A cura di Alice De Luca
INT-02
11.05.2022
Nei cinema d’Italia si aggira un film dai tratti somatici tragicomici, dolci e intimiditi. Si chiama Settembre ed è una storia ad intreccio dove le vite dei protagonisti si incontrano, si contaminano vicendevolmente e prendono, infine, direzioni coraggiose.
Questo nuovo progetto LYNN - divisione di Groenlandia dedicata alla produzione di film a regia femminile, trasuda in scrittura grande maturità ed eleganza. Senza alzare mai la voce, infatti, guarda politicamente ai giovani e alle donne e mette i vecchi rappresentanti della società alle strette, includendoli nella narrazione ma nei panni di miserabili.
Così, tramite interpretazioni magistrali di momenti intrascurabili di quotidianità, Settembre suggerisce la via da seguire per raggiungere la felicità e si configura come un pharmakos epicureo all’indifferenza e alla codardia. Questo lungometraggio, orchestrato più che diretto, data l’armonia e l’attenzione certosina che permea tutti gli elementi filmici, anziché sviluppare le potenzialità narrative di ogni storia, sceglie, attraverso uno sguardo d’insieme, di relativizzarne i singoli drammi per farci riflettere sull’importanza di quelli altrui. Perché, come illustra Calvino in Se una notte d’inverno un viaggiatore, i racconti, a volte, possono prendersi la libertà di vivere solo delle premesse dei loro incipit.
In occasione dell’uscita in sala di Settembre, Giulia Louise Steigerwalt, la regista, ci racconta qualcosa in più sulla sua opera prima per permetterci di identificare, riconoscere e, poi, cercare questo film nei cinema.
Moretti in Bianca diceva: «Ogni scarpa una camminata, ogni camminata una diversa concezione del mondo». Il suo film è pieno di dettagli di calzature di ogni tipo e anche molto diverse fra loro, tanto che viene da pensare che i protagonisti di Settembre siano stati scritti a partire dalle loro scarpe, è così?
No, non ho iniziato a scrivere i personaggi dalle scarpe. Però, è un ragionamento che ho fatto con il costumista, Andrea Cavalletto, in particolare per Guglielmo, il medico. Per lui, infatti, ho proprio ricercato una scarpa da tennis bianca, un po’ trasandata con cui volevo rendere la personalità di qualcuno che nella vita, in un certo senso, si è arreso. Per questo, è importante che, poi, per andare a dichiararsi ad Ana, Guglielmo abbandoni la comodità e si metta un paio di polacchine.
Per quanto riguarda gli altri personaggi è vero: nella camera di Maria c’è subito un dettaglio delle All Star, emblematiche del mondo dei ragazzi e dalla maniera in cui Ana si infila le scarpe si può intuire la sua dinamicità e praticità. Francesca, dall'altra parte, si veste in modo molto curato e femminile, infatti, la vediamo con indosso dei comodi zoccoli ma per inseguire il marito nella notte, anche lei non ci pensa due volte ad optare per delle scarpe da tennis.
In realtà tutto ciò che circonda i personaggi dà una dimensione della loro interiorità: dal barattolo di fagioli che Guglielmo riscalda e mette direttamente in frigo, alla casa di Ana che le sta stretta come la sua stessa vita, fino ad arrivare alla panda di Matteo che restituisce la sua semplicità. Credi sia stata la tua esperienza da sceneggiatrice ad aver arricchito la regia di questa cura per i dettagli?
Sono tutti dettagli che avevo già previsto in sceneggiatura perché i personaggi mi piace dipingerli a tutto tondo e, quindi, anche tramite quegli elementi scenografici, di costume e fisici che sono strettamente emblematici della realtà. Sono mille le sfaccettature che nella vita di tutti i giorni ci caratterizzano. Per questo in un film, delle piccole abitudini quotidiane possono diventare degli input drammaturgici che ci fanno empatizzare ancora di più con la storia. Per coinvolgere lo spettatore e farlo calare nella narrazione ci sono diversi modi, per esempio, mi diverto molto anche a stimolarlo in ogni scena con le contraddizioni, le intenzioni e il sottotesto dei dialoghi che restituiscono a pieno la natura dei comportamenti dei personaggi. E, avere la possibilità di scrivere e poi dirigere un film, ti permette di concretizzare e completare questo discorso anche sul set.
Le intenzioni dei protagonisti di questo film arrivano tanto anche grazie alla recitazione. Come hai lavorato con Barbara Ronchi? Perché è un’interprete che avevamo già incontrato nelle vesti di madre in Fai bei sogni e Padrenostro ma, diretta da te, si riesce a calare in un personaggio che, al di là del suo ruolo genitoriale, è comico, imbarazzato, leggero e tridimensionale.
A seconda degli interpreti ho lavorato diversamente. Con Barbara Ronchi e tutti gli altri attori professionisti abbiamo fatto varie letture con l’obiettivo di costruire insieme dei personaggi tragicomici ma sempre realistici. Per Francesca, in particolare, volevo una sorta di Meg Ryan di Harry ti presento Sally. La sua comicità, infatti, non deriva mai dalla consapevolezza, tanto che finisce per piangere di cose positive che le capitano perché nel frattempo è presa in buonafede da altro. Credo sia una tipologia di situazione a cui tutti si possono rapportare e Barbara in questo è stata fantastica perché si è proprio buttata a capofitto. Poi, in generale, a me piace tratteggiare delle donne che reagiscono in maniera più variegata rispetto agli stereotipi con cui di solito vengono dipinte. Mentre per quanto riguarda gli esordienti, Luca Nozzoli, Margherita Rebeggiani ed Enrico Borello, li ho scelti perché erano molto simili ai personaggi che avevo scritto. Infatti, con loro ho fatto un lavoro soltanto di naturalezza e spontaneità.
Brunori Sas, in un suo brano canta «Come stai? È la frase d’esordio del mondo». I protagonisti di questo film, anche a costo di confrontarsi con tutto quello che non va nelle loro esistenze, imparano a rispondere sinceramente a questa domanda. Per restituire alla sala un ruolo centrale nella vita delle persone, secondo te, investire nuovamente il cinema della sua antica e originaria funzione catartica di mostrarci e ricordarci come poter stare al mondo, potrebbe essere una soluzione?
Ogni volta che scrivo una sceneggiatura per me ci deve essere un messaggio importante da trasmettere allo spettatore. Per questo cerco sempre di individuare un tema forte che arrivi al pubblico con emozione e che garantisca, ovviamente, l'esperienza catartica. Con un film non bisogna per forza riflettere sulla propria vita ma se si riesce a far provare agli spettatori quello che sentono i personaggi, vuol dire che è stato toccato un tema universale. E, come dimostrano anche le tragedie greche, questo è l'obiettivo ultimo da raggiungere con qualsiasi tipo di narrazione che sia un libro, una commedia o una dramedy. Settembre, infatti, sfruttando diverse storie che si intrecciano, prova proprio a far scaturire da dei singoli accadimenti una riflessione più universale.
Sentendo Pale Blue Eyes o I Want You a massimo volume in una sala, viene da domandarsi cosa cambia tra pensare per una scena una determinata canzone e vederla, invece, dialogare direttamente con le immagini del film. Per cui il rapporto con la musica, anche in relazione alla funzione drammaturgica che questa può svolgere, nel momento in cui da sceneggiatrice sei diventata regista, è mutato?
Sì, è cambiato perché con la musica puoi trasmettere veramente il mood che avevi in testa. Ogni regista ha il proprio gusto personale e, ovviamente, quando sei tu a dirigere un film, puoi far arrivare la tua impressione ed emotività a 360 gradi e la musica aiuta tantissimo. Per Settembre ho avuto la fortuna di poter usare anche tracce importanti come quella di Bob Dylan, sorprendentemente accessibile. Poi, ci sono tre brani cantati da Thony e tutta la colonna sonora originale, firmata da Michele Braga. Con lui ho lavorato tanto su un mood specifico tramite diverse reference che lui ha sposato in pieno. Era come se fossimo accordati sugli stessi toni. Per cui l'approccio musicale, rispetto a quando scrivi la sceneggiatura, cambia radicalmente perché puoi orchestrare anche questa componente e comunicare ancora meglio quello che vuoi esprimere.
Settembre per i personaggi più che un mese è uno stato mentale in cui i cambiamenti non vengono più rimandati e le decisioni importanti sono finalmente prese. Anche questo passaggio alla regia sembra, però, celare dietro un suo Settembre. Cosa ha significato per la tua carriera l’arrivo di questo mese e soprattutto come sono stati quelli a seguire?
Il passaggio alla regia è stato un salto nel vuoto che ho deciso di fare perché ne avevo grandissima voglia ed esigenza. Certamente, c’è stata anche la paura di doversi confrontare con un equilibrio sottile di fattori ma venivo da un percorso lungo e la recitazione e la scrittura sono stati dei tasselli fondamentali che mi hanno permesso di approdare alla regia in modo del tutto naturale e spontaneo. Poi, dal momento che ogni volta che scrivo qualcosa, immagino e mi soffermo su mille dettagli, per Settembre ho preparato lo storyboard di tutto il film. Sul set, infatti, arrivavo già con le inquadrature pronte e studiate insieme ai vari reparti di scenografia, costumi e soprattutto fotografia. Quindi, avendo una grande chiarezza visiva, poi, mi sono potuta concentrare solo sulla recitazione.
A cura di Alice De Luca
INT-02
11.05.2022
Nei cinema d’Italia si aggira un film dai tratti somatici tragicomici, dolci e intimiditi. Si chiama Settembre ed è una storia ad intreccio dove le vite dei protagonisti si incontrano, si contaminano vicendevolmente e prendono, infine, direzioni coraggiose.
Questo nuovo progetto LYNN - divisione di Groenlandia dedicata alla produzione di film a regia femminile, trasuda in scrittura grande maturità ed eleganza. Senza alzare mai la voce, infatti, guarda politicamente ai giovani e alle donne e mette i vecchi rappresentanti della società alle strette, includendoli nella narrazione ma nei panni di miserabili.
Così, tramite interpretazioni magistrali di momenti intrascurabili di quotidianità, Settembre suggerisce la via da seguire per raggiungere la felicità e si configura come un pharmakos epicureo all’indifferenza e alla codardia. Questo lungometraggio, orchestrato più che diretto, data l’armonia e l’attenzione certosina che permea tutti gli elementi filmici, anziché sviluppare le potenzialità narrative di ogni storia che narra, sceglie, attraverso uno sguardo d’insieme, di relativizzarne i singoli drammi per farci riflettere sull’importanza di quelli altrui. Perché, come illustra Calvino in Se una notte d’inverno un viaggiatore, i racconti, a volte, possono prendersi la libertà di vivere solo delle premesse dei loro incipit.
In occasione dell’uscita in sala di Settembre, Giulia Louise Steigerwalt, la regista, ci racconta qualcosa in più sulla sua opera prima per permetterci di identificare, riconoscere e, poi, cercare questo film nei cinema.
Moretti in Bianca diceva: «Ogni scarpa una camminata, ogni camminata una diversa concezione del mondo». Il suo film è pieno di dettagli di calzature di ogni tipo e anche molto diverse fra loro, tanto che viene da pensare che i protagonisti di Settembre siano stati scritti a partire dalle loro scarpe, è così?
No, non ho iniziato a scrivere i personaggi dalle scarpe. Però, è un ragionamento che ho fatto con il costumista, Andrea Cavalletto, in particolare per Guglielmo, il medico. Per lui, infatti, ho proprio ricercato una scarpa da tennis bianca, un po’ trasandata con cui volevo rendere la personalità di qualcuno che nella vita, in un certo senso, si è arreso. Per questo, è importante che, poi, per andare a dichiararsi ad Ana, Guglielmo abbandoni la comodità e si metta un paio di polacchine.
Per quanto riguarda gli altri personaggi è vero: nella camera di Maria c’è subito un dettaglio delle All Star, emblematiche del mondo dei ragazzi e dal modo in cui Ana si infila le scarpe si può intuire la sua dinamicità e praticità. Francesca, dall'altra parte, si veste in modo molto curato e femminile, infatti, la vediamo con indosso dei comodi zoccoli ma per inseguire il marito nella notte, anche lei non ci pensa due volte ad optare per delle scarpe da tennis.
In realtà tutto ciò che circonda i personaggi dà una dimensione della loro interiorità: dal barattolo di fagioli che Guglielmo riscalda e mette direttamente in frigo, alla casa di Ana che le sta stretta come la sua stessa vita, fino ad arrivare alla panda di Matteo che restituisce la sua semplicità. Credi sia stata la tua esperienza da sceneggiatrice ad aver arricchito la regia di questa cura per i dettagli?
Sono tutti dettagli che avevo già previsto in sceneggiatura perché i personaggi mi piace dipingerli a tutto tondo e, quindi, anche tramite quegli elementi scenografici, di costume e fisici che sono strettamente emblematici della realtà. Sono mille le sfaccettature che nella vita di tutti i giorni ci caratterizzano. Per questo in un film, delle piccole abitudini quotidiane possono diventare degli input drammaturgici che ci fanno empatizzare ancora di più con la storia. Per coinvolgere lo spettatore e farlo calare nella narrazione ci sono diversi modi, per esempio, mi diverto molto anche a stimolarlo in ogni scena con le contraddizioni, le intenzioni e il sottotesto dei dialoghi che restituiscono a pieno la natura dei comportamenti dei personaggi. E, avere la possibilità di scrivere e poi dirigere un film, ti permette di concretizzare e completare questo discorso anche sul set.
Le intenzioni dei protagonisti di questo film arrivano tanto anche grazie alla recitazione. Come hai lavorato con Barbara Ronchi? Perché è un’interprete che avevamo già incontrato nelle vesti di madre in Fai bei sogni e Padrenostro ma, diretta da te, si riesce a calare in un personaggio che, al di là del suo ruolo genitoriale, è comico, imbarazzato, leggero e tridimensionale.
A seconda degli interpreti ho lavorato diversamente. Con Barbara Ronchi e tutti gli altri attori professionisti abbiamo fatto varie letture con l’obiettivo di costruire insieme dei personaggi tragicomici ma sempre realistici. Per Francesca, in particolare, volevo una sorta di Meg Ryan di Harry ti presento Sally. La sua comicità, infatti, non deriva mai dalla consapevolezza, tanto che finisce per piangere di cose positive che le capitano perché nel frattempo è presa in buonafede da altro. Credo sia una tipologia di situazione a cui tutti si possono rapportare e Barbara in questo è stata fantastica perché si è proprio buttata a capofitto. Poi, in generale, a me piace tratteggiare delle donne che reagiscono in maniera più variegata rispetto agli stereotipi con cui di solito vengono dipinte. Mentre per quanto riguarda gli esordienti, Luca Nozzoli, Margherita Rebeggiani ed Enrico Borello, li ho scelti perché erano molto simili ai personaggi che avevo scritto. Infatti, con loro ho fatto un lavoro soltanto di naturalezza e spontaneità.
Brunori Sas, in un suo brano canta «Come stai? È la frase d’esordio del mondo». I protagonisti di questo film, anche a costo di confrontarsi con tutto quello che non va nelle loro esistenze, imparano a rispondere sinceramente a questa domanda. Per restituire alla sala un ruolo centrale nella vita delle persone, secondo te, investire nuovamente il cinema della sua antica e originaria funzione catartica di mostrarci e ricordarci come poter stare al mondo, potrebbe essere una soluzione?
Ogni volta che scrivo una sceneggiatura per me ci deve essere un messaggio importante da trasmettere allo spettatore. Per questo cerco sempre di individuare un tema forte che arrivi al pubblico con emozione e che garantisca, ovviamente, l'esperienza catartica. Con un film non bisogna per forza riflettere sulla propria vita ma se si riesce a far provare agli spettatori quello che sentono i personaggi, vuol dire che è stato toccato un tema universale. E, come dimostrano anche le tragedie greche, questo è l'obiettivo ultimo da raggiungere con qualsiasi tipo di narrazione che sia un libro, una commedia o una dramedy. Settembre, infatti, sfruttando diverse storie che si intrecciano, prova proprio a far scaturire da dei singoli accadimenti una riflessione più universale.
Sentendo Pale Blue Eyes o I Want You a massimo volume in una sala, viene da domandarsi cosa cambia tra pensare per una scena una determinata canzone e vederla, invece, dialogare direttamente con le immagini del film. Per cui il rapporto con la musica, anche in relazione alla funzione drammaturgica che questa può svolgere, nel momento in cui da sceneggiatrice sei diventata regista, è mutato?
Sì, è cambiato perché con la musica puoi trasmettere veramente il mood che avevi in testa. Ogni regista ha il proprio gusto personale e, ovviamente, quando sei tu a dirigere un film, puoi far arrivare la tua impressione ed emotività a 360 gradi e la musica aiuta tantissimo. Per Settembre ho avuto la fortuna di poter usare anche tracce importanti come quella di Bob Dylan, sorprendentemente accessibile. Poi, ci sono tre brani cantati da Thony e tutta la colonna sonora originale, firmata da Michele Braga. Con lui ho lavorato tanto su un mood specifico tramite diverse reference che lui ha sposato in pieno. Era come se fossimo accordati sugli stessi toni. Per cui l'approccio musicale, rispetto a quando scrivi la sceneggiatura, cambia radicalmente perché puoi orchestrare anche questa componente e comunicare ancora meglio quello che vuoi esprimere.
Settembre per i personaggi più che un mese è uno stato mentale in cui i cambiamenti non vengono più rimandati e le decisioni importanti sono finalmente prese. Anche questo passaggio alla regia sembra, però, celare dietro un suo Settembre. Cosa ha significato per la tua carriera l’arrivo di questo mese e soprattutto come sono stati quelli a seguire?
Il passaggio alla regia è stato un salto nel vuoto che ho deciso di fare perché ne avevo grandissima voglia ed esigenza. Certamente, c’è stata anche la paura di doversi confrontare con un equilibrio sottile di fattori ma venivo da un percorso lungo e la recitazione e la scrittura sono stati dei tasselli fondamentali che mi hanno permesso di approdare alla regia in modo del tutto naturale e spontaneo. Poi, dal momento che ogni volta che scrivo qualcosa, immagino e mi soffermo su mille dettagli, per Settembre ho preparato lo storyboard di tutto il film. Sul set, infatti, arrivavo già con le inquadrature pronte e studiate insieme ai vari reparti di scenografia, costumi e soprattutto fotografia. Quindi, avendo una grande chiarezza visiva, poi, mi sono potuta concentrare solo sulla recitazione.