di Omar Franini
NC-117
01.06.2022
La 75esima edizione del Festival di Cannes si è conclusa lo scorso sabato e ODG ha avuto l’opportunità di seguirne l’intero sviluppo. La nostra permanenza al Festival si è rivelata un’esperienza molto ricca, caratterizzata dalla visione di circa una trentina di film, dalla realizzazione di interviste e partecipazione a interessanti conferenze stampa. Prima di entrare nel dettaglio e raccontarvi come è andata, vorremmo ricordarvi i motivi per cui questo Festival ha acquisito così tanta importanza negli anni e cosa lo contraddistingue rispetto alle altre manifestazioni cinematografiche, Venezia e Berlino su tutte. Uno dei fattori che pone il Festival francese su un altro livello è la sua esclusività; infatti, a differenza delle due manifestazioni sopra citate, Cannes non è aperto al pubblico pagante e per partecipare è obbligatorio avere un accredito o un invito speciale per le proiezioni di gala. La locazione della manifestazione gioca un altro ruolo importante; le spiagge affollate da celebrità, la presenza del Marché du Film (il mercato) e il Palais des Festival et des Congrès, il palazzo dove si svolgono la maggior parte delle proiezioni, creano un’atmosfera unica nel suo genere, imponendo la Croisette come cuore dell’industria cinematografica mondiale. Per quanto riguarda i film, fino a qualche anno fa si poteva trovare un certo equilibrio e fare un paragone tra le selezioni di Cannes e Venezia, ma ultimamente le due manifestazioni hanno intrapreso direzioni opposte. Il Festival francese, infatti, è diventato il palcoscenico per eccellenza del cinema internazionale d’autore, mentre la Biennale ha iniziato a concentrarsi di più sulla presenza di film Hollywoodiani (7/8 in media all’anno), trasformandosi secondo alcuni per lo più in un “trampolino di lancio” per questi film agli Oscar e oscurando spesso (non sempre) la presenza di film di ricerca maggiormente autoriale.
L’edizione del Festival di Cannes di quest’anno può essere ricordata anche come la prima post-pandemia; non c’era infatti né l’obbligo di indossare la mascherina, né quello di presentare il green pass o il tampone. Anche per questo c’è stato il ritorno delle file chilometriche per entrare alle proiezioni, causate soprattutto dalla disorganizzazione del sito per la prenotazione dei biglietti. Per quanto riguarda la qualità dei film, a detta di molti, la Competizione Ufficiale è risultata nettamente inferiore rispetto all’anno precedente. E anche se abbiamo apprezzato alcuni dei film che hanno diviso di più l’opinione generale, Stars at Noon di Claire Denis su tutti, ci troviamo d’accordo con questa affermazione. Se l’anno scorso film come Drive My Car di Ryūsuke Hamaguchi, Memoria di Apichatpong Weerasethakul e La persona peggiore del mondo di Joachim Trier avevano ricevuto il consenso generale, in questa edizione solo due film si sono avvicinati a tale traguardo, ovvero Godland di Hlynur Pàlmason e Decision to Leave di Park Chan-wook.
Godland è l’opera terza del regista islandese e narra del viaggio di un prete luterano danese in Islanda e di come questa terra desolata metterà a dura prova la sua fede religiosa. Girato in 4:3, con un ritmo lento e contemplativo, il film ricorda molto da vicino il cinema di Bresson e Herzog, sia per le tematiche affrontate che per l’atmosfera solenne catturata da Pàlmason. Ci sorprende il fatto che il film sia stato relegato nella sezione secondaria del Festival, ma ci lascia ancora più perplessi vedere che sia stato snobbato alla cerimonia finale. Decision to Leave di Park Chan-wook è invece il nostro film del Festival, un noir dalle sfumature melodrammatiche che racconta il complesso rapporto tra Chang Hae-joon, un detective tormentato, e Song Seo-rae, indagata numero uno per l’omicidio del marito. La nuova opera del maestro coreano soddisfa sotto ogni punto di vista, in special modo per le magistrali interpretazioni di Park Hae-il e Tang Wei, capaci di dare vita a personaggi enigmatici dal fascino irresistibile.
Varie opere ci hanno entusiasmato nel corso del Festival e vorremmo citare qualche titolo dalle sezioni minori: L’envol, la prima opera girata in francese da Pietro Marcello, Un Beau Matin di Mia Hansen-Løve e Chronique d’une Liaison Passagère di Emmanuel Mouret sono tre film che abbiamo molto apprezzato e che meritavano forse un posto in Competizione invece dei deludenti Frere et Sœur di Arnaud Desplechin e Les Amandiers di Valeria Bruni Tedeschi. Thierry Frémaux, delegato generale e capo selezionatore del Festival, ha negli anni mostrato la comprensibile tendenza a selezionare nella Competizione Ufficiale nomi conosciuti piuttosto che assumersi concreti rischi, favorendo lo spettacolo ma abbassando a volte nettamente il livello generale dei film. Un processo di selezione molto diverso rispetto a quello di Carlo Chatrian, direttore della Berlinale, che avevamo discusso qualche mese fa.
Passando alla Competizione Ufficiale, ci sono tre film secondo noi meritevoli che non hanno vinto nessun premio; R.M.N. è la nuova opera dell’acclamato regista rumeno Cristian Mungiu, film che analizza con sguardo critico le ingiustizie razziali in un piccolo villaggio della Transilvania. Inoltre, la mancanza di premi a R.M.N. interrompe la striscia positiva del cineasta, dopo che i suoi ultimi tre film avevano vinto premi alla regia e alla sceneggiatura, oltre alla Palma d’oro nel 2007. Pacifiction di Albert Serra racconta invece del diplomatico francese Monsieur de Roller e del suo lavoro a Tahiti, volto a controllare degli stabilimenti militari e a verificare se siano vere le voci sull’avvistamento di un sottomarino che potrebbe significare il pericolo di un conflitto nucleare. La lunga durata, il ritmo lento e la mancanza di azione hanno provocato centinaia di “walkouts” dalla proiezione, ma c’è anche chi, come noi, è rimasto estasiato dall’atmosfera ipnotica e contemplativa creata da Serra e dall’interpretazione camaleontica di Benoît Magimel. Il cineasta trasforma un piccolo paradiso in un inferno paranoico nel quale il protagonista si trova a vagare di luogo in luogo alla ricerca di una risposta definitiva. Un premio alla regia sarebbe stato più che meritato.
Leila’s Brothers di Saeed Roustaee è un melodramma intenso, che riesce a mantenere un buon ritmo nonostante le sue tre ore. Il film ruota attorno a un nucleo famigliare e alle complesse dinamiche economiche e morali che mettono in pericolo il suo futuro. L’opera iraniana non ha vinto nessun premio e ci viene da chiedere se la presenza di Ashgar Farhadi abbia influito su questo; l’acclamato regista sta avendo infatti diversi problemi con il governo del suo Paese per la causa che l’ha coinvolto alcuni mesi fa e Leila’s Brothers è stato prodotto anche grazie a fondi istituzionali. Pur denotando un’evidente stortura, queste sono solo supposizioni e bisognerà aspettare per scoprire una risposta definitiva. Discorso opposto invece per Holy Spider di Ali Abbasi. Il progetto non ha ricevuto finanziamenti governativi e, pur raccontando una storia iraniana, non ha ricevuto il permesso per filmare in Iran. Il film narra le indagini di una giovane giornalista disposta a tutto pur di catturare lo “Spider Killer”, uomo iraniano colpevole di aver ucciso 17 prostitute con lo scopo di compiere una missione “purificatrice” nei confronti di Allah. L’attrice Zar Amir Ebrahimi si è aggiudicata il premio di miglior attrice, e anche se non sarebbe stata la nostra prima scelta, siamo lo stesso soddisfatti per questa vittoria, sia per merito artistico, ma anche per la sua storia personale. Nel 2006, un sex tape che la vedeva protagonista è stato reso pubblico contro la sua volontà, ponendola in una situazione molto delicata. Al momento della premiazione è tornata così sull’argomento, prendendosi la sua rivincita: “Hanno provato a cancellarmi da tutto, rimuovermi dal cinema. Forse volevano che mi suicidassi, o che morissi. Ma alla fine sono qui, con questo premio.”
I due vincitori del Premio della Giuria sono co-produzioni italiane. Il primo film è Le otto montagne di Felix van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, con protagonisti Luca Marinelli e Alessandro Borghi, adattamento del romanzo di Paolo Cognetti che racconta la storia di amicizia tra due amici di lunga data. Il secondo è EO di Jerzy Skolimowski, omaggio al film Au Hasard Balthazar di Bresson che segue l’intenso e inaspettato viaggio di un asino dopo essere stato “liberato” dal circo in cui si esibiva. Una delle tappe di EO è proprio in Italia, dove fanno la loro comparsa Luca Zurzolo e Isabelle Huppert, la quale recita in italiano per l’occasione.
Anche il Gran Premio della Giuria è andato ex aequo, i due vincitori sono stati Close di Lukas Dhont e Stars at Noon di Claire Denis. Il primo pone al centro del suo racconto l’amicizia tra due ragazzini di 13 anni e le conseguenze della loro inaspettata separazione. Girato in maniera egregia e con una performance impressionante da parte del giovane Eden Dambrine, Dhont è riuscito a confezionare un’opera unica nel suo genere, che analizza l’amore fraterno, la perdita e i sensi di colpa seguendo il punto di vista di uno dei due giovani protagonisti. Stars at Noon segue invece le vicende di una giovane giornalista bloccata in Nicaragua e la sua storia d’amore con un misterioso uomo d’affari britannico. La nuova opera di Claire Denis è un ottimo film e i classici tratti del suo cinema, quali l’uso della musica, i movimenti di camera e la focalizzazione sull’aspetto passionale e ambiguo dei protagonisti, discostano l’opera dal tipico thriller politico.
Grande successo anche per la Corea del Sud: Park Chan-wook ha vinto il premio per la miglior regia grazie al già citato Decision to Leave, mentre Song Kang-oh si è aggiudicato il premio come miglior interprete maschile per Broker di Hirokazu Kore’eda, film dal forte impatto emotivo in cui l’attore interpreta appunto un consulente che, grazie anche all’aiuto della madre pentita del gesto, proverà a trovare una famiglia a un neonato abbandonato. Un premio più che meritato per l’attore, che sulla Croisette era già apparso negli anni precedenti con pellicole di autori del calibro di Bong Joon-oh (Parasite e Memories of a Murder), Lee Chang-dong (Secret Sunshine) e Park Chan-wook (Thirst). La Palma d’oro invece è andata a Ruben Ostlund per la commedia Triangle of Sadness. Il regista svedese, già vincitore nel 2017 per The Square, ha portato sullo schermo un’opera satirica che racconta con cinica ironia il mondo dell’alta borghesia senza però raggiungere i livelli sofisticati dell’opera precedente. Il film, anche se divertente, non ci ha entusiasmato quanto volevamo, trovandolo in definitiva poco incisivo e a tratti inutilmente demenziale.
Non vediamo l’ora di condividere con voi nelle prossime settimane i contenuti esclusivi che abbiamo realizzato in questi giorni dal Festival, intervistando registi e attori. Per il momento, vi lasciamo con le nostre personali top 10 dei migliori film e delle migliori interpretazioni visti a Cannes.
Miglior film:
1. Decision to Leave, dir. Park Chan-wook
2. R.M.N., dir. Cristian Mungiu
3. Godland, dir. Hlynur Pàlmason
4. Broker, dir. Hirokazu Kore’eda
5. Pacifiction, dir. Albert Serra
6. Leila’s Brothers, dir. Saeed Roustaee
7. Close, dir. Lukas Dhont
8. Holy Spider, dir. Ali Abbasi
9. Stars at Noon, dir. Claire Denis
10. Showing Up, dir. Kelly Reichardt
Miglior interpretazione:
1. Park Hae-il/Tang Wei - Decision to Leave
2. Saeed Poursamimi/Taraneh Alidousti - Leila’s Brothers
3. IU/Song Kang-oh - Broker
4. Jessie Buckley - Men
5. Eden Dambrine - Close
6. Anthony Hopkins - Armageddon Time
7. Gang Dong-won - Broker
8. Vicky Krieps - Corsage
9. Benoît Magimel - Pacifiction
10. Margaret Qualley - Stars at Noon
di Omar Franini
NC-117
01.06.2022
La 75esima edizione del Festival di Cannes si è conclusa lo scorso sabato e ODG ha avuto l’opportunità di seguirne l’intero sviluppo. La nostra permanenza al Festival si è rivelata un’esperienza molto ricca, caratterizzata dalla visione di circa una trentina di film, dalla realizzazione di interviste e partecipazione a interessanti conferenze stampa. Prima di entrare nel dettaglio e raccontarvi come è andata, vorremmo ricordarvi i motivi per cui questo Festival ha acquisito così tanta importanza negli anni e cosa lo contraddistingue rispetto alle altre manifestazioni cinematografiche, Venezia e Berlino su tutte. Uno dei fattori che pone il Festival francese su un altro livello è la sua esclusività; infatti, a differenza delle due manifestazioni sopra citate, Cannes non è aperto al pubblico pagante e per partecipare è obbligatorio avere un accredito o un invito speciale per le proiezioni di gala. La locazione della manifestazione gioca un altro ruolo importante; le spiagge affollate da celebrità, la presenza del Marché du Film (il mercato) e il Palais des Festival et des Congrès, il palazzo dove si svolgono la maggior parte delle proiezioni, creano un’atmosfera unica nel suo genere, imponendo la Croisette come cuore dell’industria cinematografica mondiale. Per quanto riguarda i film, fino a qualche anno fa si poteva trovare un certo equilibrio e fare un paragone tra le selezioni di Cannes e Venezia, ma ultimamente le due manifestazioni hanno intrapreso direzioni opposte. Il Festival francese, infatti, è diventato il palcoscenico per eccellenza del cinema internazionale d’autore, mentre la Biennale ha iniziato a concentrarsi di più sulla presenza di film Hollywoodiani (7/8 in media all’anno), trasformandosi secondo alcuni per lo più in un “trampolino di lancio” per questi film agli Oscar e oscurando spesso (non sempre) la presenza di film di ricerca maggiormente autoriale.
L’edizione del Festival di Cannes di quest’anno può essere ricordata anche come la prima post-pandemia; non c’era infatti né l’obbligo di indossare la mascherina, né quello di presentare il green pass o il tampone. Anche per questo c’è stato il ritorno delle file chilometriche per entrare alle proiezioni, causate soprattutto dalla disorganizzazione del sito per la prenotazione dei biglietti. Per quanto riguarda la qualità dei film, a detta di molti, la Competizione Ufficiale è risultata nettamente inferiore rispetto all’anno precedente. E anche se abbiamo apprezzato alcuni dei film che hanno diviso di più l’opinione generale, Stars at Noon di Claire Denis su tutti, ci troviamo d’accordo con questa affermazione. Se l’anno scorso film come Drive My Car di Ryūsuke Hamaguchi, Memoria di Apichatpong Weerasethakul e La persona peggiore del mondo di Joachim Trier avevano ricevuto il consenso generale, in questa edizione solo due film si sono avvicinati a tale traguardo, ovvero Godland di Hlynur Pàlmason e Decision to Leave di Park Chan-wook.
Godland è l’opera terza del regista islandese e narra del viaggio di un prete luterano danese in Islanda e di come questa terra desolata metterà a dura prova la sua fede religiosa. Girato in 4:3, con un ritmo lento e contemplativo, il film ricorda molto da vicino il cinema di Bresson e Herzog, sia per le tematiche affrontate che per l’atmosfera solenne catturata da Pàlmason. Ci sorprende il fatto che il film sia stato relegato nella sezione secondaria del Festival, ma ci lascia ancora più perplessi vedere che sia stato snobbato alla cerimonia finale. Decision to Leave di Park Chan-wook è invece il nostro film del Festival, un noir dalle sfumature melodrammatiche che racconta il complesso rapporto tra Chang Hae-joon, un detective tormentato, e Song Seo-rae, indagata numero uno per l’omicidio del marito. La nuova opera del maestro coreano soddisfa sotto ogni punto di vista, in special modo per le magistrali interpretazioni di Park Hae-il e Tang Wei, capaci di dare vita a personaggi enigmatici dal fascino irresistibile.
Varie opere ci hanno entusiasmato nel corso del Festival e vorremmo citare qualche titolo dalle sezioni minori: L’envol, la prima opera girata in francese da Pietro Marcello, Un Beau Matin di Mia Hansen-Løve e Chronique d’une Liaison Passagère di Emmanuel Mouret sono tre film che abbiamo molto apprezzato e che meritavano forse un posto in Competizione invece dei deludenti Frere et Sœur di Arnaud Desplechin e Les Amandiers di Valeria Bruni Tedeschi. Thierry Frémaux, delegato generale e capo selezionatore del Festival, ha negli anni mostrato la comprensibile tendenza a selezionare nella Competizione Ufficiale nomi conosciuti piuttosto che assumersi concreti rischi, favorendo lo spettacolo ma abbassando a volte nettamente il livello generale dei film. Un processo di selezione molto diverso rispetto a quello di Carlo Chatrian, direttore della Berlinale, che avevamo discusso qualche mese fa.
Passando alla Competizione Ufficiale, ci sono tre film secondo noi meritevoli che non hanno vinto nessun premio; R.M.N. è la nuova opera dell’acclamato regista rumeno Cristian Mungiu, film che analizza con sguardo critico le ingiustizie razziali in un piccolo villaggio della Transilvania. Inoltre, la mancanza di premi a R.M.N. interrompe la striscia positiva del cineasta, dopo che i suoi ultimi tre film avevano vinto premi alla regia e alla sceneggiatura, oltre alla Palma d’oro nel 2007. Pacifiction di Albert Serra racconta invece del diplomatico francese Monsieur de Roller e del suo lavoro a Tahiti, volto a controllare degli stabilimenti militari e a verificare se siano vere le voci sull’avvistamento di un sottomarino che potrebbe significare il pericolo di un conflitto nucleare. La lunga durata, il ritmo lento e la mancanza di azione hanno provocato centinaia di “walkouts” dalla proiezione, ma c’è anche chi, come noi, è rimasto estasiato dall’atmosfera ipnotica e contemplativa creata da Serra e dall’interpretazione camaleontica di Benoît Magimel. Il cineasta trasforma un piccolo paradiso in un inferno paranoico nel quale il protagonista si trova a vagare di luogo in luogo alla ricerca di una risposta definitiva. Un premio alla regia sarebbe stato più che meritato.
Leila’s Brothers di Saeed Roustaee è un melodramma intenso, che riesce a mantenere un buon ritmo nonostante le sue tre ore. Il film ruota attorno a un nucleo famigliare e alle complesse dinamiche economiche e morali che mettono in pericolo il suo futuro. L’opera iraniana non ha vinto nessun premio e ci viene da chiedere se la presenza di Ashgar Farhadi abbia influito su questo; l’acclamato regista sta avendo infatti diversi problemi con il governo del suo Paese per la causa che l’ha coinvolto alcuni mesi fa e Leila’s Brothers è stato prodotto anche grazie a fondi istituzionali. Pur denotando un’evidente stortura, queste sono solo supposizioni e bisognerà aspettare per scoprire una risposta definitiva. Discorso opposto invece per Holy Spider di Ali Abbasi. Il progetto non ha ricevuto finanziamenti governativi e, pur raccontando una storia iraniana, non ha ricevuto il permesso per filmare in Iran. Il film narra le indagini di una giovane giornalista disposta a tutto pur di catturare lo “Spider Killer”, uomo iraniano colpevole di aver ucciso 17 prostitute con lo scopo di compiere una missione “purificatrice” nei confronti di Allah. L’attrice Zar Amir Ebrahimi si è aggiudicata il premio di miglior attrice, e anche se non sarebbe stata la nostra prima scelta, siamo lo stesso soddisfatti per questa vittoria, sia per merito artistico, ma anche per la sua storia personale. Nel 2006, un sex tape che la vedeva protagonista è stato reso pubblico contro la sua volontà, ponendola in una situazione molto delicata. Al momento della premiazione è tornata così sull’argomento, prendendosi la sua rivincita: “Hanno provato a cancellarmi da tutto, rimuovermi dal cinema. Forse volevano che mi suicidassi, o che morissi. Ma alla fine sono qui, con questo premio”.
I due vincitori del Premio della Giuria sono co-produzioni italiane. Il primo film è Le otto montagne di Felix van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, con protagonisti Luca Marinelli e Alessandro Borghi, adattamento del romanzo di Paolo Cognetti che racconta la storia di amicizia tra due amici di lunga data. Il secondo è EO di Jerzy Skolimowski, omaggio al film Au Hasard Balthazar di Bresson che segue l’intenso e inaspettato viaggio di un asino dopo essere stato “liberato” dal circo in cui si esibiva. Una delle tappe di EO è proprio in Italia, dove fanno la loro comparsa Luca Zurzolo e Isabelle Huppert, la quale recita in italiano per l’occasione.
Anche il Gran Premio della Giuria è andato ex aequo, i due vincitori sono stati Close di Lukas Dhont e Stars at Noon di Claire Denis. Il primo pone al centro del suo racconto l’amicizia tra due ragazzini di 13 anni e le conseguenze della loro inaspettata separazione. Girato in maniera egregia e con una performance impressionante da parte del giovane Eden Dambrine, Dhont è riuscito a confezionare un’opera unica nel suo genere, che analizza l’amore fraterno, la perdita e i sensi di colpa seguendo il punto di vista di uno dei due giovani protagonisti. Stars at Noon segue invece le vicende di una giovane giornalista bloccata in Nicaragua e la sua storia d’amore con un misterioso uomo d’affari britannico. La nuova opera di Claire Denis è un ottimo film e i classici tratti del suo cinema, quali l’uso della musica, i movimenti di camera e la focalizzazione sull’aspetto passionale e ambiguo dei protagonisti, discostano l’opera dal tipico thriller politico.
Grande successo anche per la Corea del Sud: Park Chan-wook ha vinto il premio per la miglior regia grazie al già citato Decision to Leave, mentre Song Kang-oh si è aggiudicato il premio come miglior interprete maschile per Broker di Hirokazu Kore’eda, film dal forte impatto emotivo in cui l’attore interpreta appunto un consulente che, grazie anche all’aiuto della madre pentita del gesto, proverà a trovare una famiglia a un neonato abbandonato. Un premio più che meritato per l’attore, che sulla Croisette era già apparso negli anni precedenti con pellicole di autori del calibro di Bong Joon-oh (Parasite e Memories of a Murder), Lee Chang-dong (Secret Sunshine) e Park Chan-wook (Thirst). La Palma d’oro invece è andata a Ruben Ostlund per la commedia Triangle of Sadness. Il regista svedese, già vincitore nel 2017 per The Square, ha portato sullo schermo un’opera satirica che racconta con cinica ironia il mondo dell’alta borghesia senza però raggiungere i livelli sofisticati dell’opera precedente. Il film, anche se divertente, non ci ha entusiasmato quanto volevamo, trovandolo in definitiva poco incisivo e a tratti inutilmente demenziale.
Non vediamo l’ora di condividere con voi nelle prossime settimane i contenuti esclusivi che abbiamo realizzato in questi giorni dal Festival, intervistando registi e attori. Per il momento, vi lasciamo con le nostre personali top 10 dei migliori film e delle migliori interpretazioni visti a Cannes.
Miglior film:
1. Decision to Leave, dir. Park Chan-wook
2. R.M.N., dir. Cristian Mungiu
3. Godland, dir. Hlynur Pàlmason
4. Broker, dir. Hirokazu Kore’eda
5. Pacifiction, dir. Albert Serra
6. Leila’s Brothers, dir. Saeed Roustaee
7. Close, dir. Lukas Dhont
8. Holy Spider, dir. Ali Abbasi
9. Stars at Noon, dir. Claire Denis
10. Showing Up, dir. Kelly Reichardt
Miglior interpretazione:
1. Park Hae-il/Tang Wei - Decision to Leave
2. Saeed Poursamimi/Taraneh Alidousti - Leila’s Brothers
3. IU/Song Kang-oh - Broker
4. Jessie Buckley - Men
5. Eden Dambrine - Close
6. Anthony Hopkins - Armageddon Time
7. Gang Dong-won - Broker
8. Vicky Krieps - Corsage
9. Benoît Magimel - Pacifiction
10. Margaret Qualley - Stars at Noon