Tendenze ed eccezioni di un genere
da vedere e studiare,
di Andrea Tiradritti
TR-41
19.11.2021
Se tre indizi fanno una prova, quattro film in altrettanti anni possono indicare una tendenza. Il clamoroso successo di Bohemian Rhapsody nel 2018 ha di fatto rinvigorito un genere, quello delle biografie di personalità illustri del mondo musicale, che in passato si è sempre dimostrato un banco di prova per importanti autori - quali Oliver Stone, Todd Haynes, Clint Eastwood - e un fertile terreno di sperimentazioni più o meno innovative. Fin dagli anni ‘60, grazie a documentari apripista come A Hard Day’s Night di Richard Lester sui Beatles o Don’t Look Back di Pennebaker su un giovanissimo Bob Dylan, il cinema ha tentato di dialogare con la musica, raccontandone i fenomeni di costume, le svolte epocali e le figure di rilievo. È utile dunque approfondire come questo rapporto negli ultimi anni si sia codificato secondo specifiche grammatiche, originando opere simili fra loro e tutte allo stesso modo guidate da logiche narrative e produttive quantomeno discutibili.
Partiamo dai titoli. L’anno successivo al già citato film sui Queen e sull’onda del suo inaspettato clamore, è uscito Rocketman sulla vita di Elton John. Nel 2020 poi, alla Festa del Cinema di Roma, viene presentato Stardust, film che ripercorre la carriera di David Bowie e che a differenza delle due opere precedenti ha ottenuto un riscontro molto negativo. Nell’autunno di quest’anno infine è uscito in sala Respect di Liesl Tommy, opera biografica su Aretha Franklin con una Jennifer Hudson già in odore di Oscar. Questi quattro film, usciti a così breve distanza l’uno dall’altro, ci dicono molto su un filone in continua espansione, senz’altro apprezzato dal grande pubblico, che però rischia oggi di svilirsi in una mediocrità riprodotta in serie, sprovvista di idee e obiettivi davvero adeguati alla contemporaneità.
Se si confrontano ad esempio Bohemian Rhapsody e Rocketman apparirà evidente come nel secondo si sia provato a riproporre la formula vincente del primo, ricalcandone l’impianto visivo e la scrittura. Come è noto il tentativo è riuscito solo in parte: mentre l’opera su Freddie Mercury è diventata un caso globale, incassando oltre 900 milioni di dollari nel mondo, Rocketman si è dovuto accontentare di una cifra significativamente inferiore. Questo dato è ancor più curioso per chi considera, come chi scrive, Rocketman un film complessivamente migliore di Bohemian Rhapsody, per la sua maggiore aderenza alla verità dei fatti, per il suo intelligente uso del musical come chiave di approfondimento psicologico e per la più sfaccettata e credibile interpretazione di Edgerton rispetto a quella di Malek. Eppure, oltre al regista - Dexter Fletcher ha sia girato Rocketman che terminato le riprese di Bohemian Rhapsody sostituendo Bryan Singer - queste due opere hanno in comune la strategia di fondo e il fulcro delle loro narrazioni. Uno dei problemi di questi film sta proprio nella prevedibilità dei loro racconti, i quali non si discostano mai dalla classica traiettoria dell’eroe caratterizzata dalle tre fasi del successo, della caduta e del riscatto. Più che delle biografie attendibili, quelle su John e Mercury assomigliano dunque a delle mitologie volte a sottolineare costantemente la loro straordinarietà. Persino le gravi dipendenze di cui hanno sofferto non sono affrontate come segni strutturali della loro fragilità, ma sempre piuttosto come momenti di passaggio, peccati da espiare o semplici ostacoli attraverso cui redimersi, rinascere e confermarsi eccezionali. Temi fondamentali come l’omosessualità e la malattia sono d’altro canto trattati con riserbo, sussurrati, come se non si volesse scomodare il pubblico né spingerlo a compiere una riflessione in grado di incrinare l’idillio della favola agiografica.
Qualcuno potrebbe obiettare che è proprio in questo respiro epico ed edulcorato, nel gusto di poter idealizzare l’idolo e ripercorrerne le gesta che risiede la carica attrattiva di queste opere. Eppure anche lo spettatore più accomodante non può non accorgersi di come queste storie finiscano tutte per ripetersi. L’infanzia travagliata, la famiglia anaffettiva, la scoperta del proprio talento, i primi concerti, il successo, i dissidi interiori riguardanti la propria origine o identità sessuale, la dipendenza dalle droghe, le amicizie sbagliate, il baratro, la disintossicazione, il grande riscatto e il finale celebrativo. Che sia Aretha Franklin, Elton John o David Bowie la sostanza non cambia: nei film che li ritraggono sappiamo, ancor prima di vederli, che tutti questi eventi verranno mostrati in questo preciso ordine. Possibile che la vita di una star sia così uniformemente uguale a quella di un’altra? Cosa stiamo vedendo allora, un film interessato a restituire con sincerità la storia di un essere umano, per quanto speciale essa sia, o un prodotto che spreme consapevolmente fino all’osso uno stereotipo da botteghino?
L’altra criticità, comune a questi quattro film e strettamente legata a quella del racconto, riguarda la forma. Tutti gli artisti di cui si sta parlando sono stati a loro modo degli innovatori atipici e rivoluzionari. La loro musica ha rappresentato un momento di rottura col passato, assurgendo a riferimento e ispirazione per le generazioni a seguire. Per raccontare soggetti così particolari, per coglierne l’animo e non banalizzarli, servirebbe forse il coraggio di osare linguaggi alternativi e dissidenti. Queste opere si accontentano invece della norma, ingabbiando i loro protagonisti in immagini per gran parte inespressive, senza mistero, canoniche nella resa e nel pensiero. Il nodo qui non è mettersi di traverso, riproponendo la sterile contrapposizione fra ciò che la critica considera meritevole e ciò che il pubblico incorona al botteghino, ma chiedersi piuttosto cosa faccia di un film modesto come Bohemian Rhapsody un caso di questa portata. Si è parlato di rito collettivo, di cinema popolare che finalmente torna ad unire persone nella condivisione di un’emozione. Legittimo pensarlo, ma dal momento che tale emozione è per forza di cose innescata dalle canzoni e non certo dalla fotografia, dalla messa in scena o dalla forza del racconto, dove finisce il cinema e dove comincia lo spettacolo? Cosa aggiungono questi film che non si ritrovi già nell’ascolto di un album, nelle pagine scandalistiche di un giornale o nelle decine di video di concerti rintracciabili in rete?
Se lo sfortunato destino di Stardust di Gabriel Range conferma queste considerazioni - tanto che la famiglia di Bowie ha addirittura disconosciuto il film, proibendogli di utilizzare le canzoni originali del Duca - Respect evidenzia in maniera lampante come queste opere siano principalmente prodotte per ottenere premi e permettere al mercato che gli gravita intorno di glorificare le interpretazioni degli attori. La gigantesca prova di Jennifer Hudson nei panni di Aretha Franklin non è dissimile da quelle, premiate, di Malek o Edgerton. La loro mimesi sbalordisce per bravura e poliedricità ma non smuove, non avvicina al fascino carismatico delle persone rappresentate se non in singoli istanti, tramite l’esagerazione caricaturale o le performance canore. La maschera in definitiva sovrasta il personaggio, dando a chi guarda l’impressione di star camminando in un museo delle cere, tanto sfarzoso e patinato quanto grottesco e artificiale.
Per quanto dominante e codificato questo approccio non è l’unico possibile. Col suo Nico, 1988 Susanna Nicchiarelli ha mostrato un altro modo di raccontare la vita di un’importante artista, assumendo una prospettiva più libera e stimolante per il pubblico. Premiato a Venezia nel 2017, il film segue gli ultimi anni di vita della cantante tedesca Christa Päffgen, meglio nota come Nico, musa di Andy Warhol e cantante dei Velvet Underground prima di intraprendere, alla fine degli anni ‘60, una brillante carriera solista. Concentrarsi su un periodo molto limitato della carriera di Nico - l’ultimo travagliato tour europeo, quando la bellezza e la fama di un tempo erano svanite - e non avere la pretesa di riassumerne in appena due ore l’intero percorso artistico e umano permette alla regista di evitare ricostruzioni approssimative o azzardate ellissi, delineando invece un ritratto a fuoco, onesto e toccante. In questo contesto gli inserti documentaristici a cui sono affidati i ricordi di un passato perduto contribuiscono a dilatare lo smarrimento e la malinconia, ibridando i linguaggi e risignificando la memoria come proiezione allucinata, insieme di ricordi sommersi e obliati. Nico, 1988 ha dunque il pregio di smarcarsi dai toni celebrativi e retorici degli altri biopic perché non vuole vendere sogni o allestire tributi, ma si preoccupa di filmare con appassionata sensibilità i tormenti della madre e della donna dietro ai luccicanti trionfi dell’icona.
A differenza degli altri film citati Nico, 1988 racconta la fine e non l’inizio. La sua dimensione è crepuscolare, il suo cuore il corpo ferito di una donna giunta all’epilogo di un’esistenza tremenda e portentosa. L’intensa interpretazione di Trine Dyrholm non cerca il perfetto calco dell’originale; la sua Nico è un’anima in disfacimento, sofferente e sgradevole, aggrappata alla musica come un naufrago a un’asse nella tempesta. Per lei non esiste salvezza ma solo la possibilità di distillare il dolore tramite l’arte e le droghe. La sua voce non è più simbolo di vittoria o seduzione. La sua parabola non insegna e la sua fine non consola. Per tutto questo Nico, 1988 indica una via laterale e poco battuta, che può condurre però a spazi più liberi. Nicchiarelli ci dice che raccontare la vita di un artista è possibile senza trasformare per forza il film in un manifesto motivazionale o in una compilation delle sue canzoni più famose. Così come non serve piegare la realtà per fare del protagonista un eroe o un santo, non serve una storia su personaggi di questo calibro senza una conseguente esplorazione della forma, un conflitto davvero potente, l’assunzione di un punto di vista radicalmente altro e originale. Si salvino dunque i biopic e la complessità di questi artisti dall’affannosa ricerca di rassicurare il gusto del pubblico, cercando ad occhi chiusi nel mazzo il biglietto d’oro per fare fortuna. Si salvino i biopic dalla monotonia, dalla regola e dall’assenza di creatività. Si salvino i biopic o altrimenti muoiano pure a tempo di musica nelle loro versioni karaoke “per tutta la famiglia”.
Tendenze ed eccezioni di un genere
da vedere e studiare,
di Andrea Tiradritti
TR-41
19.11.2021
Se tre indizi fanno una prova, quattro film in altrettanti anni possono indicare una tendenza. Il clamoroso successo di Bohemian Rhapsody nel 2018 ha di fatto rinvigorito un genere, quello delle biografie di personalità illustri del mondo musicale, che in passato si è sempre dimostrato un banco di prova per importanti autori - quali Oliver Stone, Todd Haynes, Clint Eastwood - e un fertile terreno di sperimentazioni più o meno innovative. Fin dagli anni ‘60, grazie a documentari apripista come A Hard Day’s Night di Richard Lester sui Beatles o Don’t Look Back di Pennebaker su un giovanissimo Bob Dylan, il cinema ha tentato di dialogare con la musica, raccontandone i fenomeni di costume, le svolte epocali e le figure di rilievo. È utile dunque approfondire come questo rapporto negli ultimi anni si sia codificato secondo specifiche grammatiche, originando opere simili fra loro e tutte allo stesso modo guidate da logiche narrative e produttive quantomeno discutibili.
Partiamo dai titoli. L’anno successivo al già citato film sui Queen e sull’onda del suo inaspettato clamore, è uscito Rocketman sulla vita di Elton John. Nel 2020 poi, alla Festa del Cinema di Roma, viene presentato Stardust, film che ripercorre la carriera di David Bowie e che a differenza delle due opere precedenti ha ottenuto un riscontro molto negativo. Nell’autunno di quest’anno infine è uscito in sala Respect di Liesl Tommy, opera biografica su Aretha Franklin con una Jennifer Hudson già in odore di Oscar. Questi quattro film, usciti a così breve distanza l’uno dall’altro, ci dicono molto su un filone in continua espansione, senz’altro apprezzato dal grande pubblico, che però rischia oggi di svilirsi in una mediocrità riprodotta in serie, sprovvista di idee e obiettivi davvero adeguati alla contemporaneità.
Se si confrontano ad esempio Bohemian Rhapsody e Rocketman apparirà evidente come nel secondo si sia provato a riproporre la formula vincente del primo, ricalcandone l’impianto visivo e la scrittura. Come è noto il tentativo è riuscito solo in parte: mentre l’opera su Freddie Mercury è diventata un caso globale, incassando oltre 900 milioni di dollari nel mondo, Rocketman si è dovuto accontentare di una cifra significativamente inferiore. Questo dato è ancor più curioso per chi considera, come chi scrive, Rocketman un film complessivamente migliore di Bohemian Rhapsody, per la sua maggiore aderenza alla verità dei fatti, per il suo intelligente uso del musical come chiave di approfondimento psicologico e per la più sfaccettata e credibile interpretazione di Edgerton rispetto a quella di Malek. Eppure, oltre al regista - Dexter Fletcher ha sia girato Rocketman che terminato le riprese di Bohemian Rhapsody sostituendo Bryan Singer - queste due opere hanno in comune la strategia di fondo e il fulcro delle loro narrazioni. Uno dei problemi di questi film sta proprio nella prevedibilità dei loro racconti, i quali non si discostano mai dalla classica traiettoria dell’eroe caratterizzata dalle tre fasi del successo, della caduta e del riscatto. Più che delle biografie attendibili, quelle su John e Mercury assomigliano dunque a delle mitologie volte a sottolineare costantemente la loro straordinarietà. Persino le gravi dipendenze di cui hanno sofferto non sono affrontate come segni strutturali della loro fragilità, ma sempre piuttosto come momenti di passaggio, peccati da espiare o semplici ostacoli attraverso cui redimersi, rinascere e confermarsi eccezionali. Temi fondamentali come l’omosessualità e la malattia sono d’altro canto trattati con riserbo, sussurrati, come se non si volesse scomodare il pubblico né spingerlo a compiere una riflessione in grado di incrinare l’idillio della favola agiografica.
Qualcuno potrebbe obiettare che è proprio in questo respiro epico ed edulcorato, nel gusto di poter idealizzare l’idolo e ripercorrerne le gesta che risiede la carica attrattiva di queste opere. Eppure anche lo spettatore più accomodante non può non accorgersi di come queste storie finiscano tutte per ripetersi. L’infanzia travagliata, la famiglia anaffettiva, la scoperta del proprio talento, i primi concerti, il successo, i dissidi interiori riguardanti la propria origine o identità sessuale, la dipendenza dalle droghe, le amicizie sbagliate, il baratro, la disintossicazione, il grande riscatto e il finale celebrativo. Che sia Aretha Franklin, Elton John o David Bowie la sostanza non cambia: nei film che li ritraggono sappiamo, ancor prima di vederli, che tutti questi eventi verranno mostrati in questo preciso ordine. Possibile che la vita di una star sia così uniformemente uguale a quella di un’altra? Cosa stiamo vedendo allora, un film interessato a restituire con sincerità la storia di un essere umano, per quanto speciale essa sia, o un prodotto che spreme consapevolmente fino all’osso uno stereotipo da botteghino?
L’altra criticità, comune a questi quattro film e strettamente legata a quella del racconto, riguarda la forma. Tutti gli artisti di cui si sta parlando sono stati a loro modo degli innovatori atipici e rivoluzionari. La loro musica ha rappresentato un momento di rottura col passato, assurgendo a riferimento e ispirazione per le generazioni a seguire. Per raccontare soggetti così particolari, per coglierne l’animo e non banalizzarli, servirebbe forse il coraggio di osare linguaggi alternativi e dissidenti. Queste opere si accontentano invece della norma, ingabbiando i loro protagonisti in immagini per gran parte inespressive, senza mistero, canoniche nella resa e nel pensiero. Il nodo qui non è mettersi di traverso, riproponendo la sterile contrapposizione fra ciò che la critica considera meritevole e ciò che il pubblico incorona al botteghino, ma chiedersi piuttosto cosa faccia di un film modesto come Bohemian Rhapsody un caso di questa portata. Si è parlato di rito collettivo, di cinema popolare che finalmente torna ad unire persone nella condivisione di un’emozione. Legittimo pensarlo, ma dal momento che tale emozione è per forza di cose innescata dalle canzoni e non certo dalla fotografia, dalla messa in scena o dalla forza del racconto, dove finisce il cinema e dove comincia lo spettacolo? Cosa aggiungono questi film che non si ritrovi già nell’ascolto di un album, nelle pagine scandalistiche di un giornale o nelle decine di video di concerti rintracciabili in rete?
Se lo sfortunato destino di Stardust di Gabriel Range conferma queste considerazioni - tanto che la famiglia di Bowie ha addirittura disconosciuto il film, proibendogli di utilizzare le canzoni originali del Duca - Respect evidenzia in maniera lampante come queste opere siano principalmente prodotte per ottenere premi e permettere al mercato che gli gravita intorno di glorificare le interpretazioni degli attori. La gigantesca prova di Jennifer Hudson nei panni di Aretha Franklin non è dissimile da quelle, premiate, di Malek o Edgerton. La loro mimesi sbalordisce per bravura e poliedricità ma non smuove, non avvicina al fascino carismatico delle persone rappresentate se non in singoli istanti, tramite l’esagerazione caricaturale o le performance canore. La maschera in definitiva sovrasta il personaggio, dando a chi guarda l’impressione di star camminando in un museo delle cere, tanto sfarzoso e patinato quanto grottesco e artificiale.
Per quanto dominante e codificato questo approccio non è l’unico possibile. Col suo Nico, 1988 Susanna Nicchiarelli ha mostrato un altro modo di raccontare la vita di un’importante artista, assumendo una prospettiva più libera e stimolante per il pubblico. Premiato a Venezia nel 2017, il film segue gli ultimi anni di vita della cantante tedesca Christa Päffgen, meglio nota come Nico, musa di Andy Warhol e cantante dei Velvet Underground prima di intraprendere, alla fine degli anni ‘60, una brillante carriera solista. Concentrarsi su un periodo molto limitato della carriera di Nico - l’ultimo travagliato tour europeo, quando la bellezza e la fama di un tempo erano svanite - e non avere la pretesa di riassumerne in appena due ore l’intero percorso artistico e umano permette alla regista di evitare ricostruzioni approssimative o azzardate ellissi, delineando invece un ritratto a fuoco, onesto e toccante. In questo contesto gli inserti documentaristici a cui sono affidati i ricordi di un passato perduto contribuiscono a dilatare lo smarrimento e la malinconia, ibridando i linguaggi e risignificando la memoria come proiezione allucinata, insieme di ricordi sommersi e obliati. Nico, 1988 ha dunque il pregio di smarcarsi dai toni celebrativi e retorici degli altri biopic perché non vuole vendere sogni o allestire tributi, ma si preoccupa di filmare con appassionata sensibilità i tormenti della madre e della donna dietro ai luccicanti trionfi dell’icona.
A differenza degli altri film citati Nico, 1988 racconta la fine e non l’inizio. La sua dimensione è crepuscolare, il suo cuore il corpo ferito di una donna giunta all’epilogo di un’esistenza tremenda e portentosa. L’intensa interpretazione di Trine Dyrholm non cerca il perfetto calco dell’originale; la sua Nico è un’anima in disfacimento, sofferente e sgradevole, aggrappata alla musica come un naufrago a un’asse nella tempesta. Per lei non esiste salvezza ma solo la possibilità di distillare il dolore tramite l’arte e le droghe. La sua voce non è più simbolo di vittoria o seduzione. La sua parabola non insegna e la sua fine non consola. Per tutto questo Nico, 1988 indica una via laterale e poco battuta, che può condurre però a spazi più liberi. Nicchiarelli ci dice che raccontare la vita di un artista è possibile senza trasformare per forza il film in un manifesto motivazionale o in una compilation delle sue canzoni più famose. Così come non serve piegare la realtà per fare del protagonista un eroe o un santo, non serve una storia su personaggi di questo calibro senza una conseguente esplorazione della forma, un conflitto davvero potente, l’assunzione di un punto di vista radicalmente altro e originale. Si salvino dunque i biopic e la complessità di questi artisti dall’affannosa ricerca di rassicurare il gusto del pubblico, cercando ad occhi chiusi nel mazzo il biglietto d’oro per fare fortuna. Si salvino i biopic dalla monotonia, dalla regola e dall’assenza di creatività. Si salvino i biopic o altrimenti muoiano pure a tempo di musica nelle loro versioni karaoke “per tutta la famiglia”.