La declinazione cinematografica di uno dei
massimi esponenti del realismo americano,
di Sofia Nanu
TR-34
02.10.2021
Da quando l’epidemia di Covid-19 è apparsa nelle nostre vite, sconvolgendole radicalmente, su diverse testate giornalistiche e piattaforme online dedicate all’arte, come l’Artribune , sono apparsi diversi articoli su Edward Hopper, celebre pittore realista dello scorso secolo, in cui si parla delle sue tele come specchi che riflettono profeticamente la nostra nuova e avvilente condizione sociale di solitudine. Hopper è diventato l’icona del nostro isolamento.
La sua arte infatti è conosciuta e amata per le sue atmosfere sospese e colme di silenzio, per l’alienazione che traspare nei soggetti ritratti e per l’importanza della luce come veicolo di emozioni.
Proprio per questi motivi Hopper, considerato pittore cinematografico, ha lasciato una grande eredità all’universo dell’espressione visiva, dalla fotografia fino al mondo della settima arte; sono molti infatti i registi e i direttori di fotografia che hanno omaggiato e citato la sua arte attraverso precise opzioni stilistiche.
Il legame tra Hopper e il cinema emerge dalle sue biografie che descrivono la sua infanzia trascorsa per la maggior parte del tempo nelle sale cinematografiche - come si vede nel dipinto New York Movie; la sua passione per il cinema lo ha ispirato profondamente nella creazione della sua arte che, a sua volta, ha influenzato il mondo del cinema. Il lavoro di Hopper è stato spesso associato a quello di un regista per l’organizzazione dello spazio pittorico, spezzato da tagli prospettici e da composizioni decentralizzate e compresse come se il pittore, attraverso uno zoom in avanti, avesse stretto improvvisamente l’angolo di ripresa.
L’occhio cinematico di Hopper, come quello di un regista, studia e scruta i suoi soggetti a distanza, in un atto quasi voyeuristico, organizzando la loro disposizione e la loro prossemica, come fossero attori di un set pronti a dialogare tra loro. L’osservatore ha l’impressione di essere dinnanzi all’inquadratura di un film che, da un momento all’altro, potrebbe evolversi in una sequenza. Peter Schjeldahl, poeta e critico d’arte, descrive così legame tra il pittore e il cinema: «trovo qualche cosa di ineffabilmente eccitante nel rettangolo che Hopper disegna per iniziare uno schizzo. Esso è come lo schermo bianco di un cinema […] Hopper capì la metafisica del film come nessun altro artista prima».
Il maestro della suspense Alfred Hitchcock è uno dei casi più interessanti in cui il cinema e la pittura di Hopper coesistono. Per il metaracconto La finestra sul cortile (1954), film sull’essere osservati, il cineasta si ispira alla serie di windows paintings come Night windows (1928) e House at dusk (1935), trasformando le finestre hopperiane in espediente narrativo per raccontare gli inquietanti eventi osservati da “Jeff”, fotoreporter costretto al riposo per un incidente, interpretato dal talentuoso James Stewart. Hitchcock fa delle finestre l’essenza del film e le inquadra in sincronia con l’intento di mostrare la totalità del condominio di Jeff, le vite degli sconosciuti attorno a lui e i segreti che esse nascondono.
Le finestre, come descrive il critico d’arte Brian o’Doherty: «sono come tanti occhi all’interno dei suoi quadri dove lo sguardo si perde». Queste, grazie alla fluidità del mezzo cinematografico, prendono vita e assumono forme diverse che, pur trasformandosi, conservano l’unicità del riferimento. Vediamo, attraverso una soggettiva di Jeff, una giovane ballerina che si sta cambiando; qui il riferimento alla ragazza chinata di Night windows, immortalata dall’occhio di Hopper, è evidente con l’unica eccezione della diversa prospettiva - nel film la visuale è frontale e la scena è ambientata di giorno.
In Psycho (1960) invece, il regista riesuma la casa vittoriana di House by the railroad (1925) per riprodurre una delle case più famose dell’immaginario cinematografico, l’abitazione di Norman Bates. Il regista, diversamente da Hopper, rimuove il binario del treno e pone la casa su una collina per intensificare la paura e il senso di minaccia. La sensazione di silenzio e di isolamento del dipinto emerge ancora di più nel film di Hitchcock dove l’atmosfera tetra che infonde la casa è motivata dalla narrazione, grazie alla quale l’osservatore identifica la casa come allegoria del male, luogo di misteri e di orribili omicidi.
Nighthawks (1942) è il quadro “fotografico” più celebre di Hopper e, allo stesso tempo, quello più discusso e interpretato. La scena è avvolta dal buio, un bar notturno è aperto e ospita al suo interno quattro nottambuli; l’atmosfera che trapela è misteriosa, i personaggi non comunicano tra di loro, eppure sembra che si conoscano e che aspettino uno sconvolgimento.
L’attesa e la sospensione, l’ambientazione urbana, portano qualsiasi amante del cinema a ritrovare nel dipinto le tracce di un possibile film poliziesco o noir. Ci si domanda: “Chi sono queste persone sedute, cosa aspettano? A cosa stanno pensando? Nighthawks si distingue per un mood così potente e singolare da aver spinto diversi registi ad omaggiarlo nelle forme più svariate, dalla citazioni fedeli fino alle interpretazioni più creative.
Anche il maestro dell’horror italiano, Dario Argento, mette in scena Nighthawks in Profondo Rosso (1975), noto a tutti come il “film rosso” e prima pellicola che ne segna definitivamente la fama internazionale. Nel lungometraggio, la ricostruzione del bar di Hopper è pressoché fedele, ad eccezione della presenza di cinque nottambuli e dell’insegna al neon azzurra che lampeggia ad intermittenza e che riporta il nome “Blue Bar”.
Marc cammina lento verso il bar che la macchina da presa inquadra, inizialmente sullo sfondo e, successivamente, dall’alto con un’inquadratura a piombo che mostra la piazza torinese, il bar e l’imponente fontana illuminata ai cui piedi è seduto Carlo. Poi, l’urlo di una donna infrange il silenzio e la scena assume improvvisamente tinte horror.
La sequenza è magistrale perché Argento crea un sottile contrasto tra la citazione pittorica e il resto della scena: ad un occhio più attento trapela che i due ambienti non comunicano tra di loro, al contrario, sembrano essere agli antipodi e si percepisce una frattura tra l’immobilità del bar e la mobilità della piazza. L’impressione è che i personaggi nel bar, al contrario di Marc e Carlo, sono sospesi in un fermo-immagine, come fossero i soggetti di Nighthawks impressi nella tela. Questa scelta estetica configura da un lato, il bar come luogo inviolato dagli eventi esterni, così come i suoi stessi frequentatori che non sembrano sentire neppure l’urlo della ragazza, dall’altro la piazza come dimensione del reale e della violenza.
Wim Wenders ripropone il quadro in Crimini invisibili (1997). Nella sequenza interessata ci sono un ragazzo e una ragazza che parlano tra di loro, la macchina da presa scorre indietro, allargando la visuale, e rivela il set di un film. Rispetto al dipinto di Hopper Wenders colloca, al posto del barista e del terzo nottambulo, una cinepresa - metanarrazione – e accanto ad essa un monitor che inquadra la coppia. Questa opzione stravolge l’originale di riferimento e, allo stesso tempo, mostra chiaramente il tema hopperiano del voyeurismo, essendo il cinema stesso voyeur.
La citazione più lampante del quadro di Hopper si ritrova invece in Spiccioli dal cielo (1981) pellicola di Herbert Ross, ambientata a Chicago durante la Grande Depressione, in bilico tra commedia, dramma e musical. L’allestimento scenografico di Philip Harrison, ricostruisce perfettamente il bar di Nighthawks così come la composizione dello spazio eccetto per i soggetti, l’uomo solitario con il cappello si trova a destra ed è quasi fuori dall’inquadratura (nel dipinto invece si trova vicino alla coppia), la coppia invece non dialoga con il proprietario.
Una delle opere interdisciplinari più originali e sperimentali sull’arte di Edward Hopper è il film Shirley: Visions of Reality (2013) di Gustav Deutsch, cineasta e videoartista più noto della terza generazione del cinema d’avanguardia austriaco.
La pellicola viene proiettata in sala e presentata al Festival internazionale del cinema di Berlino nella sezione Forum, diventando poi oggetto di un’istallazione al Künstlerhaus Museum dove vengono esposti alcuni oggetti utilizzati durante le riprese. Per la realizzazione del film, Deutsch si fa affiancare dalla scenografa Hanna Schimek e dal direttore della fotografia Jerzy Palacz il quale impiega, durante le riprese, apparecchi di illuminazione a lente di Fresnel per permettere di illuminare le scene con maggiore convergenza e come la luce del sole, arrivando a ottenere ombre nette e contrastate.
L’opera è di 92 minuti e narra gli eventi più importanti della vita di Shirley, interpretata da Stephanie Cumming, in un arco di tempo che equivale ai trent’anni di pittura di Hopper, dagli anni Trenta fino agli anni Sessanta. Si tratta di una meticolosa ricostruzione tridimensionale di tredici quadri di Hopper che corrispondono ai tredici capitoli del film. «ogni quadro della pellicola esiste per pochi minuti, cedendo il posto a un’altra stanza e a un diverso umore, quasi a non voler abituare la protagonista e lo spettatore alla certezza delle definizioni ma a lasciare, al centro, l’impressione di un mondo che continua a fluttuare» afferma Mariangela Martelli descrivendo la sostanza delle sequenze del film. La narrazione è orchestrata da una voice over maschile di un cronista telefonico che introduce i capitoli, dai monologhi interiori in voice-off di Shirley e dall’immissione di fonti sonore esterne.
Concludendo, nella penultima sequenza del film, Deutsch rompe con lo schema della narrazione e trasforma Sun in an Empty Room (1963). La ricostruzione del dipinto inizialmente viene rispettata e d’improvviso entra in scena, “letteralmente” nel quadro, Shirley. Cammina lentamente e si ferma dinanzi una finestra guardando fuori e contemplando ciò che vede, ciò a cui non può arrivare e dopo qualche minuto, sempre mantenendo quella lentezza tipica dei soggetti hopperiani, esce di scena. Inserire una presenza fisica in Sun in an Empty Room genera come scrive Antonio Costa: «un prolungamento della pittura nel cinema, stravolgendo il senso di riconoscibili tableaux vivants» […] «l’immagine si rigenera entrando in una nuova forma».
Davanti alla telecamera non risiede più unicamente l’arte di Hopper ma una nuova espressione, quella del regista, della sua personalità e della sua volontà di offrire una sua visione personale creando un’alternativa, un diverso modo di vedere e pensare il cinema.
La declinazione cinematografica
di uno dei massimi esponenti
del realismo americano,
di Sofia Nanu
TR-34
02.10.2021
Da quando l’epidemia di Covid-19 è apparsa nelle nostre vite, sconvolgendole radicalmente, su diverse testate giornalistiche e piattaforme online dedicate all’arte, come l’Artribune , sono apparsi diversi articoli su Edward Hopper, celebre pittore realista dello scorso secolo, in cui si parla delle sue tele come specchi che riflettono profeticamente la nostra nuova e avvilente condizione sociale di solitudine. Hopper è diventato l’icona del nostro isolamento.
La sua arte infatti è conosciuta e amata per le sue atmosfere sospese e colme di silenzio, per l’alienazione che traspare nei soggetti ritratti e per l’importanza della luce come veicolo di emozioni.
Proprio per questi motivi Hopper, considerato pittore cinematografico, ha lasciato una grande eredità all’universo dell’espressione visiva, dalla fotografia fino al mondo della settima arte; sono molti infatti i registi e i direttori di fotografia che hanno omaggiato e citato la sua arte attraverso precise opzioni stilistiche.
Il legame tra Hopper e il cinema emerge dalle sue biografie che descrivono la sua infanzia trascorsa per la maggior parte del tempo nelle sale cinematografiche - come si vede nel dipinto New York Movie; la sua passione per il cinema lo ha ispirato profondamente nella creazione della sua arte che, a sua volta, ha influenzato il mondo del cinema. Il lavoro di Hopper è stato spesso associato a quello di un regista per l’organizzazione dello spazio pittorico, spezzato da tagli prospettici e da composizioni decentralizzate e compresse come se il pittore, attraverso uno zoom in avanti, avesse stretto improvvisamente l’angolo di ripresa.
L’occhio cinematico di Hopper, come quello di un regista, studia e scruta i suoi soggetti a distanza, in un atto quasi voyeuristico, organizzando la loro disposizione e la loro prossemica, come fossero attori di un set pronti a dialogare tra loro. L’osservatore ha l’impressione di essere dinnanzi all’inquadratura di un film che, da un momento all’altro, potrebbe evolversi in una sequenza. Peter Schjeldahl, poeta e critico d’arte, descrive così legame tra il pittore e il cinema: «trovo qualche cosa di ineffabilmente eccitante nel rettangolo che Hopper disegna per iniziare uno schizzo. Esso è come lo schermo bianco di un cinema […] Hopper capì la metafisica del film come nessun altro artista prima».
Il maestro della suspense Alfred Hitchcock è uno dei casi più interessanti in cui il cinema e la pittura di Hopper coesistono. Per il metaracconto La finestra sul cortile (1954), film sull’essere osservati, il cineasta si ispira alla serie di windows paintings come Night windows (1928) e House at dusk (1935), trasformando le finestre hopperiane in espediente narrativo per raccontare gli inquietanti eventi osservati da “Jeff”, fotoreporter costretto al riposo per un incidente, interpretato dal talentuoso James Stewart. Hitchcock fa delle finestre l’essenza del film e le inquadra in sincronia con l’intento di mostrare la totalità del condominio di Jeff, le vite degli sconosciuti attorno a lui e i segreti che esse nascondono.
Le finestre, come descrive il critico d’arte Brian o’Doherty: «sono come tanti occhi all’interno dei suoi quadri dove lo sguardo si perde». Queste, grazie alla fluidità del mezzo cinematografico, prendono vita e assumono forme diverse che, pur trasformandosi, conservano l’unicità del riferimento. Vediamo, attraverso una soggettiva di Jeff, una giovane ballerina che si sta cambiando; qui il riferimento alla ragazza chinata di Night windows, immortalata dall’occhio di Hopper, è evidente con l’unica eccezione della diversa prospettiva - nel film la visuale è frontale e la scena è ambientata di giorno.
In Psycho (1960) invece, il regista riesuma la casa vittoriana di House by the railroad (1925) per riprodurre una delle case più famose dell’immaginario cinematografico, l’abitazione di Norman Bates. Il regista, diversamente da Hopper, rimuove il binario del treno e pone la casa su una collina per intensificare la paura e il senso di minaccia. La sensazione di silenzio e di isolamento del dipinto emerge ancora di più nel film di Hitchcock dove l’atmosfera tetra che infonde la casa è motivata dalla narrazione, grazie alla quale l’osservatore identifica la casa come allegoria del male, luogo di misteri e di orribili omicidi.
Nighthawks (1942) è il quadro “fotografico” più celebre di Hopper e, allo stesso tempo, quello più discusso e interpretato. La scena è avvolta dal buio, un bar notturno è aperto e ospita al suo interno quattro nottambuli; l’atmosfera che trapela è misteriosa, i personaggi non comunicano tra di loro, eppure sembra che si conoscano e che aspettino uno sconvolgimento.
L’attesa e la sospensione, l’ambientazione urbana, portano qualsiasi amante del cinema a ritrovare nel dipinto le tracce di un possibile film poliziesco o noir. Ci si domanda: “Chi sono queste persone sedute, cosa aspettano? A cosa stanno pensando? Nighthawks si distingue per un mood così potente e singolare da aver spinto diversi registi ad omaggiarlo nelle forme più svariate, dalla citazioni fedeli fino alle interpretazioni più creative.
Anche il maestro dell’horror italiano, Dario Argento, mette in scena Nighthawks in Profondo Rosso (1975), noto a tutti come il “film rosso” e prima pellicola che ne segna definitivamente la fama internazionale. Nel lungometraggio, la ricostruzione del bar di Hopper è pressoché fedele, ad eccezione della presenza di cinque nottambuli e dell’insegna al neon azzurra che lampeggia ad intermittenza e che riporta il nome “Blue Bar”.
Marc cammina lento verso il bar che la macchina da presa inquadra, inizialmente sullo sfondo e, successivamente, dall’alto con un’inquadratura a piombo che mostra la piazza torinese, il bar e l’imponente fontana illuminata ai cui piedi è seduto Carlo. Poi, l’urlo di una donna infrange il silenzio e la scena assume improvvisamente tinte horror.
La sequenza è magistrale perché Argento crea un sottile contrasto tra la citazione pittorica e il resto della scena: ad un occhio più attento trapela che i due ambienti non comunicano tra di loro, al contrario, sembrano essere agli antipodi e si percepisce una frattura tra l’immobilità del bar e la mobilità della piazza. L’impressione è che i personaggi nel bar, al contrario di Marc e Carlo, sono sospesi in un fermo-immagine, come fossero i soggetti di Nighthawks impressi nella tela. Questa scelta estetica configura da un lato, il bar come luogo inviolato dagli eventi esterni, così come i suoi stessi frequentatori che non sembrano sentire neppure l’urlo della ragazza, dall’altro la piazza come dimensione del reale e della violenza.
Wim Wenders ripropone il quadro in Crimini invisibili (1997). Nella sequenza interessata ci sono un ragazzo e una ragazza che parlano tra di loro, la macchina da presa scorre indietro, allargando la visuale, e rivela il set di un film. Rispetto al dipinto di Hopper Wenders colloca, al posto del barista e del terzo nottambulo, una cinepresa - metanarrazione – e accanto ad essa un monitor che inquadra la coppia. Questa opzione stravolge l’originale di riferimento e, allo stesso tempo, mostra chiaramente il tema hopperiano del voyeurismo, essendo il cinema stesso voyeur.
La citazione più lampante del quadro di Hopper si ritrova invece in Spiccioli dal cielo (1981) pellicola di Herbert Ross, ambientata a Chicago durante la Grande Depressione, in bilico tra commedia, dramma e musical. L’allestimento scenografico di Philip Harrison, ricostruisce perfettamente il bar di Nighthawks così come la composizione dello spazio eccetto per i soggetti, l’uomo solitario con il cappello si trova a destra ed è quasi fuori dall’inquadratura (nel dipinto invece si trova vicino alla coppia), la coppia invece non dialoga con il proprietario.
Una delle opere interdisciplinari più originali e sperimentali sull’arte di Edward Hopper è il film Shirley: Visions of Reality (2013) di Gustav Deutsch, cineasta e videoartista più noto della terza generazione del cinema d’avanguardia austriaco.
La pellicola viene proiettata in sala e presentata al Festival internazionale del cinema di Berlino nella sezione Forum, diventando poi oggetto di un’istallazione al Künstlerhaus Museum dove vengono esposti alcuni oggetti utilizzati durante le riprese. Per la realizzazione del film, Deutsch si fa affiancare dalla scenografa Hanna Schimek e dal direttore della fotografia Jerzy Palacz il quale impiega, durante le riprese, apparecchi di illuminazione a lente di Fresnel per permettere di illuminare le scene con maggiore convergenza e come la luce del sole, arrivando a ottenere ombre nette e contrastate.
L’opera è di 92 minuti e narra gli eventi più importanti della vita di Shirley, interpretata da Stephanie Cumming, in un arco di tempo che equivale ai trent’anni di pittura di Hopper, dagli anni Trenta fino agli anni Sessanta. Si tratta di una meticolosa ricostruzione tridimensionale di tredici quadri di Hopper che corrispondono ai tredici capitoli del film. «ogni quadro della pellicola esiste per pochi minuti, cedendo il posto a un’altra stanza e a un diverso umore, quasi a non voler abituare la protagonista e lo spettatore alla certezza delle definizioni ma a lasciare, al centro, l’impressione di un mondo che continua a fluttuare» afferma Mariangela Martelli descrivendo la sostanza delle sequenze del film. La narrazione è orchestrata da una voice over maschile di un cronista telefonico che introduce i capitoli, dai monologhi interiori in voice-off di Shirley e dall’immissione di fonti sonore esterne.
Concludendo, nella penultima sequenza del film, Deutsch rompe con lo schema della narrazione e trasforma Sun in an Empty Room (1963). La ricostruzione del dipinto inizialmente viene rispettata e d’improvviso entra in scena, “letteralmente” nel quadro, Shirley. Cammina lentamente e si ferma dinanzi una finestra guardando fuori e contemplando ciò che vede, ciò a cui non può arrivare e dopo qualche minuto, sempre mantenendo quella lentezza tipica dei soggetti hopperiani, esce di scena. Inserire una presenza fisica in Sun in an Empty Room genera come scrive Antonio Costa: «un prolungamento della pittura nel cinema, stravolgendo il senso di riconoscibili tableaux vivants» […] «l’immagine si rigenera entrando in una nuova forma».
Davanti alla telecamera non risiede più unicamente l’arte di Hopper ma una nuova espressione, quella del regista, della sua personalità e della sua volontà di offrire una sua visione personale creando un’alternativa, un diverso modo di vedere e pensare il cinema.