Tra camei e citazioni, due percorsi intellettuali
che non potevano non incrociarsi,
di Ludovico Cantisani
TR-68
23.10.2022
C'era un tempo, in Italia, in cui il rapporto tra registi e intellettuali era molto più stretto di adesso. A dire il vero c'era un tempo, in Italia, in cui i registi erano intellettuali a tutti gli effetti, e solo in parte questa categoria poteva essere suddivisa tra quanti si attenevano alla carta, i letterati, e quanti sceglievano invece il medium del cinema, i cineasti, per esprimere le proprie idee. In alcuni casi, il rapporto tra cineasti e letterati ha avuto un notevole impatto sulla cultura italiana: Pier Paolo Pasolini e Alberto Moravia, Federico Fellini ed Ennio Flaiano - finché durò -, Marco Bellocchio e Massimo Fagioli, se vogliamo anche Vittorio De Seta e Goffredo Fofi, per non parlare del rapporto terapeutico che lo psicoanalista Ernest Bernhard ebbe con diversi dei registi appena citati. Tutte queste coppie, in una grande varietà di ruoli e di modalità di interazione, si influenzarono a vicenda in un periodo in cui il cinema era più organicamente unito ad altri ambiti della cultura italiana. Altrettanto fitto, anche se meno noto, fu il rapporto tra Michelangelo Antonioni e Umberto Eco: il primo, nato nel 1912 e scomparso nel 2007, l'autore più rigoroso del nostro cinema, asciutto demiurgo di personaggi alienati sullo sfondo di una crisi morale della borghesia; il secondo, nato nel 1932 e morto nel 2016, intellettuale eclettico, semiologo, medievalista, massmediologo, in ultimo anche narratore. Entrambi destinati a tracciare percorsi che, per comune rigore e affine eclettismo, non potevano non incrociarsi.
Dopo L'avventura, spettrale viaggio in Sicilia premiato a Cannes, Antonioni torna alle sue usuali ambientazioni urbane con La notte, interpretato da Marcello Mastroianni e Jeanne Moreau e vincitore dell'Orso d'oro a Berlino. Ne La notte Mastroianni veste i panni di Giovanni Pontano, uno scrittore in crisi - non solo e non tanto in crisi di ispirazione, quanto in crisi rispetto al suo stesso ruolo sociale e professionale, anticipando il cruccio che avrebbe avuto quindici anni dopo il personaggio di Jack Nicholson in Professione: reporter. Disincantato, distaccato da tutto e da sua moglie in primis, pronto a svendersi per scrivere la biografia di un ricco industriale, Pontano accompagna noi spettatori attraverso svariati ambienti intellettuali e alto-borghesi di una Milano colta nel momento esatto dell'esplosione del boom economico. E così come per Zabriskie Point avrebbe chiamato dei veri sessantottini americani sia come comparse che come protagonisti, ne La notte Antonioni chiamò alcuni nomi di spicco dell'élite culturale del suo tempo a interpretare essenzialmente sé stessi nello scenario di una festa altolocata: tra questi spicca sicuramente Salvatore Quasimodo, rumoreggiato dagli altri partecipanti del party come “il nostro premio Nobel"; ma nella stessa sequenza compare anche un giovane Umberto Eco, ventottenne al momento delle riprese. Nel 1961 Eco era noto più come funzionario RAI e articolista che come saggista: aveva già dato alle stampe un notevole saggio sull'estetica di San Tommaso d'Aquino e, sotto pseudonimo, il divertissement dei Filosofi in libertà, ma, membro attivo del leggendario Gruppo 63, solo con l'Opera aperta del 1962 avrebbe dato definitivamente il via al suo percorso saggistico di studioso delle strutture comunicative e delle narrazioni di massa.
Affermatosi definitivamente come uno dei più eclettici e influenti pensatori italiani, Eco non tardò a “ricambiare la cortesia”, citando a vario titolo il cinema e la poetica di Michelangelo Antonioni all’interno dei suoi libri e dei suoi scritti. Un interessante riferimento al cinema antonioniano lo si ritrova innanzitutto in Appunti sulla televisione, uno degli ultimi capitoli dell’epocale raccolta del 1964 Apocalittici e integrati, in un passaggio sulle influenze che la ripresa diretta televisiva potrebbe aver avuto sul linguaggio cinematografico. Se quest’intuizione è giusta, “non sarebbe accidentale che solo dopo alcuni anni di abitudine al racconto televisivo anche il cinema abbia preso le mosse per un diverso tipo di racconto, di cui un esempio insigne potrebbero essere le opere di Antonioni: dove l’azione principale, se pure esiste, appare continuamente diluita nello sfondo degli eventi, apparentemente insignificanti che si sviluppano intorno”. Ma nulla è più epifanico del quotidiano, lo sapeva bene quel Joyce che non per nulla fu uno degli autori più studiati da Eco sin dai tempi delle Poetiche, e che lo stesso Antonioni avrebbe citato nel suo libro Quel bowling sul Tevere.
A detta di Eco, nel cinema di Antonioni, “di fatto, gli eventi insignificanti vengono a costituire proprio il nucleo di una nuova azione, tesa appunto a riscoprire, nel tessuto degli eventi quotidiani più irrilevanti, significati o assenti di significati”. Se la concezione tradizionale di film “ci aveva assuefatto, nella sua opera di selezione e depurazione narrativa”, a dimenticare la quotidianità, la televisione ha abituato il pubblico “a un nuovo tipo di tessuto narrativo, continuamente sfrangiantesi nel superfluo, ma altresì capace di far gustare in modo nuovo la complessa casualità degli eventi quotidiani. Muovendosi in direzione opposta alla famosa massima di Hitchcock secondo cui il cinema sarebbe la vita senza le parti noiose, Antonioni aveva effettivamente sempre più adoperato, di film in film, un dispositivo di narrazione esistenziale, desideroso di trasmettere il sapore confuso della vita più che di raccontare una storia nel senso canonico del termine: una tendenza che era arrivata a compimento proprio con La notte, il film in cui Eco faceva il cameo, e che si sarebbe riverberata anche ne L’eclisse, nel Deserto rosso e nell’ultimo, testamentario, Al di là delle nuvole.
Di tutti gli scritti di Eco che fanno più o meno diffusamente riferimento al cinema antonioniano, forse il più significativo è quello in cui l’intellettuale prende un’equilibrata posizione a proposito del controverso documentario girato da Antonioni nella Cina maoista. Inizialmente voluto dalle stesse autorità cinesi, Chung Kuo Cina di Antonioni, documentario-fiume girato nel 1972 nell'interregno tra Zabriskie Point e Professione: reporter, rappresentava un caso più unico che raro di sguardo occidentale sugli anni della Rivoluzione Culturale Cinese lanciata da Mao - e finì per scatenare un vero e proprio incidente diplomatico.
Eco parlò di Chung Kuo Cina nell’articolo De interpretatione, ovvero della difficoltà di essere Marco Polo, originariamente pubblicato su L’Espresso dopo una contestata proiezione alla Mostra del Cinema di Venezia del 1974, e poi incluso nella raccolta Dalla periferia dell’impero. “Quello che è avvenuto a Venezia sabato scorso stava tra la fantascienza e la commedia all’italiana, con un pizzico di western”, esordiva l’articolo: le pressioni politiche, da parte della Cina e di una parte del governo italiano, per impedire o boicottare la proiezione aveva creato un vero e proprio “carosello”, con la prefettura di Venezia che aveva cercato di far saltare la proiezione con la scusa che il Teatro la Fenice era inagibile come sala cinematografica - “dopo che da una settimana non si faceva altro che proiettarvi film”, annotava sornione Eco -, suscitando la frustrata ilarità di Carlo Ripa di Meana, allora presidente della Biennale. Stando alle parole di Eco, “Antonioni, nervoso e sconvolto, soffriva ancora una volta il suo personalissimo e paradossale dramma di un artista antifascista che era andato in Cina animato da affetto e rispetto e che si trovava accusato di essere un fascista, un reazionario al soldo del revisionismo sovietico e dell’imperialismo americano, odiato da ottocento milioni di persone”.
Le parole di Eco non erano un’esagerazione: dopo un’iniziale accoglienza calda e quasi trionfale, e dopo alcune settimane di ripresa tutto sommato pacifiche, a inizio del 1974 Chung Kuo Cina era stato ufficialmente “scomunicato” sulle pagine del lettissimo Quotidiano del Popolo, il giornale ufficiale della Repubblica Popolare Cinese. In quella che a detta di molti era una mossa atta più che altro a contestare Zhou Enlai, primo ministro finito nel bel mezzo di una lotta di potere e di successione negli ultimi anni di vita di Mao, Antonioni era stato proclamato nemico del popolo.
Secondo Eco, per comprendere - senza per forza giustificare - le ragioni dello sdegno della Cina per il documentario “occorreva rivedere l’opera intera con occhio diverso: non da italiano, ma da cinese”. In questo, Eco ammetteva di essere stato “favorito” dalla compagnia, in sala, di un giovane critico cinematografico di Hong Kong. Da questa prospettiva “si possono avanzare serie obiezioni ideologiche al lavoro di Antonioni”, un “artista occidentale” che, portando anche in Cina l’attenzione alle inquietudini esistenziali che caratterizzavano i suoi film di ambientazione italiana, londinese o californiana, “ci parla della vita quotidiana dei cinesi dentro la rivoluzione anziché rappresentarci la rivoluzione” stessa.
Fin troppo fedele alla poetica già dispiegata nei precedenti film “di finzione” girati in Occidente, “Antonioni pensa alla dimensione individuale e parla” anche in Cina “di dolore come di costante ineliminabile della vita di ogni uomo”; ma vedendo il documentario e ascoltandone il commento, “i cinesi intendono ‘dolore’ come malattia sociale, e colgono l’insinuazione che l’ingiustizia non sia stata risolta, ma solo coperta”. Per Umberto Eco è chiaro che Antonioni volesse restituire al pubblico “la ricerca di una Cina come utopia possibile per un Occidente frenetico e nevrotico” - ma è chiaro anche che un cinese non poteva cogliere quest’intenzione, al netto del suo eventuale paternalismo. “Non accade anche a noi italiani di sentirci traditi quando un film straniero ci rappresenta coi volti degli immigrati meridionali o con pastori sardi in costume, mentre noi tendiamo a identificare il paese con le autostrade e gli stabilimenti di Mirafiori?”.
Il passaggio più significativo dell’articolo di Eco sta in un’autentica lezione di prospettivismo tratta dalle molte incomprensioni che si erano susseguite tra il team di Antonioni e le autorità cinesi. Il Quotidiano del Popolo, tra le molte critiche avanzate ad Antonioni, si era lamentato anche del fatto che l’inquadratura del ponte di Nanchino lo avesse fatto apparire storto e instabile, ma questo era accaduto soltanto perché, come spiega Eco, “una cultura che privilegia la rappresentazione frontale e l’inquadratura simmetrica in campo lungo non può accettare il linguaggio della cinematografica che, per dare il senso dell’impotenza, inquadra dal basso, e di scorcio, privilegiando la dissimmetria, la tensione contro l’equilibrio”. La conclusione che ne trae Eco è pacifica: “anche il montaggio è un linguaggio, e questo linguaggio è storico, legato a diverse condizioni materiali di vita, e le stesse inquadrature dicono cose diverse a uomini diversi”. Ma Eco sa anche, e lo scrive chiaro e tondo, che la frattura creatasi tra Antonioni e la Cina da lui ritratta era, almeno per il momento, insanabile - tant’è vero che ci sarebbero voluti trent’anni prima che, nel 2004, in un evento trionfalmente organizzato dall’Accademia del Cinema e dall’Istituto Italiano di Cultura di Pechino in collaborazione con Cinecittà, Chung Kuo Cina venisse proiettato per la prima volta nella terra dove era stato girato. Sull’esperienza di Antonioni in Cina si è peraltro pronunciata di recente la giornalista italo-giapponese Junko Terao in un servizio per Internazionale.
Ma le convergenze tra Eco e Antonioni non finiscono qui - e neanche le collaborazioni. Oltre due decenni dopo il cameo ne La notte, Antonioni venne inizialmente coinvolto nel progetto di adattamento cinematografico de Il nome della rosa, primo romanzo di Umberto Eco e immediato bestseller su scala mondiale. Antonioni si sfilò dal progetto, che poi venne realizzato da Jean-Jacques Annaud con Sean Connery protagonista, pare per incomprensioni con l'originario produttore della pellicola; ma a quanto si legge in alcuni materiali dell'archivio di Antonioni messi in mostra a Ferrara nel 2013, il regista qualche tempo dopo avrebbe cercato di nuovo Eco per proporgli di scrivere per lui la sceneggiatura per un altro e non meglio specificato film. Eco però declinò dicendo: "ho fatto troppe cose nella mia vita, ma sono vergine per quanto riguarda il lavoro dello sceneggiatore", temendo anche di dover sottostare a "ritmi di lavoro assolutamente inconciliabili coi miei".
Nell’opera saggistica di Eco, brevi riferimenti al cinema di Antonioni si trovano anche in Lector in fabula, nelle prime pagine de Il costume di casa - dove lo scrittore prende in giro “l’antonionismo degli stenterelli”, degli pseudo-intellettuali che si struggono sul problema dell’incomunicabilità -, e in Sei passeggiate nei boschi narrativi, trascrizione di una serie di lezioni tenute da Eco nei primi anni novanta ad Harvard. Ma a quel punto della sua vita Antonioni era abituato a trovare i suoi film e il suo personalissimo stile registico citati nei testi più variegati di narratologia, semiologia o filosofia: nel 1980 il grande semiologo Roland Barthes gli aveva dedicato Caro Antonioni, un’“orazione epistolare” scritta in occasione del conferimento al regista dell’Archiginnasio alla carriera da parte del Comune di Bologna, e pochi anni dopo il filosofo francese Gilles Deleuze aveva fatto più volte riferimento ai film di Antonioni ne L’immagine-movimento e L’immagine-tempo, i suoi due esperimenti di filosofia cinematografica. Ma più che qualche altro sparuto riferimento nella parte “seria” della sua produzione filosofica, fa onore alla cultura e al genio di Eco Do Your Movie Yourself, un testo giocoso incluso al termine della seconda edizione del Diario minimo in cui è immancabile la presenza di Antonioni.
Con Do Your Movie Yourself, datato 1972, Eco si era voluto inserire in quel dibattito partim ironico, partim serio sulla “letteratura combinatoria” innescatosi tra Il castello dei destini incrociati di Calvino e i Cent mille milliards de poèmes di Raymond Queneau. Non è un caso che il testo sia stato più volte tradotto e ripreso in altre lingue, e tuttora circoli su blog di cinema americani o francesi: la sua geniale idea di base viene riassunta in un’ironica cornice narrativa per cui in un futuristico 1993, “con l’adozione definitiva del videoregistratore negli stessi uffici del catasto”, il cinema veniva rivoluzionato in modo che ogni spettatore acquistasse individualmente un plot pattern di un determinato regista da cui partire per attingere liberamente a un’ampia serie di combinazioni standardizzate. Accanto a possibilità analoghe per altri registi italiani del tempo - Olmi, Visconti, Bellocchio o Faenza - Eco vi proponeva anche un “soggetto multiplo per Antonioni”, da cui potevano scaturire ben 15751 diverse combinazioni. Eccolo:
“Una1 distesa2 desolata3 . Ella4 si allontana5
Trasformazioni
1. Due, tre, infinite. Un reticolo di. Un labirinto di. Un
2. Isola. Città. Snodi di autostrade. Autogrill Pavesi. Sotterraneo di metro. Campo petrolifero. Pioltello Nuova. EUR. Stock di tubi Dalmine all’aperto. Cimitero di automobili. Fiat Mirafiori di domenica. Expo dopo la chiusura. Centro spaziale a ferragosto. Campus della University of California. Los Angeles mentre gli studenti sono a Washington. Fiumicino.
3. Vuota. A perdita d’occhio. Con visibilità incerta per riverberi solari. Nebbiosa. Resa impraticabile da sbarramenti a griglia a maglie larghe. Radioattiva. Deformata da grandangolare.
4. Lui. Entrambi.
5. Sta lì. Tocca a lungo un oggetto. Si allontana poi si ferma perplessa, fa due passi indietro e si allontana di nuovo. Non si allontana ma la camera carrella indietro. Guarda la camera con volto inespressivo toccandosi il foulard”
Tutto si può dire tranne che Eco abbia peccato di imprecisione, in questa disamina strutturale del cinema antonioniano. Questa scomposizione forse non avrà fatto piacere al diretto interessato, ma è effettivamente molto aderente agli stilemi del suo cinema, perlomeno dei quattro film della “parentesi esistenziale” dei primi anni sessanta, quella che va da L’avventura al Deserto rosso. A un livello più macroscopico, si deve riconoscere anche una certa preveggenza da parte di Eco - preveggenza estendibile anche ad altri campi, peraltro. Quest’idea di “soggetto multiplo” ha anticipato di appena quarantasei anni Black Mirror: Bandersnatch, il primo esperimento di “film interattivo” rodato da Netflix. Difficile immaginare cosa ne avrebbe pensato Antonioni, un regista molto orgoglioso della sua autorialità ma al tempo stesso prontissimo a sperimentare nuove tecnologie, al punto da vagheggiare, in una delle sue ultime interviste in televisione, la possibilità di girare in futuro un film pressoché “in diretta”. Ad Antonioni si deve anche Il mistero di Oberwald del 1980, il primo film della storia del cinema a essere stato girato in video e poi riversato su pellicola, l’antenato di tutto il cinema digitale adesso imperante. Certo è che, nei rispettivi campi - il cinema per Antonioni e la semiotica, da intendersi nel senso più ampio possibile, per Eco - questi due esponenti del secolo scorso si sono distinti per una rara programmaticità di intenti e sono risultati capaci, per vie diverse, di indicare percorsi e prefigurare soluzioni che solo anni dopo la loro morte si sono fatti realtà.
Tra camei e citazioni, due percorsi intellettuali che non potevano non incrociarsi,
di Ludovico Cantisani
TR-68
23.10.2022
C'era un tempo, in Italia, in cui il rapporto tra registi e intellettuali era molto più stretto di adesso. A dire il vero c'era un tempo, in Italia, in cui i registi erano intellettuali a tutti gli effetti, e solo in parte questa categoria poteva essere suddivisa tra quanti si attenevano alla carta, i letterati, e quanti sceglievano invece il medium del cinema, i cineasti, per esprimere le proprie idee. In alcuni casi, il rapporto tra cineasti e letterati ha avuto un notevole impatto sulla cultura italiana: Pier Paolo Pasolini e Alberto Moravia, Federico Fellini ed Ennio Flaiano - finché durò -, Marco Bellocchio e Massimo Fagioli, se vogliamo anche Vittorio De Seta e Goffredo Fofi, per non parlare del rapporto terapeutico che lo psicoanalista Ernest Bernhard ebbe con diversi dei registi appena citati. Tutte queste coppie, in una grande varietà di ruoli e di modalità di interazione, si influenzarono a vicenda in un periodo in cui il cinema era più organicamente unito ad altri ambiti della cultura italiana. Altrettanto fitto, anche se meno noto, fu il rapporto tra Michelangelo Antonioni e Umberto Eco: il primo, nato nel 1912 e scomparso nel 2007, l'autore più rigoroso del nostro cinema, asciutto demiurgo di personaggi alienati sullo sfondo di una crisi morale della borghesia; il secondo, nato nel 1932 e morto nel 2016, intellettuale eclettico, semiologo, medievalista, massmediologo, in ultimo anche narratore. Entrambi destinati a tracciare percorsi che, per comune rigore e affine eclettismo, non potevano non incrociarsi.
Dopo L'avventura, spettrale viaggio in Sicilia premiato a Cannes, Antonioni torna alle sue usuali ambientazioni urbane con La notte, interpretato da Marcello Mastroianni e Jeanne Moreau e vincitore dell'Orso d'oro a Berlino. Ne La notte Mastroianni veste i panni di Giovanni Pontano, uno scrittore in crisi - non solo e non tanto in crisi di ispirazione, quanto in crisi rispetto al suo stesso ruolo sociale e professionale, anticipando il cruccio che avrebbe avuto quindici anni dopo il personaggio di Jack Nicholson in Professione: reporter. Disincantato, distaccato da tutto e da sua moglie in primis, pronto a svendersi per scrivere la biografia di un ricco industriale, Pontano accompagna noi spettatori attraverso svariati ambienti intellettuali e alto-borghesi di una Milano colta nel momento esatto dell'esplosione del boom economico. E così come per Zabriskie Point avrebbe chiamato dei veri sessantottini americani sia come comparse che come protagonisti, ne La notte Antonioni chiamò alcuni nomi di spicco dell'élite culturale del suo tempo a interpretare essenzialmente sé stessi nello scenario di una festa altolocata: tra questi spicca sicuramente Salvatore Quasimodo, rumoreggiato dagli altri partecipanti del party come “il nostro premio Nobel"; ma nella stessa sequenza compare anche un giovane Umberto Eco, ventottenne al momento delle riprese. Nel 1961 Eco era noto più come funzionario RAI e articolista che come saggista: aveva già dato alle stampe un notevole saggio sull'estetica di San Tommaso d'Aquino e, sotto pseudonimo, il divertissement dei Filosofi in libertà, ma, membro attivo del leggendario Gruppo 63, solo con l'Opera aperta del 1962 avrebbe dato definitivamente il via al suo percorso saggistico di studioso delle strutture comunicative e delle narrazioni di massa.
Affermatosi definitivamente come uno dei più eclettici e influenti pensatori italiani, Eco non tardò a “ricambiare la cortesia”, citando a vario titolo il cinema e la poetica di Michelangelo Antonioni all’interno dei suoi libri e dei suoi scritti. Un interessante riferimento al cinema antonioniano lo si ritrova innanzitutto in Appunti sulla televisione, uno degli ultimi capitoli dell’epocale raccolta del 1964 Apocalittici e integrati, in un passaggio sulle influenze che la ripresa diretta televisiva potrebbe aver avuto sul linguaggio cinematografico. Se quest’intuizione è giusta, “non sarebbe accidentale che solo dopo alcuni anni di abitudine al racconto televisivo anche il cinema abbia preso le mosse per un diverso tipo di racconto, di cui un esempio insigne potrebbero essere le opere di Antonioni: dove l’azione principale, se pure esiste, appare continuamente diluita nello sfondo degli eventi, apparentemente insignificanti che si sviluppano intorno”. Ma nulla è più epifanico del quotidiano, lo sapeva bene quel Joyce che non per nulla fu uno degli autori più studiati da Eco sin dai tempi delle Poetiche, e che lo stesso Antonioni avrebbe citato nel suo libro Quel bowling sul Tevere.
A detta di Eco, nel cinema di Antonioni, “di fatto, gli eventi insignificanti vengono a costituire proprio il nucleo di una nuova azione, tesa appunto a riscoprire, nel tessuto degli eventi quotidiani più irrilevanti, significati o assenti di significati”. Se la concezione tradizionale di film “ci aveva assuefatto, nella sua opera di selezione e depurazione narrativa”, a dimenticare la quotidianità, la televisione ha abituato il pubblico “a un nuovo tipo di tessuto narrativo, continuamente sfrangiantesi nel superfluo, ma altresì capace di far gustare in modo nuovo la complessa casualità degli eventi quotidiani. Muovendosi in direzione opposta alla famosa massima di Hitchcock secondo cui il cinema sarebbe la vita senza le parti noiose, Antonioni aveva effettivamente sempre più adoperato, di film in film, un dispositivo di narrazione esistenziale, desideroso di trasmettere il sapore confuso della vita più che di raccontare una storia nel senso canonico del termine: una tendenza che era arrivata a compimento proprio con La notte, il film in cui Eco faceva il cameo, e che si sarebbe riverberata anche ne L’eclisse, nel Deserto rosso e nell’ultimo, testamentario, Al di là delle nuvole.
Di tutti gli scritti di Eco che fanno più o meno diffusamente riferimento al cinema antonioniano, forse il più significativo è quello in cui l’intellettuale prende un’equilibrata posizione a proposito del controverso documentario girato da Antonioni nella Cina maoista. Inizialmente voluto dalle stesse autorità cinesi, Chung Kuo Cina di Antonioni, documentario-fiume girato nel 1972 nell'interregno tra Zabriskie Point e Professione: reporter, rappresentava un caso più unico che raro di sguardo occidentale sugli anni della Rivoluzione Culturale Cinese lanciata da Mao - e finì per scatenare un vero e proprio incidente diplomatico.
Eco parlò di Chung Kuo Cina nell’articolo De interpretatione, ovvero della difficoltà di essere Marco Polo, originariamente pubblicato su L’Espresso dopo una contestata proiezione alla Mostra del Cinema di Venezia del 1974, e poi incluso nella raccolta Dalla periferia dell’impero. “Quello che è avvenuto a Venezia sabato scorso stava tra la fantascienza e la commedia all’italiana, con un pizzico di western”, esordiva l’articolo: le pressioni politiche, da parte della Cina e di una parte del governo italiano, per impedire o boicottare la proiezione aveva creato un vero e proprio “carosello”, con la prefettura di Venezia che aveva cercato di far saltare la proiezione con la scusa che il Teatro la Fenice era inagibile come sala cinematografica - “dopo che da una settimana non si faceva altro che proiettarvi film”, annotava sornione Eco -, suscitando la frustrata ilarità di Carlo Ripa di Meana, allora presidente della Biennale. Stando alle parole di Eco, “Antonioni, nervoso e sconvolto, soffriva ancora una volta il suo personalissimo e paradossale dramma di un artista antifascista che era andato in Cina animato da affetto e rispetto e che si trovava accusato di essere un fascista, un reazionario al soldo del revisionismo sovietico e dell’imperialismo americano, odiato da ottocento milioni di persone”.
Le parole di Eco non erano un’esagerazione: dopo un’iniziale accoglienza calda e quasi trionfale, e dopo alcune settimane di ripresa tutto sommato pacifiche, a inizio del 1974 Chung Kuo Cina era stato ufficialmente “scomunicato” sulle pagine del lettissimo Quotidiano del Popolo, il giornale ufficiale della Repubblica Popolare Cinese. In quella che a detta di molti era una mossa atta più che altro a contestare Zhou Enlai, primo ministro finito nel bel mezzo di una lotta di potere e di successione negli ultimi anni di vita di Mao, Antonioni era stato proclamato nemico del popolo.
Secondo Eco, per comprendere - senza per forza giustificare - le ragioni dello sdegno della Cina per il documentario “occorreva rivedere l’opera intera con occhio diverso: non da italiano, ma da cinese”. In questo, Eco ammetteva di essere stato “favorito” dalla compagnia, in sala, di un giovane critico cinematografico di Hong Kong. Da questa prospettiva “si possono avanzare serie obiezioni ideologiche al lavoro di Antonioni”, un “artista occidentale” che, portando anche in Cina l’attenzione alle inquietudini esistenziali che caratterizzavano i suoi film di ambientazione italiana, londinese o californiana, “ci parla della vita quotidiana dei cinesi dentro la rivoluzione anziché rappresentarci la rivoluzione” stessa.
Fin troppo fedele alla poetica già dispiegata nei precedenti film “di finzione” girati in Occidente, “Antonioni pensa alla dimensione individuale e parla” anche in Cina “di dolore come di costante ineliminabile della vita di ogni uomo”; ma vedendo il documentario e ascoltandone il commento, “i cinesi intendono ‘dolore’ come malattia sociale, e colgono l’insinuazione che l’ingiustizia non sia stata risolta, ma solo coperta”. Per Umberto Eco è chiaro che Antonioni volesse restituire al pubblico “la ricerca di una Cina come utopia possibile per un Occidente frenetico e nevrotico” - ma è chiaro anche che un cinese non poteva cogliere quest’intenzione, al netto del suo eventuale paternalismo. “Non accade anche a noi italiani di sentirci traditi quando un film straniero ci rappresenta coi volti degli immigrati meridionali o con pastori sardi in costume, mentre noi tendiamo a identificare il paese con le autostrade e gli stabilimenti di Mirafiori?”.
Il passaggio più significativo dell’articolo di Eco sta in un’autentica lezione di prospettivismo tratta dalle molte incomprensioni che si erano susseguite tra il team di Antonioni e le autorità cinesi. Il Quotidiano del Popolo, tra le molte critiche avanzate ad Antonioni, si era lamentato anche del fatto che l’inquadratura del ponte di Nanchino lo avesse fatto apparire storto e instabile, ma questo era accaduto soltanto perché, come spiega Eco, “una cultura che privilegia la rappresentazione frontale e l’inquadratura simmetrica in campo lungo non può accettare il linguaggio della cinematografica che, per dare il senso dell’impotenza, inquadra dal basso, e di scorcio, privilegiando la dissimmetria, la tensione contro l’equilibrio”. La conclusione che ne trae Eco è pacifica: “anche il montaggio è un linguaggio, e questo linguaggio è storico, legato a diverse condizioni materiali di vita, e le stesse inquadrature dicono cose diverse a uomini diversi”. Ma Eco sa anche, e lo scrive chiaro e tondo, che la frattura creatasi tra Antonioni e la Cina da lui ritratta era, almeno per il momento, insanabile - tant’è vero che ci sarebbero voluti trent’anni prima che, nel 2004, in un evento trionfalmente organizzato dall’Accademia del Cinema e dall’Istituto Italiano di Cultura di Pechino in collaborazione con Cinecittà, Chung Kuo Cina venisse proiettato per la prima volta nella terra dove era stato girato. Sull’esperienza di Antonioni in Cina si è peraltro pronunciata di recente la giornalista italo-giapponese Junko Terao in un servizio per Internazionale.
Ma le convergenze tra Eco e Antonioni non finiscono qui - e neanche le collaborazioni. Oltre due decenni dopo il cameo ne La notte, Antonioni venne inizialmente coinvolto nel progetto di adattamento cinematografico de Il nome della rosa, primo romanzo di Umberto Eco e immediato bestseller su scala mondiale. Antonioni si sfilò dal progetto, che poi venne realizzato da Jean-Jacques Annaud con Sean Connery protagonista, pare per incomprensioni con l'originario produttore della pellicola; ma a quanto si legge in alcuni materiali dell'archivio di Antonioni messi in mostra a Ferrara nel 2013, il regista qualche tempo dopo avrebbe cercato di nuovo Eco per proporgli di scrivere per lui la sceneggiatura per un altro e non meglio specificato film. Eco però declinò dicendo: "ho fatto troppe cose nella mia vita, ma sono vergine per quanto riguarda il lavoro dello sceneggiatore", temendo anche di dover sottostare a "ritmi di lavoro assolutamente inconciliabili coi miei".
Nell’opera saggistica di Eco, brevi riferimenti al cinema di Antonioni si trovano anche in Lector in fabula, nelle prime pagine de Il costume di casa - dove lo scrittore prende in giro “l’antonionismo degli stenterelli”, degli pseudo-intellettuali che si struggono sul problema dell’incomunicabilità -, e in Sei passeggiate nei boschi narrativi, trascrizione di una serie di lezioni tenute da Eco nei primi anni novanta ad Harvard. Ma a quel punto della sua vita Antonioni era abituato a trovare i suoi film e il suo personalissimo stile registico citati nei testi più variegati di narratologia, semiologia o filosofia: nel 1980 il grande semiologo Roland Barthes gli aveva dedicato Caro Antonioni, un’“orazione epistolare” scritta in occasione del conferimento al regista dell’Archiginnasio alla carriera da parte del Comune di Bologna, e pochi anni dopo il filosofo francese Gilles Deleuze aveva fatto più volte riferimento ai film di Antonioni ne L’immagine-movimento e L’immagine-tempo, i suoi due esperimenti di filosofia cinematografica. Ma più che qualche altro sparuto riferimento nella parte “seria” della sua produzione filosofica, fa onore alla cultura e al genio di Eco Do Your Movie Yourself, un testo giocoso incluso al termine della seconda edizione del Diario minimo in cui è immancabile la presenza di Antonioni.
Con Do Your Movie Yourself, datato 1972, Eco si era voluto inserire in quel dibattito partim ironico, partim serio sulla “letteratura combinatoria” innescatosi tra Il castello dei destini incrociati di Calvino e i Cent mille milliards de poèmes di Raymond Queneau. Non è un caso che il testo sia stato più volte tradotto e ripreso in altre lingue, e tuttora circoli su blog di cinema americani o francesi: la sua geniale idea di base viene riassunta in un’ironica cornice narrativa per cui in un futuristico 1993, “con l’adozione definitiva del videoregistratore negli stessi uffici del catasto”, il cinema veniva rivoluzionato in modo che ogni spettatore acquistasse individualmente un plot pattern di un determinato regista da cui partire per attingere liberamente a un’ampia serie di combinazioni standardizzate. Accanto a possibilità analoghe per altri registi italiani del tempo - Olmi, Visconti, Bellocchio o Faenza - Eco vi proponeva anche un “soggetto multiplo per Antonioni”, da cui potevano scaturire ben 15751 diverse combinazioni. Eccolo:
“Una1 distesa2 desolata3 . Ella4 si allontana5
Trasformazioni
1. Due, tre, infinite. Un reticolo di. Un labirinto di. Un
2. Isola. Città. Snodi di autostrade. Autogrill Pavesi. Sotterraneo di metro. Campo petrolifero. Pioltello Nuova. EUR. Stock di tubi Dalmine all’aperto. Cimitero di automobili. Fiat Mirafiori di domenica. Expo dopo la chiusura. Centro spaziale a ferragosto. Campus della University of California. Los Angeles mentre gli studenti sono a Washington. Fiumicino.
3. Vuota. A perdita d’occhio. Con visibilità incerta per riverberi solari. Nebbiosa. Resa impraticabile da sbarramenti a griglia a maglie larghe. Radioattiva. Deformata da grandangolare.
4. Lui. Entrambi.
5. Sta lì. Tocca a lungo un oggetto. Si allontana poi si ferma perplessa, fa due passi indietro e si allontana di nuovo. Non si allontana ma la camera carrella indietro. Guarda la camera con volto inespressivo toccandosi il foulard”
Tutto si può dire tranne che Eco abbia peccato di imprecisione, in questa disamina strutturale del cinema antonioniano. Questa scomposizione forse non avrà fatto piacere al diretto interessato, ma è effettivamente molto aderente agli stilemi del suo cinema, perlomeno dei quattro film della “parentesi esistenziale” dei primi anni sessanta, quella che va da L’avventura al Deserto rosso. A un livello più macroscopico, si deve riconoscere anche una certa preveggenza da parte di Eco - preveggenza estendibile anche ad altri campi, peraltro. Quest’idea di “soggetto multiplo” ha anticipato di appena quarantasei anni Black Mirror: Bandersnatch, il primo esperimento di “film interattivo” rodato da Netflix. Difficile immaginare cosa ne avrebbe pensato Antonioni, un regista molto orgoglioso della sua autorialità ma al tempo stesso prontissimo a sperimentare nuove tecnologie, al punto da vagheggiare, in una delle sue ultime interviste in televisione, la possibilità di girare in futuro un film pressoché “in diretta”. Ad Antonioni si deve anche Il mistero di Oberwald del 1980, il primo film della storia del cinema a essere stato girato in video e poi riversato su pellicola, l’antenato di tutto il cinema digitale adesso imperante. Certo è che, nei rispettivi campi - il cinema per Antonioni e la semiotica, da intendersi nel senso più ampio possibile, per Eco - questi due esponenti del secolo scorso si sono distinti per una rara programmaticità di intenti e sono risultati capaci, per vie diverse, di indicare percorsi e prefigurare soluzioni che solo anni dopo la loro morte si sono fatti realtà.