TR-102
08.06.2024
Nel metacinema, il cinema che mostra e parla di sé stesso, realtà e finzione s’intersecano in maniera chiara ma non distinta. Quando Harold Pinter scrisse la sceneggiatura di The French Lieutenant's Woman (La donna del tenente francese, 1981), traendola dall’omonimo romanzo di John Fowles, lo sapeva benissimo. Lo aveva imparato da tutti quegli epigoni tutelari che lo avevano instradato verso soluzioni poco accomodanti, anche per esperienza diretta - Pinter aveva già sceneggiato film di grande valore come The Servant (Il servo,1963), The Accident (L’incidente, 1967) e The Go-Between (Messaggero d’amore, 1971), contribuendo ai migliori risultati artistici del regista Joseph Losey. La meraviglia e lo sgomento che lascia la macchina cinematografica, una volta messa in moto, possono disorientare. Il cinema non è fatto per essere compreso del tutto, vuole più che altro essere assorbito, nelle sue peculiarità rappresentative e dimostrative. Prima di The French Lieutenant's Woman, ci sono stati molti altri film che hanno raccontato il cinema nel suo farsi e disfarsi, nel suo comporsi e decomporsi sotto gli stessi occhi di chi vi mette mano.
La memoria cinefila, che per lunghi tratti acquisisce una statura funerea per quel senso del trapasso che si conferisce all’immaginario, ha reso iconici personaggi come la Norma Desmond di Sunset Boulevard (Viale del Tramonto, 1950), con quello sguardo nel quale sono racchiusi tanto il terrore di non poter più esistere nell’”ambiente che conta”, quanto quella statura da semi-divinità che l’ex diva si porta appresso come un fardello; lei, a tutti gli effetti, si sente ancora parte del meccanismo, la villa in cui vive, e nella quale accade l’omicidio che innesca la storia, ha qualcosa di stregato che, non a caso, la rappresenta meglio di qualunque altra cosa - perché “nel muto non avevano bisogno di parole, avevano i volti!”. Non a caso, il film di Billy Wilder s’incastona perfettamente con l’epoca del cinema classico americano che ha cercato di nascondere il più possibile l’artificio della messinscena - anche attraverso il cosiddetto dècoupage, detto anche montaggio analitico o invisibile - a vantaggio della chiarezza della narrazione, della storia raccontata in maniera naturale, lineare. Prima di allora, nell’era del muto, c’era maggiore libertà, conseguenza della battaglia che gli indipendenti vinsero contro il trust Edison, fondando Hollywood. E questo avviene, nonostante la nascita delle majors che negli anni ‘20 costituiscono i primi, grandi, Studios. Nasce lo Star System, e la Norma Desmond di Wilder discende proprio da lì, prima che i generi popolari che hanno fatto la fortuna di quegli stessi studi venissero poi codificati nel decennio seguente.
Sembra discendere da lì anche il produttore Jerry Prokosch, interpretato dal grande attore Jack Palance, che in Le Mépris (Il Disprezzo,1963) di Jean-Luc Godard, assume uno sceneggiatore nella sua residenza estiva alle porte di Roma per riscrivere la sceneggiatura di un film sull’Odissea che sarà diretto nientemeno che dal grande maestro del cinema espressionista tedesco Fritz Lang. Nel polot di Le Mépris lo sceneggiatore Paolo Javal (Michel Piccoli) ha un malinteso con la sua compagna Emilia (Brigitte Bardot) e l’odissea di Ulisse con Penelope diventa la loro, appresso ad una stima difficile da conquistarsi agli occhi tanto del regista, quanto del produttore. Anche perché, Lang non è interessato ad una chiave psicanalitica infarcita dell’esperienza stessa dello sceneggiatore, che vuole invece qualcosa di decisamente più classico, secondo il volere dello stesso produttore che nel frattempo sta sottilmente seducendo sua moglie. Paolo vede in Emilia un oggetto sessuale e lei stessa finisce per consegnarsi, da vero e proprio oggetto, nelle mani manipolatrici di Jerry.
L’andamento della relazione ha un aspetto simmetrico rispetto a quella raccontata da Pinter in The French Lieutenant's Woman. E vi si rispecchia il doppio personaggio interpretato in maniera sublime da Meryl Streep: Sarah, la “sgualdrina” del tenente francese che finisce per instaurare una relazione con il suo strenuo corteggiatore Charles, e Anna, la stessa attrice che la interpreta, giocosamente sedotta da Mike, interpretato da Jeremy Irons. Prima di entrare nel cuore dell’analisi del film, occorre soffermarsi sull’autoriflessività che il mezzo cinematografico ha da sempre posto, anche quando non ha trattato in maniera diretta il tema della Settima Arte. Nella riflessione che ogni arte compie su se stessa, a partire dalla pittura per approdare poi al teatro e alla letteratura, gli atti creativi sono sempre stati caricati di simbolismi. Il teatro nel teatro era già centrale in Shakespeare nell'Amleto (1600-1602) ed ha acquisito una sua forma avanguardista con Pirandello. Il Don Chisciotte legge nel libro che lo fa esistere le sue avventure e Dorian Gray vede, nel proprio ritratto, il se stesso futuro. Il cinema non può essere esente, tant’è che in maniera radicale, Luis Bunuel, nel 1928 con Un chien andalou, tagliò letteralmente in due quello sguardo trasognato. Prima ancora di lui, Buster Keaton, fece guardare nell’obiettivo una donna sola nella vasca, così all’improvviso senza nulla da dire ma molto da esprimere. Lo sgomento inizia a farsi forma di narrazione. E in quanti altri film la cosiddetta quarta parete si rompe per instaurare una comunicazione diretta con il pubblico? O una comunicazione destrutturata da una miriade di voci (off e over) che contribuiscono all’innesco di meccanismi puramente cinematografici, quali i flashback o i flashforward, salti indietro e avanti nel tempo.
Moltissimi se ne sono serviti della rottura della quarta parete, specie da quando la modernità ha fatto posto alla maneggevolezza dei mezzi e all’intertestualità dei medium. Ma non si riflette soltanto, è anche bello osservare l’intera macchina al lavoro, come avviene con FrançoisTruffaut in Effetto Notte (1973), il suo film più appassionato e libero, nel quale la passione per il cinema emerge in ogni singolo aspetto, perché mostra, e dimostra, quanto possa essere condizionato dall’amore l’andamento della realizzazione stessa di un film, anche nel rispetto delle scadenze e nel tentativo di mantenere in equilibrio l’umore di tutta la troupe e del cast. Oppure la riflessione può sposarsi, con grande inventiva, alla manifestazione, come nel capolavoro di Federico Fellini 8½ (1963), che racconta di un regista in piena crisi esistenziale, Guido Anselmi (Marcello Mastroianni), in cura alle stazioni termali e in stato confusionale per via di un film da lungo tempo in fase di preparazione. Il periodo di riposo, anche e soprattutto fisico, diviene l’occasione per fare un bilancio umorale delle proprie relazioni, delle proprie frustrazioni, ispirazioni e aspirazioni. Tutto è reso confuso dal via vai degli elementi della troupe e dai ricordi delle donne di Guido, in un vero e proprio valzer dei ruoli che acquisisce sempre più la natura di un "circo ambulante", impossibile a fermarsi e uniformarsi, in un processo inconscio naturale deputato all’istanza intrapsichica e denominato da Sigmund Freud come Es.
L’antitesi esatta delle sensazioni costitutive, l’atto del farsi, è invece rappresentato da Der Stand der Dinge (Lo stato delle cose, 1982) di Wim Wenders, nel quale predomina nettamente l’impasse della troupe e del cast, abbandonata su un’isola del Portogallo, senza più i soldi per finanziare la pellicola utile alle riprese di un film di fantascienza. Tutti sono fermi e bloccati in un albergo e nessuno sa più cosa fare, si è in attesa di notizie dal produttore, nel frattempo scomparso. Nonostante Guido sia fermo, la sua mente è in costante movimento di combutta con il proprio passato, ed è così che il film di Fellini si muove sempre; mentre in quello di Wenders, si rende poi necessario l’intervento del regista che si mette in viaggio verso Los Angeles, alla ricerca del produttore, ritiratosi in un camper e disperato, senza soldi e pedinato da una gang criminale alla quale aveva chiesto in anticipo quei soldi che non può più restituire. L’azione si fa riflessione dello stato del cinema in crisi d’idee ed ispirazione, condizionato sempre dalle “logiche” di guadagno del cinema commerciale/industriale. Nel caso di Wenders, c’entra anche l’esperienza personale intercorsa l’anno precedente con Francis Ford Coppola, per Hammett (1981), che interruppe la lavorazione per far riscrivere la sceneggiatura a Ross Thomas, dopo due insoddisfacenti tentativi antecedenti.
L’arte filtra la realtà sempre e comunque attraverso qualche mezzo e la soggettività la domina, donandole traiettorie inesplicabili, spesso non trasparenti per i loro stessi autori. I viaggi dei registi Guido Anselmi e Friedrich Munro, che si tratti di un percorso mentale o di un passaggio fisico, hanno risvolti simili, sono volti a scoprire e a definire le proprie priorità, a cercare di riacquisire la paternità dell’opera, alla base della riuscita di un film. L’Otto e mezzo di Fellini, probabilmente non sarebbe scaturito così com’è noto, se molto prima di allora non ci fosse stato il proiezionista di Buster Keaton che in Sherlock Jr. (La palla n.13, 1924) si addormenta, sognando di entrare dentro allo stesso film che sta proiettando dalla sua cabina di regia sul grande schermo, divenendo protagonista di una serie di disavventure. Keaton riesce a creare un curioso parallelismo tra la natura segnica e illusoria del cinema e quella fantasmatica e inestricabile del sogno. Uno spazio delle varianti potenzialmente infinito che può produrre tante cose straordinarie, quanto spaventose e potenzialmente pericolose. Sono i primi segnali del fenomeno dell’avventura al cinema, in comunione con l’avventura del fare un film, ed il meccanismo è posto in essere proprio dallo stadio più alto dell’autoriflessività cinematografica. S’innesca una certa tensione metalinguistica che condurrà poi i semiologi del cinema, quale il più illustre Christian Metz ad esempio, a mettere in dubbio la natura del cinema stesso, se definirlo lingua o linguaggio, bisognoso a secondo della definizione, di una grammatica o di un codice.
La tensione metalinguistica si dà nel momento in cui la natura stessa del cinema viene mostrata per quello che realmente è, con lo strumento di ripresa e lo sguardo del regista che non sempre sono in grado di procedere di pari passo e per questo motivo entrano in tensione - vedi anche The Cameramen (Il cameraman, 1928), sempre di Buster Keaton o l’esperimento rivoluzionario di Čelovek s kinoapparatom (L’uomo con la macchina da presa, 1929) di Dziga Vertov, nel quale prende decisamente il sopravvento sul volere dell’operatore di ripresa. L’esasperazione dei punti di vista ha esaltato la natura polisemica del cinema. La soggettività si fa straniante ed è con la Nouvelle Vague francese e il Free Cinema inglese che la moltiplicazione dei punti di vista si fa più disarmante, con effetti talvolta veramente sorprendenti e inusuali al fruire tradizionale del film. Effetti scopici, interviste, citazioni, didascalie, il ricorso alla macchina da presa messa in campo come un interprete della scena stessa, per confondere la realtà con la fantasia.
Come fa Karel Reisz in The French Lieutenant's Woman, dove la macchina a lavoro si vede appena e crea già tutto un mondo a parte. Si entra immediatamente in un meccanismo che poi scompare dalla scena per insinuare il dubbio che si tratti effettivamente di messa in scena. Si finisce in questo modo per confondere la realtà dalla finzione. Mike e Anna sono dentro Sarah e Charles e viceversa. Inevitabilmente condizionati dalla messa in scena e dagli esiti stessi della storia che raccontano, vi immettono tutto il trasporto emotivo della loro relazione extra-coniugale, dagli esiti imprevedibili, come il film stesso del resto, di cui ancora non è stato scritto il finale. C’è sempre una forma di peccato da estirpare, tra i rilievi dell’evoluzione dell’amore. Più Charles si avvicina a quella che è definita come la “sgualdrina” del tenente francese e più la relazione con Anna, l’attrice che la interpreta, acquisisce la forma dell’inganno. Non è facile essere sinceri con se stessi, quando si è preda del vortice della passione (leggasi anche, l’amore per il cinema e la recitazione). Si presume che Mike e Anna, amino recitare e per questo vi si gettano dentro a capofitto, anima e corpo, due anime e corpi pulsanti, vivi, condizionati dall’essenza del film.
Anna avverte il bisogno, in verità, di staccarsi dal coinvolgimento emotivo che le conferisce il personaggio ma è condizionata da quello che nella realtà sta avvenendo con Mike. Egli, a sua volta, spera fortemente che il favorito lieto fine (favorito veramente da tutti?) del film possa indirizzare la sua relazione segreta con Anna verso una confacente realtà. Non ha fatto i conti con la natura illusoria del cinema. In più, la società dell’epoca in cui è ambientato il film nel film, non è poi tanto più bigotta di quella nella quale vivono Mike e Anna, tant’è che la loro relazione è scandita dal senso di colpa causato dal tradimento, accompagnato da una curiosità che è più brama del sapere. Un modo di entrare nella loro intimità rischioso. Le riprese del film sembrano durare più del solito e Mike vorrebbe non finissero mai, per prolungare il piacere del deposito di quel sogno che il cinema contribuisce fatalmente a delineare nell’immaginario di chi ne popola il prospetto segnico. La relazione con il tenente francese, da parte della comunità oggetto di scherno e frutto dell’isolamento della donna, fa sentire Sarah come un oggetto sessuale, ed è esattamente quello che a poco a poco s’insinua nella mente di Anna. Il respiro poetico e malinconico di cui è intessuta la messinscena del capolavoro Reisz si riflette pienamente nello sguardo afflitto da “melancholia” della protagonista, interpretata magistralmente da Meryl Streep.
Un’emarginazione che ella stessa ricerca, perché non si sente compresa in quelle che sono le convinzioni tipiche dell’era vittoriana e che vanamente sembra poterle offrire uno slancio passionale. Lo stato decisionale di Anna e il senso di colpa scalpitante, sono influenzati dal fatto che Sarah, rinnegata da tutto e tutti, debba essere rinchiusa in manicomio. Il personaggio di Charles, prima di conoscere la donna del tenente francese, aveva chiesto in sposa Ernestina che poi rimane un personaggio ai margini della storia, un elemento secondario che serve solo a innescare il senso di colpa in entrambi. Serve a imbavagliarli nello stesso identico meccanismo psicologico che vivono in quanto amanti. A sua volta, Anna, è condizionata dalla meschinità insita nel personaggio di Charles e teme che ciò si possa ripercuotere nella sua relazione con il marito Mike. Un intricato gioco di specchi, del quale Harold Pinter si dimostra per l’ennesima volta, un abile maestro, nonché artigiano della parola, come ci ha spesso deliziato a partire proprio dai suoi testi teatrali degli anni ‘50 e ‘60 (e per chi non lo sapesse, egli è anche un grande poeta). Charles vorrebbe sposare Sarah ma la sua fuga (doppia, se si considera il viaggio di Anna a Londra da suo marito, al momento di pausa dalle riprese) anticipa quello che sarà l’esito della relazione extra-coniugale. Mike cade dal “pero” ingenuamente, e Jeremy Irons questo lo svela magistralmente. Due sono i finali che restano in bilico fino alla fine, quello lieto e quello pessimista, più drammatico, ma si tratta pur sempre di due finali appesi alla costante del film: la melanconia. Condiziona inestricabilmente il comportamento dei personaggi, in braccio ad un paesaggio meraviglioso investito dal mare o da una boscaglia che infittisce ulteriormente le trame delle relazioni indisposte.
Senza volerlo, l’atto finale, è sensibilmente condizionato dall’esito della relazione tra Mike e Anna, e viceversa. Dove sono gli autori del film? Ci si concentra sugli interpreti che come talvolta capita, sono anch’essi autori. La delusione striscia a doppio filo nel meccanismo labirintico del film nel film. La fuga diviene il punto di arrivo e di non ritorno. Il percorso di Mike e Anna, dentro o fuori Charles e Sarah, alla fin fine, somiglia temibilmente a quello di Paolo Javal e Guido Anselmi. Il Cinema confonde e tuttavia ammalia, ti cattura dentro un meccanismo difficile da far trasparire. Non si può afferrare, far proprio, è sfuggente. Induce però alla riflessione. Una riflessione permanente e impermanente al contempo. E se in 8 ½ i personaggi del provino coincidono con quelli del film, allora i personaggi di Sarah e Charles potrebbero sembrare a tutti gli effetti due provinanti che avanzano a piccoli passi verso la verità della finzione filmica, a proprie spese, dolorosamente. Due interpreti scelti eppure, fino ad un passo dall’atto finale, ancora sotto esame. Chi li giudica? Probabilmente più il testo, del regista che li dirige o la comunità che li osserva come reietti. Una “mise in abyme”, una costruzione in abisso, verticale, a spirale, che riconduce alla nascita di tutto, nella consapevolezza dell’impossibilità di poter fare ordine che disvela una vergognosa discriminazione, una spietata condanna. L’amore non può essere libero, dentro determinati rigidi schematismi. Uscirne fuori, può comportare troppi rischi, meglio allora lasciarsi in balia della corrente. Quella corrente è il film che però non può mettere in fila la memoria. E la coscienza si fa porpora e cremisi, i colori della passione sviscerata dalle fondamenta dell’essere.
Woody Allen, nel 1980, con Stardust Memories, fa un ricalco buffo e irriverente, del capolavoro di Fellini e in qualche modo, espone quanto detto finora: l’illusione. Sono gli anni di The French Lieutenant's Woman e Der Stand der Dinge. Il contrario avviene qualche anno prima sul set del film Raba ljubvi (Schiavo d’amore, 1975) di Nikita Mikhalkov, con la guerra che irrompe a deturpare la magia dell’invenzione e con l’operatore che con la scusa del difetto di pellicola ne approfitta per girare clandestinamente gli esiti nefasti della violenza degli scontri armati tra le fazioni opposte. Lo strumento dell’illusione viene utilizzato in questo caso in forma di reportage, per offrire un’obiettività ai fatti. E se l’illusione fosse la chiave per comprendere sempre meglio la realtà? E se la realtà fosse un sogno e il cinema ci aiutasse a penetrarlo? Vuol dire allora che può avere la libertà di raccontare meglio di qualunque altra arte quello per cui è nato, sondare il mistero.
TR-102
08.06.2024
Nel metacinema, il cinema che mostra e parla di sé stesso, realtà e finzione s’intersecano in maniera chiara ma non distinta. Quando Harold Pinter scrisse la sceneggiatura di The French Lieutenant's Woman (La donna del tenente francese, 1981), traendola dall’omonimo romanzo di John Fowles, lo sapeva benissimo. Lo aveva imparato da tutti quegli epigoni tutelari che lo avevano instradato verso soluzioni poco accomodanti, anche per esperienza diretta - Pinter aveva già sceneggiato film di grande valore come The Servant (Il servo,1963), The Accident (L’incidente, 1967) e The Go-Between (Messaggero d’amore, 1971), contribuendo ai migliori risultati artistici del regista Joseph Losey. La meraviglia e lo sgomento che lascia la macchina cinematografica, una volta messa in moto, possono disorientare. Il cinema non è fatto per essere compreso del tutto, vuole più che altro essere assorbito, nelle sue peculiarità rappresentative e dimostrative. Prima di The French Lieutenant's Woman, ci sono stati molti altri film che hanno raccontato il cinema nel suo farsi e disfarsi, nel suo comporsi e decomporsi sotto gli stessi occhi di chi vi mette mano.
La memoria cinefila, che per lunghi tratti acquisisce una statura funerea per quel senso del trapasso che si conferisce all’immaginario, ha reso iconici personaggi come la Norma Desmond di Sunset Boulevard (Viale del Tramonto, 1950), con quello sguardo nel quale sono racchiusi tanto il terrore di non poter più esistere nell’”ambiente che conta”, quanto quella statura da semi-divinità che l’ex diva si porta appresso come un fardello; lei, a tutti gli effetti, si sente ancora parte del meccanismo, la villa in cui vive, e nella quale accade l’omicidio che innesca la storia, ha qualcosa di stregato che, non a caso, la rappresenta meglio di qualunque altra cosa - perché “nel muto non avevano bisogno di parole, avevano i volti!”. Non a caso, il film di Billy Wilder s’incastona perfettamente con l’epoca del cinema classico americano che ha cercato di nascondere il più possibile l’artificio della messinscena - anche attraverso il cosiddetto dècoupage, detto anche montaggio analitico o invisibile - a vantaggio della chiarezza della narrazione, della storia raccontata in maniera naturale, lineare. Prima di allora, nell’era del muto, c’era maggiore libertà, conseguenza della battaglia che gli indipendenti vinsero contro il trust Edison, fondando Hollywood. E questo avviene, nonostante la nascita delle majors che negli anni ‘20 costituiscono i primi, grandi, Studios. Nasce lo Star System, e la Norma Desmond di Wilder discende proprio da lì, prima che i generi popolari che hanno fatto la fortuna di quegli stessi studi venissero poi codificati nel decennio seguente.
Sembra discendere da lì anche il produttore Jerry Prokosch, interpretato dal grande attore Jack Palance, che in Le Mépris (Il Disprezzo,1963) di Jean-Luc Godard, assume uno sceneggiatore nella sua residenza estiva alle porte di Roma per riscrivere la sceneggiatura di un film sull’Odissea che sarà diretto nientemeno che dal grande maestro del cinema espressionista tedesco Fritz Lang. Nel polot di Le Mépris lo sceneggiatore Paolo Javal (Michel Piccoli) ha un malinteso con la sua compagna Emilia (Brigitte Bardot) e l’odissea di Ulisse con Penelope diventa la loro, appresso ad una stima difficile da conquistarsi agli occhi tanto del regista, quanto del produttore. Anche perché, Lang non è interessato ad una chiave psicanalitica infarcita dell’esperienza stessa dello sceneggiatore, che vuole invece qualcosa di decisamente più classico, secondo il volere dello stesso produttore che nel frattempo sta sottilmente seducendo sua moglie. Paolo vede in Emilia un oggetto sessuale e lei stessa finisce per consegnarsi, da vero e proprio oggetto, nelle mani manipolatrici di Jerry.
L’andamento della relazione ha un aspetto simmetrico rispetto a quella raccontata da Pinter in The French Lieutenant's Woman. E vi si rispecchia il doppio personaggio interpretato in maniera sublime da Meryl Streep: Sarah, la “sgualdrina” del tenente francese che finisce per instaurare una relazione con il suo strenuo corteggiatore Charles, e Anna, la stessa attrice che la interpreta, giocosamente sedotta da Mike, interpretato da Jeremy Irons. Prima di entrare nel cuore dell’analisi del film, occorre soffermarsi sull’autoriflessività che il mezzo cinematografico ha da sempre posto, anche quando non ha trattato in maniera diretta il tema della Settima Arte. Nella riflessione che ogni arte compie su se stessa, a partire dalla pittura per approdare poi al teatro e alla letteratura, gli atti creativi sono sempre stati caricati di simbolismi. Il teatro nel teatro era già centrale in Shakespeare nell'Amleto (1600-1602) ed ha acquisito una sua forma avanguardista con Pirandello. Il Don Chisciotte legge nel libro che lo fa esistere le sue avventure e Dorian Gray vede, nel proprio ritratto, il se stesso futuro. Il cinema non può essere esente, tant’è che in maniera radicale, Luis Bunuel, nel 1928 con Un chien andalou, tagliò letteralmente in due quello sguardo trasognato. Prima ancora di lui, Buster Keaton, fece guardare nell’obiettivo una donna sola nella vasca, così all’improvviso senza nulla da dire ma molto da esprimere. Lo sgomento inizia a farsi forma di narrazione. E in quanti altri film la cosiddetta quarta parete si rompe per instaurare una comunicazione diretta con il pubblico? O una comunicazione destrutturata da una miriade di voci (off e over) che contribuiscono all’innesco di meccanismi puramente cinematografici, quali i flashback o i flashforward, salti indietro e avanti nel tempo.
Moltissimi se ne sono serviti della rottura della quarta parete, specie da quando la modernità ha fatto posto alla maneggevolezza dei mezzi e all’intertestualità dei medium. Ma non si riflette soltanto, è anche bello osservare l’intera macchina al lavoro, come avviene con FrançoisTruffaut in Effetto Notte (1973), il suo film più appassionato e libero, nel quale la passione per il cinema emerge in ogni singolo aspetto, perché mostra, e dimostra, quanto possa essere condizionato dall’amore l’andamento della realizzazione stessa di un film, anche nel rispetto delle scadenze e nel tentativo di mantenere in equilibrio l’umore di tutta la troupe e del cast. Oppure la riflessione può sposarsi, con grande inventiva, alla manifestazione, come nel capolavoro di Federico Fellini 8½ (1963), che racconta di un regista in piena crisi esistenziale, Guido Anselmi (Marcello Mastroianni), in cura alle stazioni termali e in stato confusionale per via di un film da lungo tempo in fase di preparazione. Il periodo di riposo, anche e soprattutto fisico, diviene l’occasione per fare un bilancio umorale delle proprie relazioni, delle proprie frustrazioni, ispirazioni e aspirazioni. Tutto è reso confuso dal via vai degli elementi della troupe e dai ricordi delle donne di Guido, in un vero e proprio valzer dei ruoli che acquisisce sempre più la natura di un "circo ambulante", impossibile a fermarsi e uniformarsi, in un processo inconscio naturale deputato all’istanza intrapsichica e denominato da Sigmund Freud come Es.
L’antitesi esatta delle sensazioni costitutive, l’atto del farsi, è invece rappresentato da Der Stand der Dinge (Lo stato delle cose, 1982) di Wim Wenders, nel quale predomina nettamente l’impasse della troupe e del cast, abbandonata su un’isola del Portogallo, senza più i soldi per finanziare la pellicola utile alle riprese di un film di fantascienza. Tutti sono fermi e bloccati in un albergo e nessuno sa più cosa fare, si è in attesa di notizie dal produttore, nel frattempo scomparso. Nonostante Guido sia fermo, la sua mente è in costante movimento di combutta con il proprio passato, ed è così che il film di Fellini si muove sempre; mentre in quello di Wenders, si rende poi necessario l’intervento del regista che si mette in viaggio verso Los Angeles, alla ricerca del produttore, ritiratosi in un camper e disperato, senza soldi e pedinato da una gang criminale alla quale aveva chiesto in anticipo quei soldi che non può più restituire. L’azione si fa riflessione dello stato del cinema in crisi d’idee ed ispirazione, condizionato sempre dalle “logiche” di guadagno del cinema commerciale/industriale. Nel caso di Wenders, c’entra anche l’esperienza personale intercorsa l’anno precedente con Francis Ford Coppola, per Hammett (1981), che interruppe la lavorazione per far riscrivere la sceneggiatura a Ross Thomas, dopo due insoddisfacenti tentativi antecedenti.
L’arte filtra la realtà sempre e comunque attraverso qualche mezzo e la soggettività la domina, donandole traiettorie inesplicabili, spesso non trasparenti per i loro stessi autori. I viaggi dei registi Guido Anselmi e Friedrich Munro, che si tratti di un percorso mentale o di un passaggio fisico, hanno risvolti simili, sono volti a scoprire e a definire le proprie priorità, a cercare di riacquisire la paternità dell’opera, alla base della riuscita di un film. L’Otto e mezzo di Fellini, probabilmente non sarebbe scaturito così com’è noto, se molto prima di allora non ci fosse stato il proiezionista di Buster Keaton che in Sherlock Jr. (La palla n.13, 1924) si addormenta, sognando di entrare dentro allo stesso film che sta proiettando dalla sua cabina di regia sul grande schermo, divenendo protagonista di una serie di disavventure. Keaton riesce a creare un curioso parallelismo tra la natura segnica e illusoria del cinema e quella fantasmatica e inestricabile del sogno. Uno spazio delle varianti potenzialmente infinito che può produrre tante cose straordinarie, quanto spaventose e potenzialmente pericolose. Sono i primi segnali del fenomeno dell’avventura al cinema, in comunione con l’avventura del fare un film, ed il meccanismo è posto in essere proprio dallo stadio più alto dell’autoriflessività cinematografica. S’innesca una certa tensione metalinguistica che condurrà poi i semiologi del cinema, quale il più illustre Christian Metz ad esempio, a mettere in dubbio la natura del cinema stesso, se definirlo lingua o linguaggio, bisognoso a secondo della definizione, di una grammatica o di un codice.
La tensione metalinguistica si dà nel momento in cui la natura stessa del cinema viene mostrata per quello che realmente è, con lo strumento di ripresa e lo sguardo del regista che non sempre sono in grado di procedere di pari passo e per questo motivo entrano in tensione - vedi anche The Cameramen (Il cameraman, 1928), sempre di Buster Keaton o l’esperimento rivoluzionario di Čelovek s kinoapparatom (L’uomo con la macchina da presa, 1929) di Dziga Vertov, nel quale prende decisamente il sopravvento sul volere dell’operatore di ripresa. L’esasperazione dei punti di vista ha esaltato la natura polisemica del cinema. La soggettività si fa straniante ed è con la Nouvelle Vague francese e il Free Cinema inglese che la moltiplicazione dei punti di vista si fa più disarmante, con effetti talvolta veramente sorprendenti e inusuali al fruire tradizionale del film. Effetti scopici, interviste, citazioni, didascalie, il ricorso alla macchina da presa messa in campo come un interprete della scena stessa, per confondere la realtà con la fantasia.
Come fa Karel Reisz in The French Lieutenant's Woman, dove la macchina a lavoro si vede appena e crea già tutto un mondo a parte. Si entra immediatamente in un meccanismo che poi scompare dalla scena per insinuare il dubbio che si tratti effettivamente di messa in scena. Si finisce in questo modo per confondere la realtà dalla finzione. Mike e Anna sono dentro Sarah e Charles e viceversa. Inevitabilmente condizionati dalla messa in scena e dagli esiti stessi della storia che raccontano, vi immettono tutto il trasporto emotivo della loro relazione extra-coniugale, dagli esiti imprevedibili, come il film stesso del resto, di cui ancora non è stato scritto il finale. C’è sempre una forma di peccato da estirpare, tra i rilievi dell’evoluzione dell’amore. Più Charles si avvicina a quella che è definita come la “sgualdrina” del tenente francese e più la relazione con Anna, l’attrice che la interpreta, acquisisce la forma dell’inganno. Non è facile essere sinceri con se stessi, quando si è preda del vortice della passione (leggasi anche, l’amore per il cinema e la recitazione). Si presume che Mike e Anna, amino recitare e per questo vi si gettano dentro a capofitto, anima e corpo, due anime e corpi pulsanti, vivi, condizionati dall’essenza del film.
Anna avverte il bisogno, in verità, di staccarsi dal coinvolgimento emotivo che le conferisce il personaggio ma è condizionata da quello che nella realtà sta avvenendo con Mike. Egli, a sua volta, spera fortemente che il favorito lieto fine (favorito veramente da tutti?) del film possa indirizzare la sua relazione segreta con Anna verso una confacente realtà. Non ha fatto i conti con la natura illusoria del cinema. In più, la società dell’epoca in cui è ambientato il film nel film, non è poi tanto più bigotta di quella nella quale vivono Mike e Anna, tant’è che la loro relazione è scandita dal senso di colpa causato dal tradimento, accompagnato da una curiosità che è più brama del sapere. Un modo di entrare nella loro intimità rischioso. Le riprese del film sembrano durare più del solito e Mike vorrebbe non finissero mai, per prolungare il piacere del deposito di quel sogno che il cinema contribuisce fatalmente a delineare nell’immaginario di chi ne popola il prospetto segnico. La relazione con il tenente francese, da parte della comunità oggetto di scherno e frutto dell’isolamento della donna, fa sentire Sarah come un oggetto sessuale, ed è esattamente quello che a poco a poco s’insinua nella mente di Anna. Il respiro poetico e malinconico di cui è intessuta la messinscena del capolavoro Reisz si riflette pienamente nello sguardo afflitto da “melancholia” della protagonista, interpretata magistralmente da Meryl Streep.
Un’emarginazione che ella stessa ricerca, perché non si sente compresa in quelle che sono le convinzioni tipiche dell’era vittoriana e che vanamente sembra poterle offrire uno slancio passionale. Lo stato decisionale di Anna e il senso di colpa scalpitante, sono influenzati dal fatto che Sarah, rinnegata da tutto e tutti, debba essere rinchiusa in manicomio. Il personaggio di Charles, prima di conoscere la donna del tenente francese, aveva chiesto in sposa Ernestina che poi rimane un personaggio ai margini della storia, un elemento secondario che serve solo a innescare il senso di colpa in entrambi. Serve a imbavagliarli nello stesso identico meccanismo psicologico che vivono in quanto amanti. A sua volta, Anna, è condizionata dalla meschinità insita nel personaggio di Charles e teme che ciò si possa ripercuotere nella sua relazione con il marito Mike. Un intricato gioco di specchi, del quale Harold Pinter si dimostra per l’ennesima volta, un abile maestro, nonché artigiano della parola, come ci ha spesso deliziato a partire proprio dai suoi testi teatrali degli anni ‘50 e ‘60 (e per chi non lo sapesse, egli è anche un grande poeta). Charles vorrebbe sposare Sarah ma la sua fuga (doppia, se si considera il viaggio di Anna a Londra da suo marito, al momento di pausa dalle riprese) anticipa quello che sarà l’esito della relazione extra-coniugale. Mike cade dal “pero” ingenuamente, e Jeremy Irons questo lo svela magistralmente. Due sono i finali che restano in bilico fino alla fine, quello lieto e quello pessimista, più drammatico, ma si tratta pur sempre di due finali appesi alla costante del film: la melanconia. Condiziona inestricabilmente il comportamento dei personaggi, in braccio ad un paesaggio meraviglioso investito dal mare o da una boscaglia che infittisce ulteriormente le trame delle relazioni indisposte.
Senza volerlo, l’atto finale, è sensibilmente condizionato dall’esito della relazione tra Mike e Anna, e viceversa. Dove sono gli autori del film? Ci si concentra sugli interpreti che come talvolta capita, sono anch’essi autori. La delusione striscia a doppio filo nel meccanismo labirintico del film nel film. La fuga diviene il punto di arrivo e di non ritorno. Il percorso di Mike e Anna, dentro o fuori Charles e Sarah, alla fin fine, somiglia temibilmente a quello di Paolo Javal e Guido Anselmi. Il Cinema confonde e tuttavia ammalia, ti cattura dentro un meccanismo difficile da far trasparire. Non si può afferrare, far proprio, è sfuggente. Induce però alla riflessione. Una riflessione permanente e impermanente al contempo. E se in 8 ½ i personaggi del provino coincidono con quelli del film, allora i personaggi di Sarah e Charles potrebbero sembrare a tutti gli effetti due provinanti che avanzano a piccoli passi verso la verità della finzione filmica, a proprie spese, dolorosamente. Due interpreti scelti eppure, fino ad un passo dall’atto finale, ancora sotto esame. Chi li giudica? Probabilmente più il testo, del regista che li dirige o la comunità che li osserva come reietti. Una “mise in abyme”, una costruzione in abisso, verticale, a spirale, che riconduce alla nascita di tutto, nella consapevolezza dell’impossibilità di poter fare ordine che disvela una vergognosa discriminazione, una spietata condanna. L’amore non può essere libero, dentro determinati rigidi schematismi. Uscirne fuori, può comportare troppi rischi, meglio allora lasciarsi in balia della corrente. Quella corrente è il film che però non può mettere in fila la memoria. E la coscienza si fa porpora e cremisi, i colori della passione sviscerata dalle fondamenta dell’essere.
Woody Allen, nel 1980, con Stardust Memories, fa un ricalco buffo e irriverente, del capolavoro di Fellini e in qualche modo, espone quanto detto finora: l’illusione. Sono gli anni di The French Lieutenant's Woman e Der Stand der Dinge. Il contrario avviene qualche anno prima sul set del film Raba ljubvi (Schiavo d’amore, 1975) di Nikita Mikhalkov, con la guerra che irrompe a deturpare la magia dell’invenzione e con l’operatore che con la scusa del difetto di pellicola ne approfitta per girare clandestinamente gli esiti nefasti della violenza degli scontri armati tra le fazioni opposte. Lo strumento dell’illusione viene utilizzato in questo caso in forma di reportage, per offrire un’obiettività ai fatti. E se l’illusione fosse la chiave per comprendere sempre meglio la realtà? E se la realtà fosse un sogno e il cinema ci aiutasse a penetrarlo? Vuol dire allora che può avere la libertà di raccontare meglio di qualunque altra arte quello per cui è nato, sondare il mistero.