di Omar Franini
NC-164
14.09.2023
Lo scorso sabato si è conclusa l’ottantesima edizione del Festival di Venezia e, come di consueto, è arrivato il momento di trarre le somme e analizzare nel dettaglio non solo i vincitori, ma anche le principali problematiche che hanno caratterizzato la Mostra di quest'anno.
Cosa rimarrà di Venezia 80? Tanta delusione in primis. Sulla carta, il festival aveva tutte le potenzialità per essere una delle migliori edizioni degli ultimi anni, ma la scarsa qualità di alcuni film italiani e americani, i così tanto decantati “Oscar hopefuls”, hanno condizionato parzialmente la buona riuscita della manifestazione. Partendo proprio dagli Stati Uniti, si pensava che lo sciopero degli attori e sceneggiatori avrebbe portato drastici cambiamenti nella selezione dei film, ma non è stato così. Infatti, grazie ad una serie di accordi stretti con le varie case di produzione, le star di alcuni film, tra cui Ferrari, Memory e Priscilla, hanno potuto presenziare alla Mostra. Naturalmente gli attori che sono riusciti a giungere al lido non hanno perso occasione per manifestare la loro solidarietà nei confronti dei colleghi in protesta.
Nonostante questo clima di fermento, molte delle opere giunte dall’America non hanno affatto convinto. Come Ferrari, che pur essendo un buon film non riesce minimamente ad eguagliare le pellicole precedenti di Michael Mann, o Origin di Ava DuVernay, lavoro che parte con le migliori premesse, ma che poi sembra essere esclusivamente interessato a comporre un insufficiente e confusionario manifesto politico. Anche Maestro di Bradley Cooper - cronaca della travagliata relazione di Leonard Bernstein e sua moglie Felicia Montealegre - è un lavoro che, seppur realizzato con buona qualità, non aggiunge nulla al panorama del genere biopic.
Per quanto riguarda l’Italia invece, vanno segnalate due grandi delusioni: L’Ordine del Tempo di Liliana Cavani e Finalmente l’Alba di Saverio Costanzo. Per ciò che riguarda la Cavani, mai ci saremmo aspettati di vedere un’opera così scarsa realizzata da una delle nostre cineaste più rinomate, mentre nel lavoro di Costanzo sorprende la rappresentazione così deludente di un’epoca irripetibile e del celebre fenomeno della “Hollywood sul Tevere”. Ovviamente ci sono stati anche film che hanno soddisfatto e stupito, come Hitman di Richard Linklater, Coup de Chance di Woody Allen e infine Menus Plaisirs - Les Trois Grois di Frederick Wiseman. Tre film presentati fuori concorso che avrebbero meritato un posto nella competizione ufficiale.
Dalla sezione principale invece vanno segnalate due pellicole che malauguratamente sono rimaste a mani vuote: La Bête di Bertrand Bonello e Die Theorie Von Allem di Timm Kroger. Stupisce davvero il fatto che opere con una tale ambizione stilistica e narrativa siano state snobbate da una giuria formata da cineasti del calibro di Damien Chazelle e Jane Campion.
Passando ora ai vincitori, il Leone d’Oro è stato vinto da Yorgos Lanthimos per Povere Creature!, una favola gotica adattata dall’omonimo romanzo di Alasdair Gray che si focalizza sul personaggio di Bella Baxter (interpretata dalla sempre magnifica Emma Stone), una sorta di “ Frankenstein al femminile” che intraprende un viaggio alla scoperta di se stessa. Povere Creature è un film di rara bellezza che conquista fin dal primo frame, e fa piacere vedere riconosciuto il lavoro del cineasta greco con il premio più importante della manifestazione. È interessante notare inoltre come gli ultimi cinque film di Lanthimos abbiano sempre vinto dei premi nei festival europei più rinomati.
Ryusuke Hamaguchi si è invece classificato al “secondo posto” vincendo il Gran Premio della Giuria per Evil Does Not Exist . Il film segue le vicende degli abitanti di una piccola comunità rurale fuori Tokyo la cui esistenza verrà stravolta dopo che un’azienda deciderà di costruire un glamping sulla loro terra. Un premio più che meritato per Hamaguchi, e che si aggiunge all’invidiabile lista di riconoscimenti dell’autore giapponese tra cui spiccano il Gran Premio della giuria a Berlino per Wheel of Fortune and Fantasy (2021) e quello alla sceneggiatura a Cannes per Drive My Car (2021).
Il Premio Speciale della Giuria è stato invece assegnato ad Agnieszka Holland per Green Border, film che racconta la drammatica situazione sul “confine verde” tra Bielorussia e Polonia, luogo dove i rifugiati proveniente dall’Africa e dal medio oriente sono costretti a transitare con la speranza di raggiungere una nuova vita in Europa. Green Border è un film spiccatamente politico e a tratti provocatorio attraverso cui la cineasta cerca di raccontare una terribile situazione mandando un forte messaggio agli spettatori. La vittoria non ci ha sorpreso minimamente, ma bisogna ammettere che vi erano film più meritevoli di tale riconoscimento.
Prima di commentare i vincitori delle due Coppe Volpi, è doveroso citare una simpatica statistica. Ogni volta che Jane Campion ha fatto parte di una giuria di un festival europeo, i due premi agli attori sono andati a interpretazioni in lingua inglese. Nel 1997, a Venezia, sono stati premiati Wesley Snipes per One Night Stand e Robin Tunney per Niagara, Niagara, mentre nel 2014, a Cannes, sono stati riconosciuti Timothy Spall per Mr. Turner e Julianne Moore per Maps to the Stars. Quest’anno è stato il turno di Peter Sarsgaard per Memory di Michel Franco e Cailley Spaney per Priscilla di Sofia Coppola. La vittoria di Sarsgaard ci ha più che soddisfatti, innanzitutto perché questo premio è il primo, grande, riconoscimento nella carriera di un attore piuttosto sottovalutato. L’interpretazione che Sarsgaard porta sullo schermo è impressionante, il suo approccio nel rappresentare la malattia e la relativa sofferenza del suo personaggio ci hanno commosso e colpito. La Coppa Volpi a Cailley Spaney è stata invece una scelta più particolare. L’interpretazione della Spaney è una prova di “sottrazione” dove l’attrice mostra l’arco evolutivo del suo personaggio con grazia e placidità. Un premio che riconosce il talento di una nuova e promettente interprete.
Pablo Larrain si è aggiudicato il suo secondo premio alla sceneggiatura (il primo fu nel 2016 con Jackie) per El Conde, opera satirica attraverso cui il regista cileno analizza la controversa figura di Augusto Pinochet. Come nei suoi film precedenti, Larrain decostruisce il genere biografico adoperando un approccio originale nel quale trasforma il dittatore cileno in un vampiro di 250 anni. Irriverente e politicamente scorretta, la sceneggiatura di Larrain è sensazionale, soprattutto nel modo in cui adopera la figura del vampiro per creare una personale allegoria politica. Infatti, il cineasta non si nasconde dal mostrare i lati più controversi dei dittatori e autocrati presenti nel film, persone in grado di succhiare il sangue, metaforicamente e non, dalla propria nazione.
Concludiamo il palmares della competizione con l’unico film italiano che si è aggiudicato dei premi, ovvero Io Capitano di Matteo Garrone. Il film racconta il tormentato viaggio di Seydou, giovane ragazzo che parte dal Senegal con la speranza di raggiungere l’Europa per cominciare una nuova vita e creare un futuro migliore per la propria famiglia. L’opera si è aggiudicata ben due premi: un più che meritato premio Mastroianni per Seydou Sarr e uno alla regia per Garrone. Quest’ultimo non ci ha convinto appieno, soprattutto perché avremmo preferito un impostazione stilistica più grezza, con colori meno accesi e che si focalizzasse di più sulla dura realtà che sta vivendo Seydou. Il film è comunque ben riuscito, ma come per Ferrari di Michael Mann, le alte aspettative non sono state rispettate pienamente.
“Sarà uno di quei film che mi rimprovereranno di non aver messo nel concorso principale.” Queste sono state le parole usate da Alberto Barbera per introdurre Explanation for Everything di Gábor Reisz. Il terzo lungometraggio del cineasta ungherese si è aggiudicato “solo” il premio di miglior film nella sezione Orizzonti, vogliamo porre enfasi sul “solo” proprio perché il lavoro magistrale compiuto da Reisz non avrebbe sfigurato per nulla nella competizione ufficiale. Il film si concentra sulle difficoltà di un giovane ragazzo, Abel, durante la preparazione dell’esame di maturità. Quel che sembra essere il classico coming of age sfocia ben presto in un’opera estremamente complessa dove il regista analizza le tensioni politiche della società contemporanea ungherese, uno stato di ansia perpetuo che condiziona ogni personaggio della narrazione. Reisz non si limita ad affrontare questa storia solo dal punto di vista del giovane protagonista, ma si focalizza abilmente anche su character secondari, come il padre e l’insegnante, per mostrare diverse prospettive. Explanation for Everything era uno dei pochi vincitori accettabili della sezione Orizzonti visto l’enorme divario di qualità tra questo film e il resto della selezione.
Ci ha convinto anche Paradise is Burning di Mika Gustafson, opera vincitrice del premio alla miglior regia che segue la storia di tre sorelle dopo il loro abbandono da parte della madre. Il film, che ci ha ricordato vagamente il cinema di Lukas Moodyson, è stata una piacevole visione e abbiamo trovato le interpretazioni naturali delle tre protagoniste (al loro primo ruolo) sorprendenti, il tutto accompagnato da una delle colonne sonore più belle degli ultimi tempi. Gustafson è uno dei talenti da tenere sott’occhio per i prossimi anni e non vediamo l’ora di sapere cosa il futuro ha in serbo per lei.
Concludiamo questa analisi citando due titoli da Orizzonti che sono stati snobbati alla serata dei premi. Il primo è Tatami, co-diretto dall’israeliano Guy Nattiv e dall’attrice iraniana Zar Amir Ebrahimi, film del quale è impossibile rimanere indifferenti . Il lungometraggio segue le vicende della judoka Leila (Arienne Mandi) e della sua allenatrice Maryam (Zar Amir Ebrahimi) mentre tentano l’impresa di vincere un torneo mondiale di judo. Quello che sembra essere il classico film a tematica sportiva si trasforma ben presto in un intenso thriller politico nel quale il governo iraniano tenterà in tutti i modi possibili di porre fine all’impresa delle due donne. Tatami risulta essere una visione tanto interessante quanto emozionante e avrebbe meritato almeno un premio per le due interpreti.
Il secondo titolo è invece Gasoline Rainbow di Turner Ross e Bill Ross IV. Il film racconta il road-trip di cinque ragazzi che hanno appena terminato il liceo. Un viaggio che rappresenta l’ultimo istante di spensieratezza prima di cominciare una nuova vita. Quello che stupisce di Gasoline Rainbow è l’approccio documentaristico con cui il duo di registi segue le vicende dei giovani protagonisti - interpretati da attori esordienti - e il modo in cui il film evita i classici stereotipi del cinema indie statunitense.
di Omar Franini
NC-164
14.09.2023
Lo scorso sabato si è conclusa l’ottantesima edizione del Festival di Venezia e, come di consueto, è arrivato il momento di trarre le somme e analizzare nel dettaglio non solo i vincitori, ma anche le principali problematiche che hanno caratterizzato la Mostra di quest'anno.
Cosa rimarrà di Venezia 80? Tanta delusione in primis. Sulla carta, il festival aveva tutte le potenzialità per essere una delle migliori edizioni degli ultimi anni, ma la scarsa qualità di alcuni film italiani e americani, i così tanto decantati “Oscar hopefuls”, hanno condizionato parzialmente la buona riuscita della manifestazione. Partendo proprio dagli Stati Uniti, si pensava che lo sciopero degli attori e sceneggiatori avrebbe portato drastici cambiamenti nella selezione dei film, ma non è stato così. Infatti, grazie ad una serie di accordi stretti con le varie case di produzione, le star di alcuni film, tra cui Ferrari, Memory e Priscilla, hanno potuto presenziare alla Mostra. Naturalmente gli attori che sono riusciti a giungere al lido non hanno perso occasione per manifestare la loro solidarietà nei confronti dei colleghi in protesta.
Nonostante questo clima di fermento, molte delle opere giunte dall’America non hanno affatto convinto. Come Ferrari, che pur essendo un buon film non riesce minimamente ad eguagliare le pellicole precedenti di Michael Mann, o Origin di Ava DuVernay, lavoro che parte con le migliori premesse, ma che poi sembra essere esclusivamente interessato a comporre un insufficiente e confusionario manifesto politico. Anche Maestro di Bradley Cooper - cronaca della travagliata relazione di Leonard Bernstein e sua moglie Felicia Montealegre - è un lavoro che, seppur realizzato con buona qualità, non aggiunge nulla al panorama del genere biopic.
Per quanto riguarda l’Italia invece, vanno segnalate due grandi delusioni: L’Ordine del Tempo di Liliana Cavani e Finalmente l’Alba di Saverio Costanzo. Per ciò che riguarda la Cavani, mai ci saremmo aspettati di vedere un’opera così scarsa realizzata da una delle nostre cineaste più rinomate, mentre nel lavoro di Costanzo sorprende la rappresentazione così deludente di un’epoca irripetibile e del celebre fenomeno della “Hollywood sul Tevere”. Ovviamente ci sono stati anche film che hanno soddisfatto e stupito, come Hitman di Richard Linklater, Coup de Chance di Woody Allen e infine Menus Plaisirs - Les Trois Grois di Frederick Wiseman. Tre film presentati fuori concorso che avrebbero meritato un posto nella competizione ufficiale.
Dalla sezione principale invece vanno segnalate due pellicole che malauguratamente sono rimaste a mani vuote: La Bête di Bertrand Bonello e Die Theorie Von Allem di Timm Kroger. Stupisce davvero il fatto che opere con una tale ambizione stilistica e narrativa siano state snobbate da una giuria formata da cineasti del calibro di Damien Chazelle e Jane Campion.
Passando ora ai vincitori, il Leone d’Oro è stato vinto da Yorgos Lanthimos per Povere Creature!, una favola gotica adattata dall’omonimo romanzo di Alasdair Gray che si focalizza sul personaggio di Bella Baxter (interpretata dalla sempre magnifica Emma Stone), una sorta di “ Frankenstein al femminile” che intraprende un viaggio alla scoperta di se stessa. Povere Creature è un film di rara bellezza che conquista fin dal primo frame, e fa piacere vedere riconosciuto il lavoro del cineasta greco con il premio più importante della manifestazione. È interessante notare inoltre come gli ultimi cinque film di Lanthimos abbiano sempre vinto dei premi nei festival europei più rinomati.
Ryusuke Hamaguchi si è invece classificato al “secondo posto” vincendo il Gran Premio della Giuria per Evil Does Not Exist . Il film segue le vicende degli abitanti di una piccola comunità rurale fuori Tokyo la cui esistenza verrà stravolta dopo che un’azienda deciderà di costruire un glamping sulla loro terra. Un premio più che meritato per Hamaguchi, e che si aggiunge all’invidiabile lista di riconoscimenti dell’autore giapponese tra cui spiccano il Gran Premio della giuria a Berlino per Wheel of Fortune and Fantasy (2021) e quello alla sceneggiatura a Cannes per Drive My Car (2021).
Il Premio Speciale della Giuria è stato invece assegnato ad Agnieszka Holland per Green Border, film che racconta la drammatica situazione sul “confine verde” tra Bielorussia e Polonia, luogo dove i rifugiati proveniente dall’Africa e dal medio oriente sono costretti a transitare con la speranza di raggiungere una nuova vita in Europa. Green Border è un film spiccatamente politico e a tratti provocatorio attraverso cui la cineasta cerca di raccontare una terribile situazione mandando un forte messaggio agli spettatori. La vittoria non ci ha sorpreso minimamente, ma bisogna ammettere che vi erano film più meritevoli di tale riconoscimento.
Prima di commentare i vincitori delle due Coppe Volpi, è doveroso citare una simpatica statistica. Ogni volta che Jane Campion ha fatto parte di una giuria di un festival europeo, i due premi agli attori sono andati a interpretazioni in lingua inglese. Nel 1997, a Venezia, sono stati premiati Wesley Snipes per One Night Stand e Robin Tunney per Niagara, Niagara, mentre nel 2014, a Cannes, sono stati riconosciuti Timothy Spall per Mr. Turner e Julianne Moore per Maps to the Stars. Quest’anno è stato il turno di Peter Sarsgaard per Memory di Michel Franco e Cailley Spaney per Priscilla di Sofia Coppola. La vittoria di Sarsgaard ci ha più che soddisfatti, innanzitutto perché questo premio è il primo, grande, riconoscimento nella carriera di un attore piuttosto sottovalutato. L’interpretazione che Sarsgaard porta sullo schermo è impressionante, il suo approccio nel rappresentare la malattia e la relativa sofferenza del suo personaggio ci hanno commosso e colpito. La Coppa Volpi a Cailley Spaney è stata invece una scelta più particolare. L’interpretazione della Spaney è una prova di “sottrazione” dove l’attrice mostra l’arco evolutivo del suo personaggio con grazia e placidità. Un premio che riconosce il talento di una nuova e promettente interprete.
Pablo Larrain si è aggiudicato il suo secondo premio alla sceneggiatura (il primo fu nel 2016 con Jackie) per El Conde, opera satirica attraverso cui il regista cileno analizza la controversa figura di Augusto Pinochet. Come nei suoi film precedenti, Larrain decostruisce il genere biografico adoperando un approccio originale nel quale trasforma il dittatore cileno in un vampiro di 250 anni. Irriverente e politicamente scorretta, la sceneggiatura di Larrain è sensazionale, soprattutto nel modo in cui adopera la figura del vampiro per creare una personale allegoria politica. Infatti, il cineasta non si nasconde dal mostrare i lati più controversi dei dittatori e autocrati presenti nel film, persone in grado di succhiare il sangue, metaforicamente e non, dalla propria nazione.
Concludiamo il palmares della competizione con l’unico film italiano che si è aggiudicato dei premi, ovvero Io Capitano di Matteo Garrone. Il film racconta il tormentato viaggio di Seydou, giovane ragazzo che parte dal Senegal con la speranza di raggiungere l’Europa per cominciare una nuova vita e creare un futuro migliore per la propria famiglia. L’opera si è aggiudicata ben due premi: un più che meritato premio Mastroianni per Seydou Sarr e uno alla regia per Garrone. Quest’ultimo non ci ha convinto appieno, soprattutto perché avremmo preferito un impostazione stilistica più grezza, con colori meno accesi e che si focalizzasse di più sulla dura realtà che sta vivendo Seydou. Il film è comunque ben riuscito, ma come per Ferrari di Michael Mann, le alte aspettative non sono state rispettate pienamente.
“Sarà uno di quei film che mi rimprovereranno di non aver messo nel concorso principale.” Queste sono state le parole usate da Alberto Barbera per introdurre Explanation for Everything di Gábor Reisz. Il terzo lungometraggio del cineasta ungherese si è aggiudicato “solo” il premio di miglior film nella sezione Orizzonti, vogliamo porre enfasi sul “solo” proprio perché il lavoro magistrale compiuto da Reisz non avrebbe sfigurato per nulla nella competizione ufficiale. Il film si concentra sulle difficoltà di un giovane ragazzo, Abel, durante la preparazione dell’esame di maturità. Quel che sembra essere il classico coming of age sfocia ben presto in un’opera estremamente complessa dove il regista analizza le tensioni politiche della società contemporanea ungherese, uno stato di ansia perpetuo che condiziona ogni personaggio della narrazione. Reisz non si limita ad affrontare questa storia solo dal punto di vista del giovane protagonista, ma si focalizza abilmente anche su character secondari, come il padre e l’insegnante, per mostrare diverse prospettive. Explanation for Everything era uno dei pochi vincitori accettabili della sezione Orizzonti visto l’enorme divario di qualità tra questo film e il resto della selezione.
Ci ha convinto anche Paradise is Burning di Mika Gustafson, opera vincitrice del premio alla miglior regia che segue la storia di tre sorelle dopo il loro abbandono da parte della madre. Il film, che ci ha ricordato vagamente il cinema di Lukas Moodyson, è stata una piacevole visione e abbiamo trovato le interpretazioni naturali delle tre protagoniste (al loro primo ruolo) sorprendenti, il tutto accompagnato da una delle colonne sonore più belle degli ultimi tempi. Gustafson è uno dei talenti da tenere sott’occhio per i prossimi anni e non vediamo l’ora di sapere cosa il futuro ha in serbo per lei.
Concludiamo questa analisi citando due titoli da Orizzonti che sono stati snobbati alla serata dei premi. Il primo è Tatami, co-diretto dall’israeliano Guy Nattiv e dall’attrice iraniana Zar Amir Ebrahimi, film del quale è impossibile rimanere indifferenti . Il lungometraggio segue le vicende della judoka Leila (Arienne Mandi) e della sua allenatrice Maryam (Zar Amir Ebrahimi) mentre tentano l’impresa di vincere un torneo mondiale di judo. Quello che sembra essere il classico film a tematica sportiva si trasforma ben presto in un intenso thriller politico nel quale il governo iraniano tenterà in tutti i modi possibili di porre fine all’impresa delle due donne. Tatami risulta essere una visione tanto interessante quanto emozionante e avrebbe meritato almeno un premio per le due interpreti.
Il secondo titolo è invece Gasoline Rainbow di Turner Ross e Bill Ross IV. Il film racconta il road-trip di cinque ragazzi che hanno appena terminato il liceo. Un viaggio che rappresenta l’ultimo istante di spensieratezza prima di cominciare una nuova vita. Quello che stupisce di Gasoline Rainbow è l’approccio documentaristico con cui il duo di registi segue le vicende dei giovani protagonisti - interpretati da attori esordienti - e il modo in cui il film evita i classici stereotipi del cinema indie statunitense.