NC-198
26.03.2024
Ogni anno, verso la metà di marzo, a Copenaghen si svolge uno dei festival cinematografici più rinomati nel campo dei documentari: il CPH:DOX. Il programma dell’edizione di quest'anno ha rappresentato un affascinante mix tra opere di grandi maestri del genere, come Frederick Wiseman e Wang Bing, lavori che utilizzano un approccio più personale, come le nuove opere di Mona Achache e Claire Simon, e lungometraggi che rappresentano un affascinante ibrido tra finzione e documentario. Oggi coglieremo l’occasione per raccontarvi i titoli presentati in concorso che ci hanno maggiormente colpito.
Abiding Nowhere, di Tsai Ming-liang
Una rivoluzione che partiva da lontano e che è giunta al suo zenit. L’insieme della saga dei Walker, realizzata da Tsai Ming-Liang, si è sempre posta l’obiettivo di ribellarsi nei confronti dell’immagine, mezzo di comunicazione principale della vita metropolitana, la quale annulla totalmente le emozioni. In Abiding Nowhere, il protagonista interpretato da Lee Kang-Sheng approda a Washington, simbolo dell’ultracapitalismo e dell’accelerazione della società odierna. Il lento passo del protagonista, mostra la contrapposizione tra il divenire e l’essere, tra il fluire continuo della vita, la quale non ha freni e scorre senza fermarsi (come il fiume mostrato nello splendido incipit), e la frenesia della metropoli. Quest’ultima è il simbolo dell’Occidente che “invade” l’Oriente, specchio della distorsione filosofica che, ormai da molto tempo, attanaglia la società orientale e si fa portatrice di un unico elemento: il vuoto. Per Tsai, l’essere passa dalla riconciliazione col tempo, e si oppone all’apparire attraverso una visione che non implica più solamente l’asse ortogonale. La camera, per la prima volta nella saga, si sposta anche in diagonale, concedendo punti di vista inediti, che diventano cruciali per “ribellarsi” alla mondanità.
Fanon, di Adbdenour Zahzah
Dopo aver esplorato la vita e le rivoluzioni di Frantz Fanon nel campo della psichiatria attraverso il documentario Frantz Fanon, Mémoire d’Asile (2002), Abdenour Zahzah ritorna ad affrontare il medesimo soggetto nel suo primo film di narrazione. Ambientato tra il 1953 e il 1956, Fanon narra il periodo nel quale lo psichiatra lavorò all’ospedale Blida-Joinville, dove cercò di mettere in pratica teorie moderne di psicoterapia, scontrandosi, molto spesso, con colleghi dalla mentalità retrograda e razzista. La peculiarità dell’opera è rappresentata dalla natura estremamente documentaristico che la caratterizza, un aspetto sottolineato dalla struttura episodica, la scelta del bianco e nero e la ricreazione minuziosa del periodo storico tramite l’utilizzo delle strutture ospedaliere originali o dell’abitazione dove lo stesso Fanon visse. Inoltre spicca anche il casting di pazienti e dottori che risiedono e lavorano in questi centri psichiatrici, una scelta rischiosa ma che funziona pienamente per l’approccio realista che Zahzah vuole regalare all’opera.
Little Girl Blue, di Mona Achache
Nel 2016, Carole Achache, fotografa e scrittrice francese, si tolse la vita. Dopo la sua morte, la figlia Mona trovò degli scatoloni pieni di fotografie, scritti e registrazioni audio che le appartenevano. La regista decise quindi di adoperare il mezzo cinematografico per portare alla luce alcune scomode verità che riguardavano la madre, cercando di ricostruire determinati eventi della sua vita in una maniera veramente peculiare. Nel lungometraggio, infatti, la cineasta non utilizza solo il materiale d’archivio, ma riporta in vita Carole tramite l’essenziale contributo di Marion Cotillard (che grazie a questo ruolo si è guadagnata una candidatura ai César come miglior attrice protagonista). Quello che affascina di Little Girl Blue è la sua ibridazione tra il documentario e la finzione, un percorso dove il pubblico assiste, minuto per minuto, al processo di trasformazione della Cotillard nel suo personaggio. La struttura, a tratti non lineare e messa in risalto dai continui balzi temporali tra un avvenimento e l’altro, può, in un primo momento, confondere lo spettatore; ma bisogna pazientare, e cercare di comprendere il cammino che Mona Achache decide di intraprendere per scoprire chi fosse veramente sua madre. Little Girl Blue verrà presentato la prossima settimana in anteprima a Roma nel corso del Rendez-vous - Festival del nuovo cinema Francese .
Man in Black, di Wang Bing
Wang Bing, regista ormai affermato sulla scena internazionale, si può pienamente considerare come uno dei migliori documentaristi in circolazione. Nel 2023 ha calcato il solco di Cannes con ben due opere: Youth (Spring) e lo sperimentale Man In Black . Quest’ultimo risulta un esperimento ben riuscito, un tentativo calibrato e sapiente di portare allo scoperto l’orrore vissuto da un popolo. Wang Xilin, compositore di musica classica e amico del regista, si mette a nudo di fronte alla macchina da presa, facendosi carico, attraverso le sue pose corporee, del racconto di un intero Paese, la cui cultura risulta repressa e spezzata dalle redini oppressive del Partito Comunista. Wang Bing usa il background musicale per instillare nel racconto una tensione degna di un thriller di Hitchcock, riconnettendosi alle partiture del mitico Bernard Herrmann e portando proprio la musica a sovrastare la parola e la libertà di pensiero.Sfruttando i giochi di ombre e i chiaroscuri della fotografia e ruotando insistentemente attorno al corpo del suo protagonista per accentuarne le deformità, Wang Bing si pone lo scopo di esporre l’orrore legato alla prigionia dei dissidenti del comunismo.
Menus-Plaisirs - Les Troisgros, di Frederick Wiseman
Nel corso della sua lunga carriera, costellata da ben quarantaquattro documentari, Fredrick Wiseman si è sempre focalizzato su diversi tipi di istituzioni, cercando di dare una panoramica a trecentosessanta gradi sul funzionamento di esse e sulle diverse tensioni interne collegabili a motivi socioeconomici. Era solo una questione di tempo prima che il grande maestro della forma documentaristica analizzasse il mondo della ristorazione. Menus-Plaisirs - Les Troisgros ci racconta del ristorante tre stelle Michelin Le Bois sans Feuilles, la “dimora” culinaria della famiglia Troisgros, formata da Michel e i figli César e Léo, alcuni degli innovatori della nouvelle cousine. Come nelle opere più caratteristiche di Wiseman, quello che spicca di più è l’approccio analitico e diretto con cui il regista mostra la routine del ristorante: dall’acquisto delle materie prime in mercati locali, alla minuziosa preparazione di piatti stellati, fino alla gestione della sala e dell’aspetto economico che riguarda il ristorante. Invece di utilizzare musica, voice-over o descrizioni onscreen, Wiseman sfrutta abilmente gli spazi che circondano la location per trasportare, fin da subito, lo spettatore in questo “mondo culinario”. Menus-Plaisirs - Les Troisgros, non è solo un prelibato omaggio all’arte e alla scienza gastronomica, ma anche una delle migliori e più significative opere di Fredrick Wiseman.
Notre Corps, di Claire Simon
Un saggio sulla rappresentazione del corpo femminile,uno sguardo che si dimostra senza fronzoli, andando dritto al punto senza omettere nulla. La direzione di Claire Simon in Notre Corps ricorda, ingannando lo spettatore, l'analoga rappresentazione del mondo ospedaliero di Wiseman in Hospital (1970). Rispetto a quest'ultimo, però, la Simon riesce ad eludere il meccanismo dell'extra-diegesi, rompendo la ricerca della verità come obiettivo massimo del film per concentrarsi, piuttosto, sulla ricerca dell'umano all'interno di un mondo artefatto. La differenza principale, dunque, è questo "avvicinarsi", più che ad una visualità cruda e anestetizzante, ad uno sguardo decisamente più sociale, dove sono i racconti delle pazienti a formare un percorso d'indagine sul corpo e sulla sua sessualità, senza cercare cerebralismi né analisi, ma semplicemente affidandosi alla ricchezza delle emozioni.
Youth (Spring), di Wang Bing
Come già anticipato, Wang Bing era presente a Cannes 2023 con ben due titoli, entrambi interessantissimi e molto simili nel loro intento di utilizzare il mezzo filmico come riflessione dell’evoluzione della Cina odierna. In Youth (Spring) il regista racconta dell’ambiente industrializzato di Zhili, a 150 km da Shanghai, adoperando uno sguardo che va controcorrente rispetto a Man In Black . Wang si limita ad osservare di soppiatto i lavoratori tessili protagonisti del film, piazzando la camera obliquamente e raccontando come essi cerchino di costruire uno spazio tutto loro all’interno di una realtà opprimente, in cui vivere e crescere e, soprattutto, far fronte all’alienazione sociale. Lo Stato colpevole non si manifesta mai in Youth (Spring), ma sottolinea la sua perpetua presenza attraverso delle ripetizioni sonore e d’inquadratura che dettano le disperate condizioni dei protagonisti. Nonostante questo sconcertante ritratto della realtà industriale, la prospettiva che Wang Bing vuole dare agli spettatori è quella di una gioventù che, nonostante tutto, risorge e sa come divertirsi. Assume dunque un significato parodistico lo sciopero ripreso nel film, che diventa evasione e connota in modo ilare il cinema proletario degli anni ‘20. Ejzenstejn diventa qui l’icona atta al rovesciamento e all’evasione dello spettro e del mito comunista, soprattutto quando si scopre che anche l’imprenditore, oppressore di un tempo, risulta essere un povero “sotto mentite spoglie”. Un tipo di racconto che parla di una Cina che va a due velocità: quella della memoria, praticamente immobile e ormai sepolta, e quella del lavoro. Nonostante tutto, però, in Youth (Spring) c’è anche spazio per un “controcampo amoroso” che lascia allo pubblico più di una speranza.
NC-198
26.03.2024
Ogni anno, verso la metà di marzo, a Copenaghen si svolge uno dei festival cinematografici più rinomati nel campo dei documentari: il CPH:DOX. Il programma dell’edizione di quest'anno ha rappresentato un affascinante mix tra opere di grandi maestri del genere, come Frederick Wiseman e Wang Bing, lavori che utilizzano un approccio più personale, come le nuove opere di Mona Achache e Claire Simon, e lungometraggi che rappresentano un affascinante ibrido tra finzione e documentario. Oggi coglieremo l’occasione per raccontarvi i titoli presentati in concorso che ci hanno maggiormente colpito.
Abiding Nowhere, di Tsai Ming-liang
Una rivoluzione che partiva da lontano e che è giunta al suo zenit. L’insieme della saga dei Walker, realizzata da Tsai Ming-Liang, si è sempre posta l’obiettivo di ribellarsi nei confronti dell’immagine, mezzo di comunicazione principale della vita metropolitana, la quale annulla totalmente le emozioni. In Abiding Nowhere, il protagonista interpretato da Lee Kang-Sheng approda a Washington, simbolo dell’ultracapitalismo e dell’accelerazione della società odierna. Il lento passo del protagonista, mostra la contrapposizione tra il divenire e l’essere, tra il fluire continuo della vita, la quale non ha freni e scorre senza fermarsi (come il fiume mostrato nello splendido incipit), e la frenesia della metropoli. Quest’ultima è il simbolo dell’Occidente che “invade” l’Oriente, specchio della distorsione filosofica che, ormai da molto tempo, attanaglia la società orientale e si fa portatrice di un unico elemento: il vuoto. Per Tsai, l’essere passa dalla riconciliazione col tempo, e si oppone all’apparire attraverso una visione che non implica più solamente l’asse ortogonale. La camera, per la prima volta nella saga, si sposta anche in diagonale, concedendo punti di vista inediti, che diventano cruciali per “ribellarsi” alla mondanità.
Fanon, di Adbdenour Zahzah
Dopo aver esplorato la vita e le rivoluzioni di Frantz Fanon nel campo della psichiatria attraverso il documentario Frantz Fanon, Mémoire d’Asile (2002), Abdenour Zahzah ritorna ad affrontare il medesimo soggetto nel suo primo film di narrazione. Ambientato tra il 1953 e il 1956, Fanon narra il periodo nel quale lo psichiatra lavorò all’ospedale Blida-Joinville, dove cercò di mettere in pratica teorie moderne di psicoterapia, scontrandosi, molto spesso, con colleghi dalla mentalità retrograda e razzista. La peculiarità dell’opera è rappresentata dalla natura estremamente documentaristico che la caratterizza, un aspetto sottolineato dalla struttura episodica, la scelta del bianco e nero e la ricreazione minuziosa del periodo storico tramite l’utilizzo delle strutture ospedaliere originali o dell’abitazione dove lo stesso Fanon visse. Inoltre spicca anche il casting di pazienti e dottori che risiedono e lavorano in questi centri psichiatrici, una scelta rischiosa ma che funziona pienamente per l’approccio realista che Zahzah vuole regalare all’opera.
Little Girl Blue, di Mona Achache
Nel 2016, Carole Achache, fotografa e scrittrice francese, si tolse la vita. Dopo la sua morte, la figlia Mona trovò degli scatoloni pieni di fotografie, scritti e registrazioni audio che le appartenevano. La regista decise quindi di adoperare il mezzo cinematografico per portare alla luce alcune scomode verità che riguardavano la madre, cercando di ricostruire determinati eventi della sua vita in una maniera veramente peculiare. Nel lungometraggio, infatti, la cineasta non utilizza solo il materiale d’archivio, ma riporta in vita Carole tramite l’essenziale contributo di Marion Cotillard (che grazie a questo ruolo si è guadagnata una candidatura ai César come miglior attrice protagonista). Quello che affascina di Little Girl Blue è la sua ibridazione tra il documentario e la finzione, un percorso dove il pubblico assiste, minuto per minuto, al processo di trasformazione della Cotillard nel suo personaggio. La struttura, a tratti non lineare e messa in risalto dai continui balzi temporali tra un avvenimento e l’altro, può, in un primo momento, confondere lo spettatore; ma bisogna pazientare, e cercare di comprendere il cammino che Mona Achache decide di intraprendere per scoprire chi fosse veramente sua madre. Little Girl Blue verrà presentato la prossima settimana in anteprima a Roma nel corso del Rendez-vous - Festival del nuovo cinema Francese .
Man in Black, di Wang Bing
Wang Bing, regista ormai affermato sulla scena internazionale, si può pienamente considerare come uno dei migliori documentaristi in circolazione. Nel 2023 ha calcato il solco di Cannes con ben due opere: Youth (Spring) e lo sperimentale Man In Black . Quest’ultimo risulta un esperimento ben riuscito, un tentativo calibrato e sapiente di portare allo scoperto l’orrore vissuto da un popolo. Wang Xilin, compositore di musica classica e amico del regista, si mette a nudo di fronte alla macchina da presa, facendosi carico, attraverso le sue pose corporee, del racconto di un intero Paese, la cui cultura risulta repressa e spezzata dalle redini oppressive del Partito Comunista. Wang Bing usa il background musicale per instillare nel racconto una tensione degna di un thriller di Hitchcock, riconnettendosi alle partiture del mitico Bernard Herrmann e portando proprio la musica a sovrastare la parola e la libertà di pensiero.Sfruttando i giochi di ombre e i chiaroscuri della fotografia e ruotando insistentemente attorno al corpo del suo protagonista per accentuarne le deformità, Wang Bing si pone lo scopo di esporre l’orrore legato alla prigionia dei dissidenti del comunismo.
Menus-Plaisirs - Les Troisgros, di Frederick Wiseman
Nel corso della sua lunga carriera, costellata da ben quarantaquattro documentari, Fredrick Wiseman si è sempre focalizzato su diversi tipi di istituzioni, cercando di dare una panoramica a trecentosessanta gradi sul funzionamento di esse e sulle diverse tensioni interne collegabili a motivi socioeconomici. Era solo una questione di tempo prima che il grande maestro della forma documentaristica analizzasse il mondo della ristorazione. Menus-Plaisirs - Les Troisgros ci racconta del ristorante tre stelle Michelin Le Bois sans Feuilles, la “dimora” culinaria della famiglia Troisgros, formata da Michel e i figli César e Léo, alcuni degli innovatori della nouvelle cousine. Come nelle opere più caratteristiche di Wiseman, quello che spicca di più è l’approccio analitico e diretto con cui il regista mostra la routine del ristorante: dall’acquisto delle materie prime in mercati locali, alla minuziosa preparazione di piatti stellati, fino alla gestione della sala e dell’aspetto economico che riguarda il ristorante. Invece di utilizzare musica, voice-over o descrizioni onscreen, Wiseman sfrutta abilmente gli spazi che circondano la location per trasportare, fin da subito, lo spettatore in questo “mondo culinario”. Menus-Plaisirs - Les Troisgros, non è solo un prelibato omaggio all’arte e alla scienza gastronomica, ma anche una delle migliori e più significative opere di Fredrick Wiseman.
Notre Corps, di Claire Simon
Un saggio sulla rappresentazione del corpo femminile,uno sguardo che si dimostra senza fronzoli, andando dritto al punto senza omettere nulla. La direzione di Claire Simon in Notre Corps ricorda, ingannando lo spettatore, l'analoga rappresentazione del mondo ospedaliero di Wiseman in Hospital (1970). Rispetto a quest'ultimo, però, la Simon riesce ad eludere il meccanismo dell'extra-diegesi, rompendo la ricerca della verità come obiettivo massimo del film per concentrarsi, piuttosto, sulla ricerca dell'umano all'interno di un mondo artefatto. La differenza principale, dunque, è questo "avvicinarsi", più che ad una visualità cruda e anestetizzante, ad uno sguardo decisamente più sociale, dove sono i racconti delle pazienti a formare un percorso d'indagine sul corpo e sulla sua sessualità, senza cercare cerebralismi né analisi, ma semplicemente affidandosi alla ricchezza delle emozioni.
Youth (Spring), di Wang Bing
Come già anticipato, Wang Bing era presente a Cannes 2023 con ben due titoli, entrambi interessantissimi e molto simili nel loro intento di utilizzare il mezzo filmico come riflessione dell’evoluzione della Cina odierna. In Youth (Spring) il regista racconta dell’ambiente industrializzato di Zhili, a 150 km da Shanghai, adoperando uno sguardo che va controcorrente rispetto a Man In Black . Wang si limita ad osservare di soppiatto i lavoratori tessili protagonisti del film, piazzando la camera obliquamente e raccontando come essi cerchino di costruire uno spazio tutto loro all’interno di una realtà opprimente, in cui vivere e crescere e, soprattutto, far fronte all’alienazione sociale. Lo Stato colpevole non si manifesta mai in Youth (Spring), ma sottolinea la sua perpetua presenza attraverso delle ripetizioni sonore e d’inquadratura che dettano le disperate condizioni dei protagonisti. Nonostante questo sconcertante ritratto della realtà industriale, la prospettiva che Wang Bing vuole dare agli spettatori è quella di una gioventù che, nonostante tutto, risorge e sa come divertirsi. Assume dunque un significato parodistico lo sciopero ripreso nel film, che diventa evasione e connota in modo ilare il cinema proletario degli anni ‘20. Ejzenstejn diventa qui l’icona atta al rovesciamento e all’evasione dello spettro e del mito comunista, soprattutto quando si scopre che anche l’imprenditore, oppressore di un tempo, risulta essere un povero “sotto mentite spoglie”. Un tipo di racconto che parla di una Cina che va a due velocità: quella della memoria, praticamente immobile e ormai sepolta, e quella del lavoro. Nonostante tutto, però, in Youth (Spring) c’è anche spazio per un “controcampo amoroso” che lascia allo pubblico più di una speranza.