro. Padre Rodrigues incontra infatti padre Ferreira – interpretato dal giapponese Tetsuro Tamba –, viene convinto ad abiurare per risparmiare la tortura ai contadini giapponesi e, ormai condannato a rimanere in Giappone per il resto della sua vita, ottiene nome e moglie del samurai ucciso.
L’ormai apostata Rodrigues entra nella sua nuova casa, Kichijiro è diventato il suo servo. Sotto lo sguardo celato di padre Ferreira, Rodrigues si appresta ad avere un rapporto sessuale con la sua nuova moglie, ovvero la stessa donna che aveva abiurato per far cessare la tortura del marito samurai. Si è costituito un nucleo familiare composto da apostati. L’ultima immagine in movimento del film è uno spioncino che si chiude. Seguono diversi fermo immagine – espediente usato molteplici volte da Shinoda nel finale dei suoi film – accompagnati da una voce che recita: “Da quel giorno Sebastian Rodrigues ricevette il nome di Okada Sanemon”. Padre Rodrigues, abiurando, è diventato un altro uomo e la sua nuova identità corrisponde con una liberazione sessuale e con un nuovo nome. Ora che si è omologato, può smettere di essere osservato. Può, come il padre Ferreira interpretato proprio per questo da un attore non occidentale, arrivare persino ad avere la pelle e i tratti di un giapponese.
Questo finale, però, sembra affermare che padre Rodrigues, espletata la formalità del calpestamento dell’icona, abbia definitivamente abbandonato la fede. Ciò non convinse particolarmente Shusaku Endo, che non si disse mai soddisfatto della resa del film. Il tormento del protagonista di Chinmoku, infatti, è del tutto fisico, limitato al visibile. Non è un gioco di parole affermare che padre Rodrigues, a differenza della sua controparte letteraria, assiste in silenzio al silenzio di Dio. Il suo, e ancora meno quello di padre Garrpe, è un personaggio con cui lo spettatore non riesce mai ad entrare veramente in empatia perché a mancare nel film è proprio quel dissidio interiore proprio dell’uomo di fede che assiste impotente al silenzio di Dio.
Ad avere un ruolo più importante rispetto al romanzo è invece proprio Kichijiro, la guida giapponese che, forse, è autenticamente cristiana proprio perché indifferente alla formalità del fumi-e. Il suo tormento interiore emerge nel film di Shinoda in maniera molto più evidente se raffrontato a quello di padre Rodrigues. Chinmoku appare quindi, in ultima analisi, ben più interessato a mettere in evidenza gli effetti che il cristianesimo ha avuto sul piano storico, sociale e culturale giapponese rispetto che ad indagare il rapporto tra uomo, fede e Dio.
Shusaku Endo morì nel 1996 e non ebbe modo di vedere un adattamento ben più fedele del suo romanzo operato da un regista che più volte nella propria carriera ha trattato il trascendentale e si è misurato col tema della fede e del sacrificio: Martin Scorsese.
Silence di Martin Scorsese: il Giappone come ultima tentazione di Cristo
Ben più nota di quella di Masahiro Shinoda è la parabola artistica di Martin Scorsese, che arriva a dirigere Silence dopo più di 40 anni di carriera costellati di capolavori e film che hanno segnato la storia del cinema. Martin Scorsese, che in gioventù entrò in seminario per diventare prete, è da sempre affascinato dal cinema e dalla cultura orientale e ammira grandi maestri come Kenji Mizoguchi e Akira Kurosawa. Fu proprio durante le riprese di Sogni (1990) - in cui Scorsese compare nei panni di Van Gogh - che quest’ultimo gli consigliò la lettura del romanzo di Shusaku Endo.
Per il regista italoamericano, reduce da pochi anni dall’esperienza di L’ultima tentazione di Cristo, fu una folgorazione. Dopo una travagliata odissea produttiva iniziata negli anni ’90, Scorsese riuscirà finalmente a dirigere il film - in una forma molto ridimensionata rispetto alla sua ambizione - nel 2016.
Martin Scorsese, a differenza di Masahiro Shinoda, non può contare sull’appoggio di Shusaku Endo, ma la sceneggiatura viene supervisionata dal traduttore delle opere dell’autore giapponese e corredata da un preciso studio storico e critico sulla situazione politica del Giappone nel diciassettesimo secolo. La fedeltà agli eventi del libro è pressoché assoluta. Scorsese recupera anche il carattere epistolare del romanzo - quasi del tutto assente nel film del 1971 - utilizzando il voice over per esprimere i pensieri del protagonista. Analogamente al romanzo, il film illustra gli scambi fra i due preti gesuiti e padre Valignano a Macao, l’incontro con la guida Kichijiro e il loro viaggio per mare fino alle isole del Giappone. Se in Shinoda - come abbiamo visto - l’avvio in medias res non ci permette di conoscere i protagonisti ed entrare in sintonia con loro, nel film di Scorsese essi ci vengono presentati sin da subito.
Sebbene non si possa logicamente paragonare lo stile di Shinoda a quello di Scorsese, gli eventi che si svolgono in Giappone prima della cattura di padre Rodrigues sono nei due film pressoché analoghi. Scorsese mette in scena la peregrinazione di Rodrigues arrivando quasi a effettuare dei calchi dal film del 1971, ma ha modo di esprimere al meglio il suo interesse verso la sofferenza fisica nella terribile ma splendida scena della crocifissione dei cristiani giapponesi. Se anche Scorsese insiste diverse volte, senza spettacolarizzarlo, sullo “spettacolo” della tortura, lo fa senza la consapevolezza estetica, la reiterazione e il distacco critico di Shinoda.
Essendo un regista occidentale che dirige un film in un contesto storico e geografico ben diverso da quello a cui il suo pubblico è abituato, Scorsese ha bisogno di far immergere lo spettatore nella narrazione. Tutta la prima parte del film appare orientata su questo principio. In più, come già avveniva pochi anni prima in Shutter Island, il regista si concentra sul connotare gli ambienti esterni come un riflesso dello stato d’animo tormentato del protagonista. È però dalla scena della cattura di Rodrigues conseguente al tradimento di Kichijiro che il film di Scorsese inizia a percorrere binari completamente diversi da quello di Shinoda. Se il tradimento da parte della guida giapponese avviene nel film del 1971 su una spiaggia mentre il padre lo sta assolvendo dai peccati, in quello di Scorsese accade dopo che il protagonista si è fermato a dissetarsi presso un ruscello.
Specchiandosi nell’acqua il prete si rende conto di essere diventato simile a Gesù. Nel momento stesso in cui lo spettatore riconosce chiaramente il protagonista come un analogo di Gesù si consuma il tradimento da parte di Kichijiro. Dal momento che Scorsese è lo stesso regista di L’ultima tentazione di Cristo, la soluzione adottata è estremamente significativa. Kichijiro condivide infatti la stessa matrice di quel Giuda interpretato da Harvey Keitel fondamentale affinché si compia il sacrificio di Cristo, e le analogie fra i due film non finiscono certamente qui.
Il tema del sacrificio e del rapporto fra realtà e trascendente, già presente nel film del 1987, diventa centrale in Silence proprio quando il protagonista specchiandosi si riconosce come Gesù e viene catturato. A differenza che in Chinmoku, nel quale la già ridimensionata voice over cessa dopo la cattura del protagonista, nel film di Scorsese è proprio da questo momento che padre Rodrigues inizia a cercare freneticamente un dialogo con Dio e a interrogarsi sul suo silenzio.
Il bivio a cui il protagonista si trova dinnanzi, se abiurare e negare la fede per salvare i cristiani giapponesi o resistere consegnandoli alla sofferenza, non si configura solamente sul piano del visibile, ma, soprattutto, su quello del non-visibile. Scorsese istituisce infatti un dialogo - assente nel film di Shinoda - fra padre Rodrigues, Gesù Cristo e Dio. Un dialogo così denso da farsi nella scena del fumi-e un vero e proprio scambio di battute in cui è la stessa icona di Cristo ad invitare il protagonista a calpestarla. Abiurando, Rodrigues diventa a tutti gli effetti Gesù Cristo che sacrifica sé stesso per salvare gli uomini.
Se in Chinmoku la questione della fede del protagonista viene lasciata sostanzialmente aperta e al vaglio critico dello spettatore, in Silence l’abiura risolve positivamente il rapporto dell’uomo con Dio.
Non a caso il finale del film di Scorsese si chiude con l’immagine del defunto padre Rodrigues che, in procinto di essere cremato, tiene stretto fra le mani un crocifisso. Se la voice over segue la scia del testo letterario che lascia ogni giudizio sulla fede dell’uomo a Dio, le immagini ci dicono tutt’altro e ci danno una risposta definitiva.
Chinmoku e Silence: due film antitetici
Il Chinmoku del giapponese Shinoda appare più votato a compiere un’analisi storica del mancato avvento del cristianesimo in Giappone e a interrogarsi sul modo in cui due forze astratte come la fede e il potere adottano delle forme rappresentative per manifestarsi. Tematiche simili verranno indagate da Shinoda anche nel successivo Himiko (1974), in cui il regista scava agli albori della storia del suo paese per dimostrare come la religione in Giappone si sia staccata dal suo oggetto per farsi messa in scena e strumento di potere.
Il Silence dell’americano Scorsese, invece, si fa vero e proprio film religioso che sfrutta il contesto storico e culturale per parlare non di una collettività, ma dell’intimo rapporto fra l’uomo e la fede e del significato autentico del sacrificio. Un film in cui queste tematiche, che percorrono tutto il cinema di Scorsese e non si manifestano solo nei suoi film “religiosi”, trovano un ulteriore compimento.
Chinmoku e Silence sono quindi due opere diverse, entrambe affascinanti, che corrono su strade parallele destinate a non incrociarsi, ma che, interrogando la stessa matrice letteraria, sono in grado di suscitare in noi differenti domande e differenti sensazioni.
Martin Scorsese e Masahiro Shinoda
alle prese con il romanzo di Shusaku Endo,
di Arturo Garavaglia
TR-89
25.11.2023
Nel 1966 veniva edito in Giappone Silenzio, romanzo di Shusaku Endo (1923-1996), all’epoca uno dei più celebri scrittori giapponesi. L’opera ebbe un grande successo in patria e fu presto pubblicata nel resto del mondo. Pochi anni dopo, nel 1971, il regista giapponese Masahiro Shinoda ne dirigeva un adattamento cinematografico sceneggiato dallo stesso Endo. Alla fine degli anni ’90 un film liberamente tratto dal romanzo, intitolato Os olhos de Asia, usciva in Portogallo per la regia di João Mário Grilo. Nel 2016, cinquant’anni dopo la pubblicazione del libro, arrivava in sala un nuovo adattamento cinematografico di Silenzio, diretto da Martin Scorsese.
Questa rapida carrellata di nomi, luoghi e date suggerisce l’enorme successo che il romanzo giapponese ha avuto in tutto il mondo e l’interesse che l’opera ha suscitato, in diversi momenti storici, in autori appartenenti a panorami culturali differenti.
Ambientato nel ‘600, dopo la rivolta di Shimabara e la conseguente messa al bando del cristianesimo operata dallo shogunato Tokugawa, Silenzio è la storia di tre missionari gesuiti portoghesi che si recano in Giappone per avere notizie su padre Ferreira, loro precettore, del quale non si hanno più notizie e sul quale grava il sospetto di apostasia. Il viaggio dei tre preti - che diventeranno due nel corso del romanzo - li porterà a fare i conti con un mondo e una cultura a loro sconosciuti e con la propria fede.
Adottando una forma ibrida fra romanzo epistolare e racconto in terza persona, l’autore ha modo di ripercorrere il turbamento di padre Rodrigues, vero protagonista dell’opera, e di sondarne la fede di fronte a un Dio che rimane silenzioso ad assistere al dolore degli uomini. Al tema del silenzio di Dio viene affiancato quello del sacrificio, molto caro sia all’occidente cristiano sia all’estremo oriente, che l’autore cerca di sondare per coglierne il significato più autentico. L’ibridazione di generi (storico e religioso), la forma che favorisce una forte immedesimazione e l’insospettabile universalità degli argomenti trattati hanno garantito al romanzo un grande successo sia in patria - dove il cristianesimo è una religione praticata dall’1% della popolazione - sia nel resto del mondo.
Focalizzandoci sugli adattamenti del 1971 e del 2016, girati a distanza di molti anni da Masahiro Shinoda e dal più celebre Martin Scorsese, osserviamo come il romanzo abbia generato due film estremamente diversi sia nelle premesse sia nelle conclusioni, in grado però di dialogare criticamente sia con il proprio pubblico sia con l’opera di riferimento.
Chinmoku di Masahiro Shinoda: il Giappone come teatro dello scontro tra fede e potere
Quando dirige la sua versione di Silenzio Masahiro Shinoda (1931-) è un regista ampiamente affermato. Formatosi nel vivace e prorompente contesto della nūberu bāgu – semplificando, la nouvelle vague giapponese –, è reduce da una serie di film di discreto successo come Pale flower (1961), Samurai Spy (1966) e Double Suicide (1969). Un tratto distintivo del suo cinema è l’indagine sulle forme con cui una società configura sé stessa mediante la rappresentazione. Centrale nella sua filmografia, caratterizzata per la maggior parte da film storici, è l’indagine sulla rappresentazione teatrale e su come essa si faccia, nella sua dimensione estetica ed etica, manifestazione pubblica dell’ordine sociale.
Produttore di tutti i suoi film dal 1965, nel 1971 Shinoda è un autore già maturo che ha già avuto modo di trasporre romanzi di celebri compatrioti per il grande schermo. Può quindi cimentarsi in un jidai-geki - termine che definisce il tradizionale film ad ambientazione storica giapponese - ben lontano dai canoni classici. Un film che ha come protagonista uno sconosciuto attore occidentale, David Lampson, e che sembra avere come tematica principale il rapporto fra l’uomo e la fede. Per scrivere la sceneggiatura del film si fa assistere dallo stesso Shusaku Endo, ma già da questo dato emerge una prima, singolare, anomalia. Fin dal suo incipit, in cui una voce fuori campo introduce lo scenario in cui si svolge la storia, il film è tutt’altro che fedele al romanzo. Nel presentare il periodo antecedente alla rivolta di Shimabara (1637), la voce narrante istituisce un’analogia fra le armi da fuoco e la religione, portate ambedue dagli occidentali. Assieme alla voce fuori campo si alternano sullo schermo stampe giapponesi risalenti al diciassettesimo secolo, che narrano l’arrivo degli occidentali in Giappone, e immagini di oggetti propri del culto cristiano.
Shinoda, ateo a differenza di Endo che si convertì al cristianesimo in giovane età, nel prologo del film riconosce nella religione uno strumento di controllo equivalente alle armi. Se il romanzo inizia in Portogallo e racconta, tramite resoconti epistolari, l’arrivo dei protagonisti a Macao, i tentativi di convincere il padre gesuita Valignano a salpare per il Giappone, l’incontro con l’ambigua guida Kichijiro e quindi il viaggio per mare verso l’arcipelago, il film di Shinoda inizia quando i due preti portoghesi Rodrigues e Garrpe, accompagnati dalla loro guida, sbarcano in Giappone. Il lento processo di avvicinamento ai personaggi e alla terra del Sol Levante, funzionale nel romanzo all’immedesimazione, viene completamente omesso. Sin dai primi minuti del film appare quindi chiaro che a Shinoda non interessa tanto il piano teologico-religioso del racconto, quanto quello storico-sociale. A interessargli non è il non-visibile, un trascendente che viene dall’esterno assieme alle armi da fuoco, ma come esso si traduce e si manifesta nel visibile. Quel visibile è il Giappone del diciassettesimo secolo.
Shinoda focalizza l’attenzione sulla manifestazione del culto cristiano in Giappone e sul modo in cui il potere dello shogunato, mediante procedimenti puramente rappresentativi, esercita la repressione. Centrale nel film è infatti la cerimonia del fumi-e, ovvero il calpestamento di immagini sacre a cui i cristiani giapponesi venivano sottoposti. La pratica, meramente formale, aveva successo proprio perché le autorità dello shogunato erano consapevoli che i cristiani giapponesi vedevano negli oggetti di culto la manifestazione della divinità. Erano cioè incapaci di scindere il non-visibile, il dio cristiano, dagli oggetti che rappresentavano e mostravano la loro fede. La formalità dell’atto e il suo manifestarsi cerimonialmente sembrano essere il vero interesse di Shinoda, che appare interessato proprio a dimostrare come sia la fede sia il potere si manifestino tramite forme rappresentative codificate e rivolte a un pubblico.
Molte sono le scene in cui padre Rodrigues è chiamato ad assistere da spettatore al modo in cui il potere giapponese rappresenta sé stesso. Le torture pubbliche, strumento rappresentativo del potere per eccellenza, a cui i cristiani giapponesi sono sottoposti si configurano come un vero e proprio spettacolo. Vengono infatti restituite tramite un montaggio che enfatizza la presenza di molteplici spettatori e le pone al centro di un ideale palco a cielo aperto. Le scene della crocifissione dei tre contadini giapponesi e della morte di padre Garrpe presentano proprio questo schema. Anche quelle della cattura di padre Rodrigues e del suo successivo interrogatorio hanno una struttura analoga.
Se le sequenze della cattura configurano il protagonista come emulo di Gesù Cristo - le vie crucis sono, del resto, fra le prime forme di rappresentazione teatrale a svilupparsi nel medioevo e tutto il teatro medievale ha una matrice religiosa - quelle dedicate agli scambi fra padre Rodrigues e il magistrato Inoue marcano ancora di più questa tendenza.
Vi è però una scena, assente nel romanzo di Endo, che rivela in maniera emblematica tutto ciò: la tortura del samurai convertito Okada Sanemon. La sequenza viene costruita da Shinoda tramite una rapida alternanza fra la tortura subita dall’uomo - eseguita per costringere sua moglie ad abiurare – gli sguardi carichi di terrore della donna e quelli degli altri cristiani, compreso padre Rodrigues, che, chiusi nelle loro celle, assistono al macabro spettacolo. Avvenuto il calpestamento dell’icona da parte della donna, la tortura si conclude e con esso anche i rapidi raccordi di sguardo che lo avevano accompagnato. La conseguente uccisione del samurai avviene in disparte, nascosta, lontana dagli occhi di coloro che hanno assistito alla tortura. Una volta che la formalità ha avuto luogo e la rappresentazione ha esaurito il suo potere dimostrativo sul popolo, l’omicidio diventa una questione privata.
Fra le scene di tortura presenti nel film, quella di Okada Sanemon occupa lo spazio maggiore perché in essa trovano sintesi sia il piano estetico-formale del film sia quello storico-sociale. A essere ucciso, nonostante la richiesta di apostasia, è infatti il samurai, non la moglie. Se per un contadino o per una donna basta espletare la formalità del fumi-e per essere rilasciato, la stessa cosa non può valere per un samurai. La tortura avviene sotto gli occhi del popolo, il regolamento di conti interno al potere avviene dietro le quinte.
Questa sequenza - che modifica radicalmente un episodio presente nel romanzo che non vede però come protagonista un samurai - è emblematica anche per comprendere il finale del film, che si discosta da quello del libro. Padre Rodrigues incontra infatti padre Ferreira – interpretato dal giapponese Tetsuro Tamba –, viene convinto ad abiurare per risparmiare la tortura ai contadini giapponesi e, ormai condannato a rimanere in Giappone per il resto della sua vita, ottiene nome e moglie del samurai ucciso.
L’ormai apostata Rodrigues entra nella sua nuova casa, Kichijiro è diventato il suo servo. Sotto lo sguardo celato di padre Ferreira, Rodrigues si appresta ad avere un rapporto sessuale con la sua nuova moglie, ovvero la stessa donna che aveva abiurato per far cessare la tortura del marito samurai. Si è costituito un nucleo familiare composto da apostati. L’ultima immagine in movimento del film è uno spioncino che si chiude. Seguono diversi fermo immagine – espediente usato molteplici volte da Shinoda nel finale dei suoi film – accompagnati da una voce che recita: “Da quel giorno Sebastian Rodrigues ricevette il nome di Okada Sanemon”. Padre Rodrigues, abiurando, è diventato un altro uomo e la sua nuova identità corrisponde con una liberazione sessuale e con un nuovo nome. Ora che si è omologato, può smettere di essere osservato. Può, come il padre Ferreira interpretato proprio per questo da un attore non occidentale, arrivare persino ad avere la pelle e i tratti di un giapponese.
Questo finale, però, sembra affermare che padre Rodrigues, espletata la formalità del calpestamento dell’icona, abbia definitivamente abbandonato la fede. Ciò non convinse particolarmente Shusaku Endo, che non si disse mai soddisfatto della resa del film. Il tormento del protagonista di Chinmoku, infatti, è del tutto fisico, limitato al visibile. Non è un gioco di parole affermare che padre Rodrigues, a differenza della sua controparte letteraria, assiste in silenzio al silenzio di Dio. Il suo, e ancora meno quello di padre Garrpe, è un personaggio con cui lo spettatore non riesce mai ad entrare veramente in empatia perché a mancare nel film è proprio quel dissidio interiore proprio dell’uomo di fede che assiste impotente al silenzio di Dio.
Ad avere un ruolo più importante rispetto al romanzo è invece proprio Kichijiro, la guida giapponese che, forse, è autenticamente cristiana proprio perché indifferente alla formalità del fumi-e. Il suo tormento interiore emerge nel film di Shinoda in maniera molto più evidente se raffrontato a quello di padre Rodrigues. Chinmoku appare quindi, in ultima analisi, ben più interessato a mettere in evidenza gli effetti che il cristianesimo ha avuto sul piano storico, sociale e culturale giapponese rispetto che ad indagare il rapporto tra uomo, fede e Dio.
Shusaku Endo morì nel 1996 e non ebbe modo di vedere un adattamento ben più fedele del suo romanzo operato da un regista che più volte nella propria carriera ha trattato il trascendentale e si è misurato col tema della fede e del sacrificio: Martin Scorsese.
Silence di Martin Scorsese: il Giappone come ultima tentazione di Cristo
Ben più nota di quella di Masahiro Shinoda è la parabola artistica di Martin Scorsese, che arriva a dirigere Silence dopo più di 40 anni di carriera costellati di capolavori e film che hanno segnato la storia del cinema. Martin Scorsese, che in gioventù entrò in seminario per diventare prete, è da sempre affascinato dal cinema e dalla cultura orientale e ammira grandi maestri come Kenji Mizoguchi e Akira Kurosawa. Fu proprio durante le riprese di Sogni (1990) - in cui Scorsese compare nei panni di Van Gogh - che quest’ultimo gli consigliò la lettura del romanzo di Shusaku Endo.
Per il regista italoamericano, reduce da pochi anni dall’esperienza di L’ultima tentazione di Cristo, fu una folgorazione. Dopo una travagliata odissea produttiva iniziata negli anni ’90, Scorsese riuscirà finalmente a dirigere il film - in una forma molto ridimensionata rispetto alla sua ambizione - nel 2016.
Martin Scorsese, a differenza di Masahiro Shinoda, non può contare sull’appoggio di Shusaku Endo, ma la sceneggiatura viene supervisionata dal traduttore delle opere dell’autore giapponese e corredata da un preciso studio storico e critico sulla situazione politica del Giappone nel diciassettesimo secolo. La fedeltà agli eventi del libro è pressoché assoluta. Scorsese recupera anche il carattere epistolare del romanzo - quasi del tutto assente nel film del 1971 - utilizzando il voice over per esprimere i pensieri del protagonista. Analogamente al romanzo, il film illustra gli scambi fra i due preti gesuiti e padre Valignano a Macao, l’incontro con la guida Kichijiro e il loro viaggio per mare fino alle isole del Giappone. Se in Shinoda - come abbiamo visto - l’avvio in medias res non ci permette di conoscere i protagonisti ed entrare in sintonia con loro, nel film di Scorsese essi ci vengono presentati sin da subito.
Sebbene non si possa logicamente paragonare lo stile di Shinoda a quello di Scorsese, gli eventi che si svolgono in Giappone prima della cattura di padre Rodrigues sono nei due film pressoché analoghi. Scorsese mette in scena la peregrinazione di Rodrigues arrivando quasi a effettuare dei calchi dal film del 1971, ma ha modo di esprimere al meglio il suo interesse verso la sofferenza fisica nella terribile ma splendida scena della crocifissione dei cristiani giapponesi. Se anche Scorsese insiste diverse volte, senza spettacolarizzarlo, sullo “spettacolo” della tortura, lo fa senza la consapevolezza estetica, la reiterazione e il distacco critico di Shinoda.
Essendo un regista occidentale che dirige un film in un contesto storico e geografico ben diverso da quello a cui il suo pubblico è abituato, Scorsese ha bisogno di far immergere lo spettatore nella narrazione. Tutta la prima parte del film appare orientata su questo principio. In più, come già avveniva pochi anni prima in Shutter Island, il regista si concentra sul connotare gli ambienti esterni come un riflesso dello stato d’animo tormentato del protagonista. È però dalla scena della cattura di Rodrigues conseguente al tradimento di Kichijiro che il film di Scorsese inizia a percorrere binari completamente diversi da quello di Shinoda. Se il tradimento da parte della guida giapponese avviene nel film del 1971 su una spiaggia mentre il padre lo sta assolvendo dai peccati, in quello di Scorsese accade dopo che il protagonista si è fermato a dissetarsi presso un ruscello.
Specchiandosi nell’acqua il prete si rende conto di essere diventato simile a Gesù. Nel momento stesso in cui lo spettatore riconosce chiaramente il protagonista come un analogo di Gesù si consuma il tradimento da parte di Kichijiro. Dal momento che Scorsese è lo stesso regista di L’ultima tentazione di Cristo, la soluzione adottata è estremamente significativa. Kichijiro condivide infatti la stessa matrice di quel Giuda interpretato da Harvey Keitel fondamentale affinché si compia il sacrificio di Cristo, e le analogie fra i due film non finiscono certamente qui.
Il tema del sacrificio e del rapporto fra realtà e trascendente, già presente nel film del 1987, diventa centrale in Silence proprio quando il protagonista specchiandosi si riconosce come Gesù e viene catturato. A differenza che in Chinmoku, nel quale la già ridimensionata voice over cessa dopo la cattura del protagonista, nel film di Scorsese è proprio da questo momento che padre Rodrigues inizia a cercare freneticamente un dialogo con Dio e a interrogarsi sul suo silenzio.
Il bivio a cui il protagonista si trova dinnanzi, se abiurare e negare la fede per salvare i cristiani giapponesi o resistere consegnandoli alla sofferenza, non si configura solamente sul piano del visibile, ma, soprattutto, su quello del non-visibile. Scorsese istituisce infatti un dialogo - assente nel film di Shinoda - fra padre Rodrigues, Gesù Cristo e Dio. Un dialogo così denso da farsi nella scena del fumi-e un vero e proprio scambio di battute in cui è la stessa icona di Cristo ad invitare il protagonista a calpestarla. Abiurando, Rodrigues diventa a tutti gli effetti Gesù Cristo che sacrifica sé stesso per salvare gli uomini.
Se in Chinmoku la questione della fede del protagonista viene lasciata sostanzialmente aperta e al vaglio critico dello spettatore, in Silence l’abiura risolve positivamente il rapporto dell’uomo con Dio.
Non a caso il finale del film di Scorsese si chiude con l’immagine del defunto padre Rodrigues che, in procinto di essere cremato, tiene stretto fra le mani un crocifisso. Se la voice over segue la scia del testo letterario che lascia ogni giudizio sulla fede dell’uomo a Dio, le immagini ci dicono tutt’altro e ci danno una risposta definitiva.
Chinmoku e Silence: due film antitetici
Il Chinmoku del giapponese Shinoda appare più votato a compiere un’analisi storica del mancato avvento del cristianesimo in Giappone e a interrogarsi sul modo in cui due forze astratte come la fede e il potere adottano delle forme rappresentative per manifestarsi. Tematiche simili verranno indagate da Shinoda anche nel successivo Himiko (1974), in cui il regista scava agli albori della storia del suo paese per dimostrare come la religione in Giappone si sia staccata dal suo oggetto per farsi messa in scena e strumento di potere.
Il Silence dell’americano Scorsese, invece, si fa vero e proprio film religioso che sfrutta il contesto storico e culturale per parlare non di una collettività, ma dell’intimo rapporto fra l’uomo e la fede e del significato autentico del sacrificio. Un film in cui queste tematiche, che percorrono tutto il cinema di Scorsese e non si manifestano solo nei suoi film “religiosi”, trovano un ulteriore compimento.
Chinmoku e Silence sono quindi due opere diverse, entrambe affascinanti, che corrono su strade parallele destinate a non incrociarsi, ma che, interrogando la stessa matrice letteraria, sono in grado di suscitare in noi differenti domande e differenti sensazioni.