L’esperienza dei soldati giapponesi
nel secondo conflitto mondiale,
di Arturo Garavaglia
TR-67
03.10.2022
In Occidente siamo il più delle volte abituati ad approcciare la filmografia giapponese relativa alla Seconda Guerra Mondiale relazionandoci esclusivamente con opere che focalizzano la loro tematica cardine sui bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki. In Giappone, però, sono stati prodotti numerosi lungometraggi che hanno raccontato, in maniera maggiormente specifica l’esperienza della guerra vissuta dai soldati nipponici. Tra i molteplici registi che si sono approcciati all’argomento è interessante soffermarsi su Kon Ichikawa, uno dei nomi più autorevoli del cinema giapponese a cavallo fra l’età classica e quella della nuberu bagu, una corrente nata verso la seconda metà degli anni cinquanta, che si discostava dai modelli cinematografici precedenti per dirigersi verso una maggiore ricerca tematica e formale. Ichikawa, noto fino ad allora per commedie satiriche, propose con il dittico L’arpa birmana (1956) e Fuochi nella pianura (1959) due rappresentazioni del conflitto nel sud-est asiatico che affrontavano il punto di vista dei soldati in una maniera del tutto nuova, e che, ancora oggi, costituiscono dei documenti di primaria importanza per la comprensione di ciò che è stato il trauma della guerra nella società giapponese.
Sono i combattenti nella loro singolarità i protagonisti assoluti delle opere di Ichikawa che, continuando a mantenere un’umanità ed un’autocoscienza in contesti estremi, si distanziano dalla collettività forzata dei propri battaglioni, arrivando a prendere individualmente decisioni drastiche. Lo studioso Donald Richie definì L’arpa birmana come un’opera «sentimentale», mentre per Fuochi nella pianura usò il termine «viscerale». Partendo da queste descrizioni estremamente calzanti confronteremo questi due film che, raccontando la guerra da punti di vista analoghi, si sviluppano e si concludono in modi differenti.
Ambientato poco dopo la fine della guerra, L’arpa birmana è la storia di un soldato, Mizushima, che viene separato dal proprio battaglione per convincere alla resa un’unità asserragliata in una grotta. Dopo aver fallito nell’impresa a causa della sconsideratezza dei membri dell’unità, l’uomo si ritrova unico superstite di una strage da cui riesce a sopravvivere grazie all’aiuto di un monaco. Durante il periodo di guarigione Mizushima prende però coscienza che il passaggio della guerra ha disseminato per la Birmania molti cadaveri di soldati giapponesi rimasti insepolti. Decide allora di farsi monaco e vagare per il paese con l’intenzione di dare una degna sepoltura a tutti quei corpi. In questo lungometraggio Kon Ichikawa si domanda cosa resti della guerra, la risposta non può che essere cadaveri e desolazione. A differenza dei membri del suo battaglione, che fatti prigionieri dagli alleati attendono di tornare in Giappone per poter ricominciare una nuova vita, il protagonista non può più separarsi dalla Birmania. Il soldato ha infatti perso la propria identità nella guerra e dopo una traumatica epifania non può che ritrovare il senso della sua esistenza nella sepoltura dei caduti. Un topos da tragedia classica, che in L’arpa birmana assume una carica notevole per la capacità, da parte del regista di trovare un sincretismo fra Buddismo e Cristianesimo - la consapevolezza della necessità della sepoltura viene al soldato dopo aver assistito a un funerale cristiano - che gli comunica un messaggio universale di pietà. La pietà di Mizushima, della sua arpa, che da annunciatrice di guerra - veniva utilizzata per segnalare pericoli - diventa messaggera di pace, è evidenziata dal netto distacco fra l’ormai monaco e i suoi ex-compagni. Nel corso del film i membri del battaglione cercheranno in ogni modo di avere notizie di Mizushima e di incontrarlo dopo aver riconosciuto, nel suono di un’arpa, le sue note. Ma la ricongiunzione non sarà mai possibile, segno incontrovertibile di due mondi - quello del sacro e quello del profano, dell’individuo e della collettività - che, scissi dall’orrore della guerra, non possono che proseguire su binari paralleli.
È interessante sottolineare come buona parte del cinema giapponese post epoca classica si soffermi sulla scissione dell’individuo dalla comunità di riferimento e che proprio un evento come la guerra, che la società occidentale ha sempre visto come capace di compattare e di accrescere il senso della collettività nel singolo, venga rappresentato da Ichikawa come un momento in cui l’essere umano si separa inesorabilmente proprio da quella collettività. Mizushima, come l’Antigone sofoclea, appartiene ai morti, appartiene al sacro. La ricostruzione civile del Giappone sarà effettuata da chi torna in patria, ma la ricomposizione spirituale verrà adempiuta da chi rimarrà a seppellire i morti. Anche l’inumazione dei defunti nel film di Ichikawa appare come un atto di riassestamento, poiché è in essa che risiede il ricordo ed è grazie a lei che la piaga della guerra può essere chiusa senza continuare a sanguinare per sempre. Tramite questo rituale la ferita diverrà quindi cicatrice in grado di contrassegnare memoria e discontinuità.
L’atmosfera che permea tutta l’opera è apparentemente pacificata, nelle immagini e nei suoni del film sembrano rivivere i precetti del buddismo e l’approccio estremamente «umanista» del suo autore. Infatti, come molti registi giapponesi degli anni cinquanta, Ichikawa imprime nel suo lungometraggio un pietismo che oggi potremmo giudicare eccessivo o ridondante ma che, per l’epoca, era in realtà più che necessario. La popolazione giapponese, uscita pochi anni prima dalla Seconda Guerra Mondiale, avrebbe potuto così intravedere nel doppio destino di Mizushima e del battaglione, un messaggio di speranza in grado di essere allo stesso tempo etico e spirituale. Per rapportare L’arpa birmana al successivo Fuochi nella pianura dobbiamo però tornare all’incipit del film, a quella carneficina di cui viene solo mostrato il risultato - ovvero la devastazione e i morti - a quell’ottusità mostrata dai ribelli che non vogliono arrendersi, a quell’atto del coprirsi gli occhi di fronte all’orrore.
Fuochi nella pianura rappresenta una sorta di prequel de L’arpa birmana, il suo brutale controcampo, ma solo apparentemente, il suo opposto. L’ambientazione è diversa, ma la condizione è la stessa. Ci troviamo nelle Filippine, anche qui agli sgoccioli della guerra. L’esercito giapponese è allo sbando e il protagonista, il soldato Tamura, malato di tubercolosi, viene respinto sia dal proprio battaglione, perché non in grado di combattere al meglio, sia dall’ospedale di campo che, considerandolo non ancora moribondo, lo reputa comunque capace di fronteggiare il nemico. L’uomo inizia quindi a vagare da solo in una giungla che è teatro di morte, con il fango che gli divora la carne e una necessità di cibo che lo spinge verso i limiti della sanità mentale. I soldati che incontra vivono situazioni analoghe: allo sbando, affamati, feriti, esauriti psicologicamente e ormai guidati da una logica della sopravvivenza che li porta, come fossero zombie, a uno stadio pre-primitivo di umanità. L’unico barlume di civiltà è rappresentato da fuochi che si alzano nella pianura, secondo i soldati segno della presenza di comunità contadine che bruciano le sterpaglie dopo la raccolta del mais. Ma sono fuochi lontani, probabilmente utopici e, forse, immaginari. Miraggi in cui risiede un’umanità che i combattenti giapponesi hanno ormai perduto.
Kon Ichikawa non combatté in prima linea durante la Seconda Guerra Mondiale e il soggetto del film è tratto dall’omonimo romanzo di Shohei Ooka. Nonostante ciò, Fuochi nella pianura è uno dei ritratti più crudi e atroci dell’esperienza bellica che siano mai stati messi in scena nella storia del cinema. Il film si apre con uno schiaffo che Tamura riceve dal suo comandante, primo di una lunga serie di colpi che si abbatteranno fisicamente sul soldato e metaforicamente sullo spettatore. L’incessante vagare di Nomura - interpretato dall’attore comico Eiji Funakoshi, la cui interpretazione innerva il film di alcuni insospettabili momenti di black humor - il deperimento del suo corpo mostrato senza alcuna reticenza, e la sua discesa negli abissi di un’ umanità ormai perduta, assumono in Fuochi nella pianura dei connotati orrorifici, fino al punto di poterlo considerare come una sorta di antesignano del body horror. Non a caso il regista Shin’ya Tsukamoto - uno dei principali esponenti del genere - adatterà, anch’egli, il romanzo di Ooka nel 2014.
Fuochi nella pianura è quindi il visibile che L’arpa birmana cela nell’ellissi narrativa e nel fuori campo, è il massacro che porta i corpi dei caduti giapponesi ad essere sparsi e a necessitare di quella sepoltura di cui si occuperà il monaco nel film del 1956, è, tornando a Donald Richie, la carne che L’arpa birmana sublima nello spirito. Il soldato portato in scena da Ichikawa è solo, come d’altronde anche i suoi compagni d’armi. Per tutti questi personaggi vigono le sole logiche della sopravvivenza e della sopraffazione, non esiste umanità. Siamo oltre il cuore di tenebra, perché il male dei soldati non viene dal cuore e non sorge in opposizione di un bene ma esiste solo in base all’esaurimento dello spirito. È un male ancestrale, primigenio, presociale, che porta a uno stato di bellum omnium contra omnes.
Il pacato lirismo che caratterizzava L’arpa birmana è, in Fuochi nella pianura, un lontano ricordo. Le frequenti figure intere riprese dal basso, così come i primi piani - quasi del tutto assenti in L’arpa birmana - mostrano volti e corpi sconvolti e deformi, resi mostruosi da una fotografia in bianco e nero fortemente contrastata che, a più riprese, arriva ad assumere tratti marcatamente espressionisti.
Nonostante la sua brutalità Fuochi nella pianura è però un film estremamente umanista. Quell’umanità che sembra totalmente assente è infatti incarnata dal protagonista stesso che, seppur fra gli stenti, assillato dalla fame e dalla malattia, alle soglie della follia, riesce a mantenere viva un’autocoscienza. Questa fiammella di umanità, che lo spinge a provare orrore per le azioni compiute dai gruppi di soldati che incontra, sarà destinata a spegnersi nel poetico ma atroce, finale. Dopo aver mostrato una galleria di orrori capace di scioccare ancora oggi, l’opera ci lascia un messaggio di speranza e pietà. A differenza del romanzo d’ispirazione il destino di Tamura è un destino di morte ma che, come ebbe anche modo di affermare Kon Ichikawa, riscatta l’umanità del soldato che non ha superato, seppur quasi folle, la soglia dell’inumano.
Forse anche dal baratro più profondo l’uomo può intravedere la luce, può trovare un fuoco sulla pianura, un focolare di umanità destinato a non spegnersi.
L’esperienza dei soldati giapponesi
nel secondo conflitto mondiale,
di Arturo Garavaglia
TR-67
03.10.2022
In Occidente siamo il più delle volte abituati ad approcciare la filmografia giapponese relativa alla Seconda Guerra Mondiale relazionandoci esclusivamente con opere che focalizzano la loro tematica cardine sui bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki. In Giappone, però, sono stati prodotti numerosi lungometraggi che hanno raccontato, in maniera maggiormente specifica l’esperienza della guerra vissuta dai soldati nipponici. Tra i molteplici registi che si sono approcciati all’argomento è interessante soffermarsi su Kon Ichikawa, uno dei nomi più autorevoli del cinema giapponese a cavallo fra l’età classica e quella della nuberu bagu, una corrente nata verso la seconda metà degli anni cinquanta, che si discostava dai modelli cinematografici precedenti per dirigersi verso una maggiore ricerca tematica e formale. Ichikawa, noto fino ad allora per commedie satiriche, propose con il dittico L’arpa birmana (1956) e Fuochi nella pianura (1959) due rappresentazioni del conflitto nel sud-est asiatico che affrontavano il punto di vista dei soldati in una maniera del tutto nuova, e che, ancora oggi, costituiscono dei documenti di primaria importanza per la comprensione di ciò che è stato il trauma della guerra nella società giapponese.
Sono i combattenti nella loro singolarità i protagonisti assoluti delle opere di Ichikawa che, continuando a mantenere un’umanità ed un’autocoscienza in contesti estremi, si distanziano dalla collettività forzata dei propri battaglioni, arrivando a prendere individualmente decisioni drastiche. Lo studioso Donald Richie definì L’arpa birmana come un’opera «sentimentale», mentre per Fuochi nella pianura usò il termine «viscerale». Partendo da queste descrizioni estremamente calzanti confronteremo questi due film che, raccontando la guerra da punti di vista analoghi, si sviluppano e si concludono in modi differenti.
Ambientato poco dopo la fine della guerra, L’arpa birmana è la storia di un soldato, Mizushima, che viene separato dal proprio battaglione per convincere alla resa un’unità asserragliata in una grotta. Dopo aver fallito nell’impresa a causa della sconsideratezza dei membri dell’unità, l’uomo si ritrova unico superstite di una strage da cui riesce a sopravvivere grazie all’aiuto di un monaco. Durante il periodo di guarigione Mizushima prende però coscienza che il passaggio della guerra ha disseminato per la Birmania molti cadaveri di soldati giapponesi rimasti insepolti. Decide allora di farsi monaco e vagare per il paese con l’intenzione di dare una degna sepoltura a tutti quei corpi. In questo lungometraggio Kon Ichikawa si domanda cosa resti della guerra, la risposta non può che essere cadaveri e desolazione. A differenza dei membri del suo battaglione, che fatti prigionieri dagli alleati attendono di tornare in Giappone per poter ricominciare una nuova vita, il protagonista non può più separarsi dalla Birmania. Il soldato ha infatti perso la propria identità nella guerra e dopo una traumatica epifania non può che ritrovare il senso della sua esistenza nella sepoltura dei caduti. Un topos da tragedia classica, che in L’arpa birmana assume una carica notevole per la capacità, da parte del regista di trovare un sincretismo fra Buddismo e Cristianesimo - la consapevolezza della necessità della sepoltura viene al soldato dopo aver assistito a un funerale cristiano - che gli comunica un messaggio universale di pietà. La pietà di Mizushima, della sua arpa, che da annunciatrice di guerra - veniva utilizzata per segnalare pericoli - diventa messaggera di pace, è evidenziata dal netto distacco fra l’ormai monaco e i suoi ex-compagni. Nel corso del film i membri del battaglione cercheranno in ogni modo di avere notizie di Mizushima e di incontrarlo dopo aver riconosciuto, nel suono di un’arpa, le sue note. Ma la ricongiunzione non sarà mai possibile, segno incontrovertibile di due mondi - quello del sacro e quello del profano, dell’individuo e della collettività - che, scissi dall’orrore della guerra, non possono che proseguire su binari paralleli.
È interessante sottolineare come buona parte del cinema giapponese post epoca classica si soffermi sulla scissione dell’individuo dalla comunità di riferimento e che proprio un evento come la guerra, che la società occidentale ha sempre visto come capace di compattare e di accrescere il senso della collettività nel singolo, venga rappresentato da Ichikawa come un momento in cui l’essere umano si separa inesorabilmente proprio da quella collettività. Mizushima, come l’Antigone sofoclea, appartiene ai morti, appartiene al sacro. La ricostruzione civile del Giappone sarà effettuata da chi torna in patria, ma la ricomposizione spirituale verrà adempiuta da chi rimarrà a seppellire i morti. Anche l’inumazione dei defunti nel film di Ichikawa appare come un atto di riassestamento, poiché è in essa che risiede il ricordo ed è grazie a lei che la piaga della guerra può essere chiusa senza continuare a sanguinare per sempre. Tramite questo rituale la ferita diverrà quindi cicatrice in grado di contrassegnare memoria e discontinuità.
L’atmosfera che permea tutta l’opera è apparentemente pacificata, nelle immagini e nei suoni del film sembrano rivivere i precetti del buddismo e l’approccio estremamente «umanista» del suo autore. Infatti, come molti registi giapponesi degli anni cinquanta, Ichikawa imprime nel suo lungometraggio un pietismo che oggi potremmo giudicare eccessivo o ridondante ma che, per l’epoca, era in realtà più che necessario. La popolazione giapponese, uscita pochi anni prima dalla Seconda Guerra Mondiale, avrebbe potuto così intravedere nel doppio destino di Mizushima e del battaglione, un messaggio di speranza in grado di essere allo stesso tempo etico e spirituale. Per rapportare L’arpa birmana al successivo Fuochi nella pianura dobbiamo però tornare all’incipit del film, a quella carneficina di cui viene solo mostrato il risultato - ovvero la devastazione e i morti - a quell’ottusità mostrata dai ribelli che non vogliono arrendersi, a quell’atto del coprirsi gli occhi di fronte all’orrore.
Fuochi nella pianura rappresenta una sorta di prequel de L’arpa birmana, il suo brutale controcampo, ma solo apparentemente, il suo opposto. L’ambientazione è diversa, ma la condizione è la stessa. Ci troviamo nelle Filippine, anche qui agli sgoccioli della guerra. L’esercito giapponese è allo sbando e il protagonista, il soldato Tamura, malato di tubercolosi, viene respinto sia dal proprio battaglione, perché non in grado di combattere al meglio, sia dall’ospedale di campo che, considerandolo non ancora moribondo, lo reputa comunque capace di fronteggiare il nemico. L’uomo inizia quindi a vagare da solo in una giungla che è teatro di morte, con il fango che gli divora la carne e una necessità di cibo che lo spinge verso i limiti della sanità mentale. I soldati che incontra vivono situazioni analoghe: allo sbando, affamati, feriti, esauriti psicologicamente e ormai guidati da una logica della sopravvivenza che li porta, come fossero zombie, a uno stadio pre-primitivo di umanità. L’unico barlume di civiltà è rappresentato da fuochi che si alzano nella pianura, secondo i soldati segno della presenza di comunità contadine che bruciano le sterpaglie dopo la raccolta del mais. Ma sono fuochi lontani, probabilmente utopici e, forse, immaginari. Miraggi in cui risiede un’umanità che i combattenti giapponesi hanno ormai perduto.
Kon Ichikawa non combatté in prima linea durante la Seconda Guerra Mondiale e il soggetto del film è tratto dall’omonimo romanzo di Shohei Ooka. Nonostante ciò, Fuochi nella pianura è uno dei ritratti più crudi e atroci dell’esperienza bellica che siano mai stati messi in scena nella storia del cinema. Il film si apre con uno schiaffo che Tamura riceve dal suo comandante, primo di una lunga serie di colpi che si abbatteranno fisicamente sul soldato e metaforicamente sullo spettatore. L’incessante vagare di Nomura - interpretato dall’attore comico Eiji Funakoshi, la cui interpretazione innerva il film di alcuni insospettabili momenti di black humor - il deperimento del suo corpo mostrato senza alcuna reticenza, e la sua discesa negli abissi di un’ umanità ormai perduta, assumono in Fuochi nella pianura dei connotati orrorifici, fino al punto di poterlo considerare come una sorta di antesignano del body horror. Non a caso il regista Shin’ya Tsukamoto - uno dei principali esponenti del genere - adatterà, anch’egli, il romanzo di Ooka nel 2014.
Fuochi nella pianura è quindi il visibile che L’arpa birmana cela nell’ellissi narrativa e nel fuori campo, è il massacro che porta i corpi dei caduti giapponesi ad essere sparsi e a necessitare di quella sepoltura di cui si occuperà il monaco nel film del 1956, è, tornando a Donald Richie, la carne che L’arpa birmana sublima nello spirito. Il soldato portato in scena da Ichikawa è solo, come d’altronde anche i suoi compagni d’armi. Per tutti questi personaggi vigono le sole logiche della sopravvivenza e della sopraffazione, non esiste umanità. Siamo oltre il cuore di tenebra, perché il male dei soldati non viene dal cuore e non sorge in opposizione di un bene ma esiste solo in base all’esaurimento dello spirito. È un male ancestrale, primigenio, presociale, che porta a uno stato di bellum omnium contra omnes.
Il pacato lirismo che caratterizzava L’arpa birmana è, in Fuochi nella pianura, un lontano ricordo. Le frequenti figure intere riprese dal basso, così come i primi piani - quasi del tutto assenti in L’arpa birmana - mostrano volti e corpi sconvolti e deformi, resi mostruosi da una fotografia in bianco e nero fortemente contrastata che, a più riprese, arriva ad assumere tratti marcatamente espressionisti.
Nonostante la sua brutalità Fuochi nella pianura è però un film estremamente umanista. Quell’umanità che sembra totalmente assente è infatti incarnata dal protagonista stesso che, seppur fra gli stenti, assillato dalla fame e dalla malattia, alle soglie della follia, riesce a mantenere viva un’autocoscienza. Questa fiammella di umanità, che lo spinge a provare orrore per le azioni compiute dai gruppi di soldati che incontra, sarà destinata a spegnersi nel poetico ma atroce, finale. Dopo aver mostrato una galleria di orrori capace di scioccare ancora oggi, l’opera ci lascia un messaggio di speranza e pietà. A differenza del romanzo d’ispirazione il destino di Tamura è un destino di morte ma che, come ebbe anche modo di affermare Kon Ichikawa, riscatta l’umanità del soldato che non ha superato, seppur quasi folle, la soglia dell’inumano.
Forse anche dal baratro più profondo l’uomo può intravedere la luce, può trovare un fuoco sulla pianura, un focolare di umanità destinato a non spegnersi.