Il rapporto tra cinema, percezione e
inconscio nel primo Dario Argento,
di Edoardo Rugo
TR-62
22.06.2022
Nel vasto panorama cinematografico italiano, pochi autori hanno saputo intraprendere un'analisi sul valore dello sguardo e, più in generale, sull'atto percettivo in modo tanto peculiare e innovativo come Dario Argento.
Nato a Roma nel 1940, prima di approdare sul grande schermo come regista, Argento si distingue già in giovanissima età come critico cinematografico e, successivamente, come sceneggiatore. Fin dal suo esordio alla regia nel 1970, il cineasta romano si lega indissolubilmente al genere giallo, diventando in breve tempo un emblema del cinema di genere italiano esportato in tutto il mondo.
L'uscita del suo primo film L'uccello dalle piume di cristallo segna un periodo - i primi anni '70 - di fioritura del giallo all'Italiana, un sottogenere a metà tra horror, thriller e detective story, con venature gore e in alcuni casi espliciti rimandi erotici. Il suo esordio risulta quindi un tassello fondamentale per l'affermarsi di un particolare modo di fare cinema nella penisola, consolidando strutture narrative e composizioni visive, con cui in seguito si confronteranno diversi imitatori, con alterno successo. La grandezza che ha permesso ad Argento di distinguersi, all'interno della grande produzione del cinema di genere di quegli anni, risiede in un più elevato livello di ricercatezza autoriale rispetto ai suoi epigoni, valore aggiunto che apre a diverse possibilità di lettura e di analisi critica delle sue opere.
Come anticipato in apertura, questa discriminante autoriale si può ricercare nel ruolo che Argento attribuisce allo sguardo e alla percezione. Secondo le efficaci parole di Roberto Pugliese, nei suoi film lo sguardo è l’anima del trucco, la saldatura tra il possibile e l’impossibile, l’amuleto per esorcizzare il reale e rendere concretizzabile il sogno e l’inconscio. L'atto percettivo, dunque, funge da medium, punto d'incontro tra due i due poli opposti che sorreggono le opere argentiane: il razionale e l'inconscio. La percezione nei film di Argento è lo strumento di ricerca del reale, il tramite che permette di mettere a nudo l'inconscio. I suoi lavori possono essere descritti quindi come un vero e proprio viaggio che comincia dall’irrazionale, alla ricerca di una supposta verità.
Fin dal suo esordio Argento impernia quindi il suo lavoro intorno a questo tipo di paradigma. Già ne L'uccello infatti, in cui Tony Musante interpreta Sam, uno scrittore italo-americano giunto nella penisola alla ricerca di ispirazione, è riscontrabile il modello di sviluppo narrativo-visuale che accompagnerà la carriera del regista, incentrato sul valore dell'atto percettivo come unico ponte percorribile tra l'irrazionale e il suo opposto. Nelle battute iniziali del film Sam si trova casualmente ad assistere a un tentato omicidio che sarà solo il prodromo di una lunga serie di delitti ad opera, si crede, dello stesso autore. All'improvvisato detective sfugge però, incanagliato nella sua memoria, un dettaglio fondamentale per risolvere il caso. Per tutta la durata della pellicola, Argento ci mostra l’impotenza della sua memoria, sottolineando lo sforzo di Sam nel tentare di ricostruire i fatti e intuire chi era davvero l’assassino.
L’indagine diviene così un tentativo di comprensione di un piccolo dettaglio visivo nella sua mente, fino al disvelamento finale. Nella maggior parte dei film di Argento, d’altronde, questo disvelamento dell’identità del colpevole avviene proprio tramite la comprensione dell’inconscio di quest’ultimo. Non è un caso, infatti, che gli assassini argentiani siano quasi sempre caratterizzati da traumi insoluti che sfociano in efferati delitti, casi esemplari, come ricorda Bellavita, di ritorno del rimosso che non viene metabolizzato e si ripresenta sotto forma di furia omicida. L'atto percettivo iniziale, la casuale e parziale visione del colpevole da parte del protagonista si fa quindi origine di un percorso atto a scoprire non solo il volto dell'assassino, ma anche il suo inconscio, la sua parte irrazionale.
Lo sforzo del protagonista nel ricostituire le immagini parziali della sua memoria ne L’uccello diviene il mezzo che permette di passare dall'omicidio - atto irrazionale per eccellenza - allo scoperchiamento, alla rivelazione dell’inconscio, alla sua concretizzazione.
In aggiunta alla memoria di Sam, Argento inserisce un'altra immagine da decodificare all'interno del suo esordio cinematografico. Il protagonista, infatti, è incuriosito da un quadro a cui è misteriosamente legato anche l’assassino, venduto lo stesso giorno di uno dei delitti. Il dipinto – chiaro riferimento a Ligabue così come l’interpretazione di Mario Adorf nel ruolo del pittore - descrive un paesaggio invernale all’interno del quale una donna sta subendo una violenza. Si scoprirà in seguito che la cruda immagine del dipinto rappresenta proprio il trauma insoluto legato alla pazzia del killer: intuire il nascosto significato di questa immagine, come, d’altronde, riuscire a concretizzare l'imperfetto ricordo della sua mente, rappresenta per Sam l'unica vera chiave per risolvere il caso.
Questo modello costruito sulla doppia immagine mnemonico-pittorica si ritroverà, qualche anno più tardi, in quella che forse è l’opera più celebre nella filmografia argentiana, ovvero Profondo rosso. La memoria e l’inconscio, lo sguardo e il non-visibile vengono ripresi ed esasperati dal regista in quello che avrebbe dovuto essere il quarto e ultimo capitolo di una tetralogia zoonomica (formata dai primi tre lavori di Argento L’uccello dalle piume di cristallo, Il gatto a nove code e 4 mosche di velluto grigio e La tigre dai denti a sciabola, primo titolo abbozzato dal regista per Profondo rosso) ridotta poi a trilogia, separando Profondo rosso dai suoi primi tre lavori.
In Profondo rosso, non è più Tony Musante, bensì David Hemmings - nel ruolo del pianista Marc - a sopraggiungere sul luogo del primo delitto. Anche in questa sede, la chiave per risolvere il caso risiede nella memoria del protagonista. Quest'ultimo continuerà, durante le indagini, a ripercorre nella sua mente il corridoio della casa della vittima, la notte in cui aveva provato a soccorrerla. La novità di Profondo rosso rispetto alle precedenti pellicole di Argento consiste nella capacità del regista di svelare l'identità dell'assassino non solo all'inconsapevole detective, ma anche all'ignaro spettatore, immergendolo anch'egli nello sforzo che attanaglia il personaggio interpretato da Hemmings.
Il volto del colpevole viene infatti mostrato da Argento proprio nei primi minuti del film, sulla scena del delitto: uno dei quadri che decorano il corridoio percorso dal protagonista, non è, in realtà, un dipinto, bensì uno specchio che rivela, anche se per un brevissimo istante, l'identità dell'assassino. Il riflesso di quest’ultimo viene infatti impresso nel riquadro dello specchio, confondendosi però con uno dei tanti ritratti appesi alla parete del corridoio. L'istante rivelatore è troppo breve per essere recepito in maniera puntuale e si perde così sia nella memoria di Marc sia in quella dello spettatore.
La decodifica di questo atto percettivo mancato si trasforma conseguentemente nella vera investigazione. Dipanare le ombre di quel ricordo e ripescare nella memoria il volto dell'assassino impresso nello specchio, non significa però semplicemente concludere l'indagine poliziesca e consegnare il colpevole alla giustizia, bensì diviene sinonimo di un percorso di lettura della parte più irrazionale dell'assassino. Quest’ultimo, infatti, anche in Profondo rosso, è vittima di un trauma, la cui tensione irrisolta si riversa nella violenza dell'omicidio. Continuando a seguire alla lettera la struttura mostrata in precedenza, anche Hemmings troverà nel corso delle sue ricerche un dipinto, di valore simile a quello presente ne L’Uccello. In questo caso, si tratta di un disegno infantile trovato in una stanza murata di un sinistro edificio fuori Torino. Dalla parete scrostata della villa affiora un macabro disegno, raffigurante il trauma primordiale, causa scatenante degli omicidi. Si reitera così il paradigma precedente, instaurando un legame tra la percezione del ricordo e l'atto di decifrazione del dipinto: la vera indagine da compiere risiede tutta in queste immagini, nella comprensione del loro significato nascosto.
Il paradigma classico della storia investigativa cambia così radicalmente: dal mistery più tradizionale e anglofono legato al ragionamento, dall’unione dei vari tasselli del puzzle per risalire a una trama logica si passa a uno studio dell'immagine, alla concretizzazione dell'atto percettivo.
Avvalorando ancor di più questa struttura narrativa, durante i titoli di testa di Profondo rosso Argento inserisce proprio la scena di violenza domestica rappresentata poi nel disegno trovato da Marc nella villa abbandonata. Il trauma primordiale, viene mostrato così già nell'introduzione della pellicola, proprio come viene rivelato, fin dall'inizio, il volto dell'assassino. Argento palesa così, ancora una volta, il significato intrinseco del suo lavoro: un percorso di investigazione sull'immagine, un dispiegamento diegetico che per arrivare a conclusione deve obbligatoriamente partire da una lettura visuale. Nella costruzione del giallo classico Argento inserisce la sua inconfondibile impronta, trasformandolo in un lavoro sull'immagine, una riflessione sullo sguardo “impotente a salvarci ma necessario per comprendere” (Pugliese).
Anche nel suo terzo lungometraggio, 4 mosche di velluto grigio, Argento si sofferma sull'analisi dello sguardo come rivelatore dell'inconscio. Anche qui, l’assassino è stato vittima di un abuso infantile, un trauma mai assimilato che si tramuta in follia omicida.
Tuttavia, contrariamente agli esempi precedenti, 4 mosche non presenta un dipinto da analizzare o un ricordo da decifrare. Nonostante ciò, il film non si sottrae all’uso dell’atto percettivo come momento rivelatore primario e, anzi, lo sottolinea proprio nel suo meccanismo diegetico. L'assassino viene infatti scoperto tramite uno studio sul bulbo oculare di una delle sue vittime: il legame tra sguardo, memoria e svelamento del colpevole si fa così, come detto, ancora più evidente. La pupilla della vittima viene dunque sottoposta a un macchinario pseudo-scientifico in grado di estrapolare l'ultima immagine impressa su di essa. Ne risulta così una peculiare 'fotografia' di quattro mosche, che il protagonista riconoscerà nel ciondolo della moglie, svelando così l'identità del misterioso assassino.
Nonostante il cambiamento nella costruzione della trama quindi, il risultato non cambia: il protagonista, sempre un detective improvvisato, coinvolto per caso in una spirale di omicidi, per scoprire il colpevole deve sottoporsi alla lettura di un'immagine, cercando di coglierne il significato nascosto. Lo sguardo e la percezione assumono così un ruolo di sempre maggior rilievo all'interno dei gialli argentiani, rivelandosi tasselli fondamentali per districare il mistero della psiche umana.
Film dopo film, la certezza di poter efficacemente intraprendere uno studio dell'inconscio attraverso un'indagine dell'atto visivo e percettivo si fa però sempre più ambigua. Nella pellicola d'esordio non esiste alcun dubbio a riguardo: l'assassino viene catturato dalla polizia prima che possa uccidere il protagonista e, in una delle ultime sequenze del film, Argento mostra uno psicologo nell'atto di spiegare, durante un'intervista radiofonica, i motivi scientifici che avrebbero portato il colpevole a compiere gli omicidi. Tutto sembra dunque risolversi, la nebbia dell'irrazionale si dipana in favore di una spiegazione scientifica chiarificatrice.
Nel finale di Profondo rosso, uscito cinque anni dopo L’uccello, questa sicurezza comincia a sgretolarsi. Attraverso un gioco di rimandi visivi, Argento sembrerebbe infatti voler designare un vero e proprio cul-de-sac in cui può terminare il modello fin qui analizzato e, conseguentemente, l’impossibilità di un totale discernimento della psiche umana. Per tutta la durata dei titoli di coda, Argento indugia su un'inquadratura fissa della pozza di sangue dell'assassino, rimasto ucciso durante uno scontro con il protagonista. Nel lago di sangue si rispecchia, ancora sconvolto dalla mortale colluttazione, il volto di Hemmings/Marc: ne risulta così un parallelo evidente con la famosa immagine iniziale di cui si è parlato in precedenza, in cui il viso dell'assassino riflesso in uno specchio veniva confuso con uno dei numerosi dipinti appesi alla parete. Si ripropone dunque a Marc proprio l'immagine da cui è iniziata l'indagine, come a voler sottolineare una questione irrisolta e sottoporre al protagonista della vicenda un incontro con la sua parte irrazionale.
La messa in discussione del modello portante su cui si basavano i primi quattro gialli argentiani conduce il regista romano a confrontarsi con il suo cinema e a ricalibrarlo. Nel 1977 esce così Suspiria, il primo film di genere fantastico nella cinematografia argentiana. Suspiria è un’esplosione di luci e colori, un viaggio onirico accompagnato ancora una volta da una colonna sonora dei Goblin sempre più dirompente. In questa visione allucinogena, Argento riesce a frantumare la percezione ancor più che in Profondo rosso, mettendo in scena una Friburgo onirica e metafisica e una scuola di ballo dai caratteri demoniaci. Le soggettive sono sempre più ‘senza soggetto’ e artificiose, come a voler ribadire l’impossibilità di una percezione e comprensione univoca di ciò che si sta compiendo sullo schermo.
A dispetto del cambiamento di genere però, Argento non riesce a separarsi ancora del tutto dal paradigma che lo aveva accompagnato nei suoi precedenti lavori. Soltanto tre anni dopo con Inferno, infatti, avverrà una svolta veramente decisiva, una totale implosione della composizione diegetica, accantonata per produrre un film basato esclusivamente sul lato visivo.
In Suspiria, invece, la trama si fa sempre più rarefatta ma non rinuncia totalmente al modello argentiano dei precedenti film. Rimane infatti sempre un mistero da svelare: cosa si nasconde all’interno della scuola di ballo? Sono veramente streghe la direttrice e le insegnanti che lavorano dentro l’istituto?
Riaffiora così il consolidato paradigma che costituiva le opere del primo periodo: questa volta, però, non è più lo sguardo il medium percettivo su cui interrogarsi, bensì l’udito. La percezione resta, in ogni caso, la vera porta d’accesso per rivelare l’arcano mistero che circonda la scuola di ballo.
L'atto percettivo primario affiora ancora una volta agli inizi della storia e, come negli esempi precedenti, non viene in principio colto nella sua interezza. Il soggetto percipiente in questo caso si allontana dal detective maschio e adulto che aveva contraddistinto le pellicole finora analizzate: la protagonista in Suspiria è, invece, Susy Benner, ballerina di giovane età appena giunta a Friburgo per entrare in un’illustre scuola di danza. Nella notte del suo arrivo nella città tedesca, proprio sull’uscio del portone della scuola, Susy si ritrova davanti a una sua collega che, in chiaro stato di agitazione, cerca di comunicarle qualcosa, prima di scomparire definitivamente nel buio della notte. L’assordante rumore del temporale non permette però a Susy di recepire chiaramente il messaggio pronunciato dalla ragazza. Solo nel finale, quando la protagonista dovrà decifrare un codice per poter accedere a una delle stanze segrete della scuola e svelare così l'arcano segreto che circonda l'istituto, nella mente di Susy riaffioreranno le parole udite dalla collega al suo arrivo.
Anche con Suspiria, dunque, Argento vuole ribadire il rapporto tra cinema e atto percettivo, discostandosi però dalla concezione di quest'ultimo come tramite per poter leggere l'inconscio. Il film del 1977 infatti non si pone nessuna volontà di dipanare l’arcano che lo caratterizza, anzi vive proprio attraverso un’irrazionalità che ne ammorba ogni frame. La scena conclusiva, in cui Susy evade dalla scuola in fiamme, nella sua apparente sbrigatività, si fa invece rivelatrice dell’intenzione del regista di lasciare qualcosa alle spalle e mutare definitivamente il suo modello compositivo: è così, dunque, che con Suspiria e ancora di più con il successivo Inferno, l’atto percettivo non si dimostra più in grado di elaborare e districare il sottomondo del nostro inconscio. Comprendendo questa impossibilità, Argento sceglie così di usare la percezione visiva e sonora per immergersi totalmente in un universo avernale e ctonio, privo di razionalità. Non esiste più uno sforzo diegetico mirato alla spiegazione razionale di una figura riflessa in uno specchio, come in Profondo rosso, o di un ricordo annebbiato, come ne L’uccello; le immagini di Suspiria e Inferno non tendono più alla chiarificazione ma volgono dalla parte opposta, cioè a consolidare l’incubo che Argento, con esse, vuole mostrarci.
Inferno, come detto, suggellerà questo nuovo modello filmico, eliminando anche la sottile struttura mistery presente in Suspiria e perdendo così del tutto una consistenza diegetica. Il film, datato 1980, porta dunque all’apoteosi questa nuova struttura argentiana, addirittura esaurendola del tutto. Dopo Inferno, il nuovo immaginario del regista romano sembra già saturo, impossibilitato a procedere oltre. È facile pensare che sia proprio per questo motivo che Argento deciderà di non completare immediatamente la cosiddetta trilogia delle tre madri, di cui Suspiria e Inferno rappresentano i primi due capitoli. Il terzo film della trilogia, La terza madre, arriverà infatti soltanto 27 anni e 8 lungometraggi dopo Inferno e si delineerà come un’opera radicalmente slegata dai precedenti episodi.
Inferno segna così uno spartiacque fondamentale nella carriera del regista, in cui quest’ultimo porta a compimento un processo iniziato 10 anni prima con il suo esordio cinematografico: un’analisi sul rapporto tra cinema e percezione che vede nel film del 1980 il suo capitolo conclusivo.
Con le sue pellicole degli anni ’80 – Tenebre, Phenomena e Opera – Argento ritornerà al thriller, senza però ricalcare i suoi lavori di inizio carriera. Questi tre film rappresentano infatti una sintesi dialettica tra i primi quattro gialli e le successive due opere di carattere fantastico, un nuovo modo con cui Argento presenta allo spettatore il suo costante studio su cinema e percezione.
Il rapporto tra cinema, percezione e
inconscio nel primo Dario Argento,
di Edoardo Rugo
TR-62
22.06.2022
Nel vasto panorama cinematografico italiano, pochi autori hanno saputo intraprendere un'analisi sul valore dello sguardo e, più in generale, sull'atto percettivo in modo tanto peculiare e innovativo come Dario Argento.
Nato a Roma nel 1940, prima di approdare sul grande schermo come regista, Argento si distingue già in giovanissima età come critico cinematografico e, successivamente, come sceneggiatore. Fin dal suo esordio alla regia nel 1970, il cineasta romano si lega indissolubilmente al genere giallo, diventando in breve tempo un emblema del cinema di genere italiano esportato in tutto il mondo.
L'uscita del suo primo film L'uccello dalle piume di cristallo segna un periodo - i primi anni '70 - di fioritura del giallo all'Italiana, un sottogenere a metà tra horror, thriller e detective story, con venature gore e in alcuni casi espliciti rimandi erotici. Il suo esordio risulta quindi un tassello fondamentale per l'affermarsi di un particolare modo di fare cinema nella penisola, consolidando strutture narrative e composizioni visive, con cui in seguito si confronteranno diversi imitatori, con alterno successo. La grandezza che ha permesso ad Argento di distinguersi, all'interno della grande produzione del cinema di genere di quegli anni, risiede in un più elevato livello di ricercatezza autoriale rispetto ai suoi epigoni, valore aggiunto che apre a diverse possibilità di lettura e di analisi critica delle sue opere.
Come anticipato in apertura, questa discriminante autoriale si può ricercare nel ruolo che Argento attribuisce allo sguardo e alla percezione. Secondo le efficaci parole di Roberto Pugliese, nei suoi film lo sguardo è l’anima del trucco, la saldatura tra il possibile e l’impossibile, l’amuleto per esorcizzare il reale e rendere concretizzabile il sogno e l’inconscio. L'atto percettivo, dunque, funge da medium, punto d'incontro tra due i due poli opposti che sorreggono le opere argentiane: il razionale e l'inconscio. La percezione nei film di Argento è lo strumento di ricerca del reale, il tramite che permette di mettere a nudo l'inconscio. I suoi lavori possono essere descritti quindi come un vero e proprio viaggio che comincia dall’irrazionale, alla ricerca di una supposta verità.
Fin dal suo esordio Argento impernia quindi il suo lavoro intorno a questo tipo di paradigma. Già ne L'uccello infatti, in cui Tony Musante interpreta Sam, uno scrittore italo-americano giunto nella penisola alla ricerca di ispirazione, è riscontrabile il modello di sviluppo narrativo-visuale che accompagnerà la carriera del regista, incentrato sul valore dell'atto percettivo come unico ponte percorribile tra l'irrazionale e il suo opposto. Nelle battute iniziali del film Sam si trova casualmente ad assistere a un tentato omicidio che sarà solo il prodromo di una lunga serie di delitti ad opera, si crede, dello stesso autore. All'improvvisato detective sfugge però, incanagliato nella sua memoria, un dettaglio fondamentale per risolvere il caso. Per tutta la durata della pellicola, Argento ci mostra l’impotenza della sua memoria, sottolineando lo sforzo di Sam nel tentare di ricostruire i fatti e intuire chi era davvero l’assassino.
L’indagine diviene così un tentativo di comprensione di un piccolo dettaglio visivo nella sua mente, fino al disvelamento finale. Nella maggior parte dei film di Argento, d’altronde, questo disvelamento dell’identità del colpevole avviene proprio tramite la comprensione dell’inconscio di quest’ultimo. Non è un caso, infatti, che gli assassini argentiani siano quasi sempre caratterizzati da traumi insoluti che sfociano in efferati delitti, casi esemplari, come ricorda Bellavita, di ritorno del rimosso che non viene metabolizzato e si ripresenta sotto forma di furia omicida. L'atto percettivo iniziale, la casuale e parziale visione del colpevole da parte del protagonista si fa quindi origine di un percorso atto a scoprire non solo il volto dell'assassino, ma anche il suo inconscio, la sua parte irrazionale.
Lo sforzo del protagonista nel ricostituire le immagini parziali della sua memoria ne L’uccello diviene il mezzo che permette di passare dall'omicidio - atto irrazionale per eccellenza - allo scoperchiamento, alla rivelazione dell’inconscio, alla sua concretizzazione.
In aggiunta alla memoria di Sam, Argento inserisce un'altra immagine da decodificare all'interno del suo esordio cinematografico. Il protagonista, infatti, è incuriosito da un quadro a cui è misteriosamente legato anche l’assassino, venduto lo stesso giorno di uno dei delitti. Il dipinto – chiaro riferimento a Ligabue così come l’interpretazione di Mario Adorf nel ruolo del pittore - descrive un paesaggio invernale all’interno del quale una donna sta subendo una violenza. Si scoprirà in seguito che la cruda immagine del dipinto rappresenta proprio il trauma insoluto legato alla pazzia del killer: intuire il nascosto significato di questa immagine, come, d’altronde, riuscire a concretizzare l'imperfetto ricordo della sua mente, rappresenta per Sam l'unica vera chiave per risolvere il caso.
Questo modello costruito sulla doppia immagine mnemonico-pittorica si ritroverà, qualche anno più tardi, in quella che forse è l’opera più celebre nella filmografia argentiana, ovvero Profondo rosso. La memoria e l’inconscio, lo sguardo e il non-visibile vengono ripresi ed esasperati dal regista in quello che avrebbe dovuto essere il quarto e ultimo capitolo di una tetralogia zoonomica (formata dai primi tre lavori di Argento L’uccello dalle piume di cristallo, Il gatto a nove code e 4 mosche di velluto grigio e La tigre dai denti a sciabola, primo titolo abbozzato dal regista per Profondo rosso) ridotta poi a trilogia, separando Profondo rosso dai suoi primi tre lavori.
In Profondo rosso, non è più Tony Musante, bensì David Hemmings - nel ruolo del pianista Marc - a sopraggiungere sul luogo del primo delitto. Anche in questa sede, la chiave per risolvere il caso risiede nella memoria del protagonista. Quest'ultimo continuerà, durante le indagini, a ripercorre nella sua mente il corridoio della casa della vittima, la notte in cui aveva provato a soccorrerla. La novità di Profondo rosso rispetto alle precedenti pellicole di Argento consiste nella capacità del regista di svelare l'identità dell'assassino non solo all'inconsapevole detective, ma anche all'ignaro spettatore, immergendolo anch'egli nello sforzo che attanaglia il personaggio interpretato da Hemmings.
Il volto del colpevole viene infatti mostrato da Argento proprio nei primi minuti del film, sulla scena del delitto: uno dei quadri che decorano il corridoio percorso dal protagonista, non è, in realtà, un dipinto, bensì uno specchio che rivela, anche se per un brevissimo istante, l'identità dell'assassino. Il riflesso di quest’ultimo viene infatti impresso nel riquadro dello specchio, confondendosi però con uno dei tanti ritratti appesi alla parete del corridoio. L'istante rivelatore è troppo breve per essere recepito in maniera puntuale e si perde così sia nella memoria di Marc sia in quella dello spettatore.
La decodifica di questo atto percettivo mancato si trasforma conseguentemente nella vera investigazione. Dipanare le ombre di quel ricordo e ripescare nella memoria il volto dell'assassino impresso nello specchio, non significa però semplicemente concludere l'indagine poliziesca e consegnare il colpevole alla giustizia, bensì diviene sinonimo di un percorso di lettura della parte più irrazionale dell'assassino. Quest’ultimo, infatti, anche in Profondo rosso, è vittima di un trauma, la cui tensione irrisolta si riversa nella violenza dell'omicidio. Continuando a seguire alla lettera la struttura mostrata in precedenza, anche Hemmings troverà nel corso delle sue ricerche un dipinto, di valore simile a quello presente ne L’Uccello. In questo caso, si tratta di un disegno infantile trovato in una stanza murata di un sinistro edificio fuori Torino. Dalla parete scrostata della villa affiora un macabro disegno, raffigurante il trauma primordiale, causa scatenante degli omicidi. Si reitera così il paradigma precedente, instaurando un legame tra la percezione del ricordo e l'atto di decifrazione del dipinto: la vera indagine da compiere risiede tutta in queste immagini, nella comprensione del loro significato nascosto.
Il paradigma classico della storia investigativa cambia così radicalmente: dal mistery più tradizionale e anglofono legato al ragionamento, dall’unione dei vari tasselli del puzzle per risalire a una trama logica si passa a uno studio dell'immagine, alla concretizzazione dell'atto percettivo.
Avvalorando ancor di più questa struttura narrativa, durante i titoli di testa di Profondo rosso Argento inserisce proprio la scena di violenza domestica rappresentata poi nel disegno trovato da Marc nella villa abbandonata. Il trauma primordiale, viene mostrato così già nell'introduzione della pellicola, proprio come viene rivelato, fin dall'inizio, il volto dell'assassino. Argento palesa così, ancora una volta, il significato intrinseco del suo lavoro: un percorso di investigazione sull'immagine, un dispiegamento diegetico che per arrivare a conclusione deve obbligatoriamente partire da una lettura visuale. Nella costruzione del giallo classico Argento inserisce la sua inconfondibile impronta, trasformandolo in un lavoro sull'immagine, una riflessione sullo sguardo “impotente a salvarci ma necessario per comprendere” (Pugliese).
Anche nel suo terzo lungometraggio, 4 mosche di velluto grigio, Argento si sofferma sull'analisi dello sguardo come rivelatore dell'inconscio. Anche qui, l’assassino è stato vittima di un abuso infantile, un trauma mai assimilato che si tramuta in follia omicida.
Tuttavia, contrariamente agli esempi precedenti, 4 mosche non presenta un dipinto da analizzare o un ricordo da decifrare. Nonostante ciò, il film non si sottrae all’uso dell’atto percettivo come momento rivelatore primario e, anzi, lo sottolinea proprio nel suo meccanismo diegetico. L'assassino viene infatti scoperto tramite uno studio sul bulbo oculare di una delle sue vittime: il legame tra sguardo, memoria e svelamento del colpevole si fa così, come detto, ancora più evidente. La pupilla della vittima viene dunque sottoposta a un macchinario pseudo-scientifico in grado di estrapolare l'ultima immagine impressa su di essa. Ne risulta così una peculiare 'fotografia' di quattro mosche, che il protagonista riconoscerà nel ciondolo della moglie, svelando così l'identità del misterioso assassino.
Nonostante il cambiamento nella costruzione della trama quindi, il risultato non cambia: il protagonista, sempre un detective improvvisato, coinvolto per caso in una spirale di omicidi, per scoprire il colpevole deve sottoporsi alla lettura di un'immagine, cercando di coglierne il significato nascosto. Lo sguardo e la percezione assumono così un ruolo di sempre maggior rilievo all'interno dei gialli argentiani, rivelandosi tasselli fondamentali per districare il mistero della psiche umana.
Film dopo film, la certezza di poter efficacemente intraprendere uno studio dell'inconscio attraverso un'indagine dell'atto visivo e percettivo si fa però sempre più ambigua. Nella pellicola d'esordio non esiste alcun dubbio a riguardo: l'assassino viene catturato dalla polizia prima che possa uccidere il protagonista e, in una delle ultime sequenze del film, Argento mostra uno psicologo nell'atto di spiegare, durante un'intervista radiofonica, i motivi scientifici che avrebbero portato il colpevole a compiere gli omicidi. Tutto sembra dunque risolversi, la nebbia dell'irrazionale si dipana in favore di una spiegazione scientifica chiarificatrice.
Nel finale di Profondo rosso, uscito cinque anni dopo L’uccello, questa sicurezza comincia a sgretolarsi. Attraverso un gioco di rimandi visivi, Argento sembrerebbe infatti voler designare un vero e proprio cul-de-sac in cui può terminare il modello fin qui analizzato e, conseguentemente, l’impossibilità di un totale discernimento della psiche umana. Per tutta la durata dei titoli di coda, Argento indugia su un'inquadratura fissa della pozza di sangue dell'assassino, rimasto ucciso durante uno scontro con il protagonista. Nel lago di sangue si rispecchia, ancora sconvolto dalla mortale colluttazione, il volto di Hemmings/Marc: ne risulta così un parallelo evidente con la famosa immagine iniziale di cui si è parlato in precedenza, in cui il viso dell'assassino riflesso in uno specchio veniva confuso con uno dei numerosi dipinti appesi alla parete. Si ripropone dunque a Marc proprio l'immagine da cui è iniziata l'indagine, come a voler sottolineare una questione irrisolta e sottoporre al protagonista della vicenda un incontro con la sua parte irrazionale.
La messa in discussione del modello portante su cui si basavano i primi quattro gialli argentiani conduce il regista romano a confrontarsi con il suo cinema e a ricalibrarlo. Nel 1977 esce così Suspiria, il primo film di genere fantastico nella cinematografia argentiana. Suspiria è un’esplosione di luci e colori, un viaggio onirico accompagnato ancora una volta da una colonna sonora dei Goblin sempre più dirompente. In questa visione allucinogena, Argento riesce a frantumare la percezione ancor più che in Profondo rosso, mettendo in scena una Friburgo onirica e metafisica e una scuola di ballo dai caratteri demoniaci. Le soggettive sono sempre più ‘senza soggetto’ e artificiose, come a voler ribadire l’impossibilità di una percezione e comprensione univoca di ciò che si sta compiendo sullo schermo.
A dispetto del cambiamento di genere però, Argento non riesce a separarsi ancora del tutto dal paradigma che lo aveva accompagnato nei suoi precedenti lavori. Soltanto tre anni dopo con Inferno, infatti, avverrà una svolta veramente decisiva, una totale implosione della composizione diegetica, accantonata per produrre un film basato esclusivamente sul lato visivo.
In Suspiria, invece, la trama si fa sempre più rarefatta ma non rinuncia totalmente al modello argentiano dei precedenti film. Rimane infatti sempre un mistero da svelare: cosa si nasconde all’interno della scuola di ballo? Sono veramente streghe la direttrice e le insegnanti che lavorano dentro l’istituto?
Riaffiora così il consolidato paradigma che costituiva le opere del primo periodo: questa volta, però, non è più lo sguardo il medium percettivo su cui interrogarsi, bensì l’udito. La percezione resta, in ogni caso, la vera porta d’accesso per rivelare l’arcano mistero che circonda la scuola di ballo.
L'atto percettivo primario affiora ancora una volta agli inizi della storia e, come negli esempi precedenti, non viene in principio colto nella sua interezza. Il soggetto percipiente in questo caso si allontana dal detective maschio e adulto che aveva contraddistinto le pellicole finora analizzate: la protagonista in Suspiria è, invece, Susy Benner, ballerina di giovane età appena giunta a Friburgo per entrare in un’illustre scuola di danza. Nella notte del suo arrivo nella città tedesca, proprio sull’uscio del portone della scuola, Susy si ritrova davanti a una sua collega che, in chiaro stato di agitazione, cerca di comunicarle qualcosa, prima di scomparire definitivamente nel buio della notte. L’assordante rumore del temporale non permette però a Susy di recepire chiaramente il messaggio pronunciato dalla ragazza. Solo nel finale, quando la protagonista dovrà decifrare un codice per poter accedere a una delle stanze segrete della scuola e svelare così l'arcano segreto che circonda l'istituto, nella mente di Susy riaffioreranno le parole udite dalla collega al suo arrivo.
Anche con Suspiria, dunque, Argento vuole ribadire il rapporto tra cinema e atto percettivo, discostandosi però dalla concezione di quest'ultimo come tramite per poter leggere l'inconscio. Il film del 1977 infatti non si pone nessuna volontà di dipanare l’arcano che lo caratterizza, anzi vive proprio attraverso un’irrazionalità che ne ammorba ogni frame. La scena conclusiva, in cui Susy evade dalla scuola in fiamme, nella sua apparente sbrigatività, si fa invece rivelatrice dell’intenzione del regista di lasciare qualcosa alle spalle e mutare definitivamente il suo modello compositivo: è così, dunque, che con Suspiria e ancora di più con il successivo Inferno, l’atto percettivo non si dimostra più in grado di elaborare e districare il sottomondo del nostro inconscio. Comprendendo questa impossibilità, Argento sceglie così di usare la percezione visiva e sonora per immergersi totalmente in un universo avernale e ctonio, privo di razionalità. Non esiste più uno sforzo diegetico mirato alla spiegazione razionale di una figura riflessa in uno specchio, come in Profondo rosso, o di un ricordo annebbiato, come ne L’uccello; le immagini di Suspiria e Inferno non tendono più alla chiarificazione ma volgono dalla parte opposta, cioè a consolidare l’incubo che Argento, con esse, vuole mostrarci.
Inferno, come detto, suggellerà questo nuovo modello filmico, eliminando anche la sottile struttura mistery presente in Suspiria e perdendo così del tutto una consistenza diegetica. Il film, datato 1980, porta dunque all’apoteosi questa nuova struttura argentiana, addirittura esaurendola del tutto. Dopo Inferno, il nuovo immaginario del regista romano sembra già saturo, impossibilitato a procedere oltre. È facile pensare che sia proprio per questo motivo che Argento deciderà di non completare immediatamente la cosiddetta trilogia delle tre madri, di cui Suspiria e Inferno rappresentano i primi due capitoli. Il terzo film della trilogia, La terza madre, arriverà infatti soltanto 27 anni e 8 lungometraggi dopo Inferno e si delineerà come un’opera radicalmente slegata dai precedenti episodi.
Inferno segna così uno spartiacque fondamentale nella carriera del regista, in cui quest’ultimo porta a compimento un processo iniziato 10 anni prima con il suo esordio cinematografico: un’analisi sul rapporto tra cinema e percezione che vede nel film del 1980 il suo capitolo conclusivo.
Con le sue pellicole degli anni ’80 – Tenebre, Phenomena e Opera – Argento ritornerà al thriller, senza però ricalcare i suoi lavori di inizio carriera. Questi tre film rappresentano infatti una sintesi dialettica tra i primi quattro gialli e le successive due opere di carattere fantastico, un nuovo modo con cui Argento presenta allo spettatore il suo costante studio su cinema e percezione.