Saper consigliare un film:
istruzione per l'uso,
di Eduardo Bigazzi
TR-106
29.07.2024
Four favorites with… qualsiasi cinefilo in possesso di un social network si sarà molto probabilmente imbattuto in un video con questa didascalia, e la riconoscerà senza ombra di dubbi come appartenente a Letterboxd - sì, quel social di catalogazione film ormai amato da tutti, nato nel 2011 e mai considerato dal grande pubblico fino all’avvento del Covid. Ma cosa c’entrano i Four favorites di Letterboxd con l’argomento di questo articolo? Spoiler: c’entrano tutto.
Four favorites, per chi non lo sapesse, è un format della sopracitata piattaforma in cui un reporter chiede ad una star del cinema quali siano i suoi quattro film preferiti. Fine. Semplice ed efficace.
Eppure quei 60 secondi di reel, l’ormai iconico microfono colorato e nessun’altra domanda rendono i four favorites non solo un trend amatissimo dal pubblico (e dalle stesse star!), ma anche uno dei veicoli principali attraverso cui passa l’odierna critica cinematografica. Perché, in fondo, il compito della critica non è quello di stabilire se un film sia bello o brutto. Non più, ormai. No, il suo compito ultimo è quello di saper consigliare un film.
E che ci sarà mai di tanto complicato nel consigliare un film? Qualcuno potrebbe obiettare. Ebbene, con 130 anni di storia alle spalle, una produzione cinematografica distribuita sull’intero globo e una cifra che viaggia tra i 500.000 e il milione di titoli disponibili, effettivamente non è così facile consigliare un film.
Pensateci. Quante volte vi è capitato di chiedere, o di sentirvi chiedere: “Mi consigli un film?” Ovvero, una delle peggiori domande esistenti. Innanzitutto implica che consigliare un film sia un compito facile, talmente facile da poter rispondere a bruciapelo senza battere ciglio e riflettere un minimo. Certo, a volte si risponde di getto con l’ultimo film visto reputato carino, decente o perlomeno passabile, ma se si scava un po’ più a fondo nella conversazione bisogna incominciare ad affidarsi alla memoria, alle proprie liste sui vari IMDb e Letterboxd di turno o, più semplicemente, ai propri soliti film preferiti. Ma è qui che iniziano i problemi.
Ovviamente questa domanda non fa distinzione sul tipo di film da consigliare (già, perché oltre al gran numero di film esistenti c’è anche da considerare che ognuno di loro è diverso, con un minutaggio diverso, una storia diversa, un genere diverso...) e ignora le distinzioni di gusto personale - ad esempio, io adoro La La Land (2016) ma non lo consiglio a destra e manca perché so che a qualcuno potrebbe non piacere, ho amici e amiche che, ahimé, non sono nemmeno riusciti a finirlo! - e questo significa che tutte le risposte date saranno inevitabilmente poco mirate e probabilmente inadatte. Infine, a qualsiasi suggerimento si dia, ad un certo punto seguirà il classico: “Eh, ma l’ho già visto”, che si traduce con: “Piantala e vai oltre, anche se stai cercando di aiutarmi”. Semplicemente insopportabile.
Quindi: sì, consigliare un film non è per niente facile. E se non lo è per noi, nelle nostre chiacchiere da bar assieme agli amici, come può esserlo per un professionista, critico o redattore qualsiasi? Certo, agli albori del cinema il compito era decisamente molto, ma molto più facile. I film a disposizione erano cortometraggi senza alcun tipo di storia strutturata, attori o alcunché. E pertanto non c’erano critiche, recensioni o consigli. C’era un gruppo di persone che usciva da una fabbrica - sì, mi riferisco a La Sortie de l'usine Lumière à Lyon (L’uscita dalle officine Lumière, 1895), ovviamente - e qualcuno che li riprendeva. Non molto da dire, no?
Quindi quando i fratelli Lumière proiettarono le loro prime immagini in movimento, e il cinema faceva i suoi primi, timidi passi, la critica era essenzialmente un gruppo di giornalisti e intellettuali che cercavano di dare un senso e un contesto culturale ad una tecnologia fino a quel momento inesistente. I primi commenti sui film erano spesso più simili a resoconti o descrizioni delle proiezioni piuttosto che analisi critiche approfondite.
Ma con l’avanzare del tempo anche la tecnologia è avanzata, e quelli che all’inizio erano semplici cortometraggi si trasformarono prima in medio e quindi in lungometraggi, e con l’aumentare del minutaggio arrivò, di conseguenza, anche una complessità narrativa maggiore, un impegno produttivo più cospicuo, prove attoriali più impegnate e, ovviamente, analisi critiche sempre più complesse. Da semplice artificio tecnico il cinema si trasformava in un’arte. La settima arte, per la precisione.
Così, ad un certo punto divenne necessario informare il pubblico non più su cosa fosse un film, ma cosa guardare, perché e come. Ed essendo il mondo di cento anni fa certamente meno connesso e globalizzato come quello odierno, era sicuramente più difficile ottenere pareri su un tale film. Ergo, per scegliere cosa guardare ci si affidava al caso (di fatto la gente andava al cinema a film già iniziato, guardava quello che lo schermo passava e andava bene così), al passaparola o, ovviamente, alla critica - detentrice del giudizio, conoscitrice unica dell’arte, onnisciente onnivora di pellicole.
La critica aveva un'influenza significativa sul successo dei film. Le recensioni positive potevano aumentare l'interesse del pubblico e portare di conseguenza a incassi maggiori, mentre le recensioni negative potevano danneggiare le aspettative e affossare il guadagno di una pellicola. E così i critici si sono trasformati in veri e propri arbitri del gusto cinematografico, capaci di decretare il successo o il fallimento di una pellicola con poche, potenti parole. Anzi, neanche quelle.
Di fatto sin dagli anni ‘20 i critici iniziarono ad adottare metodi di valutazione semplicistici che riuscissero a esprimere il loro giudizio al grande pubblico in maniera immediata e d’impatto. A summa delle varie recensioni iniziarono così a spuntare quelle stelle e punteggi che ancora oggi utilizziamo ampiamente. E il pubblico, oggi come allora, si affidò a quei simboli per decidere cosa guardare: se un film era destinato ai milioni, alla gloria o agli Oscar, spettava alla critica stabilirlo. In una industria dove il denaro è tutto (perché, doloroso ammetterlo, senza soldi non si fanno film), quella dei critici divenne quindi una grossa responsabilità. Enorme.
Ma a volte anche la loro autorità non è stata sufficiente. Si pensi al caso di Citizen Kane (Quarto potere, 1941) di Orson Welles. Accolto con freddezza dal pubblico, coadiuvato dal sabotaggio mediatico a cura del magnate William Randolph Hearst (che rivide nel protagonista Charles Foster Kane una rappresentazione distorta della sua persona), il film non sfondò al botteghino… ma fu tuttavia amato dalla critica.
L’innovazione tecnica e narrativa della pellicola infatti non passò inosservata allo sguardo dei più esperti, che portarono così Citizen Kane ad ottenere ben 9 nomination agli Oscar. Un plauso incredibile, considerando anche il boicottaggio del film che ne limitò il successo (e le vittorie, facendogli portare a casa solo una delle ambite statuette). Ma tal boicottaggio non ha resistito alla prova della storia e, di fatto, Citizen Kane è ad oggi considerato da molti come uno dei migliori film americani mai realizzati. Insomma: il peso, e il giudizio, della critica si fecero sentire sempre di più. I critici iniziarono così a plasmare non solo la percezione del pubblico rispetto al cinema, ma anche il cinema stesso.
Di fatto, in corrispondenza all’aumentare dei film ci fu un aumento significativo di analisi, recensioni, commenti, e così, dopo aver detto tutto il possibile su una tal inquadratura, interpretazione o sceneggiatura, i vari esperti sentirono il bisogno di esplorare anche una filosofia del cinema, dove ci si interrogava sui significati intrinsechi di una pellicola in tutti i suoi aspetti.
Attraverso i Cahiers du cinéma, importantissima rivista di critica francese ancora oggi attiva, nomi come François Truffaut o Jean-Luc Godard finirono non solo a definire una “politica degli autori”, acclamando e riportando in auge la visione personale dei registi, ma anche a creare una vera e propria corrente cinematografica. I critici non potevano più guardare e basta, dovevano… rivoluzionare.
Nacque così la Nouvelle Vague, che regalò alla storia del cinema capolavori come Les Quatre Cents Coups (I quattrocenti colpi, 1959) dello stesso Truffaut o À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro, 1960) di Godard, entrambi passati dalla critica alla regia, e fece emergere nuovi, importantissimi autori come Alain Resnais, con il suo Hiroshima mon amour (1959), o Agnes Varda, con Cléo de 5 à 7 (Cléo dalle 5 alle 7, 1962). Di fronte a questi stupendi successi, il mondo non poteva rimanere certo indifferente.
Grazie al contributo fondamentale del critico Andrew Sarris il cinema americano, e a catena quello mondiale, abbracciarono la "politica degli autori": si diede maggiore attenzione ai film sperimentali e si cercarono nuovi linguaggi cinematografici. E contestualmente a registi, autori e attori, anche i critici finirono sotto i riflettori. Importantissimi furono i contributi di Pauline Kael, che ri-dettò i canoni della scrittura critica (trasformandola da pomposo trattato pretenziosamente obiettivo ad analisi discorsiva mossa da emozioni, vicende e sensazioni personali) e di Roger Ebert, una vera e propria celebrità a capo di un programma televisivo dedicato alla critica, che introdusse per la prima volta il sistema di votazione “pollice su/giù” che ancora oggi ci accompagna (nonché primo critico ad ottenere una stella sulla famosissima Hollywood Walk of Fame!). Insomma, c’era aria di cambiamento.
Del resto il cinema, come tutte le arti e il mondo stesso, fu fortemente influenzato dagli sconvolgimenti che gli anni ‘60 portarono, e vien da sé che la critica non fu da meno. Le recensioni si intrecciavano con i movimenti culturali dell’epoca, inserendo le pellicole in un più ampio contesto sociale, cominciando a evidenziarne le rappresentazioni tematiche e cercando argomentazioni in grado di alimentare un dibattito politico. Questo sforzo collettivo portò spontaneamente alla creazione di una Nouvelle Vague tutta americana: la New Hollywood. Emblema della controcultura dell’epoca, la corrente vide l’emergere di autori immortali come Martin Scorsese, Brian De Palma, Steven Spielberg, Woody Allen, Francis Ford Coppola, Roman Polanski o Michael Cimino. E l’impatto del loro lavoro fu tale da sconvolgere l’intera industria cinematografica.
In quegli anni nacquero oltreoceano registi come Pasolini, Herzog, Tarkovskij: autori che cominciarono non solo a sfidare le convinzioni del cinema tradizionale, ma anche a creare opere in grado di dividere il nuovo pensiero critico. Si pensi, ad esempio, a A Clockwork Orange (Arancia Meccanica, 1971) di Stanley Kubrick, che suscitò controversie sulla rappresentazione della violenza, creando un dibattito sull'etica e la funzione del cinema nella società che ancora oggi (!) trova le sue argomentazioni. Ma così come la critica lanciò la New Hollywood e permise la diffusione di un nuovo pensiero cinematografico portando le giovani promesse a confrontarsi con linguaggi e tematiche rivoluzionarie, fu proprio la stessa critica ad affossare per sempre la New Hollywood e permettere alle major di ristabilire il loro potere produttivo al di sopra della visione autoriale del regista.
Mi riferisco in questo caso allo sfortunato Heaven's Gate (I cancelli del cielo, 1980), capolavoro incompreso del già menzionato Cimino che dopo aver fatto incetta di premi agli Oscar con l’acclamato The Deer Hunter (Il cacciatore, 1978) ottenne carta bianca dalla United Artist per girare il suo progetto più ambizioso: un’epopea western che copre 30 anni di storia tra guerre e vicende d’amore.
Un film che partì con mastodontiche premesse e si sviluppò in grande, sforando di tre volte il budget previsto, allungandosi a dismisura e raggiungendo le 5 ore di durata nel primo cut. La produzione, andata in allarme, spinse e ottenne una riduzione del girato, portandolo a 3 ore e 40, ma all’epoca non c’era la possibilità di fare un accordo con qualche piattaforma streaming in cerca di titoli da aggiungere al catalogo o che rilasciasse un film senza curarsi della durata confidando nella libertà assoluta degli spettatori di fare pausa e riprendere la visione in un secondo momento. No, nel 1980 andare a vedere 3 ore e 40 di Heaven's Gate significava prendere un impegno, fare un atto di fiducia. E la fiducia mancò, ovviamente.
Alle prime proiezioni il film fu da subito bollato come un fiasco colossale, con pesanti critiche su regia, narrazione e ritmo. E si sa, le prime impressioni contano… Si creò così un effetto valanga di negatività che influenzò drasticamente le aspettative del pubblico, condannando la pellicola al fallimento. I media, però, non si limitarono a criticare il film in sé, ma evidenziarono tutti i problemi, sprechi e ritardi della produzione, alimentando la percezione di un progetto completamente fuori controllo. La United Artist andò allora nel panico: ritirò il lungometraggio dalle sale e spinse Cimino a ridurne ulteriormente la durata, portandolo a 2 ore e mezza (ovvero la metà di quanto pensato inizialmente), sperando così di arginare il danno. E invece, ovviamente, lo peggiorò.
Il ritiro anticipato fu visto come un'ammissione di fallimento da parte della produzione e danneggiò ulteriormente l'opera, ormai snaturata completamente della sua idea iniziale. Neanche a dirlo, la critica distrusse anche il nuovo cut. Niente venne risparmiato. E così, infine, il film fù giustiziato. La conseguenza fu un clamoroso insuccesso commerciale, la carriera di Cimino fu affossata e la United Artist costretta a chiudere i battenti, spingendo così le altre produzioni a limitare lo spropositato controllo artistico dei registi che la New Hollywood aveva permesso. Fu la fine di un’epoca.
Ma l’esempio di Heaven's Gate è in realtà fondamentale per capire il ruolo della critica anche (e soprattutto) negli anni a venire. Titoli come Shining (1980), Blade Runner (1982) o The Thing (La Cosa, 1982) vi dicono nulla? O anche Scarface (1983), The Big Lebowski (Il grande Lebowski, 1998) e Donnie Darko (2001)? Probabilmente per alcuni questi sono considerati dei veri e propri capolavori, dei cult intramontabili, tra i migliori film di sempre o semplicemente tra i propri film preferiti. E chi potrebbe dar loro torto. Eppure, quando uscirono, questi film vennero completamente stroncati. Shining? Insensato. Blade Runner? Troppo lento. The Thing fu considerato deludente e Scarface semplicemente come troppo volgare. The Big Lebowski venne classificato come puerile mentre Donnie Darko come incoerente.
Snobbati, contestati o affossati dalla critica, lasciati nei tuguri dei botteghini, questi (e molti altri) titoli hanno attraversato una fase di backlash iniziale per poi essere nuovamente riscoperti nel tempo e giudicati secondo il loro effettivo valore. Riscoperte che hanno dimostrato sempre più come la critica non fosse infallibile. Affatto. C’è da dire che, proprio a partire dagli anni ‘80 e per tutto il ventennio successivo, il mercato cinematografico cambiò radicalmente e vide l’ascesa senza freni dei blockbuster hollywoodiani da un lato, l’avvento di una nuova corrente come il Dogma 95 in Europa dall’altro e infine la crescente ripresa della produzione asiatica, a partire dai lavori di John Woo, Wong Kar-Wai e Kim-Ki Duk fino ad arrivare a titoli più popolari come Battle Royale (2000), Infernal Affairs (2002) o Oldboy (2003).
La critica era quindi sommersa da culture cinematografiche completamente diverse tra loro, sempre nuove, talvolta persino in conflitto, che tendevano a polarizzare i giudizi e creare di conseguenza delle nicchie di affezionati. Che i critici si sbilanciassero erroneamente su un titolo era quindi più che comprensibile. E questo, ovviamente, valse (e vale tuttora) anche al contrario… Sono infatti innumerevoli i film che hanno ottenuto il plauso della critica quando sono usciti, hanno incassato grandi cifre al box-office, hanno fatto incetta di premi e poi sono finiti rovinosamente nel dimenticatoio o anzi, nell’odio collettivo.
Basti pensare a film come The English Patient (Il paziente inglese, 1996), La vita è bella (1997), Shakespeare in Love (1998), Star Wars: Episode I - The Phantom Menace (Star Wars: Episodio I - La minaccia fantasma, 1999), Le Fabuleux Destin d'Amélie Poulain (Il favoloso mondo di Amélie, 2001), Crash (2004), The Millionaire (2008), The Artist (2011) o il recentissimo Green Book (2018). Di fronte a questi e altri abbagli non ci fu più ombra di dubbio: la critica stava cambiando.
Questo cambiamento cominciò a rendersi palese soprattutto con l’inizio del nuovo millennio e il contestuale emergere di piattaforme online, che furono in grado di sfidare la tradizione critica offrendo per la prima volta recensioni “dal basso”: aveva infatti inizio l’era di internet. Questo evento portò sin da subito alla democratizzazione del dibattito, in cui ognuno può dire la sua in qualsiasi momento su qualsiasi argomento. Di conseguenza, ognuno divenne libero di impersonarsi critico cinematografico, fare una recensione, aggiungere un pollice su/giù ad un determinato film e sentirsi proprio come il sopracitato Roger Ebert.
E se da un lato questa innovazione ha sconvolto l’industria, dall’altro ne ha dato nuova linfa. Di fatto, se è vero che le major si son sempre potute affidare a grossi budget da stanziare per il marketing e la distribuzione di un film, lo stesso non si può dire per le piccole case di produzione e i film indipendenti. Ed ecco quindi che internet divenne innanzitutto un ponte tra culture cinematografiche, una cassa di risonanza in grado di portare all’attenzione del pubblico opere che altrimenti sarebbero passate inosservate, lo strumento definitivo di passaparola nel mondo globalizzato (si pensi al recentissimo esempio de La chimera (2023) di Alice Rohrwacher, riuscito a trovare una seconda vita proprio grazie al chiacchiericcio online).
E più internet si è ampliato, e più questo fenomeno si è diversificato. Sono nati IMDb, Rotten Tomatoes, Metacritic e oltre ad essi sono spuntati anche Youtube, Reddit e i vari social network, che hanno sicuramente contribuito a rendere la voce del pubblico sempre più rilevante. Così le produzioni non hanno più fatto affidamento unicamente al giudizio scritto sulla colonnina di un giornale, ma hanno dovuto consultare thread, commenti, video e capire quali fossero le reali opinioni del pubblico rispetto ad un film… decretando involontariamente la morte della critica.
In fondo, chi aveva più bisogno di un esperto di film che dall’alto della sua conoscenza decidesse arbitrariamente quale opera cinematografica fosse bella e quale brutta? Tutti potevano avere la loro opinione ed esprimerla liberamente, e tutti se la sono presa. Finché poi, d’improvviso, è arrivato lo streaming. L’avvento di Netflix e la conseguente streaming war che è nata come risposta delle altre major per competere con la suddetta piattaforma ha di fatto cambiato le carte in tavola ancora una volta. E non perché il giudizio delle persone o i metodi per esprimerlo fossero cambiati. Affatto. Lo streaming ha semplicemente spalancato le porte alla morte del cinema: i contenuti.
Di fatto, ogni casa di produzione in possesso della sua personale piattaforma si è resa conto dall’oggi al domani di dover rendere appetibile il nuovo prodotto agli occhi degli utenti, per poter sopravvivere nel nuovo panorama multimediale. E come fare? Puntare sulla qualità come già Netflix aveva fatto per mostrarsi credibile al mondo, ingaggiando grandi registi e dandogli praticamente carta bianca su cosa realizzare, anche se si trattasse di un biopic di 3 ore e 20 rifiutato da tutti come The Irishman (2019)?
Bello, anzi bellissimo, ma decisamente troppo costoso. La soluzione più ovvia fu una soltanto allora: la quantità. Così ogni piattaforma streaming è stata riempita e sovraccaricata di contenuti. Non solo film. Ma anche serie tv. Documentari. Cortometraggi. Persino videogiochi. Tutti assieme appassionatamente.
L’offerta disponibile al pubblico è diventata enorme. Immensa. Inscandagliabile. E quindi riuscire a capire cosa guardare, perché e come, è diventato nuovamente necessario. Quante volte infatti abbiamo perso tempo a cercare nel catalogo di una qualche piattaforma un film da vedere per poi renderci conto che dopo 40 minuti di ricerca non abbiamo visto ancora nulla e, tutto sommato, ci è pure passata la voglia di vederlo?
Ecco allora che la figura del critico è ritornata in auge, ovviamente con una nuova veste. Quelli che un tempo erano giudici incontestabili si sono trasformati in tiktoker, vlogger, influencer o altro: i critici tradizionali si sono completamente adattati allo scenario moderno, cercando di coinvolgere direttamente il pubblico in discussioni più informali, offrendo analisi al vetriolo che vanno oltre la semplice recensione o, più semplicemente, andando direttamente al nocciolo della questione.
Ed ecco che i four favorites diventano così una manna dal cielo: in fondo, quale altro modo migliore di farsi consigliare un film se non da quelle persone che i film li fanno? Certo, il problema sorge spontaneo. In questo panorama fatto di reel, like e podcast, è anche difficile saper riconoscere una voce autorevole e informata che sappia davvero orientare il pubblico verso una scelta consapevole. Già Nanni Moretti in Sogni d’oro (1981) ci aveva messo in guardia, quando diceva che "tutti si sentono in diritto, in dovere di parlare di cinema. Tutti parlate di cinema, tutti parlate di cinema… tutti! Parlo mai di astrofisica, io? Parlo mai di biologia, io? [...] Io non parlo di cardiologia! Io non parlo di radiologia! Non parlo delle cose che non conosco!"
Ma ad oggi come si può distinguere un intenditore da un predatore di views, un cinefilo da un ciarlatano, un critico da un semplice appassionato? Chi conosce il cinema, e chi fa finta di conoscerlo?
Sicuramente per gli occhi più esperti è facile capire chi possiede un pensiero critico competente e chi invece fa un copia-incolla di post tutti uguali a sé stessi. Ma non tutti hanno un occhio da esperti, ovviamente. Bisognerebbe allora inventare una critica della critica, una guida che indirizzi il pubblico a scegliere che guida cercare. Tuttavia è molto probabile che anche in questo caso il problema si ripresenterebbe, creando un circolo infinito. E allora, come fare?
Se consigliare film non è poi così facile, consigliare una critica lo è ancor meno e quindi, arrivati a questo punto, non mi resta altro che usare le parole di Obi-Wan Kenobi in Star Wars: Episodio IV - Una nuova speranza (Star Wars: Episode IV - A New Hope, 1977): “Segui l’istinto”.
Saper consigliare un film:
istruzione per l'uso,
di Eduardo Bigazzi
TR-106
29.07.2024
Four favorites with… qualsiasi cinefilo in possesso di un social network si sarà molto probabilmente imbattuto in un video con questa didascalia, e la riconoscerà senza ombra di dubbi come appartenente a Letterboxd - sì, quel social di catalogazione film ormai amato da tutti, nato nel 2011 e mai considerato dal grande pubblico fino all’avvento del Covid. Ma cosa c’entrano i Four favorites di Letterboxd con l’argomento di questo articolo? Spoiler: c’entrano tutto.
Four favorites, per chi non lo sapesse, è un format della sopracitata piattaforma in cui un reporter chiede ad una star del cinema quali siano i suoi quattro film preferiti. Fine. Semplice ed efficace.
Eppure quei 60 secondi di reel, l’ormai iconico microfono colorato e nessun’altra domanda rendono i four favorites non solo un trend amatissimo dal pubblico (e dalle stesse star!), ma anche uno dei veicoli principali attraverso cui passa l’odierna critica cinematografica. Perché, in fondo, il compito della critica non è quello di stabilire se un film sia bello o brutto. Non più, ormai. No, il suo compito ultimo è quello di saper consigliare un film.
E che ci sarà mai di tanto complicato nel consigliare un film? Qualcuno potrebbe obiettare. Ebbene, con 130 anni di storia alle spalle, una produzione cinematografica distribuita sull’intero globo e una cifra che viaggia tra i 500.000 e il milione di titoli disponibili, effettivamente non è così facile consigliare un film.
Pensateci. Quante volte vi è capitato di chiedere, o di sentirvi chiedere: “Mi consigli un film?” Ovvero, una delle peggiori domande esistenti. Innanzitutto implica che consigliare un film sia un compito facile, talmente facile da poter rispondere a bruciapelo senza battere ciglio e riflettere un minimo. Certo, a volte si risponde di getto con l’ultimo film visto reputato carino, decente o perlomeno passabile, ma se si scava un po’ più a fondo nella conversazione bisogna incominciare ad affidarsi alla memoria, alle proprie liste sui vari IMDb e Letterboxd di turno o, più semplicemente, ai propri soliti film preferiti. Ma è qui che iniziano i problemi.
Ovviamente questa domanda non fa distinzione sul tipo di film da consigliare (già, perché oltre al gran numero di film esistenti c’è anche da considerare che ognuno di loro è diverso, con un minutaggio diverso, una storia diversa, un genere diverso...) e ignora le distinzioni di gusto personale - ad esempio, io adoro La La Land (2016) ma non lo consiglio a destra e manca perché so che a qualcuno potrebbe non piacere, ho amici e amiche che, ahimé, non sono nemmeno riusciti a finirlo! - e questo significa che tutte le risposte date saranno inevitabilmente poco mirate e probabilmente inadatte. Infine, a qualsiasi suggerimento si dia, ad un certo punto seguirà il classico: “Eh, ma l’ho già visto”, che si traduce con: “Piantala e vai oltre, anche se stai cercando di aiutarmi”. Semplicemente insopportabile.
Quindi: sì, consigliare un film non è per niente facile. E se non lo è per noi, nelle nostre chiacchiere da bar assieme agli amici, come può esserlo per un professionista, critico o redattore qualsiasi? Certo, agli albori del cinema il compito era decisamente molto, ma molto più facile. I film a disposizione erano cortometraggi senza alcun tipo di storia strutturata, attori o alcunché. E pertanto non c’erano critiche, recensioni o consigli. C’era un gruppo di persone che usciva da una fabbrica - sì, mi riferisco a La Sortie de l'usine Lumière à Lyon (L’uscita dalle officine Lumière, 1895), ovviamente - e qualcuno che li riprendeva. Non molto da dire, no?
Quindi quando i fratelli Lumière proiettarono le loro prime immagini in movimento, e il cinema faceva i suoi primi, timidi passi, la critica era essenzialmente un gruppo di giornalisti e intellettuali che cercavano di dare un senso e un contesto culturale ad una tecnologia fino a quel momento inesistente. I primi commenti sui film erano spesso più simili a resoconti o descrizioni delle proiezioni piuttosto che analisi critiche approfondite.
Ma con l’avanzare del tempo anche la tecnologia è avanzata, e quelli che all’inizio erano semplici cortometraggi si trasformarono prima in medio e quindi in lungometraggi, e con l’aumentare del minutaggio arrivò, di conseguenza, anche una complessità narrativa maggiore, un impegno produttivo più cospicuo, prove attoriali più impegnate e, ovviamente, analisi critiche sempre più complesse. Da semplice artificio tecnico il cinema si trasformava in un’arte. La settima arte, per la precisione.
Così, ad un certo punto divenne necessario informare il pubblico non più su cosa fosse un film, ma cosa guardare, perché e come. Ed essendo il mondo di cento anni fa certamente meno connesso e globalizzato come quello odierno, era sicuramente più difficile ottenere pareri su un tale film. Ergo, per scegliere cosa guardare ci si affidava al caso (di fatto la gente andava al cinema a film già iniziato, guardava quello che lo schermo passava e andava bene così), al passaparola o, ovviamente, alla critica - detentrice del giudizio, conoscitrice unica dell’arte, onnisciente onnivora di pellicole.
La critica aveva un'influenza significativa sul successo dei film. Le recensioni positive potevano aumentare l'interesse del pubblico e portare di conseguenza a incassi maggiori, mentre le recensioni negative potevano danneggiare le aspettative e affossare il guadagno di una pellicola. E così i critici si sono trasformati in veri e propri arbitri del gusto cinematografico, capaci di decretare il successo o il fallimento di una pellicola con poche, potenti parole. Anzi, neanche quelle.
Di fatto sin dagli anni ‘20 i critici iniziarono ad adottare metodi di valutazione semplicistici che riuscissero a esprimere il loro giudizio al grande pubblico in maniera immediata e d’impatto. A summa delle varie recensioni iniziarono così a spuntare quelle stelle e punteggi che ancora oggi utilizziamo ampiamente. E il pubblico, oggi come allora, si affidò a quei simboli per decidere cosa guardare: se un film era destinato ai milioni, alla gloria o agli Oscar, spettava alla critica stabilirlo. In una industria dove il denaro è tutto (perché, doloroso ammetterlo, senza soldi non si fanno film), quella dei critici divenne quindi una grossa responsabilità. Enorme.
Ma a volte anche la loro autorità non è stata sufficiente. Si pensi al caso di Citizen Kane (Quarto potere, 1941) di Orson Welles. Accolto con freddezza dal pubblico, coadiuvato dal sabotaggio mediatico a cura del magnate William Randolph Hearst (che rivide nel protagonista Charles Foster Kane una rappresentazione distorta della sua persona), il film non sfondò al botteghino… ma fu tuttavia amato dalla critica.
L’innovazione tecnica e narrativa della pellicola infatti non passò inosservata allo sguardo dei più esperti, che portarono così Citizen Kane ad ottenere ben 9 nomination agli Oscar. Un plauso incredibile, considerando anche il boicottaggio del film che ne limitò il successo (e le vittorie, facendogli portare a casa solo una delle ambite statuette). Ma tal boicottaggio non ha resistito alla prova della storia e, di fatto, Citizen Kane è ad oggi considerato da molti come uno dei migliori film americani mai realizzati. Insomma: il peso, e il giudizio, della critica si fecero sentire sempre di più. I critici iniziarono così a plasmare non solo la percezione del pubblico rispetto al cinema, ma anche il cinema stesso.
Di fatto, in corrispondenza all’aumentare dei film ci fu un aumento significativo di analisi, recensioni, commenti, e così, dopo aver detto tutto il possibile su una tal inquadratura, interpretazione o sceneggiatura, i vari esperti sentirono il bisogno di esplorare anche una filosofia del cinema, dove ci si interrogava sui significati intrinsechi di una pellicola in tutti i suoi aspetti.
Attraverso i Cahiers du cinéma, importantissima rivista di critica francese ancora oggi attiva, nomi come François Truffaut o Jean-Luc Godard finirono non solo a definire una “politica degli autori”, acclamando e riportando in auge la visione personale dei registi, ma anche a creare una vera e propria corrente cinematografica. I critici non potevano più guardare e basta, dovevano… rivoluzionare.
Nacque così la Nouvelle Vague, che regalò alla storia del cinema capolavori come Les Quatre Cents Coups (I quattrocenti colpi, 1959) dello stesso Truffaut o À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro, 1960) di Godard, entrambi passati dalla critica alla regia, e fece emergere nuovi, importantissimi autori come Alain Resnais, con il suo Hiroshima mon amour (1959), o Agnes Varda, con Cléo de 5 à 7 (Cléo dalle 5 alle 7, 1962). Di fronte a questi stupendi successi, il mondo non poteva rimanere certo indifferente.
Grazie al contributo fondamentale del critico Andrew Sarris il cinema americano, e a catena quello mondiale, abbracciarono la "politica degli autori": si diede maggiore attenzione ai film sperimentali e si cercarono nuovi linguaggi cinematografici. E contestualmente a registi, autori e attori, anche i critici finirono sotto i riflettori. Importantissimi furono i contributi di Pauline Kael, che ri-dettò i canoni della scrittura critica (trasformandola da pomposo trattato pretenziosamente obiettivo ad analisi discorsiva mossa da emozioni, vicende e sensazioni personali) e di Roger Ebert, una vera e propria celebrità a capo di un programma televisivo dedicato alla critica, che introdusse per la prima volta il sistema di votazione “pollice su/giù” che ancora oggi ci accompagna (nonché primo critico ad ottenere una stella sulla famosissima Hollywood Walk of Fame!). Insomma, c’era aria di cambiamento.
Del resto il cinema, come tutte le arti e il mondo stesso, fu fortemente influenzato dagli sconvolgimenti che gli anni ‘60 portarono, e vien da sé che la critica non fu da meno. Le recensioni si intrecciavano con i movimenti culturali dell’epoca, inserendo le pellicole in un più ampio contesto sociale, cominciando a evidenziarne le rappresentazioni tematiche e cercando argomentazioni in grado di alimentare un dibattito politico. Questo sforzo collettivo portò spontaneamente alla creazione di una Nouvelle Vague tutta americana: la New Hollywood. Emblema della controcultura dell’epoca, la corrente vide l’emergere di autori immortali come Martin Scorsese, Brian De Palma, Steven Spielberg, Woody Allen, Francis Ford Coppola, Roman Polanski o Michael Cimino. E l’impatto del loro lavoro fu tale da sconvolgere l’intera industria cinematografica.
In quegli anni nacquero oltreoceano registi come Pasolini, Herzog, Tarkovskij: autori che cominciarono non solo a sfidare le convinzioni del cinema tradizionale, ma anche a creare opere in grado di dividere il nuovo pensiero critico. Si pensi, ad esempio, a A Clockwork Orange (Arancia Meccanica, 1971) di Stanley Kubrick, che suscitò controversie sulla rappresentazione della violenza, creando un dibattito sull'etica e la funzione del cinema nella società che ancora oggi (!) trova le sue argomentazioni. Ma così come la critica lanciò la New Hollywood e permise la diffusione di un nuovo pensiero cinematografico portando le giovani promesse a confrontarsi con linguaggi e tematiche rivoluzionarie, fu proprio la stessa critica ad affossare per sempre la New Hollywood e permettere alle major di ristabilire il loro potere produttivo al di sopra della visione autoriale del regista.
Mi riferisco in questo caso allo sfortunato Heaven's Gate (I cancelli del cielo, 1980), capolavoro incompreso del già menzionato Cimino che dopo aver fatto incetta di premi agli Oscar con l’acclamato The Deer Hunter (Il cacciatore, 1978) ottenne carta bianca dalla United Artist per girare il suo progetto più ambizioso: un’epopea western che copre 30 anni di storia tra guerre e vicende d’amore.
Un film che partì con mastodontiche premesse e si sviluppò in grande, sforando di tre volte il budget previsto, allungandosi a dismisura e raggiungendo le 5 ore di durata nel primo cut. La produzione, andata in allarme, spinse e ottenne una riduzione del girato, portandolo a 3 ore e 40, ma all’epoca non c’era la possibilità di fare un accordo con qualche piattaforma streaming in cerca di titoli da aggiungere al catalogo o che rilasciasse un film senza curarsi della durata confidando nella libertà assoluta degli spettatori di fare pausa e riprendere la visione in un secondo momento. No, nel 1980 andare a vedere 3 ore e 40 di Heaven's Gate significava prendere un impegno, fare un atto di fiducia. E la fiducia mancò, ovviamente.
Alle prime proiezioni il film fu da subito bollato come un fiasco colossale, con pesanti critiche su regia, narrazione e ritmo. E si sa, le prime impressioni contano… Si creò così un effetto valanga di negatività che influenzò drasticamente le aspettative del pubblico, condannando la pellicola al fallimento. I media, però, non si limitarono a criticare il film in sé, ma evidenziarono tutti i problemi, sprechi e ritardi della produzione, alimentando la percezione di un progetto completamente fuori controllo. La United Artist andò allora nel panico: ritirò il lungometraggio dalle sale e spinse Cimino a ridurne ulteriormente la durata, portandolo a 2 ore e mezza (ovvero la metà di quanto pensato inizialmente), sperando così di arginare il danno. E invece, ovviamente, lo peggiorò.
Il ritiro anticipato fu visto come un'ammissione di fallimento da parte della produzione e danneggiò ulteriormente l'opera, ormai snaturata completamente della sua idea iniziale. Neanche a dirlo, la critica distrusse anche il nuovo cut. Niente venne risparmiato. E così, infine, il film fù giustiziato. La conseguenza fu un clamoroso insuccesso commerciale, la carriera di Cimino fu affossata e la United Artist costretta a chiudere i battenti, spingendo così le altre produzioni a limitare lo spropositato controllo artistico dei registi che la New Hollywood aveva permesso. Fu la fine di un’epoca.
Ma l’esempio di Heaven's Gate è in realtà fondamentale per capire il ruolo della critica anche (e soprattutto) negli anni a venire. Titoli come Shining (1980), Blade Runner (1982) o The Thing (La Cosa, 1982) vi dicono nulla? O anche Scarface (1983), The Big Lebowski (Il grande Lebowski, 1998) e Donnie Darko (2001)? Probabilmente per alcuni questi sono considerati dei veri e propri capolavori, dei cult intramontabili, tra i migliori film di sempre o semplicemente tra i propri film preferiti. E chi potrebbe dar loro torto. Eppure, quando uscirono, questi film vennero completamente stroncati. Shining? Insensato. Blade Runner? Troppo lento. The Thing fu considerato deludente e Scarface semplicemente come troppo volgare. The Big Lebowski venne classificato come puerile mentre Donnie Darko come incoerente.
Snobbati, contestati o affossati dalla critica, lasciati nei tuguri dei botteghini, questi (e molti altri) titoli hanno attraversato una fase di backlash iniziale per poi essere nuovamente riscoperti nel tempo e giudicati secondo il loro effettivo valore. Riscoperte che hanno dimostrato sempre più come la critica non fosse infallibile. Affatto. C’è da dire che, proprio a partire dagli anni ‘80 e per tutto il ventennio successivo, il mercato cinematografico cambiò radicalmente e vide l’ascesa senza freni dei blockbuster hollywoodiani da un lato, l’avvento di una nuova corrente come il Dogma 95 in Europa dall’altro e infine la crescente ripresa della produzione asiatica, a partire dai lavori di John Woo, Wong Kar-Wai e Kim-Ki Duk fino ad arrivare a titoli più popolari come Battle Royale (2000), Infernal Affairs (2002) o Oldboy (2003).
La critica era quindi sommersa da culture cinematografiche completamente diverse tra loro, sempre nuove, talvolta persino in conflitto, che tendevano a polarizzare i giudizi e creare di conseguenza delle nicchie di affezionati. Che i critici si sbilanciassero erroneamente su un titolo era quindi più che comprensibile. E questo, ovviamente, valse (e vale tuttora) anche al contrario… Sono infatti innumerevoli i film che hanno ottenuto il plauso della critica quando sono usciti, hanno incassato grandi cifre al box-office, hanno fatto incetta di premi e poi sono finiti rovinosamente nel dimenticatoio o anzi, nell’odio collettivo.
Basti pensare a film come The English Patient (Il paziente inglese, 1996), La vita è bella (1997), Shakespeare in Love (1998), Star Wars: Episode I - The Phantom Menace (Star Wars: Episodio I - La minaccia fantasma, 1999), Le Fabuleux Destin d'Amélie Poulain (Il favoloso mondo di Amélie, 2001), Crash (2004), The Millionaire (2008), The Artist (2011) o il recentissimo Green Book (2018). Di fronte a questi e altri abbagli non ci fu più ombra di dubbio: la critica stava cambiando.
Questo cambiamento cominciò a rendersi palese soprattutto con l’inizio del nuovo millennio e il contestuale emergere di piattaforme online, che furono in grado di sfidare la tradizione critica offrendo per la prima volta recensioni “dal basso”: aveva infatti inizio l’era di internet. Questo evento portò sin da subito alla democratizzazione del dibattito, in cui ognuno può dire la sua in qualsiasi momento su qualsiasi argomento. Di conseguenza, ognuno divenne libero di impersonarsi critico cinematografico, fare una recensione, aggiungere un pollice su/giù ad un determinato film e sentirsi proprio come il sopracitato Roger Ebert.
E se da un lato questa innovazione ha sconvolto l’industria, dall’altro ne ha dato nuova linfa. Di fatto, se è vero che le major si son sempre potute affidare a grossi budget da stanziare per il marketing e la distribuzione di un film, lo stesso non si può dire per le piccole case di produzione e i film indipendenti. Ed ecco quindi che internet divenne innanzitutto un ponte tra culture cinematografiche, una cassa di risonanza in grado di portare all’attenzione del pubblico opere che altrimenti sarebbero passate inosservate, lo strumento definitivo di passaparola nel mondo globalizzato (si pensi al recentissimo esempio de La chimera (2023) di Alice Rohrwacher, riuscito a trovare una seconda vita proprio grazie al chiacchiericcio online).
E più internet si è ampliato, e più questo fenomeno si è diversificato. Sono nati IMDb, Rotten Tomatoes, Metacritic e oltre ad essi sono spuntati anche Youtube, Reddit e i vari social network, che hanno sicuramente contribuito a rendere la voce del pubblico sempre più rilevante. Così le produzioni non hanno più fatto affidamento unicamente al giudizio scritto sulla colonnina di un giornale, ma hanno dovuto consultare thread, commenti, video e capire quali fossero le reali opinioni del pubblico rispetto ad un film… decretando involontariamente la morte della critica.
In fondo, chi aveva più bisogno di un esperto di film che dall’alto della sua conoscenza decidesse arbitrariamente quale opera cinematografica fosse bella e quale brutta? Tutti potevano avere la loro opinione ed esprimerla liberamente, e tutti se la sono presa. Finché poi, d’improvviso, è arrivato lo streaming. L’avvento di Netflix e la conseguente streaming war che è nata come risposta delle altre major per competere con la suddetta piattaforma ha di fatto cambiato le carte in tavola ancora una volta. E non perché il giudizio delle persone o i metodi per esprimerlo fossero cambiati. Affatto. Lo streaming ha semplicemente spalancato le porte alla morte del cinema: i contenuti.
Di fatto, ogni casa di produzione in possesso della sua personale piattaforma si è resa conto dall’oggi al domani di dover rendere appetibile il nuovo prodotto agli occhi degli utenti, per poter sopravvivere nel nuovo panorama multimediale. E come fare? Puntare sulla qualità come già Netflix aveva fatto per mostrarsi credibile al mondo, ingaggiando grandi registi e dandogli praticamente carta bianca su cosa realizzare, anche se si trattasse di un biopic di 3 ore e 20 rifiutato da tutti come The Irishman (2019)?
Bello, anzi bellissimo, ma decisamente troppo costoso. La soluzione più ovvia fu una soltanto allora: la quantità. Così ogni piattaforma streaming è stata riempita e sovraccaricata di contenuti. Non solo film. Ma anche serie tv. Documentari. Cortometraggi. Persino videogiochi. Tutti assieme appassionatamente.
L’offerta disponibile al pubblico è diventata enorme. Immensa. Inscandagliabile. E quindi riuscire a capire cosa guardare, perché e come, è diventato nuovamente necessario. Quante volte infatti abbiamo perso tempo a cercare nel catalogo di una qualche piattaforma un film da vedere per poi renderci conto che dopo 40 minuti di ricerca non abbiamo visto ancora nulla e, tutto sommato, ci è pure passata la voglia di vederlo?
Ecco allora che la figura del critico è ritornata in auge, ovviamente con una nuova veste. Quelli che un tempo erano giudici incontestabili si sono trasformati in tiktoker, vlogger, influencer o altro: i critici tradizionali si sono completamente adattati allo scenario moderno, cercando di coinvolgere direttamente il pubblico in discussioni più informali, offrendo analisi al vetriolo che vanno oltre la semplice recensione o, più semplicemente, andando direttamente al nocciolo della questione.
Ed ecco che i four favorites diventano così una manna dal cielo: in fondo, quale altro modo migliore di farsi consigliare un film se non da quelle persone che i film li fanno? Certo, il problema sorge spontaneo. In questo panorama fatto di reel, like e podcast, è anche difficile saper riconoscere una voce autorevole e informata che sappia davvero orientare il pubblico verso una scelta consapevole. Già Nanni Moretti in Sogni d’oro (1981) ci aveva messo in guardia, quando diceva che "tutti si sentono in diritto, in dovere di parlare di cinema. Tutti parlate di cinema, tutti parlate di cinema… tutti! Parlo mai di astrofisica, io? Parlo mai di biologia, io? [...] Io non parlo di cardiologia! Io non parlo di radiologia! Non parlo delle cose che non conosco!"
Ma ad oggi come si può distinguere un intenditore da un predatore di views, un cinefilo da un ciarlatano, un critico da un semplice appassionato? Chi conosce il cinema, e chi fa finta di conoscerlo?
Sicuramente per gli occhi più esperti è facile capire chi possiede un pensiero critico competente e chi invece fa un copia-incolla di post tutti uguali a sé stessi. Ma non tutti hanno un occhio da esperti, ovviamente. Bisognerebbe allora inventare una critica della critica, una guida che indirizzi il pubblico a scegliere che guida cercare. Tuttavia è molto probabile che anche in questo caso il problema si ripresenterebbe, creando un circolo infinito. E allora, come fare?
Se consigliare film non è poi così facile, consigliare una critica lo è ancor meno e quindi, arrivati a questo punto, non mi resta altro che usare le parole di Obi-Wan Kenobi in Star Wars: Episodio IV - Una nuova speranza (Star Wars: Episode IV - A New Hope, 1977): “Segui l’istinto”.