Ripercorriamo questo gesto d'affetto
nella filmografia di Gianni Amelio,
di Arturo Garavaglia
TR-69
31.10.2022
Non sempre un abbraccio è una manifestazione di affetto. L’arte figurativa, soprattutto quella contemporanea, ha spesso messo in discussione l’equazione abbraccio-amore per far emergere gli spettri che possono celarsi dietro a questo gesto apparentemente semplice, ma che in realtà, nel suo essere conglobante, presenta diverse sfumature. Più raramente, invece, il cinema ha saputo donare al gesto dell’abbraccio un significato differente da quello di manifestazione di affetto a cui siamo abituati. Spesso l’abbraccio avviene fra genitori e figli relegando alle relazioni amorose il più classico bacio, altre volte invece appare come un semplice gesto di conforto tra due personaggi. Uno dei registi che si è più soffermato, nel corso della sua carriera, su questo gesto, fino quasi a farne un marchio d'autore, è Gianni Amelio.
I film del regista italiano sono a tutti gli effetti delle storie d’amore. Certo, non storie proverbiali fra due innamorati, ma storie del legame genitori-figli o, meglio, fra individui che assurgono al ruolo di genitori e altri che assumono quello di figli. In questa dialettica tra parti, che fa da innesto per molti film del regista, l’abbraccio assume un ruolo fondamentale nel suo essere rivelatore di un legame fra i personaggi che non sempre è di affetto. L’abbraccio crea un’unità fra due individui, ma non sempre le due individualità che vanno a costituire l’unità dell’abbraccio partecipano attivamente o con pari ruolo a esso. Soffermandoci su Colpire al cuore, Il ladro di bambini, Così ridevano, Il primo uomo e il recente Il signore delle formiche, indagheremo le varie sfumature che Gianni Amelio è riuscito a dare al gesto dell’abbraccio e come questa azione, apparentemente banale, si inserisca all’interno della poetica del regista nostrano.
Colpire al cuore (1983) è il primo lungometraggio per il cinema diretto da Amelio. Nucleo della storia è il rapporto fra Dario (Jean-Louis Trintignant), un professore universitario di filosofia in relazione con alcuni suoi ex-studenti appartenenti alle Brigate Rosse, e il figlio Emilio (Fausto Rossi). Lo scontro generazionale tra un padre legato alla lotta armata e un figlio nato e cresciuto in un contesto alto-borghese è il tema centrale di un film che ha l’obiettivo di mettere in luce un cambio di epoca rispetto agli anni di piombo. L’opera di Amelio indaga le distanze ideologiche e generazionali che dividono un padre e un figlio. Interrogandosi sulle responsabilità di una classe di intellettuali alto-borghesi che si è posta da ideologa del terrorismo di sinistra, crescendo però nella propria stessa casa dei figli abituati agli agi, Amelio racconta della formazione, inconsapevole, di parricidi.
In uno dei momenti più intensi del film Dario stringe in un abbraccio carico di affetto il figlio: è questo l’unico momento del film in cui i due personaggi arrivano a un contatto fisico. Questo momento così estremo di vicinanza fisica coincide con la rottura e il definitivo allontanamento fra padre e figlio. L’abbraccio paterno non viene ricambiato dal figlio e, infatti, il finale del film ci mostrerà l’esito estremo della rottura del rapporto fra i due.
La visceralità dell’abbraccio, invece che significare unione, significa sgretolamento e il gesto di Dario appare più come un ultimo tentativo di tenere assieme i pezzi di una relazione ormai logora e sul punto di esplodere. Un abbraccio che si fa addio e sembra recidere anche l’ultimo legame che teneva i due uniti.
È interessante notare come il gesto, in questo caso, simboleggi l’annientamento del padre - che nel finale verrà presumibilmente arrestato dopo una denuncia di Emilio - operato dal figlio.
Alla luce di quanto detto finora, metteremo in relazione questo abbraccio padre-figlio con altri due abbracci «distruttivi» che ritornano nella filmografia di Gianni Amelio.
In Così ridevano (1998) il regista calabrese racconta la storia di due fratelli, Giovanni e Pietro (Enrico Lo Verso e Francesco Giuffrida), che si trasferiscono a Torino alla fine degli anni ’50 per cercare fortuna. Il legame fra i due assume sin da subito la forma di un rapporto fra padre e figlio. Giovanni, il maggiore, si impegna in ogni modo per far sì che Pietro studi, imponendo la propria volontà su di lui nonostante la poca predisposizione del ragazzo allo studio. Nel corso degli anni seguiamo l’evolversi della loro relazione: mentre Giovanni scala lentamente le gerarchie sociali arricchendosi in modi poco trasparenti, Pietro incontra notevoli difficoltà nell’affermarsi tramite lo studio. Nel film sono molteplici gli abbracci fra i due fratelli, ma ben presto appare evidente come l’affetto che Giovanni prova nei confronti di Pietro assuma i connotati dell’ossessione e il potere che egli ha sul fratello rappresenti per l’altro una costrizione. Nell’epilogo del film il loro legame sarà definitivamente spezzato da un fatto di sangue compiuto da Giovanni di cui si assumerà le responsabilità Pietro poiché minorenne. Rivedremo i due fratelli qualche anno dopo quando Giovanni, in procinto di battezzare il proprio figlio, riuscirà a far presenziare il fratello, finito in riformatorio, ai festeggiamenti. Troveremo però un Pietro evidentemente sull’orlo della follia, quasi privo di vita, annientato dal potere che il fratello ha esercitato su di lui.
Improvvisamente tutti gli abbracci di cui si compone il film assumono una connotazione ben diversa da quella di affetto a cui in un primo momento avremmo potuto pensare. Gli abbracci di Giovanni nei confronti di Pietro sono delle catene, una gabbia nel quale un fratello costringe l’altro. Il sentimento di amore viscerale presenta delle ombre di ossessione e l’abbraccio non sembra avvenire tra pari, ma fra il detentore di un potere «paterno» e un personaggio che assume il ruolo del figlio. È un abbraccio dal quale non si può scappare, un abbraccio che da abbraccio d’amore si fa abbraccio di morte, e che nel suo manifestarsi afferma una pre-potenza dell’uno sull’altro. I contatti fisici fra i due personaggi diventano quindi strette, lacci che lentamente logorano Pietro fino a portarlo all’annientamento.
Come in Colpire al cuore, ma con un ribaltamento dei ruoli, l’abbraccio - in questo caso reso ancora più viscerale dal suo essere reiterato e posto frequentemente al centro di campi ristretti - evidenzia il logoramento di una relazione in cui l’amore assume i tratti distruttivi dell’ossessione. Se l’abbraccio con cui i due fratelli si incontrano a Torino all’inizio del film può in un qualche modo segnalare una parità e un’unione fra i due - anche se la posizione di superiorità fra i due viene già abilmente suggerita da Amelio nel tipo di abbraccio che i due si scambiano - l’abbraccio con cui si rincontrano dopo la separazione forzata causata dall’omicidio di cui Pietro si è addossato le colpe evidenzia alla perfezione la distruzione del loro rapporto. L’abbraccio di Giovanni non viene ricambiato da Pietro e la distanza emotiva, culturale e psicologica fra i due ormai non può essere tenuta insieme neanche dall’avvicinamento fisico. Così la circolarità che caratterizza l’incipit e il finale di Così ridevano sembra essere spezzata proprio dall’abbraccio, gesto che più di tutti gli altri dovrebbe manifestare unione e chiusura di un cerchio.
Una dinamica simile a quella presente in Così ridevano compare anche nell’ultimo film di Gianni Amelio, Il signore delle formiche (2022). Nel film ispirato al processo subito dal poeta Aldo Braibanti viene dato un peso molto rilevante alla figura della madre di Ettore - giovane alunno e amante dello scrittore - che accusa Braibanti di irretire il figlio e costringe il ragazzo a delle sedute di elettroshock in un ospedale psichiatrico. Quello esercitato dalla madre su Ettore, peraltro maggiorenne, è un potere assoluto, morboso, che, travestito da amore materno, si fa in realtà portatore anch’esso di un’ossessione di controllo sulla vita e sul futuro del figlio. La dinamica madre-figlio è quindi molto simile a quella tra fratello maggiore e fratello minore in Così ridevano e l’esito di questo sistema di rapporti è lo stesso: la distruzione.
Negli ultimi atti del film, dopo la fine del processo di primo grado con la condanna di Braibanti, la donna chiama Ettore a sé e lo stringe in un abbraccio, ma l’abbraccio, come in Colpire al cuore e nel finale di Così ridevano, non viene ricambiato dal figlio. Il contatto fisico tra i due, infatti, non fa che sancire ulteriormente il potere esercitato dall’una sull’altro. L’abbraccio, come in Così ridevano, appare quindi come una catena, una coercizione che stabilisce, un’ultima volta, la superiorità della volontà della madre su quella del figlio: una volontà che porta colui che la subisce all’annientamento.
C’è però anche un altro abbraccio tra madre e figlio presente in Il signore delle formiche, quello tra la madre di Aldo Braibanti, Susanna, e il figlio.
Siamo in un momento particolarmente disteso del film: Aldo sta per trasferirsi - supponiamo definitivamente - a Roma e si abbraccia con l’anziana madre. È interessante notare come in questo abbraccio la macchina da presa inquadri i due personaggi di profilo, concedendo a questi la stessa «dignità», mentre nell’abbraccio che la madre di Ettore dà al figlio la cinepresa si collochi alle spalle del giovane e quindi frontalmente alla madre, suggerendo una diversa gerarchia fra i personaggi.
L’abbraccio tra Susanna e Aldo stabilisce una totalità fra i due, che, esposti a un leggero controluce, sembrano diventare quasi la stessa figura. È questo un abbraccio materno, viscerale, fra due persone che provano empatia l’una per l’altra e che configura una totalità inscindibile fra madre e figlio anche nel momento della loro - scopriremo in seguito definitiva - separazione. Un gesto che nasce dalla comprensione reciproca e che trova proprio nella comprensione - dal latino comprehensio-onis che significa, fra le altre cose, «atto di prendere» e «concatenazione» - il suo più intimo significato.
L’abbraccio tra una madre anziana e un figlio ormai maturo è presente anche in Il primo uomo (2011), ambientato nell’Algeria degli anni del Fronte di Liberazione Nazionale, con la differenza che il gesto, in questo caso, sancisce la riunione fra una madre e un figlio che è stato distante per molti anni da casa. Tuttavia, nel corso del film si comprende come il protagonista non possa più ritrovarsi, dopo molti anni passati in Francia, in un’Algeria che sta cambiando e si sta allontanando sempre di più da una «madrepatria» che l’ha abbracciata a tal punto da farla diventare sua parte integrante - l’Algeria era una vera e propria provincia francese - ma che ora fa di quell’abbraccio una catena. Questo senso di distacco ha il suo apice nel finale del film, in cui il protagonista si rapporta con la madre, quella stessa madre che ha stretto in un gesto carico di affetto all’inizio del film e che ora gli riferisce la sua volontà di rimanere in Algeria nonostante tutto quello che potrà accadere.
Il primo uomo si chiude su un pranzo tra madre e figlio in una scena che, dopo una ripresa in campo totale dei due che mangiano l’uno al fianco dell’altra, prosegue per stretti campi e controcampi che tendono ad evidenziare il loro isolamento. Quando lo scambio fra i due si è concluso uno zoom out che, partendo dal volto dell’anziana madre, arriva a includere nell’immagine il tavolo su cui i due stavano consumando il pasto, ma la donna è ora sola e, seduto al suo fianco, non c’è più nessuno.
Ancora una volta siamo stati ingannati da un abbraccio. L’unità che quel primo abbraccio tra madre e figlio poteva far sottintendere è destinata a spezzarsi, nuovamente, in un finale che segna una distanza irreversibile.
Un ultimo abbraccio che andremo ad analizzare è quello presente in Il ladro di bambini (1992), probabilmente il film più acclamato di Gianni Amelio, che ci permette di trarre una sintesi di quanto scritto finora. Siamo in uno dei momenti emotivamente più intensi del film. Il carabiniere Antonio (Enrico Lo Verso), ha portato i due giovani Rosetta e Luciano (Valentina Scalici e Giuseppe Ieracitano) - che ha in custodia e con i quali ha lentamente costruito una relazione di empatia sempre più forte - nella sua casa natia, in Calabria, dove sono in corso i festeggiamenti di una comunione. L’atmosfera di gioia e di spensieratezza che i personaggi riescono finalmente a respirare viene però turbata dall’impertinenza di un’ospite che sottolinea il passato da prostituta di Rosetta. In un’epifania, la ragazzina sembra improvvisamente capire il dramma della propria situazione e anche Antonio capisce finalmente lo stato di sofferenza dei ragazzi. All’infuori della casa da cui sono stati allontanati, Antonio comprende in un abbraccio Rosetta. Utilizziamo ancora una volta il termine «comprende» perché esso ha una doppia valenza che torna molto utile per sottolineare il carattere di unione che l’atto della comprensione istituisce fra due soggetti. Quello tra Antonio e Rosetta è, infatti, un abbraccio che stabilisce una comprensione, un’immedesimazione dell’uno nell’altra che rende i due un’unità e, metaforicamente, sancisce la nascita di un legame familiare. Antonio, fino a quel momento del film, è stato semplicemente l’accompagnatore dei due ragazzi ma, dopo quell’abbraccio, diventerà come un padre per loro e come tale si comporterà. L’abbraccio segna quindi una mutazione nel rapporto fra i personaggi, una metamorfosi della loro condizione che fa nascere un nucleo familiare alternativo basato sull’empatia e sulla comprensione del dolore altrui che diventa comprensione dell’altro: ciò che una famiglia dovrebbe essere.
L’abbraccio stabilisce quindi un contatto con l’altro. Lo stesso contatto che si innesta tra figlia e padre nel finale di un altro film di Amelio, La tenerezza (2017), manifestandosi però attraverso il semplice gesto di due mani - quelle di un padre e di sua figlia - che tornano a toccarsi dopo una separazione durata troppo tempo. Questo contatto, emotivo prima che fisico, diviene così imprescindibile per la comprensione dell’altro, imprescindibile per stabilire dei legami che, prima che di sangue, siano legami fra anime.
Ripercorriamo questo gesto d'affetto
nella filmografia di Gianni Amelio,
di Arturo Garavaglia
TR-69
31.10.2022
Non sempre un abbraccio è una manifestazione di affetto. L’arte figurativa, soprattutto quella contemporanea, ha spesso messo in discussione l’equazione abbraccio-amore per far emergere gli spettri che possono celarsi dietro a questo gesto apparentemente semplice, ma che in realtà, nel suo essere conglobante, presenta diverse sfumature. Più raramente, invece, il cinema ha saputo donare al gesto dell’abbraccio un significato differente da quello di manifestazione di affetto a cui siamo abituati. Spesso l’abbraccio avviene fra genitori e figli relegando alle relazioni amorose il più classico bacio, altre volte invece appare come un semplice gesto di conforto tra due personaggi. Uno dei registi che si è più soffermato, nel corso della sua carriera, su questo gesto, fino quasi a farne un marchio d'autore, è Gianni Amelio.
I film del regista italiano sono a tutti gli effetti delle storie d’amore. Certo, non storie proverbiali fra due innamorati, ma storie del legame genitori-figli o, meglio, fra individui che assurgono al ruolo di genitori e altri che assumono quello di figli. In questa dialettica tra parti, che fa da innesto per molti film del regista, l’abbraccio assume un ruolo fondamentale nel suo essere rivelatore di un legame fra i personaggi che non sempre è di affetto. L’abbraccio crea un’unità fra due individui, ma non sempre le due individualità che vanno a costituire l’unità dell’abbraccio partecipano attivamente o con pari ruolo a esso. Soffermandoci su Colpire al cuore, Il ladro di bambini, Così ridevano, Il primo uomo e il recente Il signore delle formiche, indagheremo le varie sfumature che Gianni Amelio è riuscito a dare al gesto dell’abbraccio e come questa azione, apparentemente banale, si inserisca all’interno della poetica del regista nostrano.
Colpire al cuore (1983) è il primo lungometraggio per il cinema diretto da Amelio. Nucleo della storia è il rapporto fra Dario (Jean-Louis Trintignant), un professore universitario di filosofia in relazione con alcuni suoi ex-studenti appartenenti alle Brigate Rosse, e il figlio Emilio (Fausto Rossi). Lo scontro generazionale tra un padre legato alla lotta armata e un figlio nato e cresciuto in un contesto alto-borghese è il tema centrale di un film che ha l’obiettivo di mettere in luce un cambio di epoca rispetto agli anni di piombo. L’opera di Amelio indaga le distanze ideologiche e generazionali che dividono un padre e un figlio. Interrogandosi sulle responsabilità di una classe di intellettuali alto-borghesi che si è posta da ideologa del terrorismo di sinistra, crescendo però nella propria stessa casa dei figli abituati agli agi, Amelio racconta della formazione, inconsapevole, di parricidi.
In uno dei momenti più intensi del film Dario stringe in un abbraccio carico di affetto il figlio: è questo l’unico momento del film in cui i due personaggi arrivano a un contatto fisico. Questo momento così estremo di vicinanza fisica coincide con la rottura e il definitivo allontanamento fra padre e figlio. L’abbraccio paterno non viene ricambiato dal figlio e, infatti, il finale del film ci mostrerà l’esito estremo della rottura del rapporto fra i due.
La visceralità dell’abbraccio, invece che significare unione, significa sgretolamento e il gesto di Dario appare più come un ultimo tentativo di tenere assieme i pezzi di una relazione ormai logora e sul punto di esplodere. Un abbraccio che si fa addio e sembra recidere anche l’ultimo legame che teneva i due uniti.
È interessante notare come il gesto, in questo caso, simboleggi l’annientamento del padre - che nel finale verrà presumibilmente arrestato dopo una denuncia di Emilio - operato dal figlio.
Alla luce di quanto detto finora, metteremo in relazione questo abbraccio padre-figlio con altri due abbracci «distruttivi» che ritornano nella filmografia di Gianni Amelio.
In Così ridevano (1998) il regista calabrese racconta la storia di due fratelli, Giovanni e Pietro (Enrico Lo Verso e Francesco Giuffrida), che si trasferiscono a Torino alla fine degli anni ’50 per cercare fortuna. Il legame fra i due assume sin da subito la forma di un rapporto fra padre e figlio. Giovanni, il maggiore, si impegna in ogni modo per far sì che Pietro studi, imponendo la propria volontà su di lui nonostante la poca predisposizione del ragazzo allo studio. Nel corso degli anni seguiamo l’evolversi della loro relazione: mentre Giovanni scala lentamente le gerarchie sociali arricchendosi in modi poco trasparenti, Pietro incontra notevoli difficoltà nell’affermarsi tramite lo studio. Nel film sono molteplici gli abbracci fra i due fratelli, ma ben presto appare evidente come l’affetto che Giovanni prova nei confronti di Pietro assuma i connotati dell’ossessione e il potere che egli ha sul fratello rappresenti per l’altro una costrizione. Nell’epilogo del film il loro legame sarà definitivamente spezzato da un fatto di sangue compiuto da Giovanni di cui si assumerà le responsabilità Pietro poiché minorenne. Rivedremo i due fratelli qualche anno dopo quando Giovanni, in procinto di battezzare il proprio figlio, riuscirà a far presenziare il fratello, finito in riformatorio, ai festeggiamenti. Troveremo però un Pietro evidentemente sull’orlo della follia, quasi privo di vita, annientato dal potere che il fratello ha esercitato su di lui.
Improvvisamente tutti gli abbracci di cui si compone il film assumono una connotazione ben diversa da quella di affetto a cui in un primo momento avremmo potuto pensare. Gli abbracci di Giovanni nei confronti di Pietro sono delle catene, una gabbia nel quale un fratello costringe l’altro. Il sentimento di amore viscerale presenta delle ombre di ossessione e l’abbraccio non sembra avvenire tra pari, ma fra il detentore di un potere «paterno» e un personaggio che assume il ruolo del figlio. È un abbraccio dal quale non si può scappare, un abbraccio che da abbraccio d’amore si fa abbraccio di morte, e che nel suo manifestarsi afferma una pre-potenza dell’uno sull’altro. I contatti fisici fra i due personaggi diventano quindi strette, lacci che lentamente logorano Pietro fino a portarlo all’annientamento.
Come in Colpire al cuore, ma con un ribaltamento dei ruoli, l’abbraccio - in questo caso reso ancora più viscerale dal suo essere reiterato e posto frequentemente al centro di campi ristretti - evidenzia il logoramento di una relazione in cui l’amore assume i tratti distruttivi dell’ossessione. Se l’abbraccio con cui i due fratelli si incontrano a Torino all’inizio del film può in un qualche modo segnalare una parità e un’unione fra i due - anche se la posizione di superiorità fra i due viene già abilmente suggerita da Amelio nel tipo di abbraccio che i due si scambiano - l’abbraccio con cui si rincontrano dopo la separazione forzata causata dall’omicidio di cui Pietro si è addossato le colpe evidenzia alla perfezione la distruzione del loro rapporto. L’abbraccio di Giovanni non viene ricambiato da Pietro e la distanza emotiva, culturale e psicologica fra i due ormai non può essere tenuta insieme neanche dall’avvicinamento fisico. Così la circolarità che caratterizza l’incipit e il finale di Così ridevano sembra essere spezzata proprio dall’abbraccio, gesto che più di tutti gli altri dovrebbe manifestare unione e chiusura di un cerchio.
Una dinamica simile a quella presente in Così ridevano compare anche nell’ultimo film di Gianni Amelio, Il signore delle formiche (2022). Nel film ispirato al processo subito dal poeta Aldo Braibanti viene dato un peso molto rilevante alla figura della madre di Ettore - giovane alunno e amante dello scrittore - che accusa Braibanti di irretire il figlio e costringe il ragazzo a delle sedute di elettroshock in un ospedale psichiatrico. Quello esercitato dalla madre su Ettore, peraltro maggiorenne, è un potere assoluto, morboso, che, travestito da amore materno, si fa in realtà portatore anch’esso di un’ossessione di controllo sulla vita e sul futuro del figlio. La dinamica madre-figlio è quindi molto simile a quella tra fratello maggiore e fratello minore in Così ridevano e l’esito di questo sistema di rapporti è lo stesso: la distruzione.
Negli ultimi atti del film, dopo la fine del processo di primo grado con la condanna di Braibanti, la donna chiama Ettore a sé e lo stringe in un abbraccio, ma l’abbraccio, come in Colpire al cuore e nel finale di Così ridevano, non viene ricambiato dal figlio. Il contatto fisico tra i due, infatti, non fa che sancire ulteriormente il potere esercitato dall’una sull’altro. L’abbraccio, come in Così ridevano, appare quindi come una catena, una coercizione che stabilisce, un’ultima volta, la superiorità della volontà della madre su quella del figlio: una volontà che porta colui che la subisce all’annientamento.
C’è però anche un altro abbraccio tra madre e figlio presente in Il signore delle formiche, quello tra la madre di Aldo Braibanti, Susanna, e il figlio.
Siamo in un momento particolarmente disteso del film: Aldo sta per trasferirsi - supponiamo definitivamente - a Roma e si abbraccia con l’anziana madre. È interessante notare come in questo abbraccio la macchina da presa inquadri i due personaggi di profilo, concedendo a questi la stessa «dignità», mentre nell’abbraccio che la madre di Ettore dà al figlio la cinepresa si collochi alle spalle del giovane e quindi frontalmente alla madre, suggerendo una diversa gerarchia fra i personaggi.
L’abbraccio tra Susanna e Aldo stabilisce una totalità fra i due, che, esposti a un leggero controluce, sembrano diventare quasi la stessa figura. È questo un abbraccio materno, viscerale, fra due persone che provano empatia l’una per l’altra e che configura una totalità inscindibile fra madre e figlio anche nel momento della loro - scopriremo in seguito definitiva - separazione. Un gesto che nasce dalla comprensione reciproca e che trova proprio nella comprensione - dal latino comprehensio-onis che significa, fra le altre cose, «atto di prendere» e «concatenazione» - il suo più intimo significato.
L’abbraccio tra una madre anziana e un figlio ormai maturo è presente anche in Il primo uomo (2011), ambientato nell’Algeria degli anni del Fronte di Liberazione Nazionale, con la differenza che il gesto, in questo caso, sancisce la riunione fra una madre e un figlio che è stato distante per molti anni da casa. Tuttavia, nel corso del film si comprende come il protagonista non possa più ritrovarsi, dopo molti anni passati in Francia, in un’Algeria che sta cambiando e si sta allontanando sempre di più da una «madrepatria» che l’ha abbracciata a tal punto da farla diventare sua parte integrante - l’Algeria era una vera e propria provincia francese - ma che ora fa di quell’abbraccio una catena. Questo senso di distacco ha il suo apice nel finale del film, in cui il protagonista si rapporta con la madre, quella stessa madre che ha stretto in un gesto carico di affetto all’inizio del film e che ora gli riferisce la sua volontà di rimanere in Algeria nonostante tutto quello che potrà accadere.
Il primo uomo si chiude su un pranzo tra madre e figlio in una scena che, dopo una ripresa in campo totale dei due che mangiano l’uno al fianco dell’altra, prosegue per stretti campi e controcampi che tendono ad evidenziare il loro isolamento. Quando lo scambio fra i due si è concluso uno zoom out che, partendo dal volto dell’anziana madre, arriva a includere nell’immagine il tavolo su cui i due stavano consumando il pasto, ma la donna è ora sola e, seduto al suo fianco, non c’è più nessuno.
Ancora una volta siamo stati ingannati da un abbraccio. L’unità che quel primo abbraccio tra madre e figlio poteva far sottintendere è destinata a spezzarsi, nuovamente, in un finale che segna una distanza irreversibile.
Un ultimo abbraccio che andremo ad analizzare è quello presente in Il ladro di bambini (1992), probabilmente il film più acclamato di Gianni Amelio, che ci permette di trarre una sintesi di quanto scritto finora. Siamo in uno dei momenti emotivamente più intensi del film. Il carabiniere Antonio (Enrico Lo Verso), ha portato i due giovani Rosetta e Luciano (Valentina Scalici e Giuseppe Ieracitano) - che ha in custodia e con i quali ha lentamente costruito una relazione di empatia sempre più forte - nella sua casa natia, in Calabria, dove sono in corso i festeggiamenti di una comunione. L’atmosfera di gioia e di spensieratezza che i personaggi riescono finalmente a respirare viene però turbata dall’impertinenza di un’ospite che sottolinea il passato da prostituta di Rosetta. In un’epifania, la ragazzina sembra improvvisamente capire il dramma della propria situazione e anche Antonio capisce finalmente lo stato di sofferenza dei ragazzi. All’infuori della casa da cui sono stati allontanati, Antonio comprende in un abbraccio Rosetta. Utilizziamo ancora una volta il termine «comprende» perché esso ha una doppia valenza che torna molto utile per sottolineare il carattere di unione che l’atto della comprensione istituisce fra due soggetti. Quello tra Antonio e Rosetta è, infatti, un abbraccio che stabilisce una comprensione, un’immedesimazione dell’uno nell’altra che rende i due un’unità e, metaforicamente, sancisce la nascita di un legame familiare. Antonio, fino a quel momento del film, è stato semplicemente l’accompagnatore dei due ragazzi ma, dopo quell’abbraccio, diventerà come un padre per loro e come tale si comporterà. L’abbraccio segna quindi una mutazione nel rapporto fra i personaggi, una metamorfosi della loro condizione che fa nascere un nucleo familiare alternativo basato sull’empatia e sulla comprensione del dolore altrui che diventa comprensione dell’altro: ciò che una famiglia dovrebbe essere.
L’abbraccio stabilisce quindi un contatto con l’altro. Lo stesso contatto che si innesta tra figlia e padre nel finale di un altro film di Amelio, La tenerezza (2017), manifestandosi però attraverso il semplice gesto di due mani - quelle di un padre e di sua figlia - che tornano a toccarsi dopo una separazione durata troppo tempo. Questo contatto, emotivo prima che fisico, diviene così imprescindibile per la comprensione dell’altro, imprescindibile per stabilire dei legami che, prima che di sangue, siano legami fra anime.