NC-252
15.11.2024
David Cronenberg, classe 1943, di tutti i grandi nomi dell'horror americano è stato probabilmente quello che ha saputo trovare il miglior equilibrio tra il rispetto dei codici del cinema di genere e un'indubbia autorialità immediatamente riconoscibile. Impregnando i suoi film di esistenzialismo, di nichilismo, e di articolati riferimenti letterari, dal finire degli anni sessanta ad oggi - la sua ultima pellicola è stata presentata a maggio del 2024 a Cannes - ha creato un arazzo di opere che affrontano di petto alcune delle questioni ultime dell’esistenza umana, non esitando a pervenire a una vera e propria mostrificazione del reale.
Curato da David Schwartz per l’università del Mississippi nel 2021 e pubblicato adesso in Italia da Wudz Edizioni, che aveva avviato il suo catalogo pochi mesi fa con un volume analogo di interviste a Steven Spielberg, Una storia di violenza raccoglie una quindicina di interviste a Cronenberg realizzate nell’arco di quattro decenni. Omaggiando sin dal titolo uno dei film più celebri del regista canadese, il libro rappresenta un ottimo excursus nella filmografia e nei riferimenti culturali di un autore assolutamente unico nel suo genere, sfiorando sul finale anche la sua prova come romanziere per Divorati - pur non potendo coprire i suoi ultimi due film, tra i più interessanti della sua carriera, il magniloquente Crimes of the Future (2022) e il testamentario The Shrouds (2024), non ancora usciti al momento della pubblicazione originale della raccolta.
Le interviste contenute nel volume raccontano bene la parabola di Cronenberg, e anche se la più “antica” risale comunque al 1983, quando il regista aveva già alle spalle svariati lungometraggi, fanno luce in maniera efficace anche, e in particolar modo, sui suoi primi passi nell’industria cinematografica. Soprattutto nelle interviste più datate vediamo Cronenberg provare a sfuggire ai cliché giornalistici innescati dall'immaginario orrorifico del suo cinema, mettendo in chiaro di aver trascorso un'infanzia serena in un contesto famigliare piuttosto ordinario, con un padre editorialista del Toronto Telegram, dove teneva una rubrica sui francobolli, e occasionale scrittore di racconti di detective, e la madre pianista professionista. "A casa nostra c'erano sempre dei libri. Le pareti erano fatte di libri, letteralmente. Erano così ammucchiati l'uno sull'altro che c'erano corridoi fatti di libri, migliaia di libri". Cronenberg era un lettore vorace e iniziò precocemente anche a scrivere: a sedici anni un suo racconto venne apprezzato, anche se non pubblicato, dal popolare Magazine of Fantasy and Science Fiction. Si trovò a pensare di passare dalla scrittura alla regia quando un gruppo di suoi colleghi del college girò, lì a Toroto, un lungometraggio indipendente.
Accortosi improvvisamente che il cinema era ben più a portata di mano di quanto credesse - "per me è stato stupefacente rendermi conto che i film erano girati da degli esseri umani in carne e ossa" - il giovane Cronenberg fondò assieme all'altrettanto giovane Ivan Reitman e ad altri cineasti canadesi la Toronto Film Co-op, con cui realizzò i suoi primi cortometraggi, tra cui From the Drain (1967), che il regista paragonò a uno sketch di Beckett. Dopo Stereo (1969), poco più di un mediometraggio, il primo vero lungometraggio, Crimes of the Future - "un film oscuro, ma ci sta" - arrivò nel 1970, e venne seguito da Shivers (Il demone sotto a pelle) nel 1975. Fu così che, anche grazie al sostegno del Canada Council, il cineasta trascorse quasi un anno nella Francia meridionale, girando fegatelli per conto della televisione canadese e visitando per la prima volta il Festival di Cannes.
Sin da queste prime opere emerge in maniera prepotente la capacità di Cronenberg di effettuare all’interno del contesto del cinema di genere acute osservazioni sulla realtà sociale, non soffermandosi tanto sui problemi e le caratteristiche di vita del Canada in quanto tale ma proponendo una riflessione più vasta sulla società occidentale tout court. Ai giornalisti che gli facevano notare come già in film come Shivers e Rabid (1977) aleggiasse piuttosto nitidamente il fantasma dell'anarchia, Cronenberg rispondeva di tendere "a vedere il caos come un'iniziativa privata, non tanto sociale. Questo è senza dubbio dovuto al fatto che sono nato e cresciuto in Canada".
Il Canada resta però nel suo immaginario più come un milieu che come uno scenario di ambientazione e di analisi sociale vero e proprio, tant'è che, in termini distributivi, una volta affermatosi tra i registi-chiave dell’horror degli anni settanta e ottanta, il grosso del suo pubblico divenne statunitense. "Fare un film canadese che ignori l'America è impossibile. Non sarebbe un vero film canadese. Il Canada si è formato contro le tredici colonie, noi ci definiamo sempre contro l'America", è la sintesi delle sue riflessioni sul rapporto tra USA e Canada. E, parlando del suo amore per figure di outsider della letteratura americana come Allen Ginsberg, Jack Kerouac, Paul Bowles o William Burroughs, affermava: "suppongo che di fronte alla cultura di massa americana, anche i canadesi si sentano periferici, ed è logico per un canadese che avverte gli effetti dell'enorme macchina americana che sta a sud sentirsi periferici e provare una sorta di affinità nei confronti di quegli americani che a loro volta sono periferici. Tangeri come Toronto".
Il 1983 rappresentò un anno di svolta nella carriera di David Cronenberg: a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro, uscirono sia Videodrome che The Dead Zone (La zona morta), quest’ultimo tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King. Soprattutto Videodrome, un film che rifletteva in maniera molto grafica e provocatorio sul rapporto tra televisione e spettatore e sulla ri-creazione della realtà da parte dei nuovi media, provocò polemiche e attacchi nei confronti del regista. Nelle interviste però Cronenberg non perse mai la sua aplomb, limitandosi a dire che "stavo cercando di fare un film che fosse complesso come il modo in cui vivo la realtà" e che "Videodrome è un esempio perfetto di come le persone non siano in grado di capire la violenza se questa non viene mostrata. Sto inventando un immaginario onirico e non è particolarmente realistico. Quando un uomo si infila una mano nello stomaco, come facciamo a trasmettere questa esperienza senza mostrarlo?".
Via via che si espandeva l’audience dei suoi film aumentarono gli attacchi di critici e intellettuali militanti appartenenti al mondo LGBT o ancor di più del femminismo, per la scelta di mostrare molto più spesso donne che uomini al centro di scene di tortura e di violenza; ma chiamato quasi a difendersi sulle scene di simil-bondage Cronenberg affermava molto candidamente che, in quanto maschio eterosessuale, "se voglio sciogliere i vincoli sociali e vedere come funziona la mia sessualità nei suoi aspetti più oscuri, più folli e amorali mi viene naturale mostrare una donna piuttosto che un uomo".
Se già in un'intervista dei primi anni ottanta Cronenberg esprimeva al tempo stesso il suo desiderio di adattare per il cinema Naked Lunch (Il pasto nudo) di William Burroughs e la sua riluttanza dovuta alla componente omosessuale delle fantasie e delle allucinazioni dell'autore descritte nel romanzo, svariate delle interviste contenute in Una storia di violenza affrontano il complesso processo di trasposizione per lo schermo di un libro a lungo considerato inadatto a una resa cinematografica non meno delle opere di Joyce o di Proust. Molto interessante in particolare è un lungo pezzo del giornalista Gary Indiana per The Village Voice dove separatamente vengono interpellati sul film e sul suo rapporto con il libro sia Cronenberg che Burroughs. Quest’ultimo fu sempre piuttosto elogiativo nei confronti della versione cinematografica di Naked Lunch: "mi piace molto. Certo, è un film di Cronenberg. Penso che abbia fatto un ottimo lavoro. Non è come lo avrei fatto io, ma è giusto che sia così... Come ha sottolineato David, da Naked Lunch si potrebbero girare due o trecento film".
Cronenberg stesso tornò a più riprese a parlare del lavoro di adattamento che portò alla realizzazione di uno dei lavori più significativi e originali della sua filmografia, ma per certi versi si augurava anche che il suo Naked Lunch venisse percepito come un’opera a sé stante: "da qualche parte deve esserci un critico o un giornalista che non sa nulla di Burroughs. Sarebbe fantastico se qualcuno ne scrivesse [del film] a partire da queste premesse".
Le interviste contenute in Una storia di violenza scavano molto anche nella psicologia e nel passato famigliare del regista. Molto apprezzabile l’autoironia un po’ affettata con cui liquida il neologismo "cronenberghiano", inventato dai critici a partire dall’immaginario mostruoso dei suoi film, contro cui lui stesso propone un impossibile "cronenborghese". Sorprendente, interessante e a suo modo collegata anche al suo ultimo film, The Shrouds, è la rivelazione che Cronenberg fa, durante una lunga intervista con David Breskin per un volume collettivo di interviste a registi edito dalla Faber & Faber nei primi anni novanta, di non ricordarsi le date di morte dei genitori. Sempre in materia famigliare tocca anche la questione delle sue origini ebraiche, precisando però che "i miei genitori erano fondamentalmente irreligiosi o antireligiosi".
È proprio sul rapporto tra religione e arte che si incentra una delle più interessanti affermazioni di Cronenberg contenute nel volume. "Credo di porre l'arte in contrapposizione alla religione, o in sostituzione della religione, nel senso che se la religione serve a permetterti di venire a patti con la morte e anche a guidarti nel corso della vita, allora penso che l'arte possa fare la stessa cosa". Circa il timor mortis in quanto tale, Cronenberg ritiene di non essere terrorizzato dall'idea, ma di essere ben più propenso della media ad affrontare la questione - e se il pensiero della morte è regolarmente represso nella cultura occidentale, i suoi film, scardinando questo tabù, giocoforza si trovano ad addentrarsi in uno scenario fatto di mostri, di incubi, di misteriose trappole tanto visive quanto psicologiche.
Pur evitando pompose autoanalisi, in queste interviste Cronenberg si rileva estremamente cosciente delle implicazioni, anche filosofiche, che le sue opere possiedono. "In tutti i miei film c'è una qualche discussione, subliminale o diretta, sul libero arbitrio e sulla predestinazione. Che si tratti di predestinazione religiosa o genetica non ha molta importanza. È che la sensazione del libero arbitrio è così palpabile e tangibile, eppure le prove contro la sua reale esistenza sono piuttosto convincenti. Come ci si destreggia tra queste due cose?". La visione del mondo che ne traspare è inevitabilmente negativa, anche inafferrabile: "io sono come uno scrittore, che cerca di controllare il caos con le parole, ma sa che si tratta soltanto di parole", è una delle risposte più lapidarie e suggestive tra quelle date da Cronenberg. "Nella mia vita cerco di rifiutare i rituali, ma ne comprendo la funzione”, disse in un altro contesto. “In fondo è quello che fa qualsiasi artista: ogni opera d'arte è il tentativo di attribuire un significato a ciò che è apparentemente privo di senso, di ordinare con la forza della volontà ciò che forse, in termini umani, è caotico".
È così che, nella varietà di ambientazioni, generi e parabole narrative, i film di Cronenberg mantengono una forte unità intellettuale, in una coerenza d’insieme molto più forte e onniavvolgente di quello che capita, per dire, con filmografie di altri registi cronologicamente coevi e tematicamente accostabili come John Carpenter o George Romero. "Nella loro essenza, i miei film sono del tutto simili a me”, conclude Cronenberg. “Eppure resisterò sempre ai tentativi delle persone di identificarmi con i personaggi dei film o con gli atteggiamenti dei film, perché penso che questo sia fraintendere la natura dell'arte, dell'arte narrativa". A tal riguardo è rimasta celebre l'affermazione di Martin Scorsese, che pur ammirando le opere di Cronenberg era stato a lungo restio a conoscerlo, salvo poi accorgersi che il massimo regista horror canadese assomigliasse, testuali parole, a un ginecologo di Beverly Hills.
Una storia di violenza è ricco di riflessioni e spunti anche sulle dinamiche produttive e industriali che muovono il cinema nordamericano, e il traghettamento di un film verso il pubblico: nelle interviste a più riprese Cronenberg rivendica la sua indipendenza e la sua capacità di raggiungere un’audience decisamente vasta senza scendere a compromessi con i dettami del cinema mainstream. "Io non ho mai girato i miei film a Hollywood. Con Hollywood ci flirto. Voglio usarla. Voglio usare l'apparato della Fox per distribuire Naked Lunch negli Stati Uniti", affermava in maniera molto lucida in un’intervista dei primi anni Novanta, riflettendo poi che persino la Universal, "una delle case di produzione più conservatrici che siano mai esistite", abbia mostrato interesse per il suo lavoro acquistando i diritti di distribuzione di Videodrome. "Se si riesce a sfuggire al loro controllo e si ritiene di poter manipolare il sistema senza esserne manipolati, allora... È un gioco pericoloso, ma si può fare un tentativo. Ma quanto ci si può avvicinare al fuoco senza rimanere scottati?".
Altro passaggio obbligato del volume non meno di Naked Lunch è la disamina di Crash (1996), forse il più controverso lavoro dell’intera carriera di David Cronenberg, il che è tutto dire. Il film, tratto dall'omonimo romanzo di James Ballard, è incentrato su una coppia che, conosciutasi in un violento frontale che ha causato la morte del marito di lei, si unisce a una setta eroticamente ossessionata dagli incidenti stradali, in cui la fascinazione per l'incidente rappresenta "un elemento di iniziazione, ma non necessariamente sessuale, è una sorta di iniziazione a una consapevolezza e a una visione della vita". Nelle interviste Cronenberg riconosce esplicitamente un "elemento esistenzialista e nietzschiano" in Crash, nel fatto che i protagonisti creino "una sorta di realtà scelta in modo consensuale, che diventa una realtà a tutti gli effetti se si riesce a convincere un numero sufficiente di persone a sceglierla con noi" - il che la dice lunga sulla visione che l'autore ha, o vuole avere, tanto sulla sessualità quanto sulla religione.
E sempre riguardo all'esistenzialismo tra le altre letture alla base dell'immaginario di Cronenberg, da questo volume di interviste emerge anche una grande passione per La Nausea di Sartre, "irresistibile e incredibilmente potente, non ci si riprende mai una volta che ti ha colpito", oltre che un'attenta lettura del saggio L'allegoria d'amore di C.S. Lewis, che argomenta come la nostra concezione apparentemente spontanea dell'amore tra uomo o donna sia in realtà frutto dell'immaginario poetico e religioso dell'XI secolo.
Proseguendo nel raccontare la sua filmografia, Cronenberg non esita a rivendicare una diretta ispirazione alla filosofia heideggeriana per eXistenZ (1999), film metafisico e metaludico, con Jude Law e Jennifer Jason Leigh, uscito poco prima dello scoccare del millennio. "Quando Jude Law dice 'non voglio stare qui, avanziamo a tentoni in questo mondo informe, i cui obiettivi e le cui regole, se mai esistono, sono in gran parte sconosciuti, e siamo sempre sul punto di essere attaccati da forze che non comprendiamo’, in poche parole si tratta di Heidegger. È un riferimento alla sua descrizione della vita, dell'essere gettati nel mondo".
Primo film di Cronenberg nel nuovo millennio è invece Spider: il film, del 2002, è tratto dall’omonimo romanzo di Patrick McGrath, ma la silhouette del suo schizofrenico protagonista attinge direttamente all’immagine pubblica di uno dei massimi scrittori del Novecento: Samuel Beckett. "Saccheggiare Beckett. Non è qualcosa che viene dal romanzo, naturalmente, e neanche dalla sceneggiatura, ma proprio per il modo in cui queste scene sono descritte. Nella sceneggiatura ho iniziato a pensare molto a quelle immagini di Beckett che cammina per le strade di Parigi con il suo taccuino, a quella chioma colta e a quei grandi zigomi", commenta Cronenberg. "Solo dopo aver finito di montare il film mi è venuto in mente che Spider era in realtà una specie di incarnazione dell'incubo di un artista.... avere il bisogno di scrivere e non poterne parlare con nessuno".
Non meno riflessivo rimane Cronenberg nel parlare di A History of Violence, il suo film del 2007 che dà il titolo alla raccolta di interviste, in cui rivendica di aver cercato, nel tratteggiare i personaggi e nel costruire la storia, "l'onestà emotiva o, per essere più pretenzioso, l'onestà esistenziale. La morale è un'invenzione umana, non viene dallo spazio, non viene da Dio. Viene costantemente ridefinita ed è sempre tutta da verificare", è il mantra di Cronenberg. E, con lui, tutte "le persone che hanno lavorato a questo film non hanno certezze, vogliono ragionare sulle complessità. La scena finale ne è una chiara esemplificazione". Nelle ultime interviste del libro, si arriva a raccontare anche de La promessa dell'assassino (2007), sul cui set sia Cronenberg che il protagonista Viggo Mortensen, senza dire nulla l'un l'altro, si erano entrambi messi a leggere i libri di Dostoevskij per trovare l’ispirazione; di A Dangerous Method (2011), che consente a Cronenberg di formulare interessanti riflessioni sulla psicoanalisi e sul contrasto tra Freud e Jung letto (anche) in chiave religiosa; di Cosmopolis (2012), dramma da camera in movimento girato con Robert Pattinson e molti altri celebri attori che si alternano sullo schermo in una limousine tappezzata di green screen sopra i quali è stata ricostruita, in post-produzione, una Manhattan i cui esterni sono stati in realtà girati per lo più a Toronto; e di Maps to the Stars, il primo film di tutta la carriera di Cronenberg ad avere una parte delle scene girate negli Stati Uniti, in una Los Angeles demoniaca e vacua.
Nella penultima intervista contenuta nel volume trova spazio anche Divorati, il primo e ad oggi unico romanzo di David Cronenberg, pubblicato nel 2014 ed edito in Italia da Bompiani, incentrato su una coppia di fotogiornalisti, "nomadi freelance ossessionati dalla tecnologia", che si trova a indagare alla ricerca di uno scoop attorno alla fosca vicenda di due intellettuali francesi, gli Arosteguy, agli occhi di tutti una perfetta power couple fino al giorno in cui la donna viene trovata mutilata e parzialmente divorata nel suo appartamento parigino e l'uomo si dà alla macchia senza lasciare traccia. Per la coppia del mistero l'ispirazione iniziale di Cronenberg è stata palpabilmente e dichiaratamente la relazione pubblica tra Jean-Paul Sartre e Simone De Beauvoir, la più celebre liason letteraria, politica e sentimentale della Francia del Novecento.
Ma al di là dei suoi riferimenti letterari e della sua struttura narrativa globertrotter, Divorati è per Cronenberg un'occasione per tracciare un bilancio generale del suo immaginario: “si tratta di un approccio un po’ esistenzialista”, dichiara Cronenberg apertis verbis alla sua intervistatrice, Cadice McCarty-Williams di 4th Estate, che “ruota attorno all’idea che nasciamo alla vita completamente impreparati ad affrontare ciò che ci colpisce e alla complessità di cui è plasmato il mondo”.
Tirando le somme da queste quasi cinquecento pagine di lettura, ciò che sorprende davvero dell'opera e della personalità di Cronenberg è la sua capacità di sconfinare. Senza soluzione di continuità dai suoi esordi ad oggi, sia pure in una maniera sempre più esplicita, nel cinema di Cronenberg si sono inseguite tre componenti: una passione viscerale per le componenti visive del cinema di genere più hardcore; un amore per un certo tipo di letteratura estrema per contenuti e per linguaggio, e laterale, se non marginale, se non deformata, quanto allo sguardo sulla società - e questo vale tanto per la linea para-esistenzialista del suo immaginario rappresentata da Heidegger, Sartre e Beckett quanto dalle sue letture più beat, se non pulp, se non post-moderne, tra Burroughs, Ballard e Don DeLillo, da cui ha tratto Cosmopolis; e una componente di fascinazione sia visiva che intellettuale per la scienza - "gran parte della scienza è arte", si legge in una delle prime interviste del volume - accompagnata da una palpabile e ambivalente tensione nei confronti della tecnologia e dei suoi usi distorti.
Queste componenti, variamente in dialogo nel corso degli anni nell'immaginario cronenberghiano - che al di là delle battute del diretto interessato non è mai stato cronenborghese - rappresenta un coacervo di ispirazioni raramente in sinergia nella narrativa e ancor di più nel cinema occidentali. Anche nella fantascienza classica raramente la letterarietà e l'intellettualismo di un Dick si sono sposate a quell'immaginario granguignolesco e splatter solitamente relegato alla letteratura e ai film di serie B. Con un'operazione che sembra mostrare oscure affinità con l'immaginario pittorico di un Bacon, e tradurre sul piano grafico del visibile le metamorfosi al negativo di un Kafka, la filmografia di Cronenberg affronta di petto e di pancia non solo il tabù della morte, ma anche quelli della separazione tra umanesimo e cultura scientifica, tra high culture e narrativa di bassa lega, gemmando opere che minano tanto le sicurezze visive quanto gli schemi mentali su cui pare fondarsi quella che consideriamo essere la nostra società.
NC-252
15.11.2024
David Cronenberg, classe 1943, di tutti i grandi nomi dell'horror americano è stato probabilmente quello che ha saputo trovare il miglior equilibrio tra il rispetto dei codici del cinema di genere e un'indubbia autorialità immediatamente riconoscibile. Impregnando i suoi film di esistenzialismo, di nichilismo, e di articolati riferimenti letterari, dal finire degli anni sessanta ad oggi - la sua ultima pellicola è stata presentata a maggio del 2024 a Cannes - ha creato un arazzo di opere che affrontano di petto alcune delle questioni ultime dell’esistenza umana, non esitando a pervenire a una vera e propria mostrificazione del reale.
Curato da David Schwartz per l’università del Mississippi nel 2021 e pubblicato adesso in Italia da Wudz Edizioni, che aveva avviato il suo catalogo pochi mesi fa con un volume analogo di interviste a Steven Spielberg, Una storia di violenza raccoglie una quindicina di interviste a Cronenberg realizzate nell’arco di quattro decenni. Omaggiando sin dal titolo uno dei film più celebri del regista canadese, il libro rappresenta un ottimo excursus nella filmografia e nei riferimenti culturali di un autore assolutamente unico nel suo genere, sfiorando sul finale anche la sua prova come romanziere per Divorati - pur non potendo coprire i suoi ultimi due film, tra i più interessanti della sua carriera, il magniloquente Crimes of the Future (2022) e il testamentario The Shrouds (2024), non ancora usciti al momento della pubblicazione originale della raccolta.
Le interviste contenute nel volume raccontano bene la parabola di Cronenberg, e anche se la più “antica” risale comunque al 1983, quando il regista aveva già alle spalle svariati lungometraggi, fanno luce in maniera efficace anche, e in particolar modo, sui suoi primi passi nell’industria cinematografica. Soprattutto nelle interviste più datate vediamo Cronenberg provare a sfuggire ai cliché giornalistici innescati dall'immaginario orrorifico del suo cinema, mettendo in chiaro di aver trascorso un'infanzia serena in un contesto famigliare piuttosto ordinario, con un padre editorialista del Toronto Telegram, dove teneva una rubrica sui francobolli, e occasionale scrittore di racconti di detective, e la madre pianista professionista. "A casa nostra c'erano sempre dei libri. Le pareti erano fatte di libri, letteralmente. Erano così ammucchiati l'uno sull'altro che c'erano corridoi fatti di libri, migliaia di libri". Cronenberg era un lettore vorace e iniziò precocemente anche a scrivere: a sedici anni un suo racconto venne apprezzato, anche se non pubblicato, dal popolare Magazine of Fantasy and Science Fiction. Si trovò a pensare di passare dalla scrittura alla regia quando un gruppo di suoi colleghi del college girò, lì a Toroto, un lungometraggio indipendente.
Accortosi improvvisamente che il cinema era ben più a portata di mano di quanto credesse - "per me è stato stupefacente rendermi conto che i film erano girati da degli esseri umani in carne e ossa" - il giovane Cronenberg fondò assieme all'altrettanto giovane Ivan Reitman e ad altri cineasti canadesi la Toronto Film Co-op, con cui realizzò i suoi primi cortometraggi, tra cui From the Drain (1967), che il regista paragonò a uno sketch di Beckett. Dopo Stereo (1969), poco più di un mediometraggio, il primo vero lungometraggio, Crimes of the Future - "un film oscuro, ma ci sta" - arrivò nel 1970, e venne seguito da Shivers (Il demone sotto a pelle) nel 1975. Fu così che, anche grazie al sostegno del Canada Council, il cineasta trascorse quasi un anno nella Francia meridionale, girando fegatelli per conto della televisione canadese e visitando per la prima volta il Festival di Cannes.
Sin da queste prime opere emerge in maniera prepotente la capacità di Cronenberg di effettuare all’interno del contesto del cinema di genere acute osservazioni sulla realtà sociale, non soffermandosi tanto sui problemi e le caratteristiche di vita del Canada in quanto tale ma proponendo una riflessione più vasta sulla società occidentale tout court. Ai giornalisti che gli facevano notare come già in film come Shivers e Rabid (1977) aleggiasse piuttosto nitidamente il fantasma dell'anarchia, Cronenberg rispondeva di tendere "a vedere il caos come un'iniziativa privata, non tanto sociale. Questo è senza dubbio dovuto al fatto che sono nato e cresciuto in Canada".
Il Canada resta però nel suo immaginario più come un milieu che come uno scenario di ambientazione e di analisi sociale vero e proprio, tant'è che, in termini distributivi, una volta affermatosi tra i registi-chiave dell’horror degli anni settanta e ottanta, il grosso del suo pubblico divenne statunitense. "Fare un film canadese che ignori l'America è impossibile. Non sarebbe un vero film canadese. Il Canada si è formato contro le tredici colonie, noi ci definiamo sempre contro l'America", è la sintesi delle sue riflessioni sul rapporto tra USA e Canada. E, parlando del suo amore per figure di outsider della letteratura americana come Allen Ginsberg, Jack Kerouac, Paul Bowles o William Burroughs, affermava: "suppongo che di fronte alla cultura di massa americana, anche i canadesi si sentano periferici, ed è logico per un canadese che avverte gli effetti dell'enorme macchina americana che sta a sud sentirsi periferici e provare una sorta di affinità nei confronti di quegli americani che a loro volta sono periferici. Tangeri come Toronto".
Il 1983 rappresentò un anno di svolta nella carriera di David Cronenberg: a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro, uscirono sia Videodrome che The Dead Zone (La zona morta), quest’ultimo tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King. Soprattutto Videodrome, un film che rifletteva in maniera molto grafica e provocatorio sul rapporto tra televisione e spettatore e sulla ri-creazione della realtà da parte dei nuovi media, provocò polemiche e attacchi nei confronti del regista. Nelle interviste però Cronenberg non perse mai la sua aplomb, limitandosi a dire che "stavo cercando di fare un film che fosse complesso come il modo in cui vivo la realtà" e che "Videodrome è un esempio perfetto di come le persone non siano in grado di capire la violenza se questa non viene mostrata. Sto inventando un immaginario onirico e non è particolarmente realistico. Quando un uomo si infila una mano nello stomaco, come facciamo a trasmettere questa esperienza senza mostrarlo?".
Via via che si espandeva l’audience dei suoi film aumentarono gli attacchi di critici e intellettuali militanti appartenenti al mondo LGBT o ancor di più del femminismo, per la scelta di mostrare molto più spesso donne che uomini al centro di scene di tortura e di violenza; ma chiamato quasi a difendersi sulle scene di simil-bondage Cronenberg affermava molto candidamente che, in quanto maschio eterosessuale, "se voglio sciogliere i vincoli sociali e vedere come funziona la mia sessualità nei suoi aspetti più oscuri, più folli e amorali mi viene naturale mostrare una donna piuttosto che un uomo".
Se già in un'intervista dei primi anni ottanta Cronenberg esprimeva al tempo stesso il suo desiderio di adattare per il cinema Naked Lunch (Il pasto nudo) di William Burroughs e la sua riluttanza dovuta alla componente omosessuale delle fantasie e delle allucinazioni dell'autore descritte nel romanzo, svariate delle interviste contenute in Una storia di violenza affrontano il complesso processo di trasposizione per lo schermo di un libro a lungo considerato inadatto a una resa cinematografica non meno delle opere di Joyce o di Proust. Molto interessante in particolare è un lungo pezzo del giornalista Gary Indiana per The Village Voice dove separatamente vengono interpellati sul film e sul suo rapporto con il libro sia Cronenberg che Burroughs. Quest’ultimo fu sempre piuttosto elogiativo nei confronti della versione cinematografica di Naked Lunch: "mi piace molto. Certo, è un film di Cronenberg. Penso che abbia fatto un ottimo lavoro. Non è come lo avrei fatto io, ma è giusto che sia così... Come ha sottolineato David, da Naked Lunch si potrebbero girare due o trecento film".
Cronenberg stesso tornò a più riprese a parlare del lavoro di adattamento che portò alla realizzazione di uno dei lavori più significativi e originali della sua filmografia, ma per certi versi si augurava anche che il suo Naked Lunch venisse percepito come un’opera a sé stante: "da qualche parte deve esserci un critico o un giornalista che non sa nulla di Burroughs. Sarebbe fantastico se qualcuno ne scrivesse [del film] a partire da queste premesse".
Le interviste contenute in Una storia di violenza scavano molto anche nella psicologia e nel passato famigliare del regista. Molto apprezzabile l’autoironia un po’ affettata con cui liquida il neologismo "cronenberghiano", inventato dai critici a partire dall’immaginario mostruoso dei suoi film, contro cui lui stesso propone un impossibile "cronenborghese". Sorprendente, interessante e a suo modo collegata anche al suo ultimo film, The Shrouds, è la rivelazione che Cronenberg fa, durante una lunga intervista con David Breskin per un volume collettivo di interviste a registi edito dalla Faber & Faber nei primi anni novanta, di non ricordarsi le date di morte dei genitori. Sempre in materia famigliare tocca anche la questione delle sue origini ebraiche, precisando però che "i miei genitori erano fondamentalmente irreligiosi o antireligiosi".
È proprio sul rapporto tra religione e arte che si incentra una delle più interessanti affermazioni di Cronenberg contenute nel volume. "Credo di porre l'arte in contrapposizione alla religione, o in sostituzione della religione, nel senso che se la religione serve a permetterti di venire a patti con la morte e anche a guidarti nel corso della vita, allora penso che l'arte possa fare la stessa cosa". Circa il timor mortis in quanto tale, Cronenberg ritiene di non essere terrorizzato dall'idea, ma di essere ben più propenso della media ad affrontare la questione - e se il pensiero della morte è regolarmente represso nella cultura occidentale, i suoi film, scardinando questo tabù, giocoforza si trovano ad addentrarsi in uno scenario fatto di mostri, di incubi, di misteriose trappole tanto visive quanto psicologiche.
Pur evitando pompose autoanalisi, in queste interviste Cronenberg si rileva estremamente cosciente delle implicazioni, anche filosofiche, che le sue opere possiedono. "In tutti i miei film c'è una qualche discussione, subliminale o diretta, sul libero arbitrio e sulla predestinazione. Che si tratti di predestinazione religiosa o genetica non ha molta importanza. È che la sensazione del libero arbitrio è così palpabile e tangibile, eppure le prove contro la sua reale esistenza sono piuttosto convincenti. Come ci si destreggia tra queste due cose?". La visione del mondo che ne traspare è inevitabilmente negativa, anche inafferrabile: "io sono come uno scrittore, che cerca di controllare il caos con le parole, ma sa che si tratta soltanto di parole", è una delle risposte più lapidarie e suggestive tra quelle date da Cronenberg. "Nella mia vita cerco di rifiutare i rituali, ma ne comprendo la funzione”, disse in un altro contesto. “In fondo è quello che fa qualsiasi artista: ogni opera d'arte è il tentativo di attribuire un significato a ciò che è apparentemente privo di senso, di ordinare con la forza della volontà ciò che forse, in termini umani, è caotico".
È così che, nella varietà di ambientazioni, generi e parabole narrative, i film di Cronenberg mantengono una forte unità intellettuale, in una coerenza d’insieme molto più forte e onniavvolgente di quello che capita, per dire, con filmografie di altri registi cronologicamente coevi e tematicamente accostabili come John Carpenter o George Romero. "Nella loro essenza, i miei film sono del tutto simili a me”, conclude Cronenberg. “Eppure resisterò sempre ai tentativi delle persone di identificarmi con i personaggi dei film o con gli atteggiamenti dei film, perché penso che questo sia fraintendere la natura dell'arte, dell'arte narrativa". A tal riguardo è rimasta celebre l'affermazione di Martin Scorsese, che pur ammirando le opere di Cronenberg era stato a lungo restio a conoscerlo, salvo poi accorgersi che il massimo regista horror canadese assomigliasse, testuali parole, a un ginecologo di Beverly Hills.
Una storia di violenza è ricco di riflessioni e spunti anche sulle dinamiche produttive e industriali che muovono il cinema nordamericano, e il traghettamento di un film verso il pubblico: nelle interviste a più riprese Cronenberg rivendica la sua indipendenza e la sua capacità di raggiungere un’audience decisamente vasta senza scendere a compromessi con i dettami del cinema mainstream. "Io non ho mai girato i miei film a Hollywood. Con Hollywood ci flirto. Voglio usarla. Voglio usare l'apparato della Fox per distribuire Naked Lunch negli Stati Uniti", affermava in maniera molto lucida in un’intervista dei primi anni Novanta, riflettendo poi che persino la Universal, "una delle case di produzione più conservatrici che siano mai esistite", abbia mostrato interesse per il suo lavoro acquistando i diritti di distribuzione di Videodrome. "Se si riesce a sfuggire al loro controllo e si ritiene di poter manipolare il sistema senza esserne manipolati, allora... È un gioco pericoloso, ma si può fare un tentativo. Ma quanto ci si può avvicinare al fuoco senza rimanere scottati?".
Altro passaggio obbligato del volume non meno di Naked Lunch è la disamina di Crash (1996), forse il più controverso lavoro dell’intera carriera di David Cronenberg, il che è tutto dire. Il film, tratto dall'omonimo romanzo di James Ballard, è incentrato su una coppia che, conosciutasi in un violento frontale che ha causato la morte del marito di lei, si unisce a una setta eroticamente ossessionata dagli incidenti stradali, in cui la fascinazione per l'incidente rappresenta "un elemento di iniziazione, ma non necessariamente sessuale, è una sorta di iniziazione a una consapevolezza e a una visione della vita". Nelle interviste Cronenberg riconosce esplicitamente un "elemento esistenzialista e nietzschiano" in Crash, nel fatto che i protagonisti creino "una sorta di realtà scelta in modo consensuale, che diventa una realtà a tutti gli effetti se si riesce a convincere un numero sufficiente di persone a sceglierla con noi" - il che la dice lunga sulla visione che l'autore ha, o vuole avere, tanto sulla sessualità quanto sulla religione.
E sempre riguardo all'esistenzialismo tra le altre letture alla base dell'immaginario di Cronenberg, da questo volume di interviste emerge anche una grande passione per La Nausea di Sartre, "irresistibile e incredibilmente potente, non ci si riprende mai una volta che ti ha colpito", oltre che un'attenta lettura del saggio L'allegoria d'amore di C.S. Lewis, che argomenta come la nostra concezione apparentemente spontanea dell'amore tra uomo o donna sia in realtà frutto dell'immaginario poetico e religioso dell'XI secolo.
Proseguendo nel raccontare la sua filmografia, Cronenberg non esita a rivendicare una diretta ispirazione alla filosofia heideggeriana per eXistenZ (1999), film metafisico e metaludico, con Jude Law e Jennifer Jason Leigh, uscito poco prima dello scoccare del millennio. "Quando Jude Law dice 'non voglio stare qui, avanziamo a tentoni in questo mondo informe, i cui obiettivi e le cui regole, se mai esistono, sono in gran parte sconosciuti, e siamo sempre sul punto di essere attaccati da forze che non comprendiamo’, in poche parole si tratta di Heidegger. È un riferimento alla sua descrizione della vita, dell'essere gettati nel mondo".
Primo film di Cronenberg nel nuovo millennio è invece Spider: il film, del 2002, è tratto dall’omonimo romanzo di Patrick McGrath, ma la silhouette del suo schizofrenico protagonista attinge direttamente all’immagine pubblica di uno dei massimi scrittori del Novecento: Samuel Beckett. "Saccheggiare Beckett. Non è qualcosa che viene dal romanzo, naturalmente, e neanche dalla sceneggiatura, ma proprio per il modo in cui queste scene sono descritte. Nella sceneggiatura ho iniziato a pensare molto a quelle immagini di Beckett che cammina per le strade di Parigi con il suo taccuino, a quella chioma colta e a quei grandi zigomi", commenta Cronenberg. "Solo dopo aver finito di montare il film mi è venuto in mente che Spider era in realtà una specie di incarnazione dell'incubo di un artista.... avere il bisogno di scrivere e non poterne parlare con nessuno".
Non meno riflessivo rimane Cronenberg nel parlare di A History of Violence, il suo film del 2007 che dà il titolo alla raccolta di interviste, in cui rivendica di aver cercato, nel tratteggiare i personaggi e nel costruire la storia, "l'onestà emotiva o, per essere più pretenzioso, l'onestà esistenziale. La morale è un'invenzione umana, non viene dallo spazio, non viene da Dio. Viene costantemente ridefinita ed è sempre tutta da verificare", è il mantra di Cronenberg. E, con lui, tutte "le persone che hanno lavorato a questo film non hanno certezze, vogliono ragionare sulle complessità. La scena finale ne è una chiara esemplificazione". Nelle ultime interviste del libro, si arriva a raccontare anche de La promessa dell'assassino (2007), sul cui set sia Cronenberg che il protagonista Viggo Mortensen, senza dire nulla l'un l'altro, si erano entrambi messi a leggere i libri di Dostoevskij per trovare l’ispirazione; di A Dangerous Method (2011), che consente a Cronenberg di formulare interessanti riflessioni sulla psicoanalisi e sul contrasto tra Freud e Jung letto (anche) in chiave religiosa; di Cosmopolis (2012), dramma da camera in movimento girato con Robert Pattinson e molti altri celebri attori che si alternano sullo schermo in una limousine tappezzata di green screen sopra i quali è stata ricostruita, in post-produzione, una Manhattan i cui esterni sono stati in realtà girati per lo più a Toronto; e di Maps to the Stars, il primo film di tutta la carriera di Cronenberg ad avere una parte delle scene girate negli Stati Uniti, in una Los Angeles demoniaca e vacua.
Nella penultima intervista contenuta nel volume trova spazio anche Divorati, il primo e ad oggi unico romanzo di David Cronenberg, pubblicato nel 2014 ed edito in Italia da Bompiani, incentrato su una coppia di fotogiornalisti, "nomadi freelance ossessionati dalla tecnologia", che si trova a indagare alla ricerca di uno scoop attorno alla fosca vicenda di due intellettuali francesi, gli Arosteguy, agli occhi di tutti una perfetta power couple fino al giorno in cui la donna viene trovata mutilata e parzialmente divorata nel suo appartamento parigino e l'uomo si dà alla macchia senza lasciare traccia. Per la coppia del mistero l'ispirazione iniziale di Cronenberg è stata palpabilmente e dichiaratamente la relazione pubblica tra Jean-Paul Sartre e Simone De Beauvoir, la più celebre liason letteraria, politica e sentimentale della Francia del Novecento.
Ma al di là dei suoi riferimenti letterari e della sua struttura narrativa globertrotter, Divorati è per Cronenberg un'occasione per tracciare un bilancio generale del suo immaginario: “si tratta di un approccio un po’ esistenzialista”, dichiara Cronenberg apertis verbis alla sua intervistatrice, Cadice McCarty-Williams di 4th Estate, che “ruota attorno all’idea che nasciamo alla vita completamente impreparati ad affrontare ciò che ci colpisce e alla complessità di cui è plasmato il mondo”.
Tirando le somme da queste quasi cinquecento pagine di lettura, ciò che sorprende davvero dell'opera e della personalità di Cronenberg è la sua capacità di sconfinare. Senza soluzione di continuità dai suoi esordi ad oggi, sia pure in una maniera sempre più esplicita, nel cinema di Cronenberg si sono inseguite tre componenti: una passione viscerale per le componenti visive del cinema di genere più hardcore; un amore per un certo tipo di letteratura estrema per contenuti e per linguaggio, e laterale, se non marginale, se non deformata, quanto allo sguardo sulla società - e questo vale tanto per la linea para-esistenzialista del suo immaginario rappresentata da Heidegger, Sartre e Beckett quanto dalle sue letture più beat, se non pulp, se non post-moderne, tra Burroughs, Ballard e Don DeLillo, da cui ha tratto Cosmopolis; e una componente di fascinazione sia visiva che intellettuale per la scienza - "gran parte della scienza è arte", si legge in una delle prime interviste del volume - accompagnata da una palpabile e ambivalente tensione nei confronti della tecnologia e dei suoi usi distorti.
Queste componenti, variamente in dialogo nel corso degli anni nell'immaginario cronenberghiano - che al di là delle battute del diretto interessato non è mai stato cronenborghese - rappresenta un coacervo di ispirazioni raramente in sinergia nella narrativa e ancor di più nel cinema occidentali. Anche nella fantascienza classica raramente la letterarietà e l'intellettualismo di un Dick si sono sposate a quell'immaginario granguignolesco e splatter solitamente relegato alla letteratura e ai film di serie B. Con un'operazione che sembra mostrare oscure affinità con l'immaginario pittorico di un Bacon, e tradurre sul piano grafico del visibile le metamorfosi al negativo di un Kafka, la filmografia di Cronenberg affronta di petto e di pancia non solo il tabù della morte, ma anche quelli della separazione tra umanesimo e cultura scientifica, tra high culture e narrativa di bassa lega, gemmando opere che minano tanto le sicurezze visive quanto gli schemi mentali su cui pare fondarsi quella che consideriamo essere la nostra società.