Il mondo visto da chi non ne fa parte,
di Rodrigo Mella
TR-65
19.07.2022
La luce del sole. Non più abbagliante, ma soffusa. Una forma sconosciuta, per il semplice fatto che a fissarla dritto per dritto si rimane ciechi. Le pupille si aprono a voragine. Fuori da qui, il sole è tangibile solo in visione periferica, o quando chiudiamo gli occhi e ci rimane lì, impresso come un negativo dietro le palpebre.
Con questa immagine si aprono il primo e l’ultimo film di Jonathan Glazer. Un fotogramma che essenzializza il cinema come realtà riflessa, capace di mostrarci ciò che altrimenti rimarrebbe inscrutabile. In Sexy Beast (2000) la luce è il sole di Agua Amarga, che scotta la pancia di Gal, un gangster londinese in pensione sulla costa sud della Spagna. In Under the Skin (2013) è invece un’iride fulgida, un fascio di luce aliena che non ricorda altro che il proiettore di un cinema. È l’immagine che vedremmo se invece dello schermo, in sala, ci fosse un enorme specchio. “Non fatevi ingannare”, sembra premettere Glazer, “ciò che state per vedere è reale. O, quanto meno, è altrettanto finto.”
Jonathan Glazer, come i suoi film, è rimasto per lo più una figura sfuggente. Nato a metà degli anni ‘60 in un sobborgo a nord di Londra, Glazer trascorre un’infanzia definibile solo per luoghi comuni: a giocare per strada, sulle ferrovie in disuso, tra i boschi. Ama lo skateboard, le motociclette e le ricetrasmittenti. Da giovane frequenta una scuola ebraica, e più avanti si trasferisce a Nottingham per studiare scenografia teatrale. Il padre lo cresce a film di David Lean, ma a parte questo risulta difficile (e soprattutto superfluo) identificare nella biografia di Glazer la scintilla che scatena in lui il fuoco sacro.
Tant’è che al cinema ci arriva in modo obliquo, già godendo di una discreta fama prima come regista pubblicitario e poi, dalla metà degli anni ‘90, di video musicali. Quelli erano, d’altronde, gli anni d’oro di MTV, in cui la collisione dei pianeti di musica e televisione aveva dato vita a una nuova e sconfinata galassia pop. Anni che impressero a esposizione stroboscopica l’immaginario di milioni di adolescenti, di quella generazione che sarà la prima nella storia ad aver imparato più parole e storie dai tubi catodici che dalle proprie madri. E tra i vari astri nascenti, quali Spike Jonze, Chris Cunningham e Michel Gondry, c’era anche quello di Glazer.
“Ho sempre approcciato tutto come fosse un mio film,” racconta Glazer, “l’ambizione rimane sempre la stessa, che si tratti di una pubblicità o un video musicale – non penso una cosa sia meglio dell’altra.” Glazer è in molti sensi un precursore, se non uno dei principali artefici, della figura del regista moderno, inteso come massimazione capitalistica di un ruolo che non può più permettersi di fare solo film. Oggi, tutto può essere cinema se lo si concepisce come tale. (Il rovescio della medaglia di questo livellamento - o forse sarebbe più giusto dire appiattimento - dei contenuti audiovisivi è che, invece di fare delle pubblicità del cinema, molti hanno fatto del cinema una pubblicità). “Il cinema è una frontiera, ne sono convinto. E i film che mi interessano si spingono in quella direzione.” Forse, l’unica vera predisposizione di Glazer alla carriera registica sta proprio in questo: nel suo identificare il cinema come una terra d’esplorazione, nel sentirsi estraneo a ciò che lo circonda e riconoscersi nello sguardo dell’outsider. O meglio ancora, in quello di un alieno.
E in un momento storico di alienazione feroce e collettiva, lo sguardo di chi questo pianeta non lo abita rimane forse l’unico in grado di capirci qualcosa. Under the Skin non è un film che cerca di fare luce, ma che, come un lampione spento, ne sottolinea l’assenza. Buona parte del film si svolge tra gli inerti sedili di pelle di un furgone, che vaga per le strade di Glasgow guidato da una forma di vita sconosciuta (Scarlett Johansson). E più i secondi scorrono, più la sua percezione fredda e disorientata si sovrappone alla nostra. Quello di Glazer è l’antitesi dello sguardo maschile e scopofilico di cui parlava Laura Mulvey, una lente che invece di deformare rivela una realtà talmente definita da risultare incomprensibile. Vista dal parabrezza del furgone, la città è la cartolina di un mondo alla deriva, fatto di non-luoghi, lontane parentesi perse in una rete autostradale, e abitato da ombre.
In una delle scene più note del film, l’Alieno si spinge oltre i confini cittadini e finisce in una spiaggia sperduta, dove prova ad adescare un nuotatore in vacanza. I due iniziano a chiacchierare, e alla domanda sul perché avesse scelto di venire proprio in quel posto, lui risponde, senza coglierne l’ironia: “Because it’s nowhere.” Su queste parole, dall’altro lato della spiaggia, una madre si lancia in mare per salvare il proprio cane trascinato via dalla corrente. Il marito corre immediatamente in acqua per salvare lei, e infine anche il giovane nuotatore si tuffa per provare a salvare lui. Sulla riva però, ci torna solo il ragazzo, sfiancato dalle onde, finendo così preda dell’Alieno. A rimanere sulla spiaggia è il figlio della coppia, un neonato con la faccia rossa e gli occhi gonfi, che piange disperatamente nel vuoto. Senza poter più salvare nessuno.
Quella del bambino è un’immagine generazionale. Di una gioventù paralizzata, abbandonata a sé stessa, incapace di vivere nel presente, e quindi anche di immaginare un futuro diverso. In Under the Skin, Glazer appare tanto consapevole dei topoi del genere quanto dell’impossibilità di replicarli: se nel XX secolo la fantascienza era in grado di teorizzare il presente attraverso la manifestazione utopica di un futuro migliore, adesso il futuro non esiste più. Esistono solo distopie di un presente senza fine, un non-tempo perseguitato da scadenti e pixelate versioni del proprio passato.
Under the Skin amplifica l’idea che Mark Fisher aveva dell’hauntology (un vocabolo che trasforma l’ontologia in una persecuzione spettrale, dall’inglese haunting), ovvero la concezione che abitiamo un tempo soffocato dalla nostalgia per un futuro perduto. È una condizione d’immobilità - culturale, sociale ed economica - la cui espansione prosegue violenta e incorruttibile, sotto il tacito consenso di tutti, fino a inglobare qualsiasi tipo di alternativa. Allo stesso modo, nel corso del film, anche l’Alieno di Glazer viene assorbito dalla realtà umana, passando da predatore a preda, al punto da non rappresentare più una forza capace di sovvertirne l’ordine. Per Glazer, il mondo alieno è il nostro, e al suo interno risulta molto più semplice riconoscersi nell’indifferenza di chi non ne fa parte, piuttosto che nella condiscendenza di chi non si rende neanche conto che esista.
Tutti e tre i lungometraggi di Glazer si svolgono a cavallo tra un presente non meglio specificato e un futuro ancora più informe, in quel periodo amorfo dell’incubazione in cui le cellule potrebbero ancora riordinarsi per dar vita a un corpo umano, una mosca o una pianta tropicale. In Sexy Beast, Gary ‘Gal’ Dove (Ray Winstone) è un gangster in pensione, in bilico tra la sua vita passata e quella che ha sempre sognato, che però stenta a cominciare. Il suo fantasma ha un nome e un volto, Don Logan (Ben Kingsley), uno dei personaggi più inebrianti e corrosivi della storia del cinema, un vecchio collega di Gal che viene a fargli visita per reclutarlo in un ultimo lavoro, e a cui molto semplicemente non si può dire di no.
Nel film, Glazer è alle prese con il peso del passato inteso come eredità. Si può lasciare un lavoro, scappare dal proprio paese, rompere con un amante, ma è impossibile liberarsi di sé stessi. Quella di Gal e Don è una vita che ti penetra il subconscio, che anche quando ti addormenti su una sdraio sotto il rassicurante bruciore dell’estate riaffiora negli incubi, e ti sveglia come una pioggia torrenziale, gelida e improvvisa. Entrambi sono prigionieri sì di una coscienza criminale, ma anche e soprattutto della condizione umana. Se sulla spiaggia di Under the Skin è l’istinto di protezione che porta i genitori ad abbandonare il figlio, in Sexy Beast basta l’amore per la donna sbagliata a condannare il diavolo fatto a persona, Don Logan.
In fondo, è anche troppo esplicitamente simbolico che il nostro primo gesto appena usciti dal grembo di nostra madre sia quello di chiudere gli occhi e piangere. Il trauma originale. Birth, uscito nel 2004, è un film che racchiude lo spaesamento amniotico, la sensazione di essere vivi (o morti) senza essere mai nati. Freud pubblicò nel 1919 un saggio su quello che in italiano venne tradotto come ‘il perturbante’ (dall’originale tedesco unheimlich), per assenza di un vocabolo più vicino al contrario di heimlich - da heim, casa - che significa confortevole, fidato, intimo, appartenente alla casa. Per Freud, l’unheimlich è l’angoscia o il terrore che si avvertono quando ci si trova di fronte a un qualcosa che risulta familiare ed estraneo allo stesso tempo, come quando si è in presenza di due gemelli o di un androide. L’orrore dell’incertezza, del dubbio come essenza parassitica fanno di Birth un film difficile da scandire. Qui, quando un bambino di nome Sean (Cameron Bright) si presenta a una festa di compleanno dicendo di essere la reincarnazione del defunto marito di Anna (Nicole Kidman), l'ambiguità temporale ricercata da Glazer finisce per assumere le sembianze dell'inquietudine di Freud.
Il Sean bambino esiste come imitazione inverosimile di una vita passata, di un uomo (e un tipo di uomo) che non esiste più. Glazer riesce a trasformare la vita e la morte - una disgiunzione esclusiva in cui una delle due cose è vera solo se l’altra è falsa - in una disgiunzione inclusiva, in cui entrambe le cose possono essere vere contemporaneamente, e dunque false contemporaneamente. Come Sexy Beast e Under the Skin, Birth è cinema capace di trattare l’ignoto, di raggiungere tutto quello che inizia dove finisce lo sguardo umano, e che è quindi capace di esistere per contraddizione. Glazer accetta l’ambiguità dell’esistenza - l’unheimlich, appunto - e riconosce l’assenza di certezze come unico principio di verità su cui costruire i propri film. D’altronde, il paradosso umano è che anche del nostro stesso volto possiamo conoscere sempre e solo il riflesso.
L’incapacità di riconoscere chi ci è di fronte, l’anonimato come tratto distintivo di una società in cui tutti sono (o vogliono essere) qualcuno. Nei film di Glazer, anche volti violentati dalla commercializzazione come quelli di Scarlett Johansson e Nicole Kidman risultano irriconoscibili. I personaggi vengono deprivati del proprio senso di sé, fino a essere ridotti a una condizione spettrale: versioni sfocate e traslucide del proprio passato. “L’anonimato ha un ruolo centrale nella nostra cultura, penso ai commenti online, la disinformazione, e tutto il resto,” dice Glazer parlando del suo cortometraggio The Fall (2019), “Ho pensato che le maschere fossero un buon modo di esprimere quanto ci sentiamo a nostro agio nell’anonimato. E anche quanto riusciamo a essere crudeli.”
The Fall - che prende ispirazione da una foto dei figli di Trump con in braccio un leopardo morto - è una manifestazione filmica di quello che, quantomeno in termini puramente drammatici, è l’incubo ricorrente del cinema di Glazer: la persecuzione. Il presente è perseguitato dal passato, e noi, oltre alla stessa ombra che ci rosicchia i talloni, dalla gente che ci circonda. Per Glazer, l’unico modo per fuggire è iniziare a rincorrere il prossimo: una caccia alla strega, che si ripete, si moltiplica e si incattivisce. “La paura è ovunque. E questo porta la gente a comportarsi in modo irrazionale. La forza del gruppo sta nell’abdicazione della responsabilità personale,” spiega Glazer, “basta pensare all’ascesa del nazionalsocialismo in Germania. Fu come una febbre, capace di impossessarsi della gente comune. E sta accadendo di nuovo.”
A un anno di distanza circa da The Fall, la febbre collettiva e virulenta descritta da Glazer si materializza in modo anche troppo didascalico sotto forma di pandemia. E quindi, qualche mese dopo, esce Strasbourg 1518 (2020). Il secondo cortometraggio di Glazer a distanza (relativamente) ravvicinata è una rivisitazione di un episodio accaduto nel luogo e data specificati dal titolo, anche conosciuto come la piaga del ballo. Gli archivi del periodo raccontano che, durante l’estate di quell’anno, centinaia di abitanti della città dell’Alsazia, presi da un’isteria di massa, iniziarono a ballare per giorni e giorni senza apparente motivo, e senza mai fermarsi. Dopo circa un mese, molti di loro collassarono, e morirono di attacco cardiaco, ictus o affaticamento.
I collegamenti con il periodo d’isolamento e insania da cabina che abbiamo attraversato sono evidenti, e perciò del tutto assenti nel film. La forza e la bellezza della cinematografia di Glazer stanno proprio nella sua incompletezza, nella capacità di schiudersi in un secondo momento all’interno della nebbia neurale della mente, nella notte, o persino giorni, mesi, anni dopo. Glazer non è interessato a evincere un qualche tipo di lezione morale dal contesto che lo circonda, piuttosto si limita (si fa per dire) a distillarne le sensazioni, e ad articolarle in immagini. Per questo tende a identificarsi più con il cinema muto che con quello contemporaneo, perché i suoi sono film che aggirano l'intelletto, che vanno innanzitutto sentiti sotto pelle prima di essere pensati. E Strasbourg 1518 è un film che si sente sotto ogni centimetro epidermico del corpo.
Glazer scopre nell'apprensione per un futuro infermo una fonte di conforto. L’instabilità involontaria della pandemia viene affrontata con un'instabilità volontaria del corpo singolo. E se in The Fall la ripetizione era causa di inquietudine, qui diventa veicolo unico e imprescindibile di sopravvivenza. Per contraddizione, i due film raggiungono un significato complementare. Glazer, parlando delle fonti d'ispirazione per The Fall, ha citato anche dei versi di Brecht, risalenti al suo periodo d’esilio negli anni ‘30, che un amico aveva inscritto all’interno di una collezione dei suoi saggi: “Nei tempi bui / si canterà ancora? / Sì, si canterà ancora / dei tempi bui”.
Nonostante tutto, sarebbe sbagliato definire Glazer o il suo cinema come nichilista, o peggio ancora, pessimista. Per lui, il bene e il male non sono altro che dati di fatto, forze non contrastanti, ma adiacenti. Come la vita e la morte, anche queste due sfere possono coesistere, e alla fine spetta a noi decidere in che direzione andare. L’esistenza è, a sua volta, una frontiera. E quello di Glazer è un cinema che spinge a muoverci, anche chiusi nella nostra stanza, che ci invita a scuotere la testa e le braccia fino a farle staccare. Perché nella stasi sociale, politica e culturale che ci circonda, in fondo, basta quello. Basta muoversi.
Il mondo visto da chi non ne fa parte,
di Rodrigo Mella
TR-65
19.07.2022
La luce del sole. Non più abbagliante, ma soffusa. Una forma sconosciuta, per il semplice fatto che a fissarla dritto per dritto si rimane ciechi. Le pupille si aprono a voragine. Fuori da qui, il sole è tangibile solo in visione periferica, o quando chiudiamo gli occhi e ci rimane lì, impresso come un negativo dietro le palpebre.
Con questa immagine si aprono il primo e l’ultimo film di Jonathan Glazer. Un fotogramma che essenzializza il cinema come realtà riflessa, capace di mostrarci ciò che altrimenti rimarrebbe inscrutabile. In Sexy Beast (2000) la luce è il sole di Agua Amarga, che scotta la pancia di Gal, un gangster londinese in pensione sulla costa sud della Spagna. In Under the Skin (2013) è invece un’iride fulgida, un fascio di luce aliena che non ricorda altro che il proiettore di un cinema. È l’immagine che vedremmo se invece dello schermo, in sala, ci fosse un enorme specchio. “Non fatevi ingannare”, sembra premettere Glazer, “ciò che state per vedere è reale. O, quanto meno, è altrettanto finto.”
Jonathan Glazer, come i suoi film, è rimasto per lo più una figura sfuggente. Nato a metà degli anni ‘60 in un sobborgo a nord di Londra, Glazer trascorre un’infanzia definibile solo per luoghi comuni: a giocare per strada, sulle ferrovie in disuso, tra i boschi. Ama lo skateboard, le motociclette e le ricetrasmittenti. Da giovane frequenta una scuola ebraica, e più avanti si trasferisce a Nottingham per studiare scenografia teatrale. Il padre lo cresce a film di David Lean, ma a parte questo risulta difficile (e soprattutto superfluo) identificare nella biografia di Glazer la scintilla che scatena in lui il fuoco sacro.
Tant’è che al cinema ci arriva in modo obliquo, già godendo di una discreta fama prima come regista pubblicitario e poi, dalla metà degli anni ‘90, di video musicali. Quelli erano, d’altronde, gli anni d’oro di MTV, in cui la collisione dei pianeti di musica e televisione aveva dato vita a una nuova e sconfinata galassia pop. Anni che impressero a esposizione stroboscopica l’immaginario di milioni di adolescenti, di quella generazione che sarà la prima nella storia ad aver imparato più parole e storie dai tubi catodici che dalle proprie madri. E tra i vari astri nascenti, quali Spike Jonze, Chris Cunningham e Michel Gondry, c’era anche quello di Glazer.
“Ho sempre approcciato tutto come fosse un mio film,” racconta Glazer, “l’ambizione rimane sempre la stessa, che si tratti di una pubblicità o un video musicale – non penso una cosa sia meglio dell’altra.” Glazer è in molti sensi un precursore, se non uno dei principali artefici, della figura del regista moderno, inteso come massimazione capitalistica di un ruolo che non può più permettersi di fare solo film. Oggi, tutto può essere cinema se lo si concepisce come tale. (Il rovescio della medaglia di questo livellamento - o forse sarebbe più giusto dire appiattimento - dei contenuti audiovisivi è che, invece di fare delle pubblicità del cinema, molti hanno fatto del cinema una pubblicità). “Il cinema è una frontiera, ne sono convinto. E i film che mi interessano si spingono in quella direzione.” Forse, l’unica vera predisposizione di Glazer alla carriera registica sta proprio in questo: nel suo identificare il cinema come una terra d’esplorazione, nel sentirsi estraneo a ciò che lo circonda e riconoscersi nello sguardo dell’outsider. O meglio ancora, in quello di un alieno.
E in un momento storico di alienazione feroce e collettiva, lo sguardo di chi questo pianeta non lo abita rimane forse l’unico in grado di capirci qualcosa. Under the Skin non è un film che cerca di fare luce, ma che, come un lampione spento, ne sottolinea l’assenza. Buona parte del film si svolge tra gli inerti sedili di pelle di un furgone, che vaga per le strade di Glasgow guidato da una forma di vita sconosciuta (Scarlett Johansson). E più i secondi scorrono, più la sua percezione fredda e disorientata si sovrappone alla nostra. Quello di Glazer è l’antitesi dello sguardo maschile e scopofilico di cui parlava Laura Mulvey, una lente che invece di deformare rivela una realtà talmente definita da risultare incomprensibile. Vista dal parabrezza del furgone, la città è la cartolina di un mondo alla deriva, fatto di non-luoghi, lontane parentesi perse in una rete autostradale, e abitato da ombre.
In una delle scene più note del film, l’Alieno si spinge oltre i confini cittadini e finisce in una spiaggia sperduta, dove prova ad adescare un nuotatore in vacanza. I due iniziano a chiacchierare, e alla domanda sul perché avesse scelto di venire proprio in quel posto, lui risponde, senza coglierne l’ironia: “Because it’s nowhere.” Su queste parole, dall’altro lato della spiaggia, una madre si lancia in mare per salvare il proprio cane trascinato via dalla corrente. Il marito corre immediatamente in acqua per salvare lei, e infine anche il giovane nuotatore si tuffa per provare a salvare lui. Sulla riva però, ci torna solo il ragazzo, sfiancato dalle onde, finendo così preda dell’Alieno. A rimanere sulla spiaggia è il figlio della coppia, un neonato con la faccia rossa e gli occhi gonfi, che piange disperatamente nel vuoto. Senza poter più salvare nessuno.
Quella del bambino è un’immagine generazionale. Di una gioventù paralizzata, abbandonata a sé stessa, incapace di vivere nel presente, e quindi anche di immaginare un futuro diverso. In Under the Skin, Glazer appare tanto consapevole dei topoi del genere quanto dell’impossibilità di replicarli: se nel XX secolo la fantascienza era in grado di teorizzare il presente attraverso la manifestazione utopica di un futuro migliore, adesso il futuro non esiste più. Esistono solo distopie di un presente senza fine, un non-tempo perseguitato da scadenti e pixelate versioni del proprio passato.
Under the Skin amplifica l’idea che Mark Fisher aveva dell’hauntology (un vocabolo che trasforma l’ontologia in una persecuzione spettrale, dall’inglese haunting), ovvero la concezione che abitiamo un tempo soffocato dalla nostalgia per un futuro perduto. È una condizione d’immobilità - culturale, sociale ed economica - la cui espansione prosegue violenta e incorruttibile, sotto il tacito consenso di tutti, fino a inglobare qualsiasi tipo di alternativa. Allo stesso modo, nel corso del film, anche l’Alieno di Glazer viene assorbito dalla realtà umana, passando da predatore a preda, al punto da non rappresentare più una forza capace di sovvertirne l’ordine. Per Glazer, il mondo alieno è il nostro, e al suo interno risulta molto più semplice riconoscersi nell’indifferenza di chi non ne fa parte, piuttosto che nella condiscendenza di chi non si rende neanche conto che esista.
Tutti e tre i lungometraggi di Glazer si svolgono a cavallo tra un presente non meglio specificato e un futuro ancora più informe, in quel periodo amorfo dell’incubazione in cui le cellule potrebbero ancora riordinarsi per dar vita a un corpo umano, una mosca o una pianta tropicale. In Sexy Beast, Gary ‘Gal’ Dove (Ray Winstone) è un gangster in pensione, in bilico tra la sua vita passata e quella che ha sempre sognato, che però stenta a cominciare. Il suo fantasma ha un nome e un volto, Don Logan (Ben Kingsley), uno dei personaggi più inebrianti e corrosivi della storia del cinema, un vecchio collega di Gal che viene a fargli visita per reclutarlo in un ultimo lavoro, e a cui molto semplicemente non si può dire di no.
Nel film, Glazer è alle prese con il peso del passato inteso come eredità. Si può lasciare un lavoro, scappare dal proprio paese, rompere con un amante, ma è impossibile liberarsi di sé stessi. Quella di Gal e Don è una vita che ti penetra il subconscio, che anche quando ti addormenti su una sdraio sotto il rassicurante bruciore dell’estate riaffiora negli incubi, e ti sveglia come una pioggia torrenziale, gelida e improvvisa. Entrambi sono prigionieri sì di una coscienza criminale, ma anche e soprattutto della condizione umana. Se sulla spiaggia di Under the Skin è l’istinto di protezione che porta i genitori ad abbandonare il figlio, in Sexy Beast basta l’amore per la donna sbagliata a condannare il diavolo fatto a persona, Don Logan.
In fondo, è anche troppo esplicitamente simbolico che il nostro primo gesto appena usciti dal grembo di nostra madre sia quello di chiudere gli occhi e piangere. Il trauma originale. Birth, uscito nel 2004, è un film che racchiude lo spaesamento amniotico, la sensazione di essere vivi (o morti) senza essere mai nati. Freud pubblicò nel 1919 un saggio su quello che in italiano venne tradotto come ‘il perturbante’ (dall’originale tedesco unheimlich), per assenza di un vocabolo più vicino al contrario di heimlich - da heim, casa - che significa confortevole, fidato, intimo, appartenente alla casa. Per Freud, l’unheimlich è l’angoscia o il terrore che si avvertono quando ci si trova di fronte a un qualcosa che risulta familiare ed estraneo allo stesso tempo, come quando si è in presenza di due gemelli o di un androide. L’orrore dell’incertezza, del dubbio come essenza parassitica fanno di Birth un film difficile da scandire. Qui, quando un bambino di nome Sean (Cameron Bright) si presenta a una festa di compleanno dicendo di essere la reincarnazione del defunto marito di Anna (Nicole Kidman), l'ambiguità temporale ricercata da Glazer finisce per assumere le sembianze dell'inquietudine di Freud.
Il Sean bambino esiste come imitazione inverosimile di una vita passata, di un uomo (e un tipo di uomo) che non esiste più. Glazer riesce a trasformare la vita e la morte - una disgiunzione esclusiva in cui una delle due cose è vera solo se l’altra è falsa - in una disgiunzione inclusiva, in cui entrambe le cose possono essere vere contemporaneamente, e dunque false contemporaneamente. Come Sexy Beast e Under the Skin, Birth è cinema capace di trattare l’ignoto, di raggiungere tutto quello che inizia dove finisce lo sguardo umano, e che è quindi capace di esistere per contraddizione. Glazer accetta l’ambiguità dell’esistenza - l’unheimlich, appunto - e riconosce l’assenza di certezze come unico principio di verità su cui costruire i propri film. D’altronde, il paradosso umano è che anche del nostro stesso volto possiamo conoscere sempre e solo il riflesso.
L’incapacità di riconoscere chi ci è di fronte, l’anonimato come tratto distintivo di una società in cui tutti sono (o vogliono essere) qualcuno. Nei film di Glazer, anche volti violentati dalla commercializzazione come quelli di Scarlett Johansson e Nicole Kidman risultano irriconoscibili. I personaggi vengono deprivati del proprio senso di sé, fino a essere ridotti a una condizione spettrale: versioni sfocate e traslucide del proprio passato. “L’anonimato ha un ruolo centrale nella nostra cultura, penso ai commenti online, la disinformazione, e tutto il resto,” dice Glazer parlando del suo cortometraggio The Fall (2019), “Ho pensato che le maschere fossero un buon modo di esprimere quanto ci sentiamo a nostro agio nell’anonimato. E anche quanto riusciamo a essere crudeli.”
The Fall - che prende ispirazione da una foto dei figli di Trump con in braccio un leopardo morto - è una manifestazione filmica di quello che, quantomeno in termini puramente drammatici, è l’incubo ricorrente del cinema di Glazer: la persecuzione. Il presente è perseguitato dal passato, e noi, oltre alla stessa ombra che ci rosicchia i talloni, dalla gente che ci circonda. Per Glazer, l’unico modo per fuggire è iniziare a rincorrere il prossimo: una caccia alla strega, che si ripete, si moltiplica e si incattivisce. “La paura è ovunque. E questo porta la gente a comportarsi in modo irrazionale. La forza del gruppo sta nell’abdicazione della responsabilità personale,” spiega Glazer, “basta pensare all’ascesa del nazionalsocialismo in Germania. Fu come una febbre, capace di impossessarsi della gente comune. E sta accadendo di nuovo.”
A un anno di distanza circa da The Fall, la febbre collettiva e virulenta descritta da Glazer si materializza in modo anche troppo didascalico sotto forma di pandemia. E quindi, qualche mese dopo, esce Strasbourg 1518 (2020). Il secondo cortometraggio di Glazer a distanza (relativamente) ravvicinata è una rivisitazione di un episodio accaduto nel luogo e data specificati dal titolo, anche conosciuto come la piaga del ballo. Gli archivi del periodo raccontano che, durante l’estate di quell’anno, centinaia di abitanti della città dell’Alsazia, presi da un’isteria di massa, iniziarono a ballare per giorni e giorni senza apparente motivo, e senza mai fermarsi. Dopo circa un mese, molti di loro collassarono, e morirono di attacco cardiaco, ictus o affaticamento.
I collegamenti con il periodo d’isolamento e insania da cabina che abbiamo attraversato sono evidenti, e perciò del tutto assenti nel film. La forza e la bellezza della cinematografia di Glazer stanno proprio nella sua incompletezza, nella capacità di schiudersi in un secondo momento all’interno della nebbia neurale della mente, nella notte, o persino giorni, mesi, anni dopo. Glazer non è interessato a evincere un qualche tipo di lezione morale dal contesto che lo circonda, piuttosto si limita (si fa per dire) a distillarne le sensazioni, e ad articolarle in immagini. Per questo tende a identificarsi più con il cinema muto che con quello contemporaneo, perché i suoi sono film che aggirano l'intelletto, che vanno innanzitutto sentiti sotto pelle prima di essere pensati. E Strasbourg 1518 è un film che si sente sotto ogni centimetro epidermico del corpo.
Glazer scopre nell'apprensione per un futuro infermo una fonte di conforto. L’instabilità involontaria della pandemia viene affrontata con un'instabilità volontaria del corpo singolo. E se in The Fall la ripetizione era causa di inquietudine, qui diventa veicolo unico e imprescindibile di sopravvivenza. Per contraddizione, i due film raggiungono un significato complementare. Glazer, parlando delle fonti d'ispirazione per The Fall, ha citato anche dei versi di Brecht, risalenti al suo periodo d’esilio negli anni ‘30, che un amico aveva inscritto all’interno di una collezione dei suoi saggi: “Nei tempi bui / si canterà ancora? / Sì, si canterà ancora / dei tempi bui”.
Nonostante tutto, sarebbe sbagliato definire Glazer o il suo cinema come nichilista, o peggio ancora, pessimista. Per lui, il bene e il male non sono altro che dati di fatto, forze non contrastanti, ma adiacenti. Come la vita e la morte, anche queste due sfere possono coesistere, e alla fine spetta a noi decidere in che direzione andare. L’esistenza è, a sua volta, una frontiera. E quello di Glazer è un cinema che spinge a muoverci, anche chiusi nella nostra stanza, che ci invita a scuotere la testa e le braccia fino a farle staccare. Perché nella stasi sociale, politica e culturale che ci circonda, in fondo, basta quello. Basta muoversi.