NC-288
20.03.2025
Minimum Fax ha da poco dato alle stampe l’edizione italiana di Perché è divertente, una raccolta di interviste a Quentin Tarantino curata da Gerald Peary per le edizioni dell’università del Mississippi, che abbraccia la sua carriera da quel fatidico 1992, anno dell’esordio con Reservoir Dogs (Le iene),fino al 2012 di Django Unchained. Il cinema di Tarantino è sempre stato distinguibilissimo sin dalle sue prime battute, tra un uso spregiudicato della violenza sullo schermo e una capacità di scrittura dei dialoghi che richiama il meglio della prosa americana del XX secolo. In tutte le interviste raccolte in Perché è divertente, nel rapportarsi con la stampa Tarantino ama ricordare tanto il suo amore viscerale per il cinema di genere e per i B-movies quanto i suoi alti riferimenti letterari.
La passione per il cinema ha accompagnato l'iconico regista sin dall’infanzia. Come rievoca lo stesso Tarantino nell’intervista che apre il volume, realizzata da Michel Ciment e Hubert Niogret nel 1992, “quando avevo circa ventidue anni, ho preso in prestito una cinepresa 16mm. Per tre anni ho girato un lungometraggio, My Best Friend’s Birthday, nei fine settimana o quando avevo un po’ di soldi. Finanziavo il film con la modesta paga che mi davano in un negozio di videonoleggio. E dopo tre anni di riprese, finalmente ho avuto abbastanza soldi per metterci mano. Ho cominciato a montarlo e mi si è spezzato il cuore: non era quello che pensavo sarebbe stato. Così mi sono detto: ‘be’, è stata la mia scuola di cinema. Ora so come non fare un film’. Dunque ho cominciato a scrivere sceneggiature in modo da guadagnare soldi per fare un vero film. Una vita al massimo, e poi Natural Born Killers”.
In Perché è divertente Tarantino illumina anche sul suo metodo di scrittura: “per me è fondamentale, quando sto per scrivere una nuova sceneggiatura, andare in cartoleria e comprare un taccuino. Questo momento l’ho davvero idealizzato. Compro tre penne rosse e un taccuino. ‘Questo è il taccuino con cui scriverò Le iene’, dico. È un rituale preciso”.
Tarantino dirige John Travolta in Pulp Fiction (1994)
La copertina del libro
Reservoir Dogs scioccò il Sundance Film Festival del 1992 per l’originalità della sua struttura e la caratterizzazione di una serie di personaggi al limite del credibile, quasi che fossero le repliche di protagonisti di altri film di genere tutt’a un tratto calati in un nuovo campo da gioco. Al giornalista Peter Brunette Tarantino spiegò che ne Le iene “volevo spezzare la narrazione, non per fare il sapientone, lo sbruffone, ma per rendere il film drammaticamente migliore. Se ci fossi riuscito, avrei ottenuto una certa risonanza, quindi mi piaceva l’idea di dare le risposte prima di esaminare le domande”. Il risultato di questo esercizio di stile è un heist movie costruito tutto su una forma di cinosi narrativa, sull’allusione a una serie di eventi-chiave e di segreti che per il pubblico non vengono mai alla luce, ripagandolo tuttavia con una serie di momenti quasi slapstick e colpi di scena che restano impressi nella mente.
“Penso che i film dovrebbero beneficiare della libertà del romanzo”, proseguiva Tarantino. “È così che lavoro: lascio che i personaggi improvvisino, divento una specie di stenografo di tribunale. Ho la possibilità di essere attore e regista al tempo stesso”. Già al momento dell’uscita nelle sale americane de Le iene iniziò a palesarsi quella che sarebbe diventata la vexata quaestio dell’uso della violenza nei suoi film, ma alle critiche su quest’aspetto Tarantino si limitava già allora a dire che “io rispondo che amo la violenza nei film, e se non ti piace è come se non ti piacesse il tip tap, o la farsa, ma questo non significa che non debba essere mostrata”. Nonostante l’apparente istintività e sfrenatezza della regia di Tarantino, nelle sue opere c’è in realtà un gioco molto calibrato di visione e nascondimento, di narrazione e rimozione: “ciò che non si vede nell’inquadratura è importante quanto ciò che si vede. Alcuni registi vogliono mostrare tutto. Non vogliono che lo spettatore abbia dubbi di alcun genere, ma io no. Ho visto così tanti film che mi piace giocare con certi elementi”, disse in un’intervista a Graham Fuller.
Reservoir Dogs (Le iene, 1992)
Soprattutto dopo l’exploiit di Pulp Fiction, che dopo la presentazione e la vittoria della Palma d’Oro al Festival di Cannes divenne uno dei maggiori successi ai botteghini del 1994, iniziò a imporsi un sotto-genere “tarantiniano” dell’action americano, ma Tarantino si diceva contento dei molti emulatori: “mi divertono moltissimo. Se ho reso un po’ più facile per gli artisti andare in quella direzione, lavorare con la violenza, bene, vuol dire che sono servito a qualcosa”. Il suo amore e il suo rifarsi ai film d’exploitation degli anni settanta aveva per lui chiari origini biografiche e sociologiche: “vivevo nell’area urbana di South Bay. Nella città di Carson, una zona di neri, ispanici e samoani, c’era un cinema chiamato Carson Twin Cinema. Venivano proiettati tutti i film di exploitation non appena uscivano, ma anche i classici film hollywoodiani. E, nel weekend di uscita, l’unica settimana in cui venivano proiettati, gli ultimi film di kung-fu o i film blaxpoitation e hickspolitation”, ricorda Tarantino in un’intervista del 1996 con Don Gibalevich. “I ragazzi neri, i Crips, che urlavano verso lo schermo, tutti i samoani presenti, quelli che facevano combattimenti di kung-fu e così via. Era uno spasso. Le videocassette hanno spazzato via tutto questo: l’aspetto comunitario, l’aspetto ritualistico”.
Dopo che Pulp Fiction lo aveva consacrato come una delle voci di punta del cinema statunitense degli anni novanta, Quentin Tarantino volle alzare la posta del gioco adattando un romanzo di Elmore Leonard, Punch al rum, in quello che sarebbe diventato Jackie Brown, il suo terzo film datato 1997. “Volevo adattare Elmore Leonard da molto tempo. È stato il primo scrittore che ho letto da ragazzino che mi faceva sentire compreso. Si trattava di trovare il libro giusto. In realtà avevo letto Punch al rum, il romanzo da cui ho tratto Jackie Brown, nella versione tra la bozza e la pubblicazione, appena prima di finire le riprese di Pulp Fiction. L’ho letto e l’ho visualizzato subito”, racconta Tarantino in un’intervista con Adrian Wootton del 1998. “Elmore Leonard è ingannevole, difficile da adattare. E Punch al rum non è il romanzo più semplice. È complesso perché fondamentalmente vorresti riportare tutto sullo schermo, e non puoi. Trovi una parte che puoi sacrificare, ma poi ti rendi conto che contiene un’informazione importante sepolta all’interno. Quindi devi capire come mostrare quell’informazione in modo organico. La parola chiave è organicamente. Non volevo che sembrasse la versione da Reader’s Digest del suo romanzo”. Con Jackie Brown Tarantino riuscì a comporre uno dei suoi film più compatti e maturi, non un instant cult come fu Pulp Fiction ma una pellicola che ricevette il plauso del pubblico e della critica e che fruttò al suo co-protagonista Samuel L. Jackson un Orso d’Argento per l’interpretazione al Festival di Berlino.
Pam Grier e Tarantino sul set di Jackie Brown (1997)
Il dittico di Kill Bill: Volume uno e Volume due (2003-2004) aumentò esponenzialmente il numero di fan, ma anche di detrattori. In una lunga intervista con la giornalista Mary Kaye Schilling Tarantino affrontò di petto la questione della rappresentazione delle donne nei suoi film: “il fatto è che i personaggi sono anche me stesso. Mi considero uno scrittore che segue il Metodo. Sono la Sposa e ho cominciato ad assumere piccoli atteggiamenti femminili durante il processo di scrittura. È stato fantastico guardare il mondo per oltre un anno da quella prospettiva”. Più che una lettura ideologica Tarantino sperava che da Kill Bill trasparisse un’idea innovativa di lead female character: “mi fa strano categorizzarmi come femminista. Non perché io demonizzi il termine; più che altro penso di avere una parte femminile, e che quello che faccio sia più un segnale del mio apprezzamento per le donne che un’etichetta”.
“Sono stato cresciuto da una mamma single di origini umilissime. Si è creata una bella carriera da dirigente, era una leggenda ai suoi tempi nel campo HMO. Andava a mangiare in bei ristoranti, pagando lei stessa. Guidava una Cadillac Seville, e si era fatta da sola”. In questa stessa intervista con Schilling Tarantino si lasciava andare a una sorprendente esternazione in materia di fede: “non le dirò come o quanto sono credente, ma credo in Dio”. Kill Bill era per Tarantino la summa di tutte le sue ispirazioni cinematografici e di tutti i suoi feticismi da spettatore: particolarmente rivelatoria nel volume edito da Minimum Fax è l’intervista intitolata Quentin Tarantino rivela quasi tutto ciò che ha ispirato Kill Bill, raccolta dal giapponese Tomohiro Machiyama, in cui si elencano dozzine di titoli misconosciuti del cinema nipponico non meno che del cinema americano underground a cui il cineasta ha voluto in qualche modo rifarsi nel plasmare l’epopea di Kill Bill.
La sposa (Uma Thurman), memorabile protagonista dell'epopea di Kill Bill (2003-2004)
Già nel 2008, nell’intervista Tarantino risponde per le rime di Nick James, Tarantino esprimeva quello che negli ultimi anni è diventato un mantra con il suo voto laico di realizzare solo dieci film per il cinema: “non ho intenzione di fare film fino a tarda età. Non voglio essere un regista geriatrico. Penso anche ai fan che non sono ancora nati, o a quelli che sono come me quando avevo quattordici anni e ho scoperto Howard Hawks. Quando scopri un regista del genere, vuoi vedere tutti i film che ha girato, ma hai anche l’ansia che possa deluderti”. Da Perché è divertente non per nulla emerge un rapporto articolato con i critici di professione, con Tarantino che spazia da un chiacchiericcio espansivo sui suoi film e autori preferiti a chiare prese di posizioni sull’originalità della sua posizione registica: a Ryan Gilbey, che voleva vedere a tutti i costi un omaggio a The Searchers (Sentieri selvaggi, 1956) nell’inquadratura all’inizio di Inglourious Basterds (Bastardi senza gloria, 2009) con Shosanna che fugge, Tarantino risponde semplicemente di essere sicuro che “se la madre di John Ford non avesse mai conosciuto il padre di John Ford, avrei comunque capito che girare attraverso una porta come quella mi avrebbe regalato una bella inquadratura”.
Quentin Tarantino compone deliberatamente opere polistratificate, che possono soddisfare tanto i desideri del movie-goer più semplice e appassionato a quelli dei cinefili più colti e severi, ma il regista nelle interviste rimarca a più riprese la spontaneità della sua ispirazione: “finché funziona, è intrinseca nel personaggio e non spezza la trama, amo la critica sub-testuale. Quando scrivo, non sono molto analitico. Non mi occupo mai del sottotesto. Mi limito allo scenario. Tengo tutto in superficie. E una delle cose divertenti è che quando ho finito, come adesso, per esempio, posso diventare analitico sul processo. Posso guardare il film e vedere tutte le connessioni e tutto ciò che c’è sotto la superficie. Ma non voglio occuparmi di quello che c’è sotto, mentre scrivo o realizzo il film”.
Tarantino e il cast di Inglourious Basterds (Bastardi senza gloria, 2009)
Interessante l’approfondimento con Ryan Gilbey sul personaggio di Landa in Inglourious Basterds: “addentrandosi nella visione, ci si rende conto che Landa non è un membro convinto del partito. Sta facendo il suo lavoro. Non è un esponente rabbioso del Terzo Reich. Il nazismo per lui non è una religione: è un uomo molto concreto” e “carismatico in modo quietante. Non che si faccia il tifo per lui. Ma si presenta come un detective talmente bravo che non vuoi che ti deluda. Vuoi che sia bravo come pensi che sia”. Affascinante anche l’aneddoto sui primi giorni di riprese di Django Unchained (2012), quando Jamie Fox “essendo un maschio nero e forte”, manteneva un atteggiamento arrogante nei confronti del personaggio di Schultz, lo schiavista interpretato da Waltz, salvo poi doverlo correggere per fargli mostrare i segni di una vita in schiavitù.
Perché è divertente rappresenta un ottimo vademecum al cinema e all’immaginario tarantiniani, e il suo unico limite è quello di non coprire i due film più recenti e per certi versi più interessanti, The Hateful Eight (2015) e Once Upon a Time... in Hollywood (C’era una volta a Hollywood, 2019). Nondimeno la lettura del volume consente di addentrarsi nei contorti meandri che compongono la visione del cinema e della cultura occidentale di Tarantino, trovando continue sorprese nel suo logorroico tergiversare. Mentre cresce l’attesa del suo decimo film, dopo l’annuncio della mancata realizzazione di The Movie Critic, Tarantino resta nella memoria dei critici e degli spettatori come uno dei pochi cineasti veramente trasversali, popolari e al tempo stesso high-culture.
NC-288
20.03.2025
Tarantino dirige John Travolta in Pulp Fiction (1994)
Minimum Fax ha da poco dato alle stampe l’edizione italiana di Perché è divertente, una raccolta di interviste a Quentin Tarantino curata da Gerald Peary per le edizioni dell’università del Mississippi, che abbraccia la sua carriera da quel fatidico 1992, anno dell’esordio con Reservoir Dogs (Le iene),fino al 2012 di Django Unchained. Il cinema di Tarantino è sempre stato distinguibilissimo sin dalle sue prime battute, tra un uso spregiudicato della violenza sullo schermo e una capacità di scrittura dei dialoghi che richiama il meglio della prosa americana del XX secolo. In tutte le interviste raccolte in Perché è divertente, nel rapportarsi con la stampa Tarantino ama ricordare tanto il suo amore viscerale per il cinema di genere e per i B-movies quanto i suoi alti riferimenti letterari.
La passione per il cinema ha accompagnato l'iconico regista sin dall’infanzia. Come rievoca lo stesso Tarantino nell’intervista che apre il volume, realizzata da Michel Ciment e Hubert Niogret nel 1992, “quando avevo circa ventidue anni, ho preso in prestito una cinepresa 16mm. Per tre anni ho girato un lungometraggio, My Best Friend’s Birthday, nei fine settimana o quando avevo un po’ di soldi. Finanziavo il film con la modesta paga che mi davano in un negozio di videonoleggio. E dopo tre anni di riprese, finalmente ho avuto abbastanza soldi per metterci mano. Ho cominciato a montarlo e mi si è spezzato il cuore: non era quello che pensavo sarebbe stato. Così mi sono detto: ‘be’, è stata la mia scuola di cinema. Ora so come non fare un film’. Dunque ho cominciato a scrivere sceneggiature in modo da guadagnare soldi per fare un vero film. Una vita al massimo, e poi Natural Born Killers”.
In Perché è divertente Tarantino illumina anche sul suo metodo di scrittura: “per me è fondamentale, quando sto per scrivere una nuova sceneggiatura, andare in cartoleria e comprare un taccuino. Questo momento l’ho davvero idealizzato. Compro tre penne rosse e un taccuino. ‘Questo è il taccuino con cui scriverò Le iene’, dico. È un rituale preciso”.
La copertina del libro
Reservoir Dogs scioccò il Sundance Film Festival del 1992 per l’originalità della sua struttura e la caratterizzazione di una serie di personaggi al limite del credibile, quasi che fossero le repliche di protagonisti di altri film di genere tutt’a un tratto calati in un nuovo campo da gioco. Al giornalista Peter Brunette Tarantino spiegò che ne Le iene “volevo spezzare la narrazione, non per fare il sapientone, lo sbruffone, ma per rendere il film drammaticamente migliore. Se ci fossi riuscito, avrei ottenuto una certa risonanza, quindi mi piaceva l’idea di dare le risposte prima di esaminare le domande”. Il risultato di questo esercizio di stile è un heist movie costruito tutto su una forma di cinosi narrativa, sull’allusione a una serie di eventi-chiave e di segreti che per il pubblico non vengono mai alla luce, ripagandolo tuttavia con una serie di momenti quasi slapstick e colpi di scena che restano impressi nella mente.
“Penso che i film dovrebbero beneficiare della libertà del romanzo”, proseguiva Tarantino. “È così che lavoro: lascio che i personaggi improvvisino, divento una specie di stenografo di tribunale. Ho la possibilità di essere attore e regista al tempo stesso”. Già al momento dell’uscita nelle sale americane de Le iene iniziò a palesarsi quella che sarebbe diventata la vexata quaestio dell’uso della violenza nei suoi film, ma alle critiche su quest’aspetto Tarantino si limitava già allora a dire che “io rispondo che amo la violenza nei film, e se non ti piace è come se non ti piacesse il tip tap, o la farsa, ma questo non significa che non debba essere mostrata”. Nonostante l’apparente istintività e sfrenatezza della regia di Tarantino, nelle sue opere c’è in realtà un gioco molto calibrato di visione e nascondimento, di narrazione e rimozione: “ciò che non si vede nell’inquadratura è importante quanto ciò che si vede. Alcuni registi vogliono mostrare tutto. Non vogliono che lo spettatore abbia dubbi di alcun genere, ma io no. Ho visto così tanti film che mi piace giocare con certi elementi”, disse in un’intervista a Graham Fuller.
Reservoir Dogs (Le iene, 1992)
Soprattutto dopo l’exploiit di Pulp Fiction, che dopo la presentazione e la vittoria della Palma d’Oro al Festival di Cannes divenne uno dei maggiori successi ai botteghini del 1994, iniziò a imporsi un sotto-genere “tarantiniano” dell’action americano, ma Tarantino si diceva contento dei molti emulatori: “mi divertono moltissimo. Se ho reso un po’ più facile per gli artisti andare in quella direzione, lavorare con la violenza, bene, vuol dire che sono servito a qualcosa”. Il suo amore e il suo rifarsi ai film d’exploitation degli anni settanta aveva per lui chiari origini biografiche e sociologiche: “vivevo nell’area urbana di South Bay. Nella città di Carson, una zona di neri, ispanici e samoani, c’era un cinema chiamato Carson Twin Cinema. Venivano proiettati tutti i film di exploitation non appena uscivano, ma anche i classici film hollywoodiani. E, nel weekend di uscita, l’unica settimana in cui venivano proiettati, gli ultimi film di kung-fu o i film blaxpoitation e hickspolitation”, ricorda Tarantino in un’intervista del 1996 con Don Gibalevich. “I ragazzi neri, i Crips, che urlavano verso lo schermo, tutti i samoani presenti, quelli che facevano combattimenti di kung-fu e così via. Era uno spasso. Le videocassette hanno spazzato via tutto questo: l’aspetto comunitario, l’aspetto ritualistico”.
Dopo che Pulp Fiction lo aveva consacrato come una delle voci di punta del cinema statunitense degli anni novanta, Quentin Tarantino volle alzare la posta del gioco adattando un romanzo di Elmore Leonard, Punch al rum, in quello che sarebbe diventato Jackie Brown, il suo terzo film datato 1997. “Volevo adattare Elmore Leonard da molto tempo. È stato il primo scrittore che ho letto da ragazzino che mi faceva sentire compreso. Si trattava di trovare il libro giusto. In realtà avevo letto Punch al rum, il romanzo da cui ho tratto Jackie Brown, nella versione tra la bozza e la pubblicazione, appena prima di finire le riprese di Pulp Fiction. L’ho letto e l’ho visualizzato subito”, racconta Tarantino in un’intervista con Adrian Wootton del 1998. “Elmore Leonard è ingannevole, difficile da adattare. E Punch al rum non è il romanzo più semplice. È complesso perché fondamentalmente vorresti riportare tutto sullo schermo, e non puoi. Trovi una parte che puoi sacrificare, ma poi ti rendi conto che contiene un’informazione importante sepolta all’interno. Quindi devi capire come mostrare quell’informazione in modo organico. La parola chiave è organicamente. Non volevo che sembrasse la versione da Reader’s Digest del suo romanzo”. Con Jackie Brown Tarantino riuscì a comporre uno dei suoi film più compatti e maturi, non un instant cult come fu Pulp Fiction ma una pellicola che ricevette il plauso del pubblico e della critica e che fruttò al suo co-protagonista Samuel L. Jackson un Orso d’Argento per l’interpretazione al Festival di Berlino.
Pam Grier e Tarantino sul set di Jackie Brown (1997)
Il dittico di Kill Bill: Volume uno e Volume due (2003-2004) aumentò esponenzialmente il numero di fan, ma anche di detrattori. In una lunga intervista con la giornalista Mary Kaye Schilling Tarantino affrontò di petto la questione della rappresentazione delle donne nei suoi film: “il fatto è che i personaggi sono anche me stesso. Mi considero uno scrittore che segue il Metodo. Sono la Sposa e ho cominciato ad assumere piccoli atteggiamenti femminili durante il processo di scrittura. È stato fantastico guardare il mondo per oltre un anno da quella prospettiva”. Più che una lettura ideologica Tarantino sperava che da Kill Bill trasparisse un’idea innovativa di lead female character: “mi fa strano categorizzarmi come femminista. Non perché io demonizzi il termine; più che altro penso di avere una parte femminile, e che quello che faccio sia più un segnale del mio apprezzamento per le donne che un’etichetta”.
“Sono stato cresciuto da una mamma single di origini umilissime. Si è creata una bella carriera da dirigente, era una leggenda ai suoi tempi nel campo HMO. Andava a mangiare in bei ristoranti, pagando lei stessa. Guidava una Cadillac Seville, e si era fatta da sola”. In questa stessa intervista con Schilling Tarantino si lasciava andare a una sorprendente esternazione in materia di fede: “non le dirò come o quanto sono credente, ma credo in Dio”. Kill Bill era per Tarantino la summa di tutte le sue ispirazioni cinematografici e di tutti i suoi feticismi da spettatore: particolarmente rivelatoria nel volume edito da Minimum Fax è l’intervista intitolata Quentin Tarantino rivela quasi tutto ciò che ha ispirato Kill Bill, raccolta dal giapponese Tomohiro Machiyama, in cui si elencano dozzine di titoli misconosciuti del cinema nipponico non meno che del cinema americano underground a cui il cineasta ha voluto in qualche modo rifarsi nel plasmare l’epopea di Kill Bill.
La sposa (Uma Thurman), memorabile protagonista dell'epopea di Kill Bill (2003-2004)
Già nel 2008, nell’intervista Tarantino risponde per le rime di Nick James, Tarantino esprimeva quello che negli ultimi anni è diventato un mantra con il suo voto laico di realizzare solo dieci film per il cinema: “non ho intenzione di fare film fino a tarda età. Non voglio essere un regista geriatrico. Penso anche ai fan che non sono ancora nati, o a quelli che sono come me quando avevo quattordici anni e ho scoperto Howard Hawks. Quando scopri un regista del genere, vuoi vedere tutti i film che ha girato, ma hai anche l’ansia che possa deluderti”. Da Perché è divertente non per nulla emerge un rapporto articolato con i critici di professione, con Tarantino che spazia da un chiacchiericcio espansivo sui suoi film e autori preferiti a chiare prese di posizioni sull’originalità della sua posizione registica: a Ryan Gilbey, che voleva vedere a tutti i costi un omaggio a The Searchers (Sentieri selvaggi, 1956) nell’inquadratura all’inizio di Inglourious Basterds (Bastardi senza gloria, 2009) con Shosanna che fugge, Tarantino risponde semplicemente di essere sicuro che “se la madre di John Ford non avesse mai conosciuto il padre di John Ford, avrei comunque capito che girare attraverso una porta come quella mi avrebbe regalato una bella inquadratura”.
Quentin Tarantino compone deliberatamente opere polistratificate, che possono soddisfare tanto i desideri del movie-goer più semplice e appassionato a quelli dei cinefili più colti e severi, ma il regista nelle interviste rimarca a più riprese la spontaneità della sua ispirazione: “finché funziona, è intrinseca nel personaggio e non spezza la trama, amo la critica sub-testuale. Quando scrivo, non sono molto analitico. Non mi occupo mai del sottotesto. Mi limito allo scenario. Tengo tutto in superficie. E una delle cose divertenti è che quando ho finito, come adesso, per esempio, posso diventare analitico sul processo. Posso guardare il film e vedere tutte le connessioni e tutto ciò che c’è sotto la superficie. Ma non voglio occuparmi di quello che c’è sotto, mentre scrivo o realizzo il film”.
Tarantino e il cast di Inglourious Basterds (Bastardi senza gloria, 2009)
Interessante l’approfondimento con Ryan Gilbey sul personaggio di Landa in Inglourious Basterds: “addentrandosi nella visione, ci si rende conto che Landa non è un membro convinto del partito. Sta facendo il suo lavoro. Non è un esponente rabbioso del Terzo Reich. Il nazismo per lui non è una religione: è un uomo molto concreto” e “carismatico in modo quietante. Non che si faccia il tifo per lui. Ma si presenta come un detective talmente bravo che non vuoi che ti deluda. Vuoi che sia bravo come pensi che sia”. Affascinante anche l’aneddoto sui primi giorni di riprese di Django Unchained (2012), quando Jamie Fox “essendo un maschio nero e forte”, manteneva un atteggiamento arrogante nei confronti del personaggio di Schultz, lo schiavista interpretato da Waltz, salvo poi doverlo correggere per fargli mostrare i segni di una vita in schiavitù.
Perché è divertente rappresenta un ottimo vademecum al cinema e all’immaginario tarantiniani, e il suo unico limite è quello di non coprire i due film più recenti e per certi versi più interessanti, The Hateful Eight (2015) e Once Upon a Time... in Hollywood (C’era una volta a Hollywood, 2019). Nondimeno la lettura del volume consente di addentrarsi nei contorti meandri che compongono la visione del cinema e della cultura occidentale di Tarantino, trovando continue sorprese nel suo logorroico tergiversare. Mentre cresce l’attesa del suo decimo film, dopo l’annuncio della mancata realizzazione di The Movie Critic, Tarantino resta nella memoria dei critici e degli spettatori come uno dei pochi cineasti veramente trasversali, popolari e al tempo stesso high-culture.