Ode al controverso regista statunitense
venticinque anni dopo il debutto con Gummo,
di Rodrigo Mella
TR-70
14.11.2022
A differenza della certezza con cui vengono pronunciati, gli aforismi difficilmente riescono nell’intento di tramandare una verità. Eppure l’astuta banalità di queste frasi ci coglie impreparati, ci convince a crederci più stupidi di quello che siamo e, anche se solo per un istante, a ridurre l’intero mistero dell’esistenza a un’unica deliziosa rima baciata. Li cerchiamo ovunque, li gridiamo al mondo ad ogni occasione pur di non dubitarne, e a volte capita di imbattersi in qualcosa o qualcuno che ci fa venir voglia di tatuarceli a semicerchio attorno al collo. Questo è il caso di quella disgustosa meraviglia chiamata Harmony Korine e delle sette parole che ne hanno plasmato l’anima: one man’s trash is another man’s treasure. Tanta è l’affinità con questa ansiolitica pillola di saggezza che viene quasi da pensare che, uscito dal ventre della madre e fatto scivolare lungo una vasca da bagno sporca di latte e spaghetti al sugo, le prime parole rivoltegli siano state proprio queste: “Harmony, la spazzatura del mondo sarà il tuo tesoro”.
Perché della spazzatura – più volgarmente conosciuta all’interno dei confini nazionali come ‘merda’ – Harmony Korine è il re indiscusso e incontrastato. Un tempo enfant prodige, sniffatore di colla e poster-boy del disagio generazionale di fine millennio, oggi regista di campagne pubblicitarie per Gucci e artista in residenza al Centre Pompidou di Parigi, Korine di vite sembra averne attraversate almeno un centinaio - tutte inevitabilmente scarabocchiate, accartocciate e lasciate a metà. E se già la sua filmografia è pressoché impossibile da tracciare e catalogare, della sua vita non si hanno che vaghe notizie sussurrate da diabolici uccellini. La versione semi-ufficiale - o quantomeno quella ripetuta più spesso - vuole che Harmony sia nato e cresciuto in una comune a Salinas, California, in cui viene allattato da dozzine di seni diversi e segnato dall’assenza cronica del padre, un regista di documentari per televisioni regionali. Intervistato da Werner Herzog al festival di Telluride nel ‘97, Korine disse di non aver mai saputo con certezza che lavoro facesse il padre, e che solo recentemente, leggendo il proprio certificato di nascita, avesse scoperto fosse un commerciante di pellicce. E ancora, questa volta al Letterman due anni prima, che il padre fosse in realtà un famoso e itinerante ballerino di tip-tap. Quindi, fate voi.
Fatto sta che Harmony ha sempre attribuito a questa figura paterna semi-mitologica la sua ossessione per il cinema, scavata da un rapporto basato quasi esclusivamente su Buster Keaton e lunghi pomeriggi passati al tacito buio della sala. Harmony ricorda in particolare il giorno in cui il padre lo portò a vedere una replica di Anche i nani hanno cominciato da piccoli di Herzog. Oltre a diventare il suo film preferito (insieme a The Night of the Hunter), quel pomeriggio Harmony sentì qualcosa nascere dentro di sé, l’elettrizzante sensazione di aver finalmente trovato il proprio scopo nella vita: “Quando ho visto la scena della ragazza che urla nella grotta e la crocifissione della scimmia mi sono detto, ‘Io voglio fare cinema’”.
L’iniziazione di Harmony Korine al mondo del cinema avrebbe la stessa patina d’implausibilità dei suoi racconti biografici se non fosse successa veramente. Finito il liceo, all’età di diciotto anni, Harmony (che all’epoca preferiva farsi chiamare Harmful) si trasferisce a vivere con la nonna a New York. Qui, facendo skate al Washington Square Park, conosce e si fa fotografare dal già controverso artista Larry Clark, in quella che più avanti Clark avrebbe definito come ‘l’estate dei preservativi’: “Quando andavo al parco, c’era sempre qualcuno che distribuiva preservativi, e tutti i ragazzini non facevano altro che parlare di sesso sicuro e preservativi, e alla fine me la sono bevuta. Ci ho messo sei mesi a capire che in realtà i preservativi non li usava nessuno, e che la loro idea di sesso sicuro era andare a letto con chi era ancora vergine.”
I due erano soliti discutere di cinema e fotografia, e una volta entrati in confidenza Harmony decise di far leggere a Clark la sua prima sceneggiatura: la storia di un padre che porta il figlio da una prostituta per fargli festeggiare il 13esimo compleanno. Qualche mese dopo, evidentemente colpito da ciò che aveva letto, Clark chiese ad Harmony di scrivere un film sui suoi amici skater. Le indicazioni furono unicamente due: (1) il protagonista doveva essere un adolescente ossessionato dal fare sesso con ragazze vergini, e (2) la trama doveva avere a che fare con la crisi dell’AIDS. Tre settimane dopo, Harmony tornò dal suo nuovo mentore con in mano quelle che molto probabilmente sono le 91 pagine di sceneggiatura più controverse (ed emblematiche) del decennio. Il titolo del film, Kids.
Nell’estate del ‘95, tra Bill Clinton preso a nascondere Monica Lewinsky sotto la scrivania e OJ Simpson a calzare guanti insanguinati in tribunale, Kids stese un lungo e appiccicoso velo d’indecenza su un’America caparbiamente decisa a voler far finta di niente. Quella di Clark e Korine è un'odissea generazionale compressa in ventiquattro ore, l’avverarsi del desiderio più intimo di qualsiasi adolescente sulla terra: quello di vedere le proprie fantasie trasformate in realtà - se per fantasie si intendono sesso sconcio, droghe e skateboard, e per realtà il cinema. Kids è un film sporco, che fa ribrezzo, talmente difficile da digerire che fa venir voglia di abbracciare il gabinetto e rigettarlo tutto fuori. Come una sorta di vomito post-sbornia, uno di quelli che fanno un male cane ma che sai ti faranno sentire infinitamente meglio subito dopo.
Il film ebbe un successo talmente inatteso da lanciare contemporaneamente quattro carriere nella stratosfera di Hollywood: quelle delle due attrici protagoniste Rosario Dawson e Chloe Sevigny, quella del regista Larry Clark e, infine, quella di Harmony Korine. Pronto a farsi strada da solo, Harmony decise di ripartire da una convinzione ben precisa: quella di aver sempre detestato le trame e di voler girare un film fatto solo di personaggi e scene sconnesse. Oltre a questa sua personalissima crociata contro la struttura restaurativa in tre atti, è difficile fare supposizioni su come o dove sia nata l’idea di Gummo, anche perchè, a chi ha provato a chiederglielo, Harmony ha risposto così: “L’idea per il film mi è venuta quando ero ancora al liceo. Ci portarono a vedere un adattamento teatrale dell’Ulisse di Joyce con Snoop Dogg protagonista. È stato fantastico.”
Decifrare Gummo è come provare a srotolare un gomitolo di filo spinato: si finisce inevitabilmente con le mani vuote e ricoperte di sangue. Basta considerare il titolo. ‘Gummo’ è il nome del quarto dei Fratelli Marx, un collettivo comico americano attivo nella prima metà del Novecento e generalmente considerato tra i più influenti del genere. Gummo ne fece parte solo per qualche anno, esibendosi per lo più nei teatri vaudeville di New York, per poi arruolarsi nell’esercito americano durante la prima guerra mondiale. Non essendosi mai sentito a proprio agio sul palco, dopo la guerra decise di non farci più ritorno e di tentare la fortuna nel mercato degli impermeabili (questa non è - ovviamente - la versione della storia raccontata da Harmony, che sostiene invece che Gummo abbia lasciato il gruppo perché “voleva vestirsi da donna e vendere scatole di cartone”). Harmony è da sempre un grande ammiratore dei Fratelli Marx e di tutta quella tradizione umoristica d’inizio secolo. La sua ironia, seppur stravolgendone il contesto, ricalca la stessa idea di esasperazione quotidiana, la finta incapacità di fare le cose più semplici senza spezzarsi una gamba o un braccio. A parte questo, se non fosse già abbastanza chiaro, la figura di Gummo Marx con il film di Korine non ha assolutamente nulla a che vedere.
Gummo è ambientato a Xenia, Ohio, una cittadina spazzata via dalla mappa e dalla memoria da un uragano anch'esso dimenticato. Le vicende del film sembrano interiorizzare la violenza e il tumulto della tempesta, con personaggi e vignette che si susseguono in ordine scomposto, scandendo alla lettera il vecchio monito di Godard sull’arte della narrazione: “I film devono avere un inizio, uno sviluppo e una fine, ma non necessariamente in quest’ordine.” Quella di Gummo è una realtà quasi post-apocalittica, fantascientifica, in cui le uniche forme di vita rimaste sono un ibrido tra esseri umani e scarafaggi, sopravvissuti all’uragano perché abituati a rifugiarsi tra le crepe nei muri. Per quanto sia difficile crederlo, i luoghi e i volti del film esistono veramente. Le condizioni igieniche in molte delle location erano infatti così degradate che la troupe iniziò a pretendere di girare con delle tute antibatteriche. Il giorno seguente, increduli e offesi dalla richiesta, Harmony e il direttore della fotografia Jean-Yves Escoffier arrivarono sul set in ciabatte e slip.
La visione che Harmony ha del futuro è inquietante, un trionfo di masochismo e odio. Eppure il suo sguardo rimane dolce e in un certo senso ottimista. In un mondo raso al suolo, in cui la struttura genetica umana sembra essersi mescolata con quella della spazzatura che la sommerge, il cinema di Korine riesce a esumare una bellezza infinita, testarda e immortale. Il suo non è sensazionalismo, né tantomeno una sfilata di fenomeni da baraccone. Harmony è un regista, forse l’unico della sua generazione, capace di vedere la bellezza ovunque, anche e soprattutto negli angoli più bui, dove la maggior parte di noi non si addentrerebbe neanche con una maschera antigas addosso. Forse per questo, a venticinque anni di distanza, un film come Gummo non sembra aver minimamente sofferto lo scorrere del tempo. Il fascino che trasuda è talmente equivoco e lontano dagli standard che non smetterà mai di stupirci. O forse, come diceva Serge Gainsbourg, la realtà è che ciò che è brutto è migliore di ciò che è bello, perchè rimane tale molto più a lungo.
Per Harmony la bellezza, come l’ironia, è anche e soprattutto provocazione. È un atto di ribellione, di fede. E a guardare i suoi film ci si sente un po’ come un’anima dannata, prigioniera nel girone più infimo dell’inferno, e distrattasi per un attimo ad ammirare i dolci e rassicuranti colori delle fiamme che la divorano. All’interno di una carriera costruita sull’orlo della decenza, Trash Humpers è forse la sua provocazione più sfrontata. Il film segue le vicissitudini di un trio di anziani - che a dir la verità assomigliano più a orchi che a esseri umani - ossessionati dall’ingropparsi le pattumiere. Sembra una videocassetta porno, nascosta tra gli scaffali impolverati di un sexy shop sull’autostrada tra Nashville e l’oltretomba. La visione per intero è una battaglia all’ultimo sangue tra lo stomaco e la pazienza, eppure è anche innegabilmente esilarante. Trash Humpers è la dimostrazione di come in una società disillusa, dove la disinibizione viene usata come analgesico esistenziale, l’ironia rimanga l’unico strumento per comunicare onestamente il dolore. E i film di Harmony sono questo, diaboliche e sudicie barzellette sul dolore e la bellezza che ne scaturisce. In fondo, cosa c’è di più divertente che guardare dei vecchi fare sessso con dei bidoni della spazzatura?
L’esplorazione di Korine attraverso le paludose piane della condizione umana è talmente estrema ed esagerata da risultare, in un primo momento, detestabile. Eppure è proprio nell’adorazione del ridicolo che il regista scopre una verità tanto profonda quanto facile da ignorare: la vita vale veramente la pena di essere vissuta. È una delle voci della sua filmografia forse più dimenticate a racchiudere il fascino e l’ingenuità di questa essenza, il documentario realizzato per il suo amico David Blaine Above the Below. Pioniere di una categoria che nei primi anni duemila riuscì a ipnotizzare milioni di spettatori, Blaine è un illusionista televisivo, noto soprattutto per le sue imprese di resistenza finite nel Guinness dei primati. Tra queste rientra anche quella documentata da Korine nel freddo autunno londinese del 2003. L’esibizione di Blaine - da molti considerato l’erede di Houdini - di magico ha poco e nulla, e lo vede invece cimentarsi in un digiuno lungo 44 giorni all’interno di un cubo di plexiglass sollevato a circa 10 metri di altezza, da cui non sarebbe mai uscito per l’intera durata dello stunt.
Gran parte delle riprese si concentra sul pubblico che nei giorni si raduna sotto la gabbia di Blaine, tra adolescenti innamorate, turisti ubriachi, performer di strada ed ebrei ortodossi in preghiera. Ne emerge un quadro confuso, sofferente, ricco di inconfondibili pulsioni vitali. Per quanto egomaniaca possa sembrare la performance di Blaine (e per estensione, il cinema di Korine), la realtà è che al centro c’è sempre il loro pubblico - disorientato, schifato, ammaliato, in estasi. Il documentario è un ibrido perfetto tra l’ossessione e il feticismo del reality, e il cinema di Harmony: un innocuo scherzo tra amici in cui alla fine qualcuno rischia sempre di lasciarci la pelle. Le immagini rubate da Korine trasmettono una sensazione di pericolo, qui come in tutti i suoi film, e si rimane incollati lì per lo stesso motivo per cui centinaia di persone si radunano a guardare un uomo sospeso in aria morire di fame: perché non si era mai visto prima.
Come quelle di John Waters o Marcel Duchamp, negli anni la figura di Korine è diventata più ingombrante dell'arte stessa, assumendo una dimensione mistica definita dalla propria evanescenza. Harmony dovrebbe essere morto all’età di 23 anni per giustificare il cult status che lo circonda. Forse per questo - nonostante i prolifici e polidisciplinari venticinque anni di carriera - i suoi progetti abbandonati conservano nell'immaginario dei fan un peso specifico quasi più rilevante di quelli finiti.
A detta sua sono due i grandi progetti che Korine non è mai riuscito a realizzare. Il primo, intitolato The Grace of Blackface, vedrebbe lo stesso Harmony protagonista nei panni di un ballerino di tip-tap ispirato ad Al Jolson e Eddie Cantor, due attori di cinema e vaudeville famosi appunto per le esibizioni in blackface, e che negli anni hanno aiutato Harmony “a diventare la persona che sono oggi”. Il secondo invece sarebbe un film epico in costume sulla storia degli abusi sessuali all’interno dei boy scout. Decennio per decennio, il film si concentrerebbe sui casi di molestie più noti di ogni epoca, facendo particolare attenzione all’evoluzione e alla sofisticazione della metodologia nel tempo. Oltre a questi due, ce n’era uno su un nuotatore con una gamba sola che arriva alle Olimpiadi; un altro su un ragazzo che viene colpito da un fulmine e diventa ossessionato dal voler crescere il maiale più grande del mondo; e una collaborazione con Chris Cunningham intitolata Mitch Poppins su un uomo con la sindrome di Tourette i cui tic si trasformano in mosse di breakdance. Su tutti, il più famoso rimane forse Fight Harm, un film-documentario che avrebbe visto Harmony aggirarsi per la città cercando di litigare con chiunque e sperando di arrivare alle mani. Le riprese del film iniziarono veramente e durarono nove litigate in totale (circa 3 minuti di girato). Harmony finì in ospedale tre volte e in carcere due, al che fu obbligato ad abbandonare il progetto.
Harmony Korine è una discarica a cielo aperto. E in una discarica non ci si può aspettare di trovare prodotti confezionati, luccicanti e nuovi di zecca. Al contrario, ci si trovano lavandini spaccati in due, scarpe scollate, l’anima di migliaia di rotoli di carta igienica, parrucche bruciate da piastre in cortocircuito - cose che non vorremmo mai vedere, ma che per ovvi motivi non potremmo mai trovare da nessun’altra parte. I polizieschi da due soldi ci insegnano che, quando muore qualcuno o si entra nella casa di un sospettato, la prima cosa da fare è sempre controllare la spazzatura. Perché niente è più unico e onesto della spazzatura. Ogni rifiuto è un frammento di memoria, un'estensione diretta di noi stessi, della nostra violenza, della nostra vergogna e quindi di tutto ciò che ci rende vulnerabili. Gli scarti che ci perdiamo per strada sono forse la nostra unica vera eredità, tracce materiali della nostra presenza sulla terra, che dimostrano che abbiamo vissuto preoccupandoci solo di vivere. E quindi sì, Harmony Korine è il re della merda, ma è anche il re di tutto ciò per cui vale la pena andare avanti. Harmony ci aiuta a fare schifo, a sentirci finalmente liberi di esserlo, e a guardarci allo specchio, magari adornato da una striscia di guanciale scocciata sopra, e dirci: “Faccio schifo anche oggi. Meno male.”
Ode al controverso regista
statunitense venticinque anni dopo
il debutto con Gummo,
di Rodrigo Mella
TR-70
14.11.2022
A differenza della certezza con cui vengono pronunciati, gli aforismi difficilmente riescono nell’intento di tramandare una verità. Eppure l’astuta banalità di queste frasi ci coglie impreparati, ci convince a crederci più stupidi di quello che siamo e, anche se solo per un istante, a ridurre l’intero mistero dell’esistenza a un’unica deliziosa rima baciata. Li cerchiamo ovunque, li gridiamo al mondo ad ogni occasione pur di non dubitarne, e a volte capita di imbattersi in qualcosa o qualcuno che ci fa venir voglia di tatuarceli a semicerchio attorno al collo. Questo è il caso di quella disgustosa meraviglia chiamata Harmony Korine e delle sette parole che ne hanno plasmato l’anima: one man’s trash is another man’s treasure. Tanta è l’affinità con questa ansiolitica pillola di saggezza che viene quasi da pensare che, uscito dal ventre della madre e fatto scivolare lungo una vasca da bagno sporca di latte e spaghetti al sugo, le prime parole rivoltegli siano state proprio queste: “Harmony, la spazzatura del mondo sarà il tuo tesoro”.
Perché della spazzatura – più volgarmente conosciuta all’interno dei confini nazionali come ‘merda’ – Harmony Korine è il re indiscusso e incontrastato. Un tempo enfant prodige, sniffatore di colla e poster-boy del disagio generazionale di fine millennio, oggi regista di campagne pubblicitarie per Gucci e artista in residenza al Centre Pompidou di Parigi, Korine di vite sembra averne attraversate almeno un centinaio - tutte inevitabilmente scarabocchiate, accartocciate e lasciate a metà. E se già la sua filmografia è pressoché impossibile da tracciare e catalogare, della sua vita non si hanno che vaghe notizie sussurrate da diabolici uccellini. La versione semi-ufficiale - o quantomeno quella ripetuta più spesso - vuole che Harmony sia nato e cresciuto in una comune a Salinas, California, in cui viene allattato da dozzine di seni diversi e segnato dall’assenza cronica del padre, un regista di documentari per televisioni regionali. Intervistato da Werner Herzog al festival di Telluride nel ‘97, Korine disse di non aver mai saputo con certezza che lavoro facesse il padre, e che solo recentemente, leggendo il proprio certificato di nascita, avesse scoperto fosse un commerciante di pellicce. E ancora, questa volta al Letterman due anni prima, che il padre fosse in realtà un famoso e itinerante ballerino di tip-tap. Quindi, fate voi.
Fatto sta che Harmony ha sempre attribuito a questa figura paterna semi-mitologica la sua ossessione per il cinema, scavata da un rapporto basato quasi esclusivamente su Buster Keaton e lunghi pomeriggi passati al tacito buio della sala. Harmony ricorda in particolare il giorno in cui il padre lo portò a vedere una replica di Anche i nani hanno cominciato da piccoli di Herzog. Oltre a diventare il suo film preferito (insieme a The Night of the Hunter), quel pomeriggio Harmony sentì qualcosa nascere dentro di sé, l’elettrizzante sensazione di aver finalmente trovato il proprio scopo nella vita: “Quando ho visto la scena della ragazza che urla nella grotta e la crocifissione della scimmia mi sono detto, ‘Io voglio fare cinema’”.
L’iniziazione di Harmony Korine al mondo del cinema avrebbe la stessa patina d’implausibilità dei suoi racconti biografici se non fosse successa veramente. Finito il liceo, all’età di diciotto anni, Harmony (che all’epoca preferiva farsi chiamare Harmful) si trasferisce a vivere con la nonna a New York. Qui, facendo skate al Washington Square Park, conosce e si fa fotografare dal già controverso artista Larry Clark, in quella che più avanti Clark avrebbe definito come ‘l’estate dei preservativi’: “Quando andavo al parco, c’era sempre qualcuno che distribuiva preservativi, e tutti i ragazzini non facevano altro che parlare di sesso sicuro e preservativi, e alla fine me la sono bevuta. Ci ho messo sei mesi a capire che in realtà i preservativi non li usava nessuno, e che la loro idea di sesso sicuro era andare a letto con chi era ancora vergine.”
I due erano soliti discutere di cinema e fotografia, e una volta entrati in confidenza Harmony decise di far leggere a Clark la sua prima sceneggiatura: la storia di un padre che porta il figlio da una prostituta per fargli festeggiare il 13esimo compleanno. Qualche mese dopo, evidentemente colpito da ciò che aveva letto, Clark chiese ad Harmony di scrivere un film sui suoi amici skater. Le indicazioni furono unicamente due: (1) il protagonista doveva essere un adolescente ossessionato dal fare sesso con ragazze vergini, e (2) la trama doveva avere a che fare con la crisi dell’AIDS. Tre settimane dopo, Harmony tornò dal suo nuovo mentore con in mano quelle che molto probabilmente sono le 91 pagine di sceneggiatura più controverse (ed emblematiche) del decennio. Il titolo del film, Kids.
Nell’estate del ‘95, tra Bill Clinton preso a nascondere Monica Lewinsky sotto la scrivania e OJ Simpson a calzare guanti insanguinati in tribunale, Kids stese un lungo e appiccicoso velo d’indecenza su un’America caparbiamente decisa a voler far finta di niente. Quella di Clark e Korine è un'odissea generazionale compressa in ventiquattro ore, l’avverarsi del desiderio più intimo di qualsiasi adolescente sulla terra: quello di vedere le proprie fantasie trasformate in realtà - se per fantasie si intendono sesso sconcio, droghe e skateboard, e per realtà il cinema. Kids è un film sporco, che fa ribrezzo, talmente difficile da digerire che fa venir voglia di abbracciare il gabinetto e rigettarlo tutto fuori. Come una sorta di vomito post-sbornia, uno di quelli che fanno un male cane ma che sai ti faranno sentire infinitamente meglio subito dopo.
Il film ebbe un successo talmente inatteso da lanciare contemporaneamente quattro carriere nella stratosfera di Hollywood: quelle delle due attrici protagoniste Rosario Dawson e Chloe Sevigny, quella del regista Larry Clark e, infine, quella di Harmony Korine. Pronto a farsi strada da solo, Harmony decise di ripartire da una convinzione ben precisa: quella di aver sempre detestato le trame e di voler girare un film fatto solo di personaggi e scene sconnesse. Oltre a questa sua personalissima crociata contro la struttura restaurativa in tre atti, è difficile fare supposizioni su come o dove sia nata l’idea di Gummo, anche perchè, a chi ha provato a chiederglielo, Harmony ha risposto così: “L’idea per il film mi è venuta quando ero ancora al liceo. Ci portarono a vedere un adattamento teatrale dell’Ulisse di Joyce con Snoop Dogg protagonista. È stato fantastico.”
Decifrare Gummo è come provare a srotolare un gomitolo di filo spinato: si finisce inevitabilmente con le mani vuote e ricoperte di sangue. Basta considerare il titolo. ‘Gummo’ è il nome del quarto dei Fratelli Marx, un collettivo comico americano attivo nella prima metà del Novecento e generalmente considerato tra i più influenti del genere. Gummo ne fece parte solo per qualche anno, esibendosi per lo più nei teatri vaudeville di New York, per poi arruolarsi nell’esercito americano durante la prima guerra mondiale. Non essendosi mai sentito a proprio agio sul palco, dopo la guerra decise di non farci più ritorno e di tentare la fortuna nel mercato degli impermeabili (questa non è - ovviamente - la versione della storia raccontata da Harmony, che sostiene invece che Gummo abbia lasciato il gruppo perché “voleva vestirsi da donna e vendere scatole di cartone”). Harmony è da sempre un grande ammiratore dei Fratelli Marx e di tutta quella tradizione umoristica d’inizio secolo. La sua ironia, seppur stravolgendone il contesto, ricalca la stessa idea di esasperazione quotidiana, la finta incapacità di fare le cose più semplici senza spezzarsi una gamba o un braccio. A parte questo, se non fosse già abbastanza chiaro, la figura di Gummo Marx con il film di Korine non ha assolutamente nulla a che vedere.
Gummo è ambientato a Xenia, Ohio, una cittadina spazzata via dalla mappa e dalla memoria da un uragano anch'esso dimenticato. Le vicende del film sembrano interiorizzare la violenza e il tumulto della tempesta, con personaggi e vignette che si susseguono in ordine scomposto, scandendo alla lettera il vecchio monito di Godard sull’arte della narrazione: “I film devono avere un inizio, uno sviluppo e una fine, ma non necessariamente in quest’ordine.” Quella di Gummo è una realtà quasi post-apocalittica, fantascientifica, in cui le uniche forme di vita rimaste sono un ibrido tra esseri umani e scarafaggi, sopravvissuti all’uragano perché abituati a rifugiarsi tra le crepe nei muri. Per quanto sia difficile crederlo, i luoghi e i volti del film esistono veramente. Le condizioni igieniche in molte delle location erano infatti così degradate che la troupe iniziò a pretendere di girare con delle tute antibatteriche. Il giorno seguente, increduli e offesi dalla richiesta, Harmony e il direttore della fotografia Jean-Yves Escoffier arrivarono sul set in ciabatte e slip.
La visione che Harmony ha del futuro è inquietante, un trionfo di masochismo e odio. Eppure il suo sguardo rimane dolce e in un certo senso ottimista. In un mondo raso al suolo, in cui la struttura genetica umana sembra essersi mescolata con quella della spazzatura che la sommerge, il cinema di Korine riesce a esumare una bellezza infinita, testarda e immortale. Il suo non è sensazionalismo, né tantomeno una sfilata di fenomeni da baraccone. Harmony è un regista, forse l’unico della sua generazione, capace di vedere la bellezza ovunque, anche e soprattutto negli angoli più bui, dove la maggior parte di noi non si addentrerebbe neanche con una maschera antigas addosso. Forse per questo, a venticinque anni di distanza, un film come Gummo non sembra aver minimamente sofferto lo scorrere del tempo. Il fascino che trasuda è talmente equivoco e lontano dagli standard che non smetterà mai di stupirci. O forse, come diceva Serge Gainsbourg, la realtà è che ciò che è brutto è migliore di ciò che è bello, perchè rimane tale molto più a lungo.
Per Harmony la bellezza, come l’ironia, è anche e soprattutto provocazione. È un atto di ribellione, di fede. E a guardare i suoi film ci si sente un po’ come un’anima dannata, prigioniera nel girone più infimo dell’inferno, e distrattasi per un attimo ad ammirare i dolci e rassicuranti colori delle fiamme che la divorano. All’interno di una carriera costruita sull’orlo della decenza, Trash Humpers è forse la sua provocazione più sfrontata. Il film segue le vicissitudini di un trio di anziani - che a dir la verità assomigliano più a orchi che a esseri umani - ossessionati dall’ingropparsi le pattumiere. Sembra una videocassetta porno, nascosta tra gli scaffali impolverati di un sexy shop sull’autostrada tra Nashville e l’oltretomba. La visione per intero è una battaglia all’ultimo sangue tra lo stomaco e la pazienza, eppure è anche innegabilmente esilarante. Trash Humpers è la dimostrazione di come in una società disillusa, dove la disinibizione viene usata come analgesico esistenziale, l’ironia rimanga l’unico strumento per comunicare onestamente il dolore. E i film di Harmony sono questo, diaboliche e sudicie barzellette sul dolore e la bellezza che ne scaturisce. In fondo, cosa c’è di più divertente che guardare dei vecchi fare sessso con dei bidoni della spazzatura?
L’esplorazione di Korine attraverso le paludose piane della condizione umana è talmente estrema ed esagerata da risultare, in un primo momento, detestabile. Eppure è proprio nell’adorazione del ridicolo che il regista scopre una verità tanto profonda quanto facile da ignorare: la vita vale veramente la pena di essere vissuta. È una delle voci della sua filmografia forse più dimenticate a racchiudere il fascino e l’ingenuità di questa essenza, il documentario realizzato per il suo amico David Blaine Above the Below. Pioniere di una categoria che nei primi anni duemila riuscì a ipnotizzare milioni di spettatori, Blaine è un illusionista televisivo, noto soprattutto per le sue imprese di resistenza finite nel Guinness dei primati. Tra queste rientra anche quella documentata da Korine nel freddo autunno londinese del 2003. L’esibizione di Blaine - da molti considerato l’erede di Houdini - di magico ha poco e nulla, e lo vede invece cimentarsi in un digiuno lungo 44 giorni all’interno di un cubo di plexiglass sollevato a circa 10 metri di altezza, da cui non sarebbe mai uscito per l’intera durata dello stunt.
Gran parte delle riprese si concentra sul pubblico che nei giorni si raduna sotto la gabbia di Blaine, tra adolescenti innamorate, turisti ubriachi, performer di strada ed ebrei ortodossi in preghiera. Ne emerge un quadro confuso, sofferente, ricco di inconfondibili pulsioni vitali. Per quanto egomaniaca possa sembrare la performance di Blaine (e per estensione, il cinema di Korine), la realtà è che al centro c’è sempre il loro pubblico - disorientato, schifato, ammaliato, in estasi. Il documentario è un ibrido perfetto tra l’ossessione e il feticismo del reality, e il cinema di Harmony: un innocuo scherzo tra amici in cui alla fine qualcuno rischia sempre di lasciarci la pelle. Le immagini rubate da Korine trasmettono una sensazione di pericolo, qui come in tutti i suoi film, e si rimane incollati lì per lo stesso motivo per cui centinaia di persone si radunano a guardare un uomo sospeso in aria morire di fame: perché non si era mai visto prima.
Come quelle di John Waters o Marcel Duchamp, negli anni la figura di Korine è diventata più ingombrante dell'arte stessa, assumendo una dimensione mistica definita dalla propria evanescenza. Harmony dovrebbe essere morto all’età di 23 anni per giustificare il cult status che lo circonda. Forse per questo - nonostante i prolifici e polidisciplinari venticinque anni di carriera - i suoi progetti abbandonati conservano nell'immaginario dei fan un peso specifico quasi più rilevante di quelli finiti.
A detta sua sono due i grandi progetti che Korine non è mai riuscito a realizzare. Il primo, intitolato The Grace of Blackface, vedrebbe lo stesso Harmony protagonista nei panni di un ballerino di tip-tap ispirato ad Al Jolson e Eddie Cantor, due attori di cinema e vaudeville famosi appunto per le esibizioni in blackface, e che negli anni hanno aiutato Harmony “a diventare la persona che sono oggi”. Il secondo invece sarebbe un film epico in costume sulla storia degli abusi sessuali all’interno dei boy scout. Decennio per decennio, il film si concentrerebbe sui casi di molestie più noti di ogni epoca, facendo particolare attenzione all’evoluzione e alla sofisticazione della metodologia nel tempo. Oltre a questi due, ce n’era uno su un nuotatore con una gamba sola che arriva alle Olimpiadi; un altro su un ragazzo che viene colpito da un fulmine e diventa ossessionato dal voler crescere il maiale più grande del mondo; e una collaborazione con Chris Cunningham intitolata Mitch Poppins su un uomo con la sindrome di Tourette i cui tic si trasformano in mosse di breakdance. Su tutti, il più famoso rimane forse Fight Harm, un film-documentario che avrebbe visto Harmony aggirarsi per la città cercando di litigare con chiunque e sperando di arrivare alle mani. Le riprese del film iniziarono veramente e durarono nove litigate in totale (circa 3 minuti di girato). Harmony finì in ospedale tre volte e in carcere due, al che fu obbligato ad abbandonare il progetto.
Harmony Korine è una discarica a cielo aperto. E in una discarica non ci si può aspettare di trovare prodotti confezionati, luccicanti e nuovi di zecca. Al contrario, ci si trovano lavandini spaccati in due, scarpe scollate, l’anima di migliaia di rotoli di carta igienica, parrucche bruciate da piastre in cortocircuito - cose che non vorremmo mai vedere, ma che per ovvi motivi non potremmo mai trovare da nessun’altra parte. I polizieschi da due soldi ci insegnano che, quando muore qualcuno o si entra nella casa di un sospettato, la prima cosa da fare è sempre controllare la spazzatura. Perché niente è più unico e onesto della spazzatura. Ogni rifiuto è un frammento di memoria, un'estensione diretta di noi stessi, della nostra violenza, della nostra vergogna e quindi di tutto ciò che ci rende vulnerabili. Gli scarti che ci perdiamo per strada sono forse la nostra unica vera eredità, tracce materiali della nostra presenza sulla terra, che dimostrano che abbiamo vissuto preoccupandoci solo di vivere. E quindi sì, Harmony Korine è il re della merda, ma è anche il re di tutto ciò per cui vale la pena andare avanti. Harmony ci aiuta a fare schifo, a sentirci finalmente liberi di esserlo, e a guardarci allo specchio, magari adornato da una striscia di guanciale scocciata sopra, e dirci: “Faccio schifo anche oggi. Meno male.”