Il dibattito cinematografico italiano dagli albori
della critica all'era dei social network,
di Lorenzo Vitrone
TR-27
27.03.2021
“Tutti hanno due mestieri: il loro e quello di critici cinematografici”. Scriveva così Francois Truffaut nel 1975 a prefazione della raccolta delle sue recensioni, e già allora il cineasta parigino sembrava mettere in luce un aspetto connotativo ed intrinseco della critica cinematografica: la necessaria, quanto ostica, distinzione tra critici non professionisti e quelli professionisti. Tali interrogativi non sono nuovi al mondo del discorso critico, visto che, già nel 1982, una delle voci più autorevoli del panorama italiano, Morando Morandini, aveva definito il critico cinematografico come un “animale in via d’estinzione”. La critica, che sia specializzata o di stampo giornalistico, si è sempre mossa in un campo d’azione tra l’oggettivo e il soggettivo, tra il testo scientifico e l’appassionata lettera autoriale. Ciò che è certo è che con il cambiamento dei mezzi di comunicazione, anche il discorso intorno al cinema sia cambiato drasticamente. Se da un lato i social network vengono accusati di aver mandato all’aria qualsiasi tentativo di approfondimento critico, c’è chi invece sostiene che le piattaforme abbiano garantito un nuovo spazio dentro il quale poter esercitare la critica. Questa, infatti, si è sempre dovuta adattare ai nuovi metodi di comunicazione, proprio come il cinema con l'arrivo del sonoro, della televisione, poi dell’home video, e ora con lo streaming.
In italia, la storia della critica cinematografica ha origini che vanno di pari passo con la graduale legittimazione culturale del cinema. Il primo critico professionista tout court, come lo intendiamo oggi, fu Filippo Sacchi, primo “quotidianista” sul Corriere Della Sera, sebbene di sue recensioni se ne trovino già a partire dal 1908 in quotidiani come La Gazzetta del Popolo o “Il Giorno” di Napoli. Matilde Serao fu tra le primissime a scrivere di cinema in Italia. Da quel momento il discorso della critica cinematografica non si interromperà più. Dopo l’avvento di alcune stampe specializzate, spesso rivolte ai lavoratori dello spettacolo, nascono le prime riviste: “Cinematografo” fondata nel ‘29 dal regista Blasetti; nel ‘36 l’editore Hoepli dà avvio al quindicinale “Cinema” che avrà come direttore il figlio del Duce, Vittorio Mussolini, per diversi anni; infine, l’anno successivo, viene creata la storica rivista dal Centro Sperimentale di Cinematografia: “Bianco & Nero” di Chiarini e Barbaro del Centro Sperimentale di Cinematografia.
A partire dal dopoguerra, la figura del critico assume un ruolo simile a quello dello scrittore. Nascono i professionisti: Ugo Casiraghi, Callisto Cosulich, Tullio Kezich, Morando Morandini, Gian Luigi Rondi. Ciascuno di questi autori inizia a farsi portavoce di un gusto, di un identità editoriale e, soprattutto, di un taglio politico. La cappa ideologica della teoria estetica sovietica, adottata nel 1948 dalla commissione culturale del PCI come linea guida ufficiale nei confronti dell’arte, sarà il motivo per cui la valutazione di molte pellicole verrà subordinata a una correttezza ideologica. Il fatto di valutare i film con cinque stelle diventa negli anni ‘50 la prerogativa di qualsiasi quotidiano, a cui si aggiunge poi il sistema dei “pallini” del pubblico, usato per la prima volta da Morandini nel ‘53 per evidenziare una distanza della critica rispetto al successo di “Ritorno di Don Camillo”, segnando così una dicotomia che ancora oggi definisce il tipo di successo di un film.Mentre nel 1961 si inaugura il primo corso di Storia e Critica del cinema tenuto da Luigi Chiarini a Pisa, parallelamente si crea un divario tra gli interpreti di una critica professionale e quella professata da intellettuali approdati al cinema in seconda istanza: note sono le recensioni di Moravia, di Palazzeschi, di Pasolini. Nascono i cineclub: primo tra tutti il leggendario “Filmstudio 70” fondato a Roma nel ‘67 dalla redazione della romana “Cinema&Film”. Situato nel cuore di Trastevere, diverrà una fucina di cineasti e critici, come Bertolucci, Pasolini, Godard, Bellocchio, Monicelli e sarà luogo di intense programmazioni e anteprime (Nanni Moretti proietterà qui in anteprima “Io sono un autarchico”).
Figlia del sessantotto è “Ombre Rosse” diretta da Goffredo Fofi e Gianni Volpi, dalla spiccata impronta politica, mentre negli anni ‘70 e ‘80 si assiste a un boom dell’editoria cinematografica, grazie anche ad una riscoperta dei cosiddetti generi bassi e alla nascita del concetto di “Cult Movies”. La televisione libera permette un accesso alle pellicole, inimmaginabile fino ad allora: nascono le prime trasmissioni dedicate al discorso cinematografico e “cinefilo”- termine che assume una connotazione precisa proprio in questi anni. “Fuori orario”, programma notturno in onda su RaiTre a partire dal 1988, condotto da Enrico Ghezzi, è una delle prime esperienze di critica in TV. La sigla del programma, che rielabora il montaggio della celebre scena del fiume de L’Atalante di Jean Vigo, è entrata nell’immaginario collettivo del pubblico della tv generalista.
In questi anni la scrittura si distanzia sempre di più dalle modalità scientifiche o ideologiche, e assume bensì un tono sempre più personale a tratti autobiografico. Il rapporto del critico con il film si fa sempre più affettivo, personale, l’analisi ora riunisce senza nessun problema grandi autori e B movies, film di genere e film popolari. Gli autori che si affacciano in questi anni sono i primi con alle spalle degli studi sulla storia del cinema, nomi come Alberto Farassino e Giovanni Buttafava che sanciscono l’affermarsi del giornalista-critico in testate come L’Espresso e La Repubblica. L’Horror viene considerato e analizzato come mai prima d’ora, nascono le prime fanzine, fino ad arrivare alla divulgazione che mischia discorso critico e promozione.
L’arrivo di Internet sancisce il declino della narrazione critica su cartaceo, nonostante continuino a nascere riviste come “Film TV” nel 1992 o come “Duel” nel 1993, quest’ultimo diretto da Gianni Canova, in cui, per la prima volta, il discorso sul cinema si fonda con quello sui media. Ai grandi critici, fregiati di “auctoritas”, non resta che dedicarsi alla realizzazione dei primi dizionari di cinema, di cui si ricordano i due più celebri che prendono il nome per antonomasia dei loro redattori, Il Morandini e il Mereghetti. Dal dizionario dei film italiani stracult, di Marco Giusti, prenderà il nome l’omonimo programma fino a poco tempo fa in onda su rai Tre. Infine, con l’approdo del Web, ecco che il dibattito si infiamma. Le voci si spargono nei blog, nei forum, nei siti di cinema. Appaiono nuove forme di discorso come il vlog o la videorecensione, per finire negli ormai frequenti Video Essays. Nuovi strumenti di valutazione si impongono: aggregate sites come Metacritic e Rotten Tomatoes raccolgono le migliaia di recensioni e voti sparsi nel web per estrarne poi una media ponderata, permettendo all’utente di farsi un’idea immediata dell’accoglienza di un film. In poche parole: l’affermarsi di un’oggettività che invece è tutt’altro che oggettiva.
Tra queste verità c’è un’incognita che però rimane sospesa: quell’altro non ascrivibile alla critica “classica”. In esso rientra solitamente un atteggiamento che spesso funge da prerogativa per il lavoro del critico, quello che Max Generis chiamava “l’attrazione sessuale per i film”, ossia la cinefilia. Nel corso dei decenni anche il termine “cinefilo” ha assunto diverse connotazioni. Fin dall'inizio dell'era del muto ci sono stati circoli cinematografici in cui persone appassionate di cinema potevano discutere i loro interessi e vedere opere rare e antiche. Con la Nouvelle Vague il ruolo del cinefilo frequentatore della Cinémathèque Française non è più solo di passivo e appassionato spettatore, ma intrecciando osservazione critica delle pellicole, impegno politico e comunanza d’idee con l’ambiente culturale di cui egli stesso fa parte, la sua figura diventa sempre più ascrivibile a quella di “nuovo intellettuale” capace di individuare e riconoscere validità culturale là dove nessuno la vedeva (vedi la grande riscoperta di Hitchcock).
Al giorno d’oggi il confronto cinefilo sui social si è allontanato da quel senso d’appartenenza ed identitario che connotava il dibattito in passato. Complice la scomparsa del luogo fisico del circolo e del cineclub, la cinefilia oggi rischia di diventare per buona parte un fatto personale, un insieme di riflessioni che il fruitore dei contenuti fa autonomamente e porta avanti in pubblico come punti d’arrivo di considerazioni da difendere, e non più come punti di partenza per confronti con gli altri spettatori. Alle eterne battaglie come lo scontro tra registi e critici, accademici e giornalisti, si aggiungono quindi nuove controversie. Ad oggi, la domanda che sorge spontanea è: si può preservare il discorso cinematografico all’interno dei social network?
Oggi il dibattito critico è tutt’altro che assente. Su internet la cinefilia ha trovato spontaneamente i suoi spazi, il suo uditorio. Diversi sono i magazine che portano avanti lavori editoriali, di ricerca e di approfondimento. Cercare di elencarne alcuni rischierebbe solo di escluderne altri, e la specificità che alcuni di essi hanno assunto fa sì che ognuno abbia coltivato un pubblico di riferimento: dalle pagine che portano avanti un discorso sulla cifra estetica dei film analizzati, ai blog più attenti alle uscite del momento sulle piattaforme, per non parlare dei progetti che si rivolgono agli addetti ai lavori (degna di nota: la pagina meme directorsmemecontent). In questa transmedialità che tocca le fattezze delle fanzine, i meme e i video d’archivio, rimane però una terra di nessuno. Al di là dei portali dedicati, dei magazine e dei siti tematici dove la critica e la scrittura cinefila hanno trovato una propria dimensione, esistono delle zone franche dove la critica, così come l’informazione, perdono la loro “legittimità” un tempo sancita dall’auctoritas della penna e si disperdono nella confusione dei commenti su Facebook, delle recensioni lampo presenti nei commenti a un video su YouTube e nelle storie Instagram. In questo territorio ogni forma di confronto finisce nel dimenticatoio dell’anonimato di chi scrive. Il pensiero o la riflessione che si legge in un commento su Facebook non è riconducibile a una visione etica, estetica o politica di un singolo individuo, ma diviene l’opinione anonima di un utente qualsiasi, di cui non si conosce la storia, la personalità, la formazione. Cosa ben differente dal passato quando si sapeva che, dinanzi ad una recensione firmata dal critico e sceneggiatore Oreste Del Buono, per il suo uso spregiudicato dell’ironia nel parlare di film si sarebbe dovuto prendere tutto con le pinze; o come per Palazzeschi e il suo smontare un film come “Miracolo a Milano” per la sua forte vicinanza al blocco della Democrazia Cristiana che all’epoca vedeva di cattivo occhio il cinema di protesta sociale di De Sica.
Con l’imporsi di un anonimato che mostra solo il nome, cognome e un eventuale foto profilo del recensore, si è persa anche quella responsabilità della critica cinematografica di cui parlava André Bazin. Chiunque può esprimere un parere, anche sconclusionato, riguardo un’ultima uscita al cinema. E non dovendo più rispondere a un giornale, a un taglio editoriale o semplicemente al proprio nome, i toni non esitano a farsi veementi (e a tratti persino tribali). La previsione de “gli imbecilli che prendono parola”, predetta da Umberto Eco, con l’avvento dei social sembra aver attraversato ogni campo del sapere, compreso quello culturale e cinematografico. Ma ciò che è un fenomeno piuttosto irrilevante e degno di poca considerazione, rischia di condurre il lettore comune verso una spirale di scetticismo e spaesamento difficile da ricostruire. Su Facebook esiste una pagina che si chiama “Il cinéfilo nell'era dell'Internét” che mette in luce il fenomeno della cinefilia “casereccia” con un espediente semplice quanto geniale: ogni giorno pubblica degli screenshot anonimi dei commenti più coloriti e bizzarri del web riguardo la materia cinematografica. Si passa dalle recensioni lampo dai termini pseudoletterari:
Per non dimenticare l’espressione più abusata tra i critici improvvisati sul web di cui la pagina si fa ormai portavoce: “un pugno nello stomaco”, che vuol dire tutto e niente.
o ancora:
come se il commento cinefilo più arguto sia quello con la menomazione fisica più creativa.
“Manie, ossessioni e problematiche del cinefilo contemporaneo. Istruzioni per l'uso: non prendiamoci troppo sul serio.” Con questa descrizione in bio la pagina chiarisce fin da subito le sue intenzioni: si fa per scherzare. Eppure è estremamente interessante come l’azione del “Cinéfilo” su Facebook metta in luce una tendenza ormai caratteristica della comunicazione flash all’interno dei Social Network, dove l’attenzione verso la propria opinione viene carpita da un uso spropositato del lessico, o dal numero di mi piace che un commento riceve. Il recensore amatoriale sul web fa uso degli strumenti linguistici della critica che possiamo ancora definire “professionale” e finisce per stravolgerli, minimizzarli. Lo scetticismo che può scaturire da un approccio così pressappochista sui social rischia di compromettere un confronto sano e ancora autorevole, che invece sul Web il suo posto l’ha trovato nei magazine. Il rischio che il termine cinefilo assuma un’accezione negativa è ormai dietro l’angolo. Riscoprire la responsabilità “morale”, che implica lo scrivere di cinema,è forse l’auspicio per il futuro della critica sul Web, soggetta a profonde trasformazioni culturali ma ancorata a quel principio “didattico” già esposto da André Bazin oltre sessant’anni fa:“La missione della critica non è tanto di “spiegare” l’opera, ma di “dispiegare” il suo significato nella coscienza e nello spirito del lettore. Suo compito è aiutare chi legge ad arricchirsi a contatto con l’opera: intellettualmente, moralmente e nella propria sensibilità”.
Il dibattito cinematografico
italiano dagli albori della critica
all'era dei social network,
di Lorenzo Vitrone
TR-27
27.03.2021
“Tutti hanno due mestieri: il loro e quello di critici cinematografici”. Scriveva così Francois Truffaut nel 1975 a prefazione della raccolta delle sue recensioni, e già allora il cineasta parigino sembrava mettere in luce un aspetto connotativo ed intrinseco della critica cinematografica: la necessaria, quanto ostica, distinzione tra critici non professionisti e quelli professionisti. Tali interrogativi non sono nuovi al mondo del discorso critico, visto che, già nel 1982, una delle voci più autorevoli del panorama italiano, Morando Morandini, aveva definito il critico cinematografico come un “animale in via d’estinzione”. La critica, che sia specializzata o di stampo giornalistico, si è sempre mossa in un campo d’azione tra l’oggettivo e il soggettivo, tra il testo scientifico e l’appassionata lettera autoriale. Ciò che è certo è che con il cambiamento dei mezzi di comunicazione, anche il discorso intorno al cinema sia cambiato drasticamente. Se da un lato i social network vengono accusati di aver mandato all’aria qualsiasi tentativo di approfondimento critico, c’è chi invece sostiene che le piattaforme abbiano garantito un nuovo spazio dentro il quale poter esercitare la critica. Questa, infatti, si è sempre dovuta adattare ai nuovi metodi di comunicazione, proprio come il cinema con l'arrivo del sonoro, della televisione, poi dell’home video, e ora con lo streaming.
In italia, la storia della critica cinematografica ha origini che vanno di pari passo con la graduale legittimazione culturale del cinema. Il primo critico professionista tout court, come lo intendiamo oggi, fu Filippo Sacchi, primo “quotidianista” sul Corriere Della Sera, sebbene di sue recensioni se ne trovino già a partire dal 1908 in quotidiani come La Gazzetta del Popolo o “Il Giorno” di Napoli. Matilde Serao fu tra le primissime a scrivere di cinema in Italia. Da quel momento il discorso della critica cinematografica non si interromperà più. Dopo l’avvento di alcune stampe specializzate, spesso rivolte ai lavoratori dello spettacolo, nascono le prime riviste: “Cinematografo” fondata nel ‘29 dal regista Blasetti; nel ‘36 l’editore Hoepli dà avvio al quindicinale “Cinema” che avrà come direttore il figlio del Duce, Vittorio Mussolini, per diversi anni; infine, l’anno successivo, viene creata la storica rivista dal Centro Sperimentale di Cinematografia: “Bianco & Nero” di Chiarini e Barbaro del Centro Sperimentale di Cinematografia.
A partire dal dopoguerra, la figura del critico assume un ruolo simile a quello dello scrittore. Nascono i professionisti: Ugo Casiraghi, Callisto Cosulich, Tullio Kezich, Morando Morandini, Gian Luigi Rondi. Ciascuno di questi autori inizia a farsi portavoce di un gusto, di un identità editoriale e, soprattutto, di un taglio politico. La cappa ideologica della teoria estetica sovietica, adottata nel 1948 dalla commissione culturale del PCI come linea guida ufficiale nei confronti dell’arte, sarà il motivo per cui la valutazione di molte pellicole verrà subordinata a una correttezza ideologica. Il fatto di valutare i film con cinque stelle diventa negli anni ‘50 la prerogativa di qualsiasi quotidiano, a cui si aggiunge poi il sistema dei “pallini” del pubblico, usato per la prima volta da Morandini nel ‘53 per evidenziare una distanza della critica rispetto al successo di “Ritorno di Don Camillo”, segnando così una dicotomia che ancora oggi definisce il tipo di successo di un film.Mentre nel 1961 si inaugura il primo corso di Storia e Critica del cinema tenuto da Luigi Chiarini a Pisa, parallelamente si crea un divario tra gli interpreti di una critica professionale e quella professata da intellettuali approdati al cinema in seconda istanza: note sono le recensioni di Moravia, di Palazzeschi, di Pasolini. Nascono i cineclub: primo tra tutti il leggendario “Filmstudio 70” fondato a Roma nel ‘67 dalla redazione della romana “Cinema&Film”. Situato nel cuore di Trastevere, diverrà una fucina di cineasti e critici, come Bertolucci, Pasolini, Godard, Bellocchio, Monicelli e sarà luogo di intense programmazioni e anteprime (Nanni Moretti proietterà qui in anteprima “Io sono un autarchico”).
Figlia del sessantotto è “Ombre Rosse” diretta da Goffredo Fofi e Gianni Volpi, dalla spiccata impronta politica, mentre negli anni ‘70 e ‘80 si assiste a un boom dell’editoria cinematografica, grazie anche ad una riscoperta dei cosiddetti generi bassi e alla nascita del concetto di “Cult Movies”. La televisione libera permette un accesso alle pellicole, inimmaginabile fino ad allora: nascono le prime trasmissioni dedicate al discorso cinematografico e “cinefilo”- termine che assume una connotazione precisa proprio in questi anni. “Fuori orario”, programma notturno in onda su RaiTre a partire dal 1988, condotto da Enrico Ghezzi, è una delle prime esperienze di critica in TV. La sigla del programma, che rielabora il montaggio della celebre scena del fiume de L’Atalante di Jean Vigo, è entrata nell’immaginario collettivo del pubblico della tv generalista.
In questi anni la scrittura si distanzia sempre di più dalle modalità scientifiche o ideologiche, e assume bensì un tono sempre più personale a tratti autobiografico. Il rapporto del critico con il film si fa sempre più affettivo, personale, l’analisi ora riunisce senza nessun problema grandi autori e B movies, film di genere e film popolari. Gli autori che si affacciano in questi anni sono i primi con alle spalle degli studi sulla storia del cinema, nomi come Alberto Farassino e Giovanni Buttafava che sanciscono l’affermarsi del giornalista-critico in testate come L’Espresso e La Repubblica. L’Horror viene considerato e analizzato come mai prima d’ora, nascono le prime fanzine, fino ad arrivare alla divulgazione che mischia discorso critico e promozione.
L’arrivo di Internet sancisce il declino della narrazione critica su cartaceo, nonostante continuino a nascere riviste come “Film TV” nel 1992 o come “Duel” nel 1993, quest’ultimo diretto da Gianni Canova, in cui, per la prima volta, il discorso sul cinema si fonda con quello sui media. Ai grandi critici, fregiati di “auctoritas”, non resta che dedicarsi alla realizzazione dei primi dizionari di cinema, di cui si ricordano i due più celebri che prendono il nome per antonomasia dei loro redattori, Il Morandini e il Mereghetti. Dal dizionario dei film italiani stracult, di Marco Giusti, prenderà il nome l’omonimo programma fino a poco tempo fa in onda su rai Tre. Infine, con l’approdo del Web, ecco che il dibattito si infiamma. Le voci si spargono nei blog, nei forum, nei siti di cinema. Appaiono nuove forme di discorso come il vlog o la videorecensione, per finire negli ormai frequenti Video Essays. Nuovi strumenti di valutazione si impongono: aggregate sites come Metacritic e Rotten Tomatoes raccolgono le migliaia di recensioni e voti sparsi nel web per estrarne poi una media ponderata, permettendo all’utente di farsi un’idea immediata dell’accoglienza di un film. In poche parole: l’affermarsi di un’oggettività che invece è tutt’altro che oggettiva.
Tra queste verità c’è un’incognita che però rimane sospesa: quell’altro non ascrivibile alla critica “classica”. In esso rientra solitamente un atteggiamento che spesso funge da prerogativa per il lavoro del critico, quello che Max Generis chiamava “l’attrazione sessuale per i film”, ossia la cinefilia. Nel corso dei decenni anche il termine “cinefilo” ha assunto diverse connotazioni. Fin dall'inizio dell'era del muto ci sono stati circoli cinematografici in cui persone appassionate di cinema potevano discutere i loro interessi e vedere opere rare e antiche. Con la Nouvelle Vague il ruolo del cinefilo frequentatore della Cinémathèque Française non è più solo di passivo e appassionato spettatore, ma intrecciando osservazione critica delle pellicole, impegno politico e comunanza d’idee con l’ambiente culturale di cui egli stesso fa parte, la sua figura diventa sempre più ascrivibile a quella di “nuovo intellettuale” capace di individuare e riconoscere validità culturale là dove nessuno la vedeva (vedi la grande riscoperta di Hitchcock).
Al giorno d’oggi il confronto cinefilo sui social si è allontanato da quel senso d’appartenenza ed identitario che connotava il dibattito in passato. Complice la scomparsa del luogo fisico del circolo e del cineclub, la cinefilia oggi rischia di diventare per buona parte un fatto personale, un insieme di riflessioni che il fruitore dei contenuti fa autonomamente e porta avanti in pubblico come punti d’arrivo di considerazioni da difendere, e non più come punti di partenza per confronti con gli altri spettatori. Alle eterne battaglie come lo scontro tra registi e critici, accademici e giornalisti, si aggiungono quindi nuove controversie. Ad oggi, la domanda che sorge spontanea è: si può preservare il discorso cinematografico all’interno dei social network?
Oggi il dibattito critico è tutt’altro che assente. Su internet la cinefilia ha trovato spontaneamente i suoi spazi, il suo uditorio. Diversi sono i magazine che portano avanti lavori editoriali, di ricerca e di approfondimento. Cercare di elencarne alcuni rischierebbe solo di escluderne altri, e la specificità che alcuni di essi hanno assunto fa sì che ognuno abbia coltivato un pubblico di riferimento: dalle pagine che portano avanti un discorso sulla cifra estetica dei film analizzati, ai blog più attenti alle uscite del momento sulle piattaforme, per non parlare dei progetti che si rivolgono agli addetti ai lavori (degna di nota: la pagina meme directorsmemecontent). In questa transmedialità che tocca le fattezze delle fanzine, i meme e i video d’archivio, rimane però una terra di nessuno. Al di là dei portali dedicati, dei magazine e dei siti tematici dove la critica e la scrittura cinefila hanno trovato una propria dimensione, esistono delle zone franche dove la critica, così come l’informazione, perdono la loro “legittimità” un tempo sancita dall’auctoritas della penna e si disperdono nella confusione dei commenti su Facebook, delle recensioni lampo presenti nei commenti a un video su YouTube e nelle storie Instagram. In questo territorio ogni forma di confronto finisce nel dimenticatoio dell’anonimato di chi scrive. Il pensiero o la riflessione che si legge in un commento su Facebook non è riconducibile a una visione etica, estetica o politica di un singolo individuo, ma diviene l’opinione anonima di un utente qualsiasi, di cui non si conosce la storia, la personalità, la formazione. Cosa ben differente dal passato quando si sapeva che, dinanzi ad una recensione firmata dal critico e sceneggiatore Oreste Del Buono, per il suo uso spregiudicato dell’ironia nel parlare di film si sarebbe dovuto prendere tutto con le pinze; o come per Palazzeschi e il suo smontare un film come “Miracolo a Milano” per la sua forte vicinanza al blocco della Democrazia Cristiana che all’epoca vedeva di cattivo occhio il cinema di protesta sociale di De Sica.
Con l’imporsi di un anonimato che mostra solo il nome, cognome e un eventuale foto profilo del recensore, si è persa anche quella responsabilità della critica cinematografica di cui parlava André Bazin. Chiunque può esprimere un parere, anche sconclusionato, riguardo un’ultima uscita al cinema. E non dovendo più rispondere a un giornale, a un taglio editoriale o semplicemente al proprio nome, i toni non esitano a farsi veementi (e a tratti persino tribali). La previsione de “gli imbecilli che prendono parola”, predetta da Umberto Eco, con l’avvento dei social sembra aver attraversato ogni campo del sapere, compreso quello culturale e cinematografico. Ma ciò che è un fenomeno piuttosto irrilevante e degno di poca considerazione, rischia di condurre il lettore comune verso una spirale di scetticismo e spaesamento difficile da ricostruire. Su Facebook esiste una pagina che si chiama “Il cinéfilo nell'era dell'Internét” che mette in luce il fenomeno della cinefilia “casereccia” con un espediente semplice quanto geniale: ogni giorno pubblica degli screenshot anonimi dei commenti più coloriti e bizzarri del web riguardo la materia cinematografica. Si passa dalle recensioni lampo dai termini pseudoletterari:
Per non dimenticare l’espressione più abusata tra i critici improvvisati sul web di cui la pagina si fa ormai portavoce: “un pugno nello stomaco”, che vuol dire tutto e niente.
o ancora:
come se il commento cinefilo più arguto sia quello con la menomazione fisica più creativa.
“Manie, ossessioni e problematiche del cinefilo contemporaneo. Istruzioni per l'uso: non prendiamoci troppo sul serio.” Con questa descrizione in bio la pagina chiarisce fin da subito le sue intenzioni: si fa per scherzare. Eppure è estremamente interessante come l’azione del “Cinéfilo” su Facebook metta in luce una tendenza ormai caratteristica della comunicazione flash all’interno dei Social Network, dove l’attenzione verso la propria opinione viene carpita da un uso spropositato del lessico, o dal numero di mi piace che un commento riceve. Il recensore amatoriale sul web fa uso degli strumenti linguistici della critica che possiamo ancora definire “professionale” e finisce per stravolgerli, minimizzarli. Lo scetticismo che può scaturire da un approccio così pressappochista sui social rischia di compromettere un confronto sano e ancora autorevole, che invece sul Web il suo posto l’ha trovato nei magazine. Il rischio che il termine cinefilo assuma un’accezione negativa è ormai dietro l’angolo. Riscoprire la responsabilità “morale”, che implica lo scrivere di cinema,è forse l’auspicio per il futuro della critica sul Web, soggetta a profonde trasformazioni culturali ma ancorata a quel principio “didattico” già esposto da André Bazin oltre sessant’anni fa:“La missione della critica non è tanto di “spiegare” l’opera, ma di “dispiegare” il suo significato nella coscienza e nello spirito del lettore. Suo compito è aiutare chi legge ad arricchirsi a contatto con l’opera: intellettualmente, moralmente e nella propria sensibilità”.