INT-72
10.05.2024
Leonardo Di Costanzo è una delle voci partenopee più interessanti del panorama cinematografico italiano degli ultimi anni. Documentarista di formazione, è passato alla finzione raccontando Napoli e la piaga della camorra attraverso prospettive uniche e particolari, spesso collocando pochi personaggi in ambienti chiusi, come ne L’intervallo (2012) o L’intrusa (2017). Nel 2021, Ariaferma, che vede come protagonisti Toni Servillo e Silvio Orlando, ha ulteriormente consolidato la sua importanza. Quest’anno il regista ha avuto l’occasione di presenziare al Festival Cinéma du Réel, dove ha presentato il restauro del suo primo documentario: Prove di Stato (1998). Il film segue le difficoltà della sindaca Luisa Bossa nell’amministrare il comune di Ercolano a seguito di Mani Pulite.
Abbiamo incontrato Leonardo di Costanzo, e parlato con lui dei suoi film e della sua idea di cinema.
Mi pare di capire che lei ha iniziato in Francia, che non mi sembra proprio il percorso più tipico dei cineasti italiani. Com’è successo?
Mi ero laureato all'Orientale di Napoli in lingue straniere moderne, però avevo fatto una tesi in Storia delle religioni ed etnologia. Per cui sono andato in Francia a cercare una scuola che facesse una cosa che era abbastanza sviluppata all’epoca, che era l'antropologia visuale: gli antropologi a un certo punto si resero conto che avrebbero potuto utilizzare la macchina da presa invece del taccuino. Non mi ricordo esattamente tutto, però, una volta lì, mi sono imbattuto in Les Ateliers Varan, una scuola fondata dal cineasta-antropologo Jean Rouch e dai suoi allievi. Per una serie di circostanze fortuite son riuscito ad entrare. All’epoca era una scuola pensata per le persone che venivano dai paesi in via di sviluppo, però ho avuto la fortuna che un camerunese, a cui era stato finanziato il corso, desistette all'ultimo minuto...lo sto ancora cercando per ringraziarlo. Era la fine degli anni ottanta ed era un momento di grande rinnovamento del documentario, ed Arte (rete televisiva francese dedicata alla cultura n.d.r.), che è stato un luogo di sperimentazione, era nata da poco. Mi ricordo che i produttori del canale venivano alle proiezioni di fine corso per individuare i futuri cineasti. Così, mi è capitato di iniziare a fare dei cortometraggi per Arte. Se pensi ad Alice Rohrwacher o Michelangelo Frammartino, c’è tutta una generazione - che secondo me ha rinnovato il cinema italiano - che non è uscita direttamente da Roma, ma si è confrontata con le esperienze delle grandi produzioni internazionali. Io sono convinto che è dalla contaminazione che nascono le cose buone.
Durante il festival Cinéma du Réel è stato proiettato il restauro di Prove di Stato, che ha ammesso di aver rivisto per la prima volta dopo vent’anni. Quali sono i suoi pensieri, rivedendolo oggi?
Innanzitutto l'ho trovato non invecchiato, benché nascesse da un'esperienza molto specifica dopo Mani Pulite. Però secondo me il problema del potere è sempre lo stesso: soddisfare i propri bisogni e quindi cadere nel populismo. Ero molto contento, temevo che fosse legato ad un periodo storico, ed invece in realtà rimane abbastanza universale, anche se questo non sono io a poterlo dire.
Nel Q&A dopo la proiezione ha insistito sull’aspetto teatrale del film.
Si, una cosa molto strana, perché in genere la teatralità si lega ad un cinema molto squadrato, con inquadrature fisse, mentre questa cosa di andare a cercare la teatralità con un cinema di prossimità che si fa guidare dalla realtà l’ho trovata molto bella.
Perché nel film osserviamo spesso i protagonisti, che nei loro litigi sembrano quasi entrare in un ruolo “esagerato” di se stessi.
Certo, partendo da un’esigenza reale. Bisogna prendere i personaggi in una situazione di conflitto o di bisogno. Io ho seguito proprio questa strada: la gente andava da Luisa Bossa per discutere della casa popolare, del lavoro, della multa, erano queste le principali preoccupazioni, le ragioni per le quali si erano recati là. Poi il fatto che ci fosse la macchina da presa li obbligava a cercare di essere più convincenti nelle loro richieste. E Luisa, di contro cercava di essere più convincente nello spiegare perché non poteva risolvere i loro problemi. È un po’ una rappresentazione del bisogno e del potere.
Ho molto apprezzato che lei accettasse che nel suo film ci fosse una rappresentazione del reale, più che la realtà stessa.
Certo, nel momento in cui filmiamo qualcuno, siamo nella rappresentazione. Poi secondo me esistono dei gradi. Sì cioè, se io per esempio ti filmo in una situazione di conflitto è molto più probabile che riesca a cogliere non la mia ma la tua “verità”, perché tu hai i bisogno di vincere quel conflitto. Se ti chiedo di fare quello che dico io è perché ne ho bisogno, per la mia sceneggiatura, per far avanzare il racconto che ho in testa...e allora è meglio che io scriva per l’interprete una bella sceneggiatura con i dialoghi. Per questo, ad un certo punto, ho scelto di fare cinema di finzione, perché per quello che volevo dai personaggi avrei dovuto chiedere agli interpreti una partecipazione intima troppo forte.
In questo contesto, si potrebbe dire che il margine tra documentario e finzione è molto labile?
No, contrariamente a quanto si creda io penso che il documentario esista come linguaggio. Sono due forme di cinema, con due linguaggi diversi. Io sto parlando con te in questo momento, se tu mi filmi questo è un documentario, perché il mio pensiero ha le sue pause, c’è un ritorno indietro, un ripensamento a strade traverse… quando tu scrivi un dialogo in finzione è generalmente lineare e devi chiedere magari all’attore di creare le pause. Spesso quando si mettono insieme il linguaggio del documentario e della finzione, se non si tiene conto di questa differenza, lo si sente, lo si sente come uno scalino. Ci sono dei bravi registi che riescono a farlo, che riescono in modo intelligente a mischiare queste due dimensioni, Michelangelo Frammartino è bravissimo in questo per esempio.
Ha già accennato che è passato alla finzione perché sentiva un “limite” rispetto a quello che voleva raccontare.
Per esempio mi sono reso conto che mentre filmavo Prove di stato volevo raccontare Luisa, ma volevo raccontarla più da dentro. Cioè mi rendevo conto che vederla in azione, nei suoi incontri e conflitti, non mi faceva entrare troppo dentro di lei, era più una deduzione che un’analisi introspettiva. Ho voluto lavorare maggiormente sulle cose più “piccole”, perché le grandi svolte drammatiche si esprimono in piccoli movimenti, in piccoli segni… e quindi bisognava essere molto precisi nel delineare le trasformazioni del personaggio. E questo lo puoi fare solo se lo scrivi.
Un aspetto che secondo me ricorre sia nei suoi documentari che nei film di finzione è un po’ il conflitto, o l’incontro di personaggi che rappresentano posizioni opposte o diverse, come ne L’Intervallo o L’Intrusa.
Si il conflitto, l’incontro e lo scontro. Perché secondo me è anche un po’ la letteratura che è così, composta da conflitti interni o esterni dei personaggi, quindi per un protagonista che deve arrivare dall’altra parte del deserto, gli incontri e scontri che trova nel suo percorso gli permettono di rivelarsi.
Forse possiamo anche parlare di “unità di luogo” nei suoi film, se è d’accordo. Sono scelte intenzionali che lei compie a monte, o piuttosto coincidenze?
Si, è qualcosa di non programmatico. Mi piacerebbe che lo sia! Però mi rendo conto che quando devo raccontare una storia tutto diventa chiaro quando capisco il rapporto del corpo nello spazio. Quando questo è chiaro, per me la storia diventa chiara, c'è un rapporto diretto per cui il luogo per me non è un luogo, un contenitore, agisce sulla vicenda e agisce sul carattere, sulla trasformazione dei personaggi e sulle relazioni tra di essi. Quindi per me, per riuscire a figurarmi in fase di scrittura, lo spazio ha la stessa validità del cercare il protagonista o l'antieroe. Lo spazio non è intercambiabile. La cosa mi angoscia adesso, per esempio, perché ho scritto una sceneggiatura e quindi mi sono immaginato un luogo totalmente fittizio. Adesso devo trovare questo luogo che mi sono immaginato e quindi forse dovrò quasi totalmente riscrivere la storia in funzione dello spazio che troverò, riadattarla al luogo, perché il luogo è troppo importante.
Quindi, nel caso di Ariaferma, la storia è stata riscritta per ambientarla in quel carcere così particolare?
Molto sì, perché inizialmente era pensato in modo completamente diverso. Per esempio, lo spazio centrale, l'agorà, non era così come appare nel film. Era una prigione un po’ più tradizionale di quella che vediamo, cioè un grande camerone quadrato, con porte da una parte e dall’altra e in mezzo il luogo d’incontro. Però poi ho visto questo spazio con la cupola centrale, e mi ha fatto pensare ad un set di teatro. Sembrava una scenografia di teatro e abbiamo fatto anche un falso architettonico, perché generalmente quel luogo, ovvero il modello architettonico del panottico, generalmente non è un luogo di detenzione, è un punto da dove il guardiano riesce a controllare i padiglioni e i corridoi circostanti.
Sempre in Ariaferma, lei ha contrapposto Toni Servillo e Silvio Orlando, in un modo che non penso sia mai avvenuto nel cinema italiano. Come ha fatto a coinvolgere questi due attori nel progetto?
Vengo da un cinema che è totalmente diverso, però a un certo punto ho avuto la necessità di allontanarmi dal realismo, nel quale è inevitabile finire con gli attori non professionisti perché vengono scelti generalmente tra persone che sono molto vicine ai personaggi che devono interpretare. Cioè se devo far impersonare un detenuto, cerco un ex detenuto, perché conosce la situazione meglio di me. Almeno fino a un certo momento la pensavo così. Però, durante la scrittura di Ariaferma, mi sono reso conto che dovevo cercare di costruire un racconto che non fosse immediatamente realistico, che non fosse alla Ken Loach, che a me piace molto ma non funzionava in questo caso. Doveva assumere un carattere misterioso, un po’ fiabesco, per certi versi da fiaba nera. Per fare questo, tutti gli elementi, dalla scenografia fino alla recitazione, dovevano contribuire a creare questa particolare atmosfera sospesa. Infondo la recitazione di Servillo non può essere realistica, perché viene dal teatro.
È vero, Servillo di solito interpreta personaggi molto teatrali, “esuberanti", mentre in Ariaferma ha un ruolo opposto al suo solito.
Quando ho dato loro la sceneggiatura, gli ho assegnato come ruoli il proprio opposto, il capo delle guardie doveva essere Silvio Orlando. Invece, mentre loro leggevano, e non sapevo ancora se avrebbero accetto, ho pensato che li avrei dovuti convincere a scambiarsi, perché erano troppo dentro alla loro “tradizione interpretativa”. Un attore con gli anni si costruisce una valigia di maschere, di atteggiamenti, di parole, di gesti, di facce, per cui ad un certo punto, quando non capisce la scena, prova a riutilizzare questo repertorio. Certe volte Silvio mi diceva, “io non so come cazzo devo fare”. Si dovevano reinventare, ed io continuo a ringraziarli perché è stato un grande gesto di generosità nei miei confronti, anche di stima, perché mi hanno “annusato” molto prima di imbarcarsi in questa cosa. È stato molto bello perché quando ci siamo visti per la prima volta, e ci siamo fatti il primo giorno di lettura, gli dissi che avevo deciso che dovevano scambiarsi il ruolo. Alla fine abbiamo parlato per ore, senza leggere nemmeno una pagina, abbiamo parlato del mestiere dell’attore, del teatro, lì mi hanno testato proprio, mi hanno messo alla prova, per capire se potevano prendersi dei rischi.
Ha già accennato al suo prossimo progetto, ma pensa di tornare mai al documentario?
Dipende un po’ da quello che ti viene in mente di fare, ultimamente ho guardato i film di un grande regista italiano, secondo me non ricordato quanto meriterebbe: Francesco Rosi. È stato un grande inventore di forme; ha fatto dei film molto diversi, come quel “quasi” reportage del caso Mattei, dove lui addirittura si mette in scena come giornalista, o il film su Salvatore Giuliano. E quindi le forme nascevano dall'incontro con la necessità della storia. Molte volte abbiamo quest'idea di pensare in modo troppo formale, per cui molte volte arriviamo a una sorta di “formalismo vuoto”, mentre le forme sono interessanti quando hanno la loro necessità. Perché poi la storia cambia per adattarsi alla forma, entrando in un circolo vizioso.
INT-72
10.05.2024
Leonardo Di Costanzo è una delle voci partenopee più interessanti del panorama cinematografico italiano degli ultimi anni. Documentarista di formazione, è passato alla finzione raccontando Napoli e la piaga della camorra attraverso prospettive uniche e particolari, spesso collocando pochi personaggi in ambienti chiusi, come ne L’intervallo (2012) o L’intrusa (2017). Nel 2021, Ariaferma, che vede come protagonisti Toni Servillo e Silvio Orlando, ha ulteriormente consolidato la sua importanza. Quest’anno il regista ha avuto l’occasione di presenziare al Festival Cinéma du Réel, dove ha presentato il restauro del suo primo documentario: Prove di Stato (1998). Il film segue le difficoltà della sindaca Luisa Bossa nell’amministrare il comune di Ercolano a seguito di Mani Pulite.
Abbiamo incontrato Leonardo di Costanzo, e parlato con lui dei suoi film e della sua idea di cinema.
Mi pare di capire che lei ha iniziato in Francia, che non mi sembra proprio il percorso più tipico dei cineasti italiani. Com’è successo?
Mi ero laureato all'Orientale di Napoli in lingue straniere moderne, però avevo fatto una tesi in Storia delle religioni ed etnologia. Per cui sono andato in Francia a cercare una scuola che facesse una cosa che era abbastanza sviluppata all’epoca, che era l'antropologia visuale: gli antropologi a un certo punto si resero conto che avrebbero potuto utilizzare la macchina da presa invece del taccuino. Non mi ricordo esattamente tutto, però, una volta lì, mi sono imbattuto in Les Ateliers Varan, una scuola fondata dal cineasta-antropologo Jean Rouch e dai suoi allievi. Per una serie di circostanze fortuite son riuscito ad entrare. All’epoca era una scuola pensata per le persone che venivano dai paesi in via di sviluppo, però ho avuto la fortuna che un camerunese, a cui era stato finanziato il corso, desistette all'ultimo minuto...lo sto ancora cercando per ringraziarlo. Era la fine degli anni ottanta ed era un momento di grande rinnovamento del documentario, ed Arte (rete televisiva francese dedicata alla cultura n.d.r.), che è stato un luogo di sperimentazione, era nata da poco. Mi ricordo che i produttori del canale venivano alle proiezioni di fine corso per individuare i futuri cineasti. Così, mi è capitato di iniziare a fare dei cortometraggi per Arte. Se pensi ad Alice Rohrwacher o Michelangelo Frammartino, c’è tutta una generazione - che secondo me ha rinnovato il cinema italiano - che non è uscita direttamente da Roma, ma si è confrontata con le esperienze delle grandi produzioni internazionali. Io sono convinto che è dalla contaminazione che nascono le cose buone.
Durante il festival Cinéma du Réel è stato proiettato il restauro di Prove di Stato, che ha ammesso di aver rivisto per la prima volta dopo vent’anni. Quali sono i suoi pensieri, rivedendolo oggi?
Innanzitutto l'ho trovato non invecchiato, benché nascesse da un'esperienza molto specifica dopo Mani Pulite. Però secondo me il problema del potere è sempre lo stesso: soddisfare i propri bisogni e quindi cadere nel populismo. Ero molto contento, temevo che fosse legato ad un periodo storico, ed invece in realtà rimane abbastanza universale, anche se questo non sono io a poterlo dire.
Nel Q&A dopo la proiezione ha insistito sull’aspetto teatrale del film.
Si, una cosa molto strana, perché in genere la teatralità si lega ad un cinema molto squadrato, con inquadrature fisse, mentre questa cosa di andare a cercare la teatralità con un cinema di prossimità che si fa guidare dalla realtà l’ho trovata molto bella.
Perché nel film osserviamo spesso i protagonisti, che nei loro litigi sembrano quasi entrare in un ruolo “esagerato” di se stessi.
Certo, partendo da un’esigenza reale. Bisogna prendere i personaggi in una situazione di conflitto o di bisogno. Io ho seguito proprio questa strada: la gente andava da Luisa Bossa per discutere della casa popolare, del lavoro, della multa, erano queste le principali preoccupazioni, le ragioni per le quali si erano recati là. Poi il fatto che ci fosse la macchina da presa li obbligava a cercare di essere più convincenti nelle loro richieste. E Luisa, di contro cercava di essere più convincente nello spiegare perché non poteva risolvere i loro problemi. È un po’ una rappresentazione del bisogno e del potere.
Ho molto apprezzato che lei accettasse che nel suo film ci fosse una rappresentazione del reale, più che la realtà stessa.
Certo, nel momento in cui filmiamo qualcuno, siamo nella rappresentazione. Poi secondo me esistono dei gradi. Sì cioè, se io per esempio ti filmo in una situazione di conflitto è molto più probabile che riesca a cogliere non la mia ma la tua “verità”, perché tu hai i bisogno di vincere quel conflitto. Se ti chiedo di fare quello che dico io è perché ne ho bisogno, per la mia sceneggiatura, per far avanzare il racconto che ho in testa...e allora è meglio che io scriva per l’interprete una bella sceneggiatura con i dialoghi. Per questo, ad un certo punto, ho scelto di fare cinema di finzione, perché per quello che volevo dai personaggi avrei dovuto chiedere agli interpreti una partecipazione intima troppo forte.
In questo contesto, si potrebbe dire che il margine tra documentario e finzione è molto labile?
No, contrariamente a quanto si creda io penso che il documentario esista come linguaggio. Sono due forme di cinema, con due linguaggi diversi. Io sto parlando con te in questo momento, se tu mi filmi questo è un documentario, perché il mio pensiero ha le sue pause, c’è un ritorno indietro, un ripensamento a strade traverse… quando tu scrivi un dialogo in finzione è generalmente lineare e devi chiedere magari all’attore di creare le pause. Spesso quando si mettono insieme il linguaggio del documentario e della finzione, se non si tiene conto di questa differenza, lo si sente, lo si sente come uno scalino. Ci sono dei bravi registi che riescono a farlo, che riescono in modo intelligente a mischiare queste due dimensioni, Michelangelo Frammartino è bravissimo in questo per esempio.
Ha già accennato che è passato alla finzione perché sentiva un “limite” rispetto a quello che voleva raccontare.
Per esempio mi sono reso conto che mentre filmavo Prove di stato volevo raccontare Luisa, ma volevo raccontarla più da dentro. Cioè mi rendevo conto che vederla in azione, nei suoi incontri e conflitti, non mi faceva entrare troppo dentro di lei, era più una deduzione che un’analisi introspettiva. Ho voluto lavorare maggiormente sulle cose più “piccole”, perché le grandi svolte drammatiche si esprimono in piccoli movimenti, in piccoli segni… e quindi bisognava essere molto precisi nel delineare le trasformazioni del personaggio. E questo lo puoi fare solo se lo scrivi.
Un aspetto che secondo me ricorre sia nei suoi documentari che nei film di finzione è un po’ il conflitto, o l’incontro di personaggi che rappresentano posizioni opposte o diverse, come ne L’Intervallo o L’Intrusa.
Si il conflitto, l’incontro e lo scontro. Perché secondo me è anche un po’ la letteratura che è così, composta da conflitti interni o esterni dei personaggi, quindi per un protagonista che deve arrivare dall’altra parte del deserto, gli incontri e scontri che trova nel suo percorso gli permettono di rivelarsi.
Forse possiamo anche parlare di “unità di luogo” nei suoi film, se è d’accordo. Sono scelte intenzionali che lei compie a monte, o piuttosto coincidenze?
Si, è qualcosa di non programmatico. Mi piacerebbe che lo sia! Però mi rendo conto che quando devo raccontare una storia tutto diventa chiaro quando capisco il rapporto del corpo nello spazio. Quando questo è chiaro, per me la storia diventa chiara, c'è un rapporto diretto per cui il luogo per me non è un luogo, un contenitore, agisce sulla vicenda e agisce sul carattere, sulla trasformazione dei personaggi e sulle relazioni tra di essi. Quindi per me, per riuscire a figurarmi in fase di scrittura, lo spazio ha la stessa validità del cercare il protagonista o l'antieroe. Lo spazio non è intercambiabile. La cosa mi angoscia adesso, per esempio, perché ho scritto una sceneggiatura e quindi mi sono immaginato un luogo totalmente fittizio. Adesso devo trovare questo luogo che mi sono immaginato e quindi forse dovrò quasi totalmente riscrivere la storia in funzione dello spazio che troverò, riadattarla al luogo, perché il luogo è troppo importante.
Quindi, nel caso di Ariaferma, la storia è stata riscritta per ambientarla in quel carcere così particolare?
Molto sì, perché inizialmente era pensato in modo completamente diverso. Per esempio, lo spazio centrale, l'agorà, non era così come appare nel film. Era una prigione un po’ più tradizionale di quella che vediamo, cioè un grande camerone quadrato, con porte da una parte e dall’altra e in mezzo il luogo d’incontro. Però poi ho visto questo spazio con la cupola centrale, e mi ha fatto pensare ad un set di teatro. Sembrava una scenografia di teatro e abbiamo fatto anche un falso architettonico, perché generalmente quel luogo, ovvero il modello architettonico del panottico, generalmente non è un luogo di detenzione, è un punto da dove il guardiano riesce a controllare i padiglioni e i corridoi circostanti.
Sempre in Ariaferma, lei ha contrapposto Toni Servillo e Silvio Orlando, in un modo che non penso sia mai avvenuto nel cinema italiano. Come ha fatto a coinvolgere questi due attori nel progetto?
Vengo da un cinema che è totalmente diverso, però a un certo punto ho avuto la necessità di allontanarmi dal realismo, nel quale è inevitabile finire con gli attori non professionisti perché vengono scelti generalmente tra persone che sono molto vicine ai personaggi che devono interpretare. Cioè se devo far impersonare un detenuto, cerco un ex detenuto, perché conosce la situazione meglio di me. Almeno fino a un certo momento la pensavo così. Però, durante la scrittura di Ariaferma, mi sono reso conto che dovevo cercare di costruire un racconto che non fosse immediatamente realistico, che non fosse alla Ken Loach, che a me piace molto ma non funzionava in questo caso. Doveva assumere un carattere misterioso, un po’ fiabesco, per certi versi da fiaba nera. Per fare questo, tutti gli elementi, dalla scenografia fino alla recitazione, dovevano contribuire a creare questa particolare atmosfera sospesa. Infondo la recitazione di Servillo non può essere realistica, perché viene dal teatro.
È vero, Servillo di solito interpreta personaggi molto teatrali, “esuberanti", mentre in Ariaferma ha un ruolo opposto al suo solito.
Quando ho dato loro la sceneggiatura, gli ho assegnato come ruoli il proprio opposto, il capo delle guardie doveva essere Silvio Orlando. Invece, mentre loro leggevano, e non sapevo ancora se avrebbero accetto, ho pensato che li avrei dovuti convincere a scambiarsi, perché erano troppo dentro alla loro “tradizione interpretativa”. Un attore con gli anni si costruisce una valigia di maschere, di atteggiamenti, di parole, di gesti, di facce, per cui ad un certo punto, quando non capisce la scena, prova a riutilizzare questo repertorio. Certe volte Silvio mi diceva, “io non so come cazzo devo fare”. Si dovevano reinventare, ed io continuo a ringraziarli perché è stato un grande gesto di generosità nei miei confronti, anche di stima, perché mi hanno “annusato” molto prima di imbarcarsi in questa cosa. È stato molto bello perché quando ci siamo visti per la prima volta, e ci siamo fatti il primo giorno di lettura, gli dissi che avevo deciso che dovevano scambiarsi il ruolo. Alla fine abbiamo parlato per ore, senza leggere nemmeno una pagina, abbiamo parlato del mestiere dell’attore, del teatro, lì mi hanno testato proprio, mi hanno messo alla prova, per capire se potevano prendersi dei rischi.
Ha già accennato al suo prossimo progetto, ma pensa di tornare mai al documentario?
Dipende un po’ da quello che ti viene in mente di fare, ultimamente ho guardato i film di un grande regista italiano, secondo me non ricordato quanto meriterebbe: Francesco Rosi. È stato un grande inventore di forme; ha fatto dei film molto diversi, come quel “quasi” reportage del caso Mattei, dove lui addirittura si mette in scena come giornalista, o il film su Salvatore Giuliano. E quindi le forme nascevano dall'incontro con la necessità della storia. Molte volte abbiamo quest'idea di pensare in modo troppo formale, per cui molte volte arriviamo a una sorta di “formalismo vuoto”, mentre le forme sono interessanti quando hanno la loro necessità. Perché poi la storia cambia per adattarsi alla forma, entrando in un circolo vizioso.