INT-56
08.02.2024
The Zone of Interest (2023), Ida (2013), Cold War (2018), Quo Vadis Aida? (2020), Inland Empire (2006), questi sono solo alcuni dei tanti titoli prodotti o co-prodotti da Ewa Puszczyńska. Vincitrice del primo Oscar al miglior film straniero per un lungometraggio polacco (Ida), Puszczyńska è di certo una delle figure più rilevanti dell’industria cinematografica europea odierna. Recentemente si è dedicata a co-produrre il primo lungometraggio in lingua inglese di Agnieszka Szmoczynska e A Real Pain, pellicola presentata a gennaio al Sundance Film Festival che segna il debutto alla regia dell’attore Jesse Eisenberg.
Abbiamo avuto l’occasione di incontrare Ewa Puszczyńska al Trieste Film Festival - evento che si è svolto dal 19 al 27 gennaio - dove ha ottenuto il premio Eastern Star alla Carriera, e dove The Zone of Interest è stato proiettato come film di chiusura in anteprima nazionale.
Leggendo la sua filmografia, mi è caduto l’occhio sul suo ruolo di produttrice esecutiva per Inland Empire di David Lynch. Com’è successo?
È successo tutto al Camerimage Film Festival, un festival sulla direzione della fotografia che all’epoca aveva luogo nelle foreste vicine a Łódź, poco lontano da dove abitavo; dato che in quel momento stavo lavorando per una produzione indipendente polacca, gestivo dei workshop per direttori della fotografia, e lì ho incontrato David Lynch che aveva portato con sé delle attrici e voleva girare alcune scene d’inverno in Polonia. In realtà avevo già collaborato con lui ad un set fotografico, dove gestivo gli aspetti tecnici ed economici. Quindi, quando ha deciso di filmare quelle scene in Polonia ha chiesto a me di curare la produzione. Non è stato facile gestire il modo con cui David lavorava al tempo, senza una sceneggiatura completa - scriveva le scene poco prima di realizzarle, su piccoli pezzi di carta che mi inviava nel cuore della notte, ed io dovevo sistemare le cose entro la mattina dopo. Era una sfida, ma mi sono divertita. Una grande avventura.
Si sentono spesso notizie di stranezze che accadono sui set di Lynch, quanto c’è di vero?
Si, ci sono, ma queste stranezze sono un po’ gonfiate. Ogni tanto usava strumenti particolari. Per esempio non usava dolly, ma faceva indossare al direttore della fotografia dei pattini, quindi vedevi il direttore della fotografia sfrecciare sui pattini con la camera in spalla, ma al contempo, Lynch era molto gentile e paziente, anche se abbiamo girato in condizioni difficili, con riprese in notturna a -10 gradi. Ma lui era molto cordiale, se non gli piaceva la performance di un attore cercava attentamente le parole per non offenderlo.
Ha menzionato di aver lavorato nell'ambito dei festival, com’è arrivata alla produzione? Sapeva in partenza che avrebbe puntato su questa carriera?
No, per nulla, era una pura coincidenza. Ho fatto studi in letteratura inglese, per un po’ ho insegnato ma con l’arrivo dei miei figli ho cercato un lavoro da poter svolgere da casa, ed è così che ho iniziato a tradurre sottotitoli per il cinema e la televisione. Ad un certo punto sono stata invitata a lavorare come interprete su dei set pubblicitari, all’epoca pochi parlavano l’inglese e c’erano molte agenzie estere che si trovavano in Polonia. Erano i primi anni ’90. Poi la cosa ha iniziato a prendere piede e, dopo alcune esperienze, mi hanno assunto in un’azienda per le relazioni internazionali. Ad un certo punto dovevamo occuparci di una pubblicità, per la branche nordamericana della BMW, con un regista britannico che voleva fare le riprese su uno dei laghi polacchi della regione nord-orientale, ma era un inverno mite. Lo spessore del ghiaccio non era sufficiente per l’assicurazione, e visto che l’idea mi piaceva molto, sono intervenuta per andare a cercare qualche subappalto fuori dalla Polonia, a Nord. Alla fine siamo finiti in Finlandia, poco lontano dal circolo polare. Era una delle più grandi avventure della mia vita, il mio primo lavoro internazionale, e visto che abbiamo portato tutto l’equipaggiamento dalla Polonia, e la Polonia non faceva parte dell’Unione Europea, dovevo occuparmi del passaggio doganale e di altri problemi del genere. Quando siamo arrivati ad Helsinki ero stanchissima. Ma era una grande pubblicità.
Visto che Paweł Pawlikowski ha lavorato e studiato in Inghilterra, mi chiedo, sono stati i suoi studi in letteratura inglese che l’hanno portata alla collaborazione con lui?
No, l’ho incontrato uno o due anni prima delle riprese di Ida al Camerimage, ci ha introdotto qualcun altro, dicendo che Paweł voleva fare un film in Polonia, ma nulla di concreto. Due anni dopo, però, Eric Abraham lo aveva convinto. Abraham è un produttore britannico, ma aveva già prodotto Kolya (1996), un film ceco, e vinto un Oscar. L’idea originale di Eric era di venire in Polonia e fondare un’azienda per raggiungere i fondi polacchi, per poi subappaltare compagnie locali. Ma alla fine, non avevano il tempo di sistemare la cosa ed hanno deciso di fare una co-produzione. Io lavoravo per la Opus Film all’epoca, ma ci siamo accordati e sono entrata nel progetto come co-produttrice. Eric Abraham aveva promesso che, se ci fossero state lacune economiche, sarebbe stato pronto a finanziare il progetto di tasca sua. Durante lo sviluppo del film e la stesura della sceneggiatura però è stata presa la decisione di girare tutto in bianco e nero, e quando Eric lo ha saputo si è staccato dal progetto, perché secondo lui un lungometraggio non in inglese, con un cast sconosciuto e pertanto in bianco e nero non poteva attirare nessun tipo di mercato. È stato uno shock, mi è giunta questa notizia il giorno prima di un nostro incontro a Cannes che doveva finalizzare il suo coinvolgimento. Un altro problema era che Eric aveva ottenuto i fondi da Creative Media Europe ed era stato lui a pagare Pawlikowski per la stesura della sceneggiatura, quindi ne deteneva i diritti. Dovevo comprarglieli ma non ne avevo la capacità. Alla fine gli ho proposto una soluzione attraverso un prestito cash flow che avrei ripagato in alcune fasi della produzione, ed ha accettato. Ho fatto lo stesso con Opus Film - a ciascuno di loro ho chiesto 250.000 euro - e così Abraham e quelli della Opus si sono accordati con questa soluzione e noi abbiamo potuto iniziare la produzione. Paweł non aveva contatti in Polonia all’epoca, conosceva solo l’attrice Joanna Kulig, che aveva un ruolo minore in questo film, quindi aveva bisogno di fare casting per tutta la troupe. Così abbiamo iniziato a fare le riprese, ed era stressante perché Paweł lavora in un modo molto specifico. Quasi tutti gli artisti chiedono di girare in ordine cronologico, il che è ovviamente impossibile, con Paweł ci siamo messi d’accordo per farlo per ciascuna location. Ma nonostante questo, Paweł aveva sì scritto una sceneggiatura ma il suo processo creativo doveva continuare sul set. Per esempio, la scena di apertura di Ida doveva essere diversa, ma poi mentre facevamo i sopralluoghi delle location ha visto una persona lavorare su una scultura di Gesù, e lì sul momento ha deciso che quella sarebbe stata la scena iniziale del film. È un processo affascinante ma anche stressante. Ti rendi conto che non sono richieste compiute a causa dell’ego ma che sono per il bene del film. Era inizio dicembre e ci trovavamo in una location nella zona orientale della Polonia. Sfortunatamente ha cominciato a nevicare in maniera incessante, quindi ho dovuto compiere la decisione infelice di sospendere le riprese. Siamo ritornati all’inizio di aprile. Nel mezzo, abbiamo passato mesi in sala di montaggio, ci sono state varie idee, alcune brillanti altre meno, e alla fine Paweł mi ha chiesto dodici giorni di riprese aggiuntive a fine lavorazione. Ne avevamo preventivati per contratto cinque, ma sono riuscita ad ottenerne nove, con un ordine del giorno molto serrato. Alla fine è andato tutto liscio, ma ormai era tardi per inviare il film a Cannes, e così, all’ultimissimo momento, abbiamo spedito Ida al comitato di selezione della Mostra del cinema di Venezia. Sfortunatamente il programma era praticamente pieno e non siamo riusciti a far rientrare il film nella selezione. Quindi non avevamo grandi festival, non sapevamo se aspettare. Alla fine lo abbiamo presentato al Festival di Gdansk, dove ha vinto come miglior film. In seguito abbiamo provato a proporlo alla commissione polacca per la selezione del miglior film straniero degli Academy Awards, e l’hanno scelto. È così che poi abbiamo ottenuto l’Oscar.
Ida infatti è il primo film polacco ad aver vinto l’Oscar, siete riusciti in un’impresa in cui hanno fallito Wajda, Kieślowski e numerosissimi altri cineasti polacchi nel corso dei decenni.
È stato fantastico, davvero una grande cosa. Ci sono le foto di noi che assistiamo all’annuncio delle nomination all’istituto polacco di cinema e reagiamo da matti alla notizia. Nella corsa agli Oscar non avevamo vinto il Golden Globe, l’aveva vinto Leviathan (2014), ma avevamo vinto ai BAFTA e gli Spirit Awards ed è allora che l’Oscar ha iniziato a diventare un qualcosa di realistico. La notte della cerimonia ero così stanca che ci ho messo un attimo a realizzare quando Nicole Kidman ha annunciato la nostra vittoria, perché dovevamo organizzare tutto da soli, il viaggio e gli eventi. Era una cosa gigantesca. Devo dire che lì la mia carriera è anche decollata, era un trampolino. Poi abbiamo fatto Cold War, cinque anni dopo, se ricordo bene. Fare Cold War era un’altra sfida perché dovevamo girare in tre paesi diversi, ma a quel punto sapevo già come lavorava Paweł, come lo sapeva tutta la troupe che era rimasta la stessa.
Oltre a Pawlikowski, ha lavorato anche con Jasmila Žbanić, su Quo vadis Aida?, che esperienza è stata?
Era diverso, perché giravamo tutto in Bosnia ma c’erano 9 o 10 co-produzioni internazionali. Era una lista lunga di co-produzioni. Ho conosciuto Jasmila ad una cena organizzata da Dieter Kosslick che all’epoca guidava la Berlinale, e ci ha messe allo stesso tavolo. Mi ha raccontato lì di questo film. Dopo aver letto la sceneggiatura ho sentito di dover assolutamente collaborare al progetto perché mi ricordavo di aver seguito le guerre balcaniche e l’assedio di Sarajevo in televisione, e di aver pensato che se fosse accaduta la stessa cosa in Polonia il mondo ci avrebbe lasciato morire come stava succedendo li. Era facile convincere le fonti finanziarie polacche sull’importanza della loro partecipazione al progetto, c’è stato un grosso input creativo in quanto il montatore, il costumista del film, il compositore e parte della troupe erano polacchi, c’era una buona presenza polacca durante le riprese.
Osservando la sua filmografia, si notano vari film in qualche modo legati all’Olocausto: Ida, ma anche Der Hauptmann (2017) di Schewntke, o adesso The Zone of Interest . È solo un caso o una scelta?
Penso sia nei miei geni. Essere polacca, aver avuto nonni che sono stati uccisi nei campi, sono cose che mi hanno influenzato molto. E penso quindi che mi interesso a film che sono importanti per me come essere umano, più che come produttrice. Secondo me anche quel film di Robert Schwenke era un gran film, forse non era il momento giusto per presentarlo. Ho lavorato allo sviluppo, ho incontrato Robert a Los Angeles, all’epoca viveva lì. È stata un’esperienza interessante lavorare con un regista più commerciale, vedere com’era il suo approccio ad un film completamente diverso da quelli che avevo fatto. Devo dire che sono stata io, immodestamente, a convincere il direttore dell’ente del fondo che ha poi prodotto il lungometraggio, che non era molto sicuro della sceneggiatura, a finanziarci. Però devo dire che non faccio solo film legati all’Olocausto, per esempio ho prodotto anche un film di animazione, il primo che ha vinto il Leone d’Oro polacco al miglior film, cerco di convincere la gente dell’importanza dei film di animazione, che spesso si trovano messi in secondo piano.
Visto che Lukasz Zal era il direttore della fotografia di Pawlikowski, è stato suo l’input di coinvolgerlo anche in The Zone of Interest?
È successo quando Jonathan ha deciso di fare il film in Polonia. Io mi sono unita al progetto ad uno stadio avanzato di sviluppo, era già stato avviato dal produttore britannico Jim Wilson. Avevano già un draft della sceneggiatura, eccetera. Cercavano qualcuno che guidasse la divisione polacca, e visto che Jonathan conosceva Paweł Pawlikowski, è arrivato a me. Jonathan ha scelto Zal perché avevano collaborato ad una pubblicità prima di The Zone of Interest, è stato questo il processo.
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The Zone of Interest (2023), Ida (2013), Cold War (2018), Quo Vadis Aida? (2020), Inland Empire (2006), questi sono solo alcuni dei tanti titoli prodotti o co-prodotti da Ewa Puszczyńska. Vincitrice del primo Oscar al miglior film straniero per un lungometraggio polacco (Ida), Puszczyńska è di certo una delle figure più rilevanti dell’industria cinematografica europea odierna. Recentemente si è dedicata a co-produrre il primo lungometraggio in lingua inglese di Agnieszka Szmoczynska e A Real Pain, pellicola presentata a gennaio al Sundance Film Festival che segna il debutto alla regia dell’attore Jesse Eisenberg.
Abbiamo avuto l’occasione di incontrare Ewa Puszczyńska al Trieste Film Festival - evento che si è svolto dal 19 al 27 gennaio - dove ha ottenuto il premio Eastern Star alla Carriera, e dove The Zone of Interest è stato proiettato come film di chiusura in anteprima nazionale.
Leggendo la sua filmografia, mi è caduto l’occhio sul suo ruolo di produttrice esecutiva per Inland Empire di David Lynch. Com’è successo?
È successo tutto al Camerimage Film Festival, un festival sulla direzione della fotografia che all’epoca aveva luogo nelle foreste vicine a Łódź, poco lontano da dove abitavo; dato che in quel momento stavo lavorando per una produzione indipendente polacca, gestivo dei workshop per direttori della fotografia, e lì ho incontrato David Lynch che aveva portato con sé delle attrici e voleva girare alcune scene d’inverno in Polonia. In realtà avevo già collaborato con lui ad un set fotografico, dove gestivo gli aspetti tecnici ed economici. Quindi, quando ha deciso di filmare quelle scene in Polonia ha chiesto a me di curare la produzione. Non è stato facile gestire il modo con cui David lavorava al tempo, senza una sceneggiatura completa - scriveva le scene poco prima di realizzarle, su piccoli pezzi di carta che mi inviava nel cuore della notte, ed io dovevo sistemare le cose entro la mattina dopo. Era una sfida, ma mi sono divertita. Una grande avventura.
Si sentono spesso notizie di stranezze che accadono sui set di Lynch, quanto c’è di vero?
Si, ci sono, ma queste stranezze sono un po’ gonfiate. Ogni tanto usava strumenti particolari. Per esempio non usava dolly, ma faceva indossare al direttore della fotografia dei pattini, quindi vedevi il direttore della fotografia sfrecciare sui pattini con la camera in spalla, ma al contempo, Lynch era molto gentile e paziente, anche se abbiamo girato in condizioni difficili, con riprese in notturna a -10 gradi. Ma lui era molto cordiale, se non gli piaceva la performance di un attore cercava attentamente le parole per non offenderlo.
Ha menzionato di aver lavorato nell'ambito dei festival, com’è arrivata alla produzione? Sapeva in partenza che avrebbe puntato su questa carriera?
No, per nulla, era una pura coincidenza. Ho fatto studi in letteratura inglese, per un po’ ho insegnato ma con l’arrivo dei miei figli ho cercato un lavoro da poter svolgere da casa, ed è così che ho iniziato a tradurre sottotitoli per il cinema e la televisione. Ad un certo punto sono stata invitata a lavorare come interprete su dei set pubblicitari, all’epoca pochi parlavano l’inglese e c’erano molte agenzie estere che si trovavano in Polonia. Erano i primi anni ’90. Poi la cosa ha iniziato a prendere piede e, dopo alcune esperienze, mi hanno assunto in un’azienda per le relazioni internazionali. Ad un certo punto dovevamo occuparci di una pubblicità, per la branche nordamericana della BMW, con un regista britannico che voleva fare le riprese su uno dei laghi polacchi della regione nord-orientale, ma era un inverno mite. Lo spessore del ghiaccio non era sufficiente per l’assicurazione, e visto che l’idea mi piaceva molto, sono intervenuta per andare a cercare qualche subappalto fuori dalla Polonia, a Nord. Alla fine siamo finiti in Finlandia, poco lontano dal circolo polare. Era una delle più grandi avventure della mia vita, il mio primo lavoro internazionale, e visto che abbiamo portato tutto l’equipaggiamento dalla Polonia, e la Polonia non faceva parte dell’Unione Europea, dovevo occuparmi del passaggio doganale e di altri problemi del genere. Quando siamo arrivati ad Helsinki ero stanchissima. Ma era una grande pubblicità.
Visto che Paweł Pawlikowski ha lavorato e studiato in Inghilterra, mi chiedo, sono stati i suoi studi in letteratura inglese che l’hanno portata alla collaborazione con lui?
No, l’ho incontrato uno o due anni prima delle riprese di Ida al Camerimage, ci ha introdotto qualcun altro, dicendo che Paweł voleva fare un film in Polonia, ma nulla di concreto. Due anni dopo, però, Eric Abraham lo aveva convinto. Abraham è un produttore britannico, ma aveva già prodotto Kolya (1996), un film ceco, e vinto un Oscar. L’idea originale di Eric era di venire in Polonia e fondare un’azienda per raggiungere i fondi polacchi, per poi subappaltare compagnie locali. Ma alla fine, non avevano il tempo di sistemare la cosa ed hanno deciso di fare una co-produzione. Io lavoravo per la Opus Film all’epoca, ma ci siamo accordati e sono entrata nel progetto come co-produttrice. Eric Abraham aveva promesso che, se ci fossero state lacune economiche, sarebbe stato pronto a finanziare il progetto di tasca sua. Durante lo sviluppo del film e la stesura della sceneggiatura però è stata presa la decisione di girare tutto in bianco e nero, e quando Eric lo ha saputo si è staccato dal progetto, perché secondo lui un lungometraggio non in inglese, con un cast sconosciuto e pertanto in bianco e nero non poteva attirare nessun tipo di mercato. È stato uno shock, mi è giunta questa notizia il giorno prima di un nostro incontro a Cannes che doveva finalizzare il suo coinvolgimento. Un altro problema era che Eric aveva ottenuto i fondi da Creative Media Europe ed era stato lui a pagare Pawlikowski per la stesura della sceneggiatura, quindi ne deteneva i diritti. Dovevo comprarglieli ma non ne avevo la capacità. Alla fine gli ho proposto una soluzione attraverso un prestito cash flow che avrei ripagato in alcune fasi della produzione, ed ha accettato. Ho fatto lo stesso con Opus Film - a ciascuno di loro ho chiesto 250.000 euro - e così Abraham e quelli della Opus si sono accordati con questa soluzione e noi abbiamo potuto iniziare la produzione. Paweł non aveva contatti in Polonia all’epoca, conosceva solo l’attrice Joanna Kulig, che aveva un ruolo minore in questo film, quindi aveva bisogno di fare casting per tutta la troupe. Così abbiamo iniziato a fare le riprese, ed era stressante perché Paweł lavora in un modo molto specifico. Quasi tutti gli artisti chiedono di girare in ordine cronologico, il che è ovviamente impossibile, con Paweł ci siamo messi d’accordo per farlo per ciascuna location. Ma nonostante questo, Paweł aveva sì scritto una sceneggiatura ma il suo processo creativo doveva continuare sul set. Per esempio, la scena di apertura di Ida doveva essere diversa, ma poi mentre facevamo i sopralluoghi delle location ha visto una persona lavorare su una scultura di Gesù, e lì sul momento ha deciso che quella sarebbe stata la scena iniziale del film. È un processo affascinante ma anche stressante. Ti rendi conto che non sono richieste compiute a causa dell’ego ma che sono per il bene del film. Era inizio dicembre e ci trovavamo in una location nella zona orientale della Polonia. Sfortunatamente ha cominciato a nevicare in maniera incessante, quindi ho dovuto compiere la decisione infelice di sospendere le riprese. Siamo ritornati all’inizio di aprile. Nel mezzo, abbiamo passato mesi in sala di montaggio, ci sono state varie idee, alcune brillanti altre meno, e alla fine Paweł mi ha chiesto dodici giorni di riprese aggiuntive a fine lavorazione. Ne avevamo preventivati per contratto cinque, ma sono riuscita ad ottenerne nove, con un ordine del giorno molto serrato. Alla fine è andato tutto liscio, ma ormai era tardi per inviare il film a Cannes, e così, all’ultimissimo momento, abbiamo spedito Ida al comitato di selezione della Mostra del cinema di Venezia. Sfortunatamente il programma era praticamente pieno e non siamo riusciti a far rientrare il film nella selezione. Quindi non avevamo grandi festival, non sapevamo se aspettare. Alla fine lo abbiamo presentato al Festival di Gdansk, dove ha vinto come miglior film. In seguito abbiamo provato a proporlo alla commissione polacca per la selezione del miglior film straniero degli Academy Awards, e l’hanno scelto. È così che poi abbiamo ottenuto l’Oscar.
Ida infatti è il primo film polacco ad aver vinto l’Oscar, siete riusciti in un’impresa in cui hanno fallito Wajda, Kieślowski e numerosissimi altri cineasti polacchi nel corso dei decenni.
È stato fantastico, davvero una grande cosa. Ci sono le foto di noi che assistiamo all’annuncio delle nomination all’istituto polacco di cinema e reagiamo da matti alla notizia. Nella corsa agli Oscar non avevamo vinto il Golden Globe, l’aveva vinto Leviathan (2014), ma avevamo vinto ai BAFTA e gli Spirit Awards ed è allora che l’Oscar ha iniziato a diventare un qualcosa di realistico. La notte della cerimonia ero così stanca che ci ho messo un attimo a realizzare quando Nicole Kidman ha annunciato la nostra vittoria, perché dovevamo organizzare tutto da soli, il viaggio e gli eventi. Era una cosa gigantesca. Devo dire che lì la mia carriera è anche decollata, era un trampolino. Poi abbiamo fatto Cold War, cinque anni dopo, se ricordo bene. Fare Cold War era un’altra sfida perché dovevamo girare in tre paesi diversi, ma a quel punto sapevo già come lavorava Paweł, come lo sapeva tutta la troupe che era rimasta la stessa.
Oltre a Pawlikowski, ha lavorato anche con Jasmila Žbanić, su Quo vadis Aida?, che esperienza è stata?
Era diverso, perché giravamo tutto in Bosnia ma c’erano 9 o 10 co-produzioni internazionali. Era una lista lunga di co-produzioni. Ho conosciuto Jasmila ad una cena organizzata da Dieter Kosslick che all’epoca guidava la Berlinale, e ci ha messe allo stesso tavolo. Mi ha raccontato lì di questo film. Dopo aver letto la sceneggiatura ho sentito di dover assolutamente collaborare al progetto perché mi ricordavo di aver seguito le guerre balcaniche e l’assedio di Sarajevo in televisione, e di aver pensato che se fosse accaduta la stessa cosa in Polonia il mondo ci avrebbe lasciato morire come stava succedendo li. Era facile convincere le fonti finanziarie polacche sull’importanza della loro partecipazione al progetto, c’è stato un grosso input creativo in quanto il montatore, il costumista del film, il compositore e parte della troupe erano polacchi, c’era una buona presenza polacca durante le riprese.
Osservando la sua filmografia, si notano vari film in qualche modo legati all’Olocausto: Ida, ma anche Der Hauptmann (2017) di Schewntke, o adesso The Zone of Interest . È solo un caso o una scelta?
Penso sia nei miei geni. Essere polacca, aver avuto nonni che sono stati uccisi nei campi, sono cose che mi hanno influenzato molto. E penso quindi che mi interesso a film che sono importanti per me come essere umano, più che come produttrice. Secondo me anche quel film di Robert Schwenke era un gran film, forse non era il momento giusto per presentarlo. Ho lavorato allo sviluppo, ho incontrato Robert a Los Angeles, all’epoca viveva lì. È stata un’esperienza interessante lavorare con un regista più commerciale, vedere com’era il suo approccio ad un film completamente diverso da quelli che avevo fatto. Devo dire che sono stata io, immodestamente, a convincere il direttore dell’ente del fondo che ha poi prodotto il lungometraggio, che non era molto sicuro della sceneggiatura, a finanziarci. Però devo dire che non faccio solo film legati all’Olocausto, per esempio ho prodotto anche un film di animazione, il primo che ha vinto il Leone d’Oro polacco al miglior film, cerco di convincere la gente dell’importanza dei film di animazione, che spesso si trovano messi in secondo piano.
Visto che Lukasz Zal era il direttore della fotografia di Pawlikowski, è stato suo l’input di coinvolgerlo anche in The Zone of Interest?
È successo quando Jonathan ha deciso di fare il film in Polonia. Io mi sono unita al progetto ad uno stadio avanzato di sviluppo, era già stato avviato dal produttore britannico Jim Wilson. Avevano già un draft della sceneggiatura, eccetera. Cercavano qualcuno che guidasse la divisione polacca, e visto che Jonathan conosceva Paweł Pawlikowski, è arrivato a me. Jonathan ha scelto Zal perché avevano collaborato ad una pubblicità prima di The Zone of Interest, è stato questo il processo.