INT-54
25.01.2024
Diplomatasi nel 1990 al Centro Sperimentale di Roma, Ilaria Fraioli risulta essere una delle figure più interessanti del montaggio cinematografico italiano. Con Un’ora sola ti vorrei (20002), pluripremiata e struggente “cronanca familiare”, inaugura un felice sodalizio con la regista Alina Marazzi, per cui monterà anche i bellissimi Per sempre (2005), Vogliamo anche le rose (2007), Tutto parla di te (2013) e Anna Piaggi (2016).
Al di fuori del legame con il cinema della regista milanese, Ilaria collabora, tra gli altri, con Giovanni Piperno (This Is My Sister, 2006), Valentina Monti (Girls on the Air, 2009, e Circle, 2015), Anna Negri (Riprendimi, 2008), Federico Bondi (Mar Nero, 2009), Francesca Comenicini (Amori che non sanno stare al mondo, 2017) e Ivan Cortaneo (Un bacio, 2016, e Quattordici giorni, 2022). Ultimamente ha lavorato a Mur (2023), documentario di denuncia proiettato negli scorsi mesi in occasione della Festa del Cinema di Roma che ha sancito l’esordio alla regia di Kasia Smutniak, e Le proprietà dei metalli (2023), lungometraggio di Antonio Bigini presentato nella sezione Generation alla 73esima edizione del Festival di Berlino.
Nel corso di quest'intervista, ci siamo focalizzati su Un'ora sola ti vorrei (2002), domandando ad Ilaria del suo processo di lavoro, della sua collaborazione con Alina Marazzi e della ricerca svolta sui filmati d'archivio che compongono l'opera.
Nell’intervista realizzata all’intero del libro L’invenzione del reale - conversazioni su un altro cinema a cura di Dario Zonta, la regista Alina Marazzi parla del montaggio di Un’ora sola ti vorrei (2002) descrivendolo come una seconda fase di scrittura del film. A partire da questa risposta vorrei chiederti qual è stato l’obiettivo che ti sei posta una volta presa visione di quei materiali, e se c’è stato un processo creativo da cui è partito tutto.
Innanzitutto, mi preme dire che il materiale del film Un’ora sola ti vorrei è un archivio familiare molto particolare non soltanto perché ritrae una persona venuta a mancare prematuramente nella storia della famiglia, ma anche perché in effetti ha un carattere molto professionale. Il nonno di Alina aveva girato questi home movies per gioco, ma in maniera estremamente rigorosa. La prima volta che abbiamo visionato insieme questi materiali, in lei fu prevalente l’emotività. Per la verità anche io mi emozionai moltissimo, conservando tuttavia, un po’ forse per deformazione professionale, il distacco necessario a rendermi conto della qualità estremamente alta del materiale. Alina, inizialmente propose di realizzare una selezione, un piccolo montaggio da mostrare a suo fratello e suo padre per conservare la memoria di sua mamma Luisa, ma io le dissi subito che il materiale era talmente bello, intenso e girato perfettamente che non raccontava solo la storia della sua famiglia, ma anche una prospettiva della storia dell’Italia di quegli anni e qualcosa di più universale che poteva sicuramente essere materia di un film. E così, da subito, decidemmo di farlo. Quella prima visione è stata quindi particolarmente forte e anche decisiva perché si manifestò l’evidenza di una materia dall’orizzonte molto più ampio di quanto si potesse prevedere. E questo qualcosa in più lo intuimmo immediatamente.
A proposito di questo aspetto emotivo e di questo distacco professionale, Un’ora sola ti vorrei è un film che è stato associato anche alla trauma theory: in generale il cinema personale ha questa capacità intrinseca di elaborare alcune parentesi di vita che sono rimaste aperte o irrisolte come nel caso della vita di Alina. Come si traducono queste tematiche così delicate in operazioni cinematografiche che necessitano un distacco dai materiali?
Allora, devo dire che il distacco dai materiali si conquista. I film che si realizzano a partire dai materiali d’archivio, in particolare dall’archivio familiare personale, equivalgono a un corpo vivo, sono corpo vivo. Maneggiare questi materiali significa tagliare, anzi incidere qualcosa di vitale che ancora agisce a livello emotivo nelle dinamiche familiari o perlomeno nella persona che sta decidendo di utilizzarli. Anche se ovviamente si attiva un processo di rielaborazione e di presa di distanza, è chiaro che durante l’intera fase del montaggio si deve tener conto della componente emotiva e vitale di quei materiali. Per queste ragioni è molto importante che si crei una sorta di triangolazione fra: il/la montatore/ice, il/la regista e il materiale. Quando si tratta di questo tipo di film, così personali, il materiale ha una sua voce in capitolo e bisogna avere la sensibilità, la cura, l’attenzione e la capacità di ascolto per coglierla. Nel momento in cui si decide di realizzare un film ci sono delle decisioni di montaggio che vanno comunque prese in nome di un’organizzazione drammaturgica della storia, per la quale è necessario, a volte, fare una sintesi eliminando alcuni passaggi che naturalmente corrispondono a momenti di vita vissuta. In particolare, questo è il racconto di una lunga storia familiare o meglio della storia di una persona all’interno di una “saga” familiare, come a volte l’abbiamo chiamata un po’ per scherzo, per cui era necessario cogliere dei passaggi chiave, di maggiore peso e particolarmente significativi nello svolgersi della narrazione. Bisognava anche fare attenzione allo sviluppo dell’arco del racconto dei singoli personaggi, perché se da un lato si trattava comunque di persone reali, dall’altro nel momento in cui si costruisce un film, diventavano parte integrante di un corpo filmico che ibrida finzione e realtà. Insomma, tutti gli elementi che compongono questo tipo di film restano comunque sempre in comunicazione con la realtà da cui provengono; è importante riuscire a mantenerli in dialogo con le dinamiche familiari che li riguardano. Con Alina abbiamo prestato molta attenzione anche a questo aspetto, montando il film, e abbiamo modificato alcuni passaggi proprio in funzione delle dinamiche che in quel momento erano ancora in corso all’interno della sua famiglia. I film che gli autori e le autrici realizzano a partire da sé stessi e dalla propria storia sono inevitabilmente terapeutici e in qualche modo si innesca, realizzandoli, un processo di superamento del trauma. Voglio dire, come ultima cosa, che Alina è stata bravissima in tutto questo processo; ho raccontato che durante la prima seduta di montaggio era emotivamente molto provata dalla visione dei materiali, ma, subito dopo quell'episodio, si è posizionata a una distanza sufficiente da poter lavorare così come una regista lavora con una montatrice a un film, senza mai allontanarsi eccessivamente da quella vitalità del materiale che era elemento fondante del progetto. Credo sinceramente di essere stata brava anch’io, in primo luogo, perché ho conservato quel distacco e quella lucidità di cui parlavo prima e in secondo luogo perché ho saputo insistere su mie idee quando era il caso; c’è stato ad esempio un primo momento in cui Alina si focalizzava più verso la storia di sua madre e invece ragionando insieme siamo riuscite a conservare anche tutta la prima parte del film legata alla storia del nonno e della nonna, al loro innamoramento, eccetera. In seguito, le ho fatto presente che era necessario anche avere dei testi mentre lei si stava orientando più su un film visivo e musicale. Ho insistito sull’inserimento dei testi e lei ha avuto l’idea di raccogliere le lettere e i diari di sua mamma. Diciamo che siamo riuscite entrambe a posizionarci nel giusto punto dei vertici del triangolo creativo, in questo modo abbiamo lavorato al meglio ottenendo un bellissimo film che, tutt’ora, ottiene unanimità di giudizio, anche a distanza di più di vent’anni.
Nella stessa intervista citata all’inizio, Alina fa riferimento alla scelta della sua voce per il voice over che accompagna il film, lasciando intendere che inizialmente fosse in programma un’altra voce. Come mai alla fine la scelta è ricaduta sulla sua e può, questa decisione, in un certo senso, essere legata a una chiave di lettura del film?
Sì, sì, decisamente. Ovviamente quando ci si cimenta con questo tipo di opere fuori formato e sperimentali, si inizia sempre alla ventura, non si parte mai come in un film tradizionale dalla sceneggiatura nella quale, se hai un voice over, è già inserito il testo molto prima di iniziare il montaggio. Nel nostro caso invece come dicevo, dopo una prima fase di costruzione delle immagini sulla musica, abbiamo deciso d’inserire del testo e per dare tempo a questa ricerca delle parole abbiamo sospeso il montaggio. Alina ha fatto le sue ricerche, ha trovato le lettere, i diari e, dopo una prima selezione, abbiamo ripreso a montare, cominciando a ragionare per capire in che modo i testi potessero adattarsi ai materiali che avevamo già iniziato a delineare. Alina ha deciso di incidere provvisoriamente lei stessa questa voce ed era la soluzione migliore, quella che spesso si utilizza anche per praticità. Per tanto tempo è rimasta l’idea che sarebbe stata sostituita, e quindi nel frattempo l’abbiamo fatta anche incidere da un’altra persona: in particolare avevamo scelto Sonia Gessner, un’amica di Luisa presente nel film, che è anche un’attrice. La sua è stata anche una bellissima interpretazione, ma nel frattempo ci siamo rese conto di come la voce di Alina fosse ormai diventata effettivamente una parte integrante del racconto proprio perché in quel caso la figlia avrebbe in parte incarnato la madre. E decidemmo di tenerla. Questa decisione entrava anche in conflitto con i due repertori sonori, gli unici due repertori sonori originali che abbiamo inserito e che riportano effettivamente la voce di Luisa. Possiamo sentirla all’inizio, quando lei sta cominciando a cantare la canzone Un’ora sola ti vorrei ma poi la registrazione s’interrompe, e poi anche in seguito quando parla al telefono con sua mamma dall’America. Quelli sono gli unici due repertori sonori in cui ascoltiamo la vera voce di Luisa e in linea teorica entrano in contrasto con il resto del testo sonoro che invece è interpretato da Alina come se fosse Luisa. In un film del genere, però, non ci sembrava che questo costituisse un problema. Era maggiore il vantaggio di avere questa sorta di doppio livello grazie al quale Alina riusciva a riappropriarsi della propria madre incarnandola. Tra l’altro, la voce di Alina è perfetta perché contiene proprio quel doppio posizionamento di cui parlavo prima: ha un tono caldo, emotivo, ma allo stesso tempo non concede troppo all’emozione. Questa voce risuona dalla linea di confine dove era giusto che lei si collocasse e la sua temperatura emotiva parla perfettamente agli spettatori, perciò l’abbiamo tenuta.
Restando sulla voice over, e sull’intonazione adottata da Alina – distesa e calma e forse anche affettuosa – questo ha influito sulla scansione del ritmo all’interno del film?
Sicuramente la voice over ha contribuito alla scansione del ritmo del film ed è comunque stata utilizzata seguendo il metodo usato anche per le immagini, cioè quello della risemantizzazione; infatti, alcune frasi sono state inserite più volte assumendo dei significati diversi. Lo stesso vale per gli altri contributi sonori. La canzoncina, ad esempio, inizialmente viene utilizzata in apertura insieme alla presentazione dei personaggi. Quando parla il papà che dice: «Martino stai buono – e te Alina che non ti piace mai niente da mangiare - adesso c’è la mamma - la mamma vi canterà una canzoncina…» eccetera. Ecco, questo materiale in questo contesto iniziale, di apertura, serve per dare un’immagine iniziale della famiglia. Verso il finale del film, quando viene riutilizzato, conosciamo già tutta la storia, sappiamo che la mamma è in una grave crisi depressiva e quindi, a quel punto, quello stesso repertorio sonoro assume un altro significato e un’altra contestualizzazione. Questo è quello che è avvenuto con i diversi repertori sonori. Il dialogo tra la voce narrante di Alina e questi altri contributi sonori, assume un particolare significato simbolico da una parte e dall’altra scandisce anche una ritmica. L’interpretazione di Alina si prestava anche ad aiutare la costruzione delle immagini proprio grazie al dialogo che si è costituito tra il testo parlato e il testo visivo, cosa che mi ha permesso la massima libertà di costruzione in fase di montaggio. È stato molto prezioso il fatto che lei si adattasse a volte al ritmo che c’era dentro una scena, e viceversa, qualche volta era invece la scansione ritmica della scena ad adattarsi alle sue parole. Tra l’altro, in questo via vai, abbiamo anche modificato la sceneggiatura perché naturalmente qualche volta abbiamo scoperto strada facendo che si potevano inserire parti di una lettera che ricordavamo, o una parte di diario che poteva stare bene con del materiale visivo, al fine di valorizzarlo. Viceversa, in altri casi, c’era qualcosa di irrinunciabile nel testo scritto e allora andavamo a cercare nelle immagini qualcosa di adatto. Faccio un esempio: il flashback di Teresa, la nonna di Alina, che prende Luisa sulle gambe e le dà i pasticcini quando era ancora piccola, è stato inserito in una parte di racconto in cui Luisa è già grande, si trova in America e ha nostalgia di sua mamma e dell’infanzia. Avevamo un bel girato di Luisa bambina sulle gambe della madre e non eravamo riuscite ad inserirlo quando abbiamo raccontato la sua infanzia, ma introducendo in seguito la sua lettera alla madre in cui scriveva: «mamma ho molta nostalgia di quand’ero bambina, mi piaceva quando mi mettevi sulle tue ginocchia…» siamo riuscite ad utilizzarlo. C’è stata una grande reciprocità fra materiali diversi ed elasticità nella costruzione di montaggio che ci ha permesso veramente di valorizzare al meglio tutto quanto.
Possiamo dire quindi che il film è come se fosse un mix tra passato, presente e futuro. Come avete costruito l’asse temporale del discorso? Sei partita prima dalle immagini, prima dal testo scritto o da altri elementi…
È stato un divenire. Come dicevo, quando lavori con un corpo vivo, puoi farti delle idee di massima però poi alla fine, se lo sai ascoltare, è il materiale a farti da guida. Noi abbiamo pensato innanzitutto di impostare il film, soprattutto nei primi minuti, in modo che fossero chiare le intenzioni dell’autrice, cercando di creare una sorta di “patto” con lo spettatore. Io insegno montaggio cinematografico alla scuola Gian Maria Volontè, a Roma, e a volte dico ai miei allievi che nella costruzione dei primi dieci/venti minuti di un film è importante definire una sorta di perimetro dentro al quale si promette allo spettatore di muoversi. In particolare, ciò è importante nei film fuori formato che non seguono una costruzione codificata o precostituita, ma che invece sono estremamente liberi e soggettivi. In questo modo lo spettatore dovrebbe riuscire a trovare dei canali di accesso al film affinché possa interpretarlo, goderne, e raccoglierne i vari stimoli. Tutto ciò si ottiene anche definendo con chiarezza le intenzioni: ad esempio con Alina abbiamo voluto far capire subito, tra le altre cose, che intendevamo trattare il racconto con libertà non seguendo solo il tempo lineare degli eventi. Per ottenere ciò, la prima cosa che abbiamo fatto è stata un’operazione di “falsificazione” con la lettera che Luisa scrive a sua figlia Alina, che in apertura, recita: «voglio raccontarti la mia storia ora che non ci sono più». Questo mette lo spettatore nella posizione di chi non si aspetta un racconto lineare bensì un racconto che, tanto per cominciare, parte da una impossibile rievocazione post mortem. In questo modo è ovvio per chi guarda che è stato svolto un lavoro di disallineamento del piano temporale. Successivamente i testi, dei diari hanno innalzato il film a un livello comunicativo ancora più alto. Non volevamo che parlasse solo la bellezza delle immagini, ma volevamo raccontare una storia vera con una drammaturgia alle spalle. Per procedere sin dall’inizio secondo una ipotetica linearità temporale corretta saremmo dovute partire dall’adolescenza di Luisa visto che i suoi diari, e cioè il nostro testo guida, partivano da quell’età, e chiudere dopo il compimento dei trentatré anni – l’età in cui è scomparsa, escludendo giocoforza tutte le immagini relative alle origini della sua famiglia. Ma non volevamo rinunciare al racconto che precede la nascita di Luisa e abbiamo studiato alcune strategie di costruzione per evitare che questo accadesse. Da un lato abbiamo usato la finta lettera che la madre scrive ad Alina e dall’altro abbiamo usato qualche passaggio dei diari successivi adattandoli alla storia dei nonni. Questa serie di operazioni ci ha consentito di raccontare la storia col “tono” del diario senza che la prima parte della voce narrante sia propriamente un diario. Dal momento in cui Luisa diventa adolescente abbiamo impostato il commento seguendo lo sviluppo del tempo in modo lineare e realistico: dalle lettere alla sua amica durante le vacanze, fino alla conoscenza di suo marito Antonio. Arrivate al terzo atto, quello della malattia di Luisa, ci siamo misurate con un ulteriore utilizzo del tempo del racconto attraverso l’inserimento di alcuni flashback - sia visivi che testuali che raccontano il riemergere dei fantasmi del suo passato e che costituiscono l’ossatura dell’intervento terapeutico che la riguarda.
Legandoci a quest’ultima cosa: ci sono dei momenti nel film in cui vengono ripetute delle immagini, come un primo piano di Luisa che viene alterato ad un certo punto dalla figura del ralenti. Elementi come il ralenti, il fermo immagine o la ripetizione di quest’ultime, volevano a tal proposito enfatizzare quelle sequenze o sono legate ad una questione di ritmo?
Questa scelta è stata fatta con una finalità di costruzione sia drammaturgica che emotiva. In particolare, quel primo piano di Luisa è stato rallentato e gli sono state alternate alcune immagini a cui noi attribuivamo un significato particolare. Aveva uno sguardo particolarmente intenso e ci è sembrato di poter rappresentare un momento di riflessione di Luisa che dialoga con sé stessa in diverse fasi importanti della sua vita. Con questo montaggio alternato volevamo sintetizzare i suoi momenti di felicità e anche quelli di grande angoscia. Ovviamente nella costruzione del montaggio alternato ho cercato di incrociare lo sguardo di lei con un ideale controcampo di se stessa, cioè con sue immagini contenenti uno sguardo in direzione opposta per creare un link visivo più morbido. Nella seconda ripetizione abbiamo sottolineato il progresso di questa vita che diventava sempre più inquieta e malata. Quando questo primo piano compare per l’ultima volta, si blocca e si passa dal ralenti al freeze finale che per noi è stato un punto di arrivo. Abbiamo ripetuto più volte anche altre immagini secondo noi particolarmente significative come, ad esempio, l’eclissi solare o i piedini che battono che danno ritmo, ma trasmettono anche nervosismo. Lo stesso vale per la ripresa di un suo salto, che viene usato in maniera particolarmente evocativa. I materiali ripetuti sono stati tutti utilizzati o con lo scopo di evidenziare o di drammatizzare momenti chiave della vita di Luisa. Così come abbiamo lavorato sul tempo, abbiamo operato dunque anche sulle immagini, cercando di evocare qualcosa, oltre a testimoniare e raccontare la vita di una persona.
Per quanto riguarda i formati - essendo il film composto da un archivio abbastanza ampio - come avete lavorato a livello di selezione e a livello di restauro sulle immagini? Avete seguito qualche criterio specifico?
Il materiale è stato conservato perfettamente. Tutto sommato, escluso il lavoro di post-produzione, non c’è stato un vero e proprio intervento di restauro. In una fase iniziale del montaggio del film abbiamo avuto la possibilità di collaborare con la Sacher Film di Nanni Moretti e Angelo Barbagallo; questo ci ha permesso di lavorare con il TeleCinema – una macchina che ha trasferito le immagini da pellicola a nastro magnetico digitale, a partire dalle selezioni fatte precedentemente da Alina. Quelli utilizzati sono materiali che vanno dal 1921 fino al 1973, un arco lunghissimo di tempo e sono stati ripresi tutti in pellicola nei diversi formati a seconda del periodo: l’8 mm, il Super 8, il 9,5 mm e il 16 mm, quindi costituiscono una piccola esposizione della tecnologia di ripresa amatoriale di quegli anni che abbiamo voluto restituire in modo completo. Inoltre, c’è da sottolineare l’influenza cinematografica subita dal nonno di Alina, il quale evidentemente assorbiva le modalità espressive dei film che vedeva il cinema del suo tempo e cercava di riprodurle nelle sue riprese. Noi abbiamo sempre cercato di assecondare questa qualità estetica-formale contenuta nei suoi materiali così attentamente e meticolosamente studiati.
In generale la fase di montaggio di un film ha sempre questo aspetto “magico” per cui riesce a dare vita a un qualcosa che ancora non esiste, e suppongo che faccia anche parte della bellezza e del fascino di questo mestiere. Riuscivi già ad immaginare la visione di quello che sarebbe stato il film nel suo complesso oppure c’è stata qualche suggestione che è arrivata anche dopo la fine dei lavori?
Lo svolgimento del montaggio di Un’ora sola ti vorrei è stato un processo molto naturale. Il film ha preso la sua forma abbastanza rapidamente. Come sempre per ciò che riguarda il cinema sperimentale, ci sono stati dei momenti di pausa, di confronto su varie questioni che hanno anche allungato i tempi. In ogni modo abbiamo capito molto rapidamente come procedere, abbiamo individuato un obiettivo da raggiungere e abbiamo fatto di tutto per raggiungerlo, come in una dimensione di sogno, come se tutto fosse già stabilito. D’altronde un film che si intitola Un’ora sola ti vorrei, e che alla fine con naturalezza e senza darsi limiti nel montaggio viene a durare complessivamente un’ora!…è quasi una predestinazione! no scherzo… il film ha una forma naturale che abbiamo conquistato con il lavoro e l’attenzione necessaria. Con le debite differenze, è stato un po’ come sosteneva Michelangelo quando diceva che le sue statue erano già contenute all’interno dei blocchi di marmo: il mio compito, diceva, è solo quello di togliere le parti che non c’entrano. Questo per dire che il film, questo film in particolare, forse già esisteva all’interno dei materiali girati dal nonno e noi abbiamo avuto solo il compito di scovarlo. Devo anche ripetere, a margine, che la naturale affinità tra me e Alina, la condivisione profonda delle intenzioni, pur in una sempre viva dialettica, ha costituito il cuore di questa opera e ha reso tutto emozionante e al tempo stesso semplice.
Un’ora sola ti vorrei non è l’unico progetto che hai condiviso con Alina. Quanto influisce al fine del montaggio un rapporto che perdura nel tempo con un determinato regista?
Un’ora sola ti vorrei è stato per entrambe un film fondamentale. Ed io, in seguito, ho sempre cercato di tornare a lavorare in quel modo sia per quanto riguarda l’attenzione nel lavoro di selezione del materiale, sia per ciò che riguarda lo spirito e l’intensità con la quale si affronta il delicatissimo momento della costruzione di montaggio e sia per quanto concerne la costruzione della relazione con gli “attori” del progetto. Con Alina posso dire di avere avuto un rapporto professionale davvero molto felice: c’è stato qualcosa che ci ha unite ed è stato predominante. Da un punto di vista espressivo, mi sono sempre sentita estremamente libera con lei, e soprattutto certa di perseguire un obiettivo comune anche quando ho provato delle strade da sola. Questo fattore è stato molto rassicurante. La mia tensione professionale successivamente è sempre stata diretta verso quel modello e credo che anche per Alina sia stato così. È un bellissimo modo di lavorare perché coniuga una dimensione professionale – corretta e dialettica - con un sentire comune, un analogo desiderio estetico.
È più facile montare un film di finzione o un documentario?
Il documentario è sempre più difficile da montare, in assoluto e per ovvie ragioni: per mancanza di sceneggiatura - al massimo c’è un trattamento - e per le tantissime possibilità combinatorie da provare al montaggio, per cui si finisce sempre per riscrivere e rimodulare il racconto potenzialmente all’infinito, ed è infatti anche molto difficile dare uno stop. Però devo dire che, pur nella grande difficoltà, io lo trovo paradossalmente più leggero e facile da montare, forse perché sento più nelle mie corde questo tipo cinema, che definirei “di realtà”; lo trovo in generale, almeno in Italia, molto più inserito nel flusso artistico-espressivo contemporaneo rispetto al cinema di finzione ed è per me di maggiore stimolo.
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25.01.2024
Diplomatasi nel 1990 al Centro Sperimentale di Roma, Ilaria Fraioli risulta essere una delle figure più interessanti del montaggio cinematografico italiano. Con Un’ora sola ti vorrei (20002), pluripremiata e struggente “cronanca familiare”, inaugura un felice sodalizio con la regista Alina Marazzi, per cui monterà anche i bellissimi Per sempre (2005), Vogliamo anche le rose (2007), Tutto parla di te (2013) e Anna Piaggi (2016).
Al di fuori del legame con il cinema della regista milanese, Ilaria collabora, tra gli altri, con Giovanni Piperno (This Is My Sister, 2006), Valentina Monti (Girls on the Air, 2009, e Circle, 2015), Anna Negri (Riprendimi, 2008), Federico Bondi (Mar Nero, 2009), Francesca Comenicini (Amori che non sanno stare al mondo, 2017) e Ivan Cortaneo (Un bacio, 2016, e Quattordici giorni, 2022). Ultimamente ha lavorato a Mur (2023), documentario di denuncia proiettato negli scorsi mesi in occasione della Festa del Cinema di Roma che ha sancito l’esordio alla regia di Kasia Smutniak, e Le proprietà dei metalli (2023), lungometraggio di Antonio Bigini presentato nella sezione Generation alla 73esima edizione del Festival di Berlino.
Nel corso di quest'intervista, ci siamo focalizzati su Un'ora sola ti vorrei (2002), domandando ad Ilaria del suo processo di lavoro, della sua collaborazione con Alina Marazzi e della ricerca svolta sui filmati d'archivio che compongono l'opera.
Nell’intervista realizzata all’intero del libro L’invenzione del reale - conversazioni su un altro cinema a cura di Dario Zonta, la regista Alina Marazzi parla del montaggio di Un’ora sola ti vorrei (2002) descrivendolo come una seconda fase di scrittura del film. A partire da questa risposta vorrei chiederti qual è stato l’obiettivo che ti sei posta una volta presa visione di quei materiali, e se c’è stato un processo creativo da cui è partito tutto.
Innanzitutto, mi preme dire che il materiale del film Un’ora sola ti vorrei è un archivio familiare molto particolare non soltanto perché ritrae una persona venuta a mancare prematuramente nella storia della famiglia, ma anche perché in effetti ha un carattere molto professionale. Il nonno di Alina aveva girato questi home movies per gioco, ma in maniera estremamente rigorosa. La prima volta che abbiamo visionato insieme questi materiali, in lei fu prevalente l’emotività. Per la verità anche io mi emozionai moltissimo, conservando tuttavia, un po’ forse per deformazione professionale, il distacco necessario a rendermi conto della qualità estremamente alta del materiale. Alina, inizialmente propose di realizzare una selezione, un piccolo montaggio da mostrare a suo fratello e suo padre per conservare la memoria di sua mamma Luisa, ma io le dissi subito che il materiale era talmente bello, intenso e girato perfettamente che non raccontava solo la storia della sua famiglia, ma anche una prospettiva della storia dell’Italia di quegli anni e qualcosa di più universale che poteva sicuramente essere materia di un film. E così, da subito, decidemmo di farlo. Quella prima visione è stata quindi particolarmente forte e anche decisiva perché si manifestò l’evidenza di una materia dall’orizzonte molto più ampio di quanto si potesse prevedere. E questo qualcosa in più lo intuimmo immediatamente.
A proposito di questo aspetto emotivo e di questo distacco professionale, Un’ora sola ti vorrei è un film che è stato associato anche alla trauma theory: in generale il cinema personale ha questa capacità intrinseca di elaborare alcune parentesi di vita che sono rimaste aperte o irrisolte come nel caso della vita di Alina. Come si traducono queste tematiche così delicate in operazioni cinematografiche che necessitano un distacco dai materiali?
Allora, devo dire che il distacco dai materiali si conquista. I film che si realizzano a partire dai materiali d’archivio, in particolare dall’archivio familiare personale, equivalgono a un corpo vivo, sono corpo vivo. Maneggiare questi materiali significa tagliare, anzi incidere qualcosa di vitale che ancora agisce a livello emotivo nelle dinamiche familiari o perlomeno nella persona che sta decidendo di utilizzarli. Anche se ovviamente si attiva un processo di rielaborazione e di presa di distanza, è chiaro che durante l’intera fase del montaggio si deve tener conto della componente emotiva e vitale di quei materiali. Per queste ragioni è molto importante che si crei una sorta di triangolazione fra: il/la montatore/ice, il/la regista e il materiale. Quando si tratta di questo tipo di film, così personali, il materiale ha una sua voce in capitolo e bisogna avere la sensibilità, la cura, l’attenzione e la capacità di ascolto per coglierla. Nel momento in cui si decide di realizzare un film ci sono delle decisioni di montaggio che vanno comunque prese in nome di un’organizzazione drammaturgica della storia, per la quale è necessario, a volte, fare una sintesi eliminando alcuni passaggi che naturalmente corrispondono a momenti di vita vissuta. In particolare, questo è il racconto di una lunga storia familiare o meglio della storia di una persona all’interno di una “saga” familiare, come a volte l’abbiamo chiamata un po’ per scherzo, per cui era necessario cogliere dei passaggi chiave, di maggiore peso e particolarmente significativi nello svolgersi della narrazione. Bisognava anche fare attenzione allo sviluppo dell’arco del racconto dei singoli personaggi, perché se da un lato si trattava comunque di persone reali, dall’altro nel momento in cui si costruisce un film, diventavano parte integrante di un corpo filmico che ibrida finzione e realtà. Insomma, tutti gli elementi che compongono questo tipo di film restano comunque sempre in comunicazione con la realtà da cui provengono; è importante riuscire a mantenerli in dialogo con le dinamiche familiari che li riguardano. Con Alina abbiamo prestato molta attenzione anche a questo aspetto, montando il film, e abbiamo modificato alcuni passaggi proprio in funzione delle dinamiche che in quel momento erano ancora in corso all’interno della sua famiglia. I film che gli autori e le autrici realizzano a partire da sé stessi e dalla propria storia sono inevitabilmente terapeutici e in qualche modo si innesca, realizzandoli, un processo di superamento del trauma. Voglio dire, come ultima cosa, che Alina è stata bravissima in tutto questo processo; ho raccontato che durante la prima seduta di montaggio era emotivamente molto provata dalla visione dei materiali, ma, subito dopo quell'episodio, si è posizionata a una distanza sufficiente da poter lavorare così come una regista lavora con una montatrice a un film, senza mai allontanarsi eccessivamente da quella vitalità del materiale che era elemento fondante del progetto. Credo sinceramente di essere stata brava anch’io, in primo luogo, perché ho conservato quel distacco e quella lucidità di cui parlavo prima e in secondo luogo perché ho saputo insistere su mie idee quando era il caso; c’è stato ad esempio un primo momento in cui Alina si focalizzava più verso la storia di sua madre e invece ragionando insieme siamo riuscite a conservare anche tutta la prima parte del film legata alla storia del nonno e della nonna, al loro innamoramento, eccetera. In seguito, le ho fatto presente che era necessario anche avere dei testi mentre lei si stava orientando più su un film visivo e musicale. Ho insistito sull’inserimento dei testi e lei ha avuto l’idea di raccogliere le lettere e i diari di sua mamma. Diciamo che siamo riuscite entrambe a posizionarci nel giusto punto dei vertici del triangolo creativo, in questo modo abbiamo lavorato al meglio ottenendo un bellissimo film che, tutt’ora, ottiene unanimità di giudizio, anche a distanza di più di vent’anni.
Nella stessa intervista citata all’inizio, Alina fa riferimento alla scelta della sua voce per il voice over che accompagna il film, lasciando intendere che inizialmente fosse in programma un’altra voce. Come mai alla fine la scelta è ricaduta sulla sua e può, questa decisione, in un certo senso, essere legata a una chiave di lettura del film?
Sì, sì, decisamente. Ovviamente quando ci si cimenta con questo tipo di opere fuori formato e sperimentali, si inizia sempre alla ventura, non si parte mai come in un film tradizionale dalla sceneggiatura nella quale, se hai un voice over, è già inserito il testo molto prima di iniziare il montaggio. Nel nostro caso invece come dicevo, dopo una prima fase di costruzione delle immagini sulla musica, abbiamo deciso d’inserire del testo e per dare tempo a questa ricerca delle parole abbiamo sospeso il montaggio. Alina ha fatto le sue ricerche, ha trovato le lettere, i diari e, dopo una prima selezione, abbiamo ripreso a montare, cominciando a ragionare per capire in che modo i testi potessero adattarsi ai materiali che avevamo già iniziato a delineare. Alina ha deciso di incidere provvisoriamente lei stessa questa voce ed era la soluzione migliore, quella che spesso si utilizza anche per praticità. Per tanto tempo è rimasta l’idea che sarebbe stata sostituita, e quindi nel frattempo l’abbiamo fatta anche incidere da un’altra persona: in particolare avevamo scelto Sonia Gessner, un’amica di Luisa presente nel film, che è anche un’attrice. La sua è stata anche una bellissima interpretazione, ma nel frattempo ci siamo rese conto di come la voce di Alina fosse ormai diventata effettivamente una parte integrante del racconto proprio perché in quel caso la figlia avrebbe in parte incarnato la madre. E decidemmo di tenerla. Questa decisione entrava anche in conflitto con i due repertori sonori, gli unici due repertori sonori originali che abbiamo inserito e che riportano effettivamente la voce di Luisa. Possiamo sentirla all’inizio, quando lei sta cominciando a cantare la canzone Un’ora sola ti vorrei ma poi la registrazione s’interrompe, e poi anche in seguito quando parla al telefono con sua mamma dall’America. Quelli sono gli unici due repertori sonori in cui ascoltiamo la vera voce di Luisa e in linea teorica entrano in contrasto con il resto del testo sonoro che invece è interpretato da Alina come se fosse Luisa. In un film del genere, però, non ci sembrava che questo costituisse un problema. Era maggiore il vantaggio di avere questa sorta di doppio livello grazie al quale Alina riusciva a riappropriarsi della propria madre incarnandola. Tra l’altro, la voce di Alina è perfetta perché contiene proprio quel doppio posizionamento di cui parlavo prima: ha un tono caldo, emotivo, ma allo stesso tempo non concede troppo all’emozione. Questa voce risuona dalla linea di confine dove era giusto che lei si collocasse e la sua temperatura emotiva parla perfettamente agli spettatori, perciò l’abbiamo tenuta.
Restando sulla voice over, e sull’intonazione adottata da Alina – distesa e calma e forse anche affettuosa – questo ha influito sulla scansione del ritmo all’interno del film?
Sicuramente la voice over ha contribuito alla scansione del ritmo del film ed è comunque stata utilizzata seguendo il metodo usato anche per le immagini, cioè quello della risemantizzazione; infatti, alcune frasi sono state inserite più volte assumendo dei significati diversi. Lo stesso vale per gli altri contributi sonori. La canzoncina, ad esempio, inizialmente viene utilizzata in apertura insieme alla presentazione dei personaggi. Quando parla il papà che dice: «Martino stai buono – e te Alina che non ti piace mai niente da mangiare - adesso c’è la mamma - la mamma vi canterà una canzoncina…» eccetera. Ecco, questo materiale in questo contesto iniziale, di apertura, serve per dare un’immagine iniziale della famiglia. Verso il finale del film, quando viene riutilizzato, conosciamo già tutta la storia, sappiamo che la mamma è in una grave crisi depressiva e quindi, a quel punto, quello stesso repertorio sonoro assume un altro significato e un’altra contestualizzazione. Questo è quello che è avvenuto con i diversi repertori sonori. Il dialogo tra la voce narrante di Alina e questi altri contributi sonori, assume un particolare significato simbolico da una parte e dall’altra scandisce anche una ritmica. L’interpretazione di Alina si prestava anche ad aiutare la costruzione delle immagini proprio grazie al dialogo che si è costituito tra il testo parlato e il testo visivo, cosa che mi ha permesso la massima libertà di costruzione in fase di montaggio. È stato molto prezioso il fatto che lei si adattasse a volte al ritmo che c’era dentro una scena, e viceversa, qualche volta era invece la scansione ritmica della scena ad adattarsi alle sue parole. Tra l’altro, in questo via vai, abbiamo anche modificato la sceneggiatura perché naturalmente qualche volta abbiamo scoperto strada facendo che si potevano inserire parti di una lettera che ricordavamo, o una parte di diario che poteva stare bene con del materiale visivo, al fine di valorizzarlo. Viceversa, in altri casi, c’era qualcosa di irrinunciabile nel testo scritto e allora andavamo a cercare nelle immagini qualcosa di adatto. Faccio un esempio: il flashback di Teresa, la nonna di Alina, che prende Luisa sulle gambe e le dà i pasticcini quando era ancora piccola, è stato inserito in una parte di racconto in cui Luisa è già grande, si trova in America e ha nostalgia di sua mamma e dell’infanzia. Avevamo un bel girato di Luisa bambina sulle gambe della madre e non eravamo riuscite ad inserirlo quando abbiamo raccontato la sua infanzia, ma introducendo in seguito la sua lettera alla madre in cui scriveva: «mamma ho molta nostalgia di quand’ero bambina, mi piaceva quando mi mettevi sulle tue ginocchia…» siamo riuscite ad utilizzarlo. C’è stata una grande reciprocità fra materiali diversi ed elasticità nella costruzione di montaggio che ci ha permesso veramente di valorizzare al meglio tutto quanto.
Possiamo dire quindi che il film è come se fosse un mix tra passato, presente e futuro. Come avete costruito l’asse temporale del discorso? Sei partita prima dalle immagini, prima dal testo scritto o da altri elementi…
È stato un divenire. Come dicevo, quando lavori con un corpo vivo, puoi farti delle idee di massima però poi alla fine, se lo sai ascoltare, è il materiale a farti da guida. Noi abbiamo pensato innanzitutto di impostare il film, soprattutto nei primi minuti, in modo che fossero chiare le intenzioni dell’autrice, cercando di creare una sorta di “patto” con lo spettatore. Io insegno montaggio cinematografico alla scuola Gian Maria Volontè, a Roma, e a volte dico ai miei allievi che nella costruzione dei primi dieci/venti minuti di un film è importante definire una sorta di perimetro dentro al quale si promette allo spettatore di muoversi. In particolare, ciò è importante nei film fuori formato che non seguono una costruzione codificata o precostituita, ma che invece sono estremamente liberi e soggettivi. In questo modo lo spettatore dovrebbe riuscire a trovare dei canali di accesso al film affinché possa interpretarlo, goderne, e raccoglierne i vari stimoli. Tutto ciò si ottiene anche definendo con chiarezza le intenzioni: ad esempio con Alina abbiamo voluto far capire subito, tra le altre cose, che intendevamo trattare il racconto con libertà non seguendo solo il tempo lineare degli eventi. Per ottenere ciò, la prima cosa che abbiamo fatto è stata un’operazione di “falsificazione” con la lettera che Luisa scrive a sua figlia Alina, che in apertura, recita: «voglio raccontarti la mia storia ora che non ci sono più». Questo mette lo spettatore nella posizione di chi non si aspetta un racconto lineare bensì un racconto che, tanto per cominciare, parte da una impossibile rievocazione post mortem. In questo modo è ovvio per chi guarda che è stato svolto un lavoro di disallineamento del piano temporale. Successivamente i testi, dei diari hanno innalzato il film a un livello comunicativo ancora più alto. Non volevamo che parlasse solo la bellezza delle immagini, ma volevamo raccontare una storia vera con una drammaturgia alle spalle. Per procedere sin dall’inizio secondo una ipotetica linearità temporale corretta saremmo dovute partire dall’adolescenza di Luisa visto che i suoi diari, e cioè il nostro testo guida, partivano da quell’età, e chiudere dopo il compimento dei trentatré anni – l’età in cui è scomparsa, escludendo giocoforza tutte le immagini relative alle origini della sua famiglia. Ma non volevamo rinunciare al racconto che precede la nascita di Luisa e abbiamo studiato alcune strategie di costruzione per evitare che questo accadesse. Da un lato abbiamo usato la finta lettera che la madre scrive ad Alina e dall’altro abbiamo usato qualche passaggio dei diari successivi adattandoli alla storia dei nonni. Questa serie di operazioni ci ha consentito di raccontare la storia col “tono” del diario senza che la prima parte della voce narrante sia propriamente un diario. Dal momento in cui Luisa diventa adolescente abbiamo impostato il commento seguendo lo sviluppo del tempo in modo lineare e realistico: dalle lettere alla sua amica durante le vacanze, fino alla conoscenza di suo marito Antonio. Arrivate al terzo atto, quello della malattia di Luisa, ci siamo misurate con un ulteriore utilizzo del tempo del racconto attraverso l’inserimento di alcuni flashback - sia visivi che testuali che raccontano il riemergere dei fantasmi del suo passato e che costituiscono l’ossatura dell’intervento terapeutico che la riguarda.
Legandoci a quest’ultima cosa: ci sono dei momenti nel film in cui vengono ripetute delle immagini, come un primo piano di Luisa che viene alterato ad un certo punto dalla figura del ralenti. Elementi come il ralenti, il fermo immagine o la ripetizione di quest’ultime, volevano a tal proposito enfatizzare quelle sequenze o sono legate ad una questione di ritmo?
Questa scelta è stata fatta con una finalità di costruzione sia drammaturgica che emotiva. In particolare, quel primo piano di Luisa è stato rallentato e gli sono state alternate alcune immagini a cui noi attribuivamo un significato particolare. Aveva uno sguardo particolarmente intenso e ci è sembrato di poter rappresentare un momento di riflessione di Luisa che dialoga con sé stessa in diverse fasi importanti della sua vita. Con questo montaggio alternato volevamo sintetizzare i suoi momenti di felicità e anche quelli di grande angoscia. Ovviamente nella costruzione del montaggio alternato ho cercato di incrociare lo sguardo di lei con un ideale controcampo di se stessa, cioè con sue immagini contenenti uno sguardo in direzione opposta per creare un link visivo più morbido. Nella seconda ripetizione abbiamo sottolineato il progresso di questa vita che diventava sempre più inquieta e malata. Quando questo primo piano compare per l’ultima volta, si blocca e si passa dal ralenti al freeze finale che per noi è stato un punto di arrivo. Abbiamo ripetuto più volte anche altre immagini secondo noi particolarmente significative come, ad esempio, l’eclissi solare o i piedini che battono che danno ritmo, ma trasmettono anche nervosismo. Lo stesso vale per la ripresa di un suo salto, che viene usato in maniera particolarmente evocativa. I materiali ripetuti sono stati tutti utilizzati o con lo scopo di evidenziare o di drammatizzare momenti chiave della vita di Luisa. Così come abbiamo lavorato sul tempo, abbiamo operato dunque anche sulle immagini, cercando di evocare qualcosa, oltre a testimoniare e raccontare la vita di una persona.
Per quanto riguarda i formati - essendo il film composto da un archivio abbastanza ampio - come avete lavorato a livello di selezione e a livello di restauro sulle immagini? Avete seguito qualche criterio specifico?
Il materiale è stato conservato perfettamente. Tutto sommato, escluso il lavoro di post-produzione, non c’è stato un vero e proprio intervento di restauro. In una fase iniziale del montaggio del film abbiamo avuto la possibilità di collaborare con la Sacher Film di Nanni Moretti e Angelo Barbagallo; questo ci ha permesso di lavorare con il TeleCinema – una macchina che ha trasferito le immagini da pellicola a nastro magnetico digitale, a partire dalle selezioni fatte precedentemente da Alina. Quelli utilizzati sono materiali che vanno dal 1921 fino al 1973, un arco lunghissimo di tempo e sono stati ripresi tutti in pellicola nei diversi formati a seconda del periodo: l’8 mm, il Super 8, il 9,5 mm e il 16 mm, quindi costituiscono una piccola esposizione della tecnologia di ripresa amatoriale di quegli anni che abbiamo voluto restituire in modo completo. Inoltre, c’è da sottolineare l’influenza cinematografica subita dal nonno di Alina, il quale evidentemente assorbiva le modalità espressive dei film che vedeva il cinema del suo tempo e cercava di riprodurle nelle sue riprese. Noi abbiamo sempre cercato di assecondare questa qualità estetica-formale contenuta nei suoi materiali così attentamente e meticolosamente studiati.
In generale la fase di montaggio di un film ha sempre questo aspetto “magico” per cui riesce a dare vita a un qualcosa che ancora non esiste, e suppongo che faccia anche parte della bellezza e del fascino di questo mestiere. Riuscivi già ad immaginare la visione di quello che sarebbe stato il film nel suo complesso oppure c’è stata qualche suggestione che è arrivata anche dopo la fine dei lavori?
Lo svolgimento del montaggio di Un’ora sola ti vorrei è stato un processo molto naturale. Il film ha preso la sua forma abbastanza rapidamente. Come sempre per ciò che riguarda il cinema sperimentale, ci sono stati dei momenti di pausa, di confronto su varie questioni che hanno anche allungato i tempi. In ogni modo abbiamo capito molto rapidamente come procedere, abbiamo individuato un obiettivo da raggiungere e abbiamo fatto di tutto per raggiungerlo, come in una dimensione di sogno, come se tutto fosse già stabilito. D’altronde un film che si intitola Un’ora sola ti vorrei, e che alla fine con naturalezza e senza darsi limiti nel montaggio viene a durare complessivamente un’ora!…è quasi una predestinazione! no scherzo… il film ha una forma naturale che abbiamo conquistato con il lavoro e l’attenzione necessaria. Con le debite differenze, è stato un po’ come sosteneva Michelangelo quando diceva che le sue statue erano già contenute all’interno dei blocchi di marmo: il mio compito, diceva, è solo quello di togliere le parti che non c’entrano. Questo per dire che il film, questo film in particolare, forse già esisteva all’interno dei materiali girati dal nonno e noi abbiamo avuto solo il compito di scovarlo. Devo anche ripetere, a margine, che la naturale affinità tra me e Alina, la condivisione profonda delle intenzioni, pur in una sempre viva dialettica, ha costituito il cuore di questa opera e ha reso tutto emozionante e al tempo stesso semplice.
Un’ora sola ti vorrei non è l’unico progetto che hai condiviso con Alina. Quanto influisce al fine del montaggio un rapporto che perdura nel tempo con un determinato regista?
Un’ora sola ti vorrei è stato per entrambe un film fondamentale. Ed io, in seguito, ho sempre cercato di tornare a lavorare in quel modo sia per quanto riguarda l’attenzione nel lavoro di selezione del materiale, sia per ciò che riguarda lo spirito e l’intensità con la quale si affronta il delicatissimo momento della costruzione di montaggio e sia per quanto concerne la costruzione della relazione con gli “attori” del progetto. Con Alina posso dire di avere avuto un rapporto professionale davvero molto felice: c’è stato qualcosa che ci ha unite ed è stato predominante. Da un punto di vista espressivo, mi sono sempre sentita estremamente libera con lei, e soprattutto certa di perseguire un obiettivo comune anche quando ho provato delle strade da sola. Questo fattore è stato molto rassicurante. La mia tensione professionale successivamente è sempre stata diretta verso quel modello e credo che anche per Alina sia stato così. È un bellissimo modo di lavorare perché coniuga una dimensione professionale – corretta e dialettica - con un sentire comune, un analogo desiderio estetico.
È più facile montare un film di finzione o un documentario?
Il documentario è sempre più difficile da montare, in assoluto e per ovvie ragioni: per mancanza di sceneggiatura - al massimo c’è un trattamento - e per le tantissime possibilità combinatorie da provare al montaggio, per cui si finisce sempre per riscrivere e rimodulare il racconto potenzialmente all’infinito, ed è infatti anche molto difficile dare uno stop. Però devo dire che, pur nella grande difficoltà, io lo trovo paradossalmente più leggero e facile da montare, forse perché sento più nelle mie corde questo tipo cinema, che definirei “di realtà”; lo trovo in generale, almeno in Italia, molto più inserito nel flusso artistico-espressivo contemporaneo rispetto al cinema di finzione ed è per me di maggiore stimolo.