di Bianca Susi
NC-112
18.05.2022
Emanuelle Marre è seduto in prima fila su un volo economico Ryanair e davanti agli occhi ha un’immagine destinata a segnare il suo immediato futuro: una giovane assistente di volo siede, durante il decollo dell’aereo, con un’espressione sofferente, come se stesse lottando contro una forte ferita interiore che, per quanto prova, non riesce a tenere nascosta; non è tanto da questa sofferenza che nasce Generazione Low Cost, quanto da quel che accade subito dopo. Dagli altoparlanti dell’aereo risuona un segnale, la spia delle cinture allacciate si spegne ed ecco che la stessa donna sofferente si trasforma, indossa il suo sorriso migliore, prende il carrello dei prodotti e inizia a sfilare tra i sedili disinvolta e premurosa nei confronti dei passeggeri. Questo cambio repentino, quasi un’immagine dicotomica, rievoca nella mente del regista il dipinto “New York Movie” di Hopper, anch’esso scisso in due segmenti ben distinti: da una parte una forte introspezione, indice di sofferenza, e subito accanto un’inquietudine professionale. Unendo i puntini creatisi nella mente dopo queste suggestioni, il regista si pone la domanda da cui partirà lo sviluppo del film: cosa ha lasciato questa giovane donna a terra prima di decollare?
Generazione Low Cost non è però solo un film sul lavoro. L’opera, codiretta dai registi Emanuelle Marre e Julie Lecoustre, raffigura uno spaccato generazionale, quella dei giovani alla soglia dei trent’anni, che priva di punti di riferimento avanza verso un futuro incerto sentendosi completamente persa. L’immagine dell’assistente di volo esemplifica questo smarrimento: Cassandra, protagonista del film, non ha tempo di preoccuparsi per il futuro, vive alla giornata con ritmi frenetici senza piani a lungo termine per la propria vita. Il lavoro la costringe ad annullarsi emotivamente perché ciò a cui deve dare importanza è solamente il servizio per cui viene pagata; da persona si trasforma così in prestazioni e numero di vendite andate a buon fine. La vita di questa generazione, proprio come quella degli assistenti di volo, è assoggettata ad un’apparenza necessaria: devi essere sempre sicuro di te, sempre determinato e mai insicuro, ingranaggio di una macchina che sovrasta e viaggia a ritmi incessanti. Il sorriso accogliente e l’uniforme sempre perfetta diventano quindi una maschera, uno scudo che separa nettamente la vita professionale da quella quotidiana, calpestando l’anima di chi la indossa in nome di una dinamica lavorativa alienante.
Il lavoro dell’assistente di volo simboleggia i sogni e le speranze di una generazione costantemente in fuga. L’idea è quella di andare in luoghi lontani ed esotici per non scontrarsi con la propria quotidianità, spesso segnata da una pesante assenza, ma il risultato è tutt’altro che soddisfacente: la routine perde i propri punti di riferimento, trasformandosi in una non vita in cui si viaggia senza esplorare e ci si relaziona senza legarsi, confinati in una bolla priva di tempo e spazio. Ma come si scrive una storia del genere? Come si ritrae una generazione perduta? Per i due registi la formula giusta consiste nell’eliminare ogni macro-evento dalla sceneggiatura: nessun plot point, nessuno sconvolgimento, solo un susseguirsi di piccole situazioni che si diluiscono nel dramma. La sceneggiatura è quindi costruita come si costruisce un muretto a secco, aggiungendo pezzo dopo pezzo senza uno schema premeditato, facendo del film un insieme di istantanee privo di una vera e propria traiettoria narrativa. Cassandra si perde ma non si ritrova alla fine del film e noi seguiamo il suo errare da una meta all’altra in balia degli eventi. Nonostante 90 ore di giornalieri, il film infatti rimane in parte irrisolto.
Il tentativo di catturare la quotidianità più pura è portato avanti anche a livello fotografico: solo luce naturale, nessuna guida, nessuna caratterizzazione specifica. Abbiamo quindi due mondi: quello lavorativo, completamente illuminato fino a diventare neutro e privo di interiorità, e quello emotivo, più intimo e buio, nel quale i personaggi ci vengono svelati solamente dal bagliore iridescente delle sigarette. Quando finalmente ci troviamo davanti un’immagine oscura capiamo lo smarrimento dei personaggi. La telecamera si fissa ossessivamente sui loro volti lasciando l’azione fuori campo, in funzione di un’emotività criptica, esattamente come il sorriso forzato che caratterizza il viso degli assistenti di volo. L’immagine diventa, per citare i registi, “puro presente”, ma in questo presente aumenta la distanza tra azione e introspezione. In un film privo di una guida tecnica è ancora una volta il volto di Adèle Exarchopoulos ad accompagnare lo spettatore nel suo difficile orientamento. Come già ne La vita di Adele (2013), premiata a Cannes con la Palma d’oro, è attraverso il suo stentato sorridere e i suoi occhi pieni di malinconia che capiamo il malessere con cui la protagonista è costretta a convivere; unica attrice professionista in un cast di non professionisti, il suo magnetismo è il pilastro centrale del film.
Si potrebbe dire infine che per i due registi la generazione perduta, più che raccontata, vada mostrata così com’è, sfruttando un linguaggio visivo che esplori i suoi vuoti e portando il pubblico a fare esperienza del suo stesso smarrimento. Con un taglio quasi documentaristico, la macchina a mano della coregia ci mostra il tedio di una vita sospesa e priva di stimoli, in cui ci si accontenta di quello che pensiamo sia il massimo a cui possiamo aspirare.
di Bianca Susi
NC-112
18.05.2022
Emanuelle Marre è seduto in prima fila su un volo economico Ryanair e davanti agli occhi ha un’immagine destinata a segnare il suo immediato futuro: una giovane assistente di volo siede, durante il decollo dell’aereo, con un’espressione sofferente, come se stesse lottando contro una forte ferita interiore che, per quanto prova, non riesce a tenere nascosta; non è tanto da questa sofferenza che nasce Generazione Low Cost, quanto da quel che accade subito dopo. Dagli altoparlanti dell’aereo risuona un segnale, la spia delle cinture allacciate si spegne ed ecco che la stessa donna sofferente si trasforma, indossa il suo sorriso migliore, prende il carrello dei prodotti e inizia a sfilare tra i sedili disinvolta e premurosa nei confronti dei passeggeri. Questo cambio repentino, quasi un’immagine dicotomica, rievoca nella mente del regista il dipinto “New York Movie” di Hopper, anch’esso scisso in due segmenti ben distinti: da una parte una forte introspezione, indice di sofferenza, e subito accanto un’inquietudine professionale. Unendo i puntini creatisi nella mente dopo queste suggestioni, il regista si pone la domanda da cui partirà lo sviluppo del film: cosa ha lasciato questa giovane donna a terra prima di decollare?
Generazione Low Cost non è però solo un film sul lavoro. L’opera, codiretta dai registi Emanuelle Marre e Julie Lecoustre, raffigura uno spaccato generazionale, quella dei giovani alla soglia dei trent’anni, che priva di punti di riferimento avanza verso un futuro incerto sentendosi completamente persa. L’immagine dell’assistente di volo esemplifica questo smarrimento: Cassandra, protagonista del film, non ha tempo di preoccuparsi per il futuro, vive alla giornata con ritmi frenetici senza piani a lungo termine per la propria vita. Il lavoro la costringe ad annullarsi emotivamente perché ciò a cui deve dare importanza è solamente il servizio per cui viene pagata; da persona si trasforma così in prestazioni e numero di vendite andate a buon fine. La vita di questa generazione, proprio come quella degli assistenti di volo, è assoggettata ad un’apparenza necessaria: devi essere sempre sicuro di te, sempre determinato e mai insicuro, ingranaggio di una macchina che sovrasta e viaggia a ritmi incessanti. Il sorriso accogliente e l’uniforme sempre perfetta diventano quindi una maschera, uno scudo che separa nettamente la vita professionale da quella quotidiana, calpestando l’anima di chi la indossa in nome di una dinamica lavorativa alienante.
Il lavoro dell’assistente di volo simboleggia i sogni e le speranze di una generazione costantemente in fuga. L’idea è quella di andare in luoghi lontani ed esotici per non scontrarsi con la propria quotidianità, spesso segnata da una pesante assenza, ma il risultato è tutt’altro che soddisfacente: la routine perde i propri punti di riferimento, trasformandosi in una non vita in cui si viaggia senza esplorare e ci si relaziona senza legarsi, confinati in una bolla priva di tempo e spazio. Ma come si scrive una storia del genere? Come si ritrae una generazione perduta? Per i due registi la formula giusta consiste nell’eliminare ogni macro-evento dalla sceneggiatura: nessun plot point, nessuno sconvolgimento, solo un susseguirsi di piccole situazioni che si diluiscono nel dramma. La sceneggiatura è quindi costruita come si costruisce un muretto a secco, aggiungendo pezzo dopo pezzo senza uno schema premeditato, facendo del film un insieme di istantanee privo di una vera e propria traiettoria narrativa. Cassandra si perde ma non si ritrova alla fine del film e noi seguiamo il suo errare da una meta all’altra in balia degli eventi. Nonostante 90 ore di giornalieri, il film infatti rimane in parte irrisolto.
Il tentativo di catturare la quotidianità più pura è portato avanti anche a livello fotografico: solo luce naturale, nessuna guida, nessuna caratterizzazione specifica. Abbiamo quindi due mondi: quello lavorativo, completamente illuminato fino a diventare neutro e privo di interiorità, e quello emotivo, più intimo e buio, nel quale i personaggi ci vengono svelati solamente dal bagliore iridescente delle sigarette. Quando finalmente ci troviamo davanti un’immagine oscura capiamo lo smarrimento dei personaggi. La telecamera si fissa ossessivamente sui loro volti lasciando l’azione fuori campo, in funzione di un’emotività criptica, esattamente come il sorriso forzato che caratterizza il viso degli assistenti di volo. L’immagine diventa, per citare i registi, “puro presente”, ma in questo presente aumenta la distanza tra azione e introspezione. In un film privo di una guida tecnica è ancora una volta il volto di Adèle Exarchopoulos ad accompagnare lo spettatore nel suo difficile orientamento. Come già ne La vita di Adele (2013), premiata a Cannes con la Palma d’oro, è attraverso il suo stentato sorridere e i suoi occhi pieni di malinconia che capiamo il malessere con cui la protagonista è costretta a convivere; unica attrice professionista in un cast di non professionisti, il suo magnetismo è il pilastro centrale del film.
Si potrebbe dire infine che per i due registi la generazione perduta, più che raccontata, vada mostrata così com’è, sfruttando un linguaggio visivo che esplori i suoi vuoti e portando il pubblico a fare esperienza del suo stesso smarrimento. Con un taglio quasi documentaristico, la macchina a mano della coregia ci mostra il tedio di una vita sospesa e priva di stimoli, in cui ci si accontenta di quello che pensiamo sia il massimo a cui possiamo aspirare.