NC-94
18.02.2022
È possibile riassumere un anno di cinema in poche righe? Cosa è successo nel…? è una rubrica in cui proveremo a darvi una panoramica, per quanto sintetica, di ciò che è accaduto in un anno solare nel mondo del cinema. In questo sesto episodio vi raccontiamo il 1943.
Questo è un anno segnato da ritorni, esordi, cambiamenti e, per quanto il secondo conflitto mondiale causi gravi difficoltà a livello produttivo e realizzativo, la settima arte va incontro ad un grande mutamento. In questo frangente di guerra l’industria cinematografica americana decide di mettersi a servizio dello Stato, impiegando il suo potere mediatico nella realizzazione di film di aperta propaganda. I grandi registi hollywoodiani, come William Wyler, Michael Curtiz e Robert Florey forgiano il «cinema interventista americano», che si pone come la risposta statunitense ai fenomeni del «documentarismo britannico» e del «film di guerra sovietico».
Sulla scia di questo nuovo genere Lewis Milestone, grande regista di war movies fin dai tempi di All Quiet on the Western Front (All’ovest niente di nuovo, 1930), realizza Edge of Darkness (La bandiera sventola ancora) e The North Star (Fuoco a oriente), esempi perfetti di un cinema che, attraverso la sua potente voce, lancia un inno alla resistenza. Costruite appositamente per far simpatizzare il pubblico statunitense con il popolo norvegese e gli alleati sovietici, queste pellicole furono in seguito, durante il Maccartismo (1951 - 1954), accusate di apologia comunista. Anche Billy Wilder, alla sua terza regia, decide di sposare la causa e realizza Five Graves to Cairo (I cinque segreti del deserto), un vero gioiellino che amalgama il genere «propagandistico» con il giallo e la commedia. Il film mischia figure storiche reali - come il generale Erwin Rommel interpretato dal grande Erich von Stroheim - con personaggi fittizi, calando l’azione durante il ritiro dell’armata britannica da Tobruk in Libia. Wilder si serve della finzione per fare attualità e tenere informati, seppur in una maniera idealizzata, gli spettatori americani sulle azioni di guerra che stavano avvenendo nel resto del mondo. Del medesimo filone è anche This Land is Mine (Questa terra è mia) del maestro francese Jean Renoir, giunto negli Stati Uniti da ormai due anni. Tramite la descrizione di un piccolo paese di provincia di cui non viene mai specificata l’area geografica, anche se è chiaro che esso sia una rappresentazione della Francia divisa, l’autore denuncia la follia dell’antisemitismo, la furia nazista e la gravità morale del collaborazionismo. Il cineasta sperimenta uno stile che si distanzia da quello delle sue opere francesi degli anni Trenta. Il risultato è che Renoir abbandona i lunghi e movimentati andamenti di camera a favore di un montaggio continuo, dove le inquadrature di ambientazione si alternano a rapide sequele di primi piani ed a riprese assai ravvicinate.
E mentre il «film propagandistico» trionfa, Hollywood sperimenta sui suoi generi. In questo periodo Ernst Lubitsch presenta la commedia Heaven Can Wait (Il cielo può attendere) dove i tratti fondamentali della sua opera, come l’immoralità e l’edonismo, vengono sfumati da una costante e percettibile malinconia, mentre William A. Wellman firma The Ox-Bow Incident (Alba fatale), un atipico e claustrofobico western girato interamente in interni che, attraverso gli stilemi del genere, mostra una visione dell’America violenta e realista dove i personaggi più deboli si fanno capri espiatori di una società che deve dare volto alle sue invisibili paure. Alfred Hitchcock invece esce con Shadow of a Doubt (L’ombra del dubbio), uno dei suoi indiscussi capolavori. Con la storia di una giovane coinvolta in un ambiguo rapporto con lo zio, che si scoprirà in seguito essere un killer di anziane vedove, Shadow of a Doubt è un thriller che attraverso una lettura freudiana e junghiana - le teorie dei due celebri psicanalisti stavano prendendo sempre più piede nelle sceneggiature hollywoodiane - presenta un nuovo concetto di personalità umana, in cui le zone di luce convivono inevitabilmente con quelle d’ombra.
Una grande rivoluzione avviene anche con I Walked with a Zombie (Ho camminato con uno Zombie) e The Leopard Man (L’uomo leopardo), entrambi del grande Jacques Tourneur creatore di film estremamente anomali per l’epoca. I due lungometraggi fanno parte, assieme a Cat People (Il bacio della pantera, 1942), di quella che lo studioso di cinema Francesco Ballo ha definito come «la trilogia del fantastico». I Walked with a Zombie (Ho camminato con uno Zombie) e The Leopard Man (L’uomo leopardo) si distaccano dalla classica produzione horror del periodo per attingere dalle raffinate atmosfere letterarie di Edgar Allan Poe, Cornell Woolrich e Dashiell Hammet. Le due pellicole vengono interamente costruite sulla rarefazione dei tempi e dell’immagine - Tourneur pretese che tutto sui set, dai costumi alle scenografie, virasse sul blu e il nero in maniera da dare l’impressione che i corpi degli attori galleggiassero costantemente nelle tenebre - per ribadire, in ogni sequenza, la supremazia dell’incubo e dell’inquietudine ancestrale.
Il 1943 è anche l’anno di Meshes of the Afternoon, della filmmaker Maya Deren, un cortometraggio che mostra come la regia possa trasformarsi in un «flusso di coscienza artistico» estremo e irrefrenabile. Il film, della durata di 14 minuti, ad oggi può essere pienamente considerato come una pietra miliare nella storia del cinema d’avanguardia statunitense. Realizzato con una cinepresa Bolex da 16 mm in grande scarsità di mezzi, è un viaggio onirico che, attraverso la sperimentazione tecnica, indaga le dinamiche della psiche femminile e mostra come la settima arte non si fermasse, già in quegli anni, esclusivamente alla produzione mainstream.
Oltre oceano, nel gelo dei paesi scandinavi, il maestro Carl Theodor Dreyer ritorna sulla scena cinematografica danese dopo un’assenza di undici anni - il suo ultimo film era stato il capolavoro incompreso Vampyr, Der Traum des Allan Grey (Il vampiro, 1932) - con l’elegiaco Vredens Dag (Dies Irae). In questo lavoro il cineasta porta il progetto formale della sua intera opera a livelli impeccabili. Attraverso una storia di stregoneria e superstizione, ambientata nella Danimarca del 1623, Dreyer ci dice che «il destino dell'uomo è un destino di morte, ma l’unica salvezza è l’amore. Non l’amore di Dio, giudice severo e inappellabile, ma quello carnale e terreno». Nella sua esplicita condanna dell’intolleranza e dell’aridità umana, molti lessero in Vredens Dag un j’accuse ai nazisti che in quel momento occupavano la Danimarca, elemento però sempre smentito dall’autore.
Intanto l’Inghilterra subisce continue offensive di guerra ma la sua industria cinematografica resiste stoicamente e, sotto i bombardamenti tedeschi, produce delle autentiche gemme. Lo storico duo di registi Michael Powell e Emeric Pressburger gira The Life And Death Of Colonel Blimp (Duello a Berlino) che, con il suo ricercato lavoro su colore ed intreccio, inaugura quello sperimentalismo che li lancerà nell’universo dei grandi. Leslie Arliss, invece, rinforza l’importante tradizione del dramma di costume britannico con The Man in Grey (L’uomo in grigio). Grande successo della casa produttrice Gainsborough Pictures (1924-1951), il film ricostruisce dettagliatamente l’Inghilterra dei primi dell’Ottocento con abiti di raffinata fattura ed elaborate scenografie.
Al di là della Manica la situazione politica non è delle migliori ma il cinema nazionale francese vive una paradossale stagione d’oro tanto che in seguito, fin dai tempi della liberazione, i cineasti, i critici ed i dirigenti dei cinema renderanno omaggio alle opere realizzate durante questo periodo. Jean Delannoy esce con il fiabesco L’éternel retour (L’immortale leggenda), mentre Claude Autant Lara firma il dramma Douce (Evasione) e Jean Grémillion presenta il suo Lumiére d’été (Luce d’estate). Henri-Georges Clouzot gira Le Corbeau (Il corvo), corrosivo attacco all’ipocrisia borghese, un noir feroce che presenta «protagonisti multisfaccettati, complessi ed originali» che fanno della «parola e dei dialoghi raffinati il loro punto di forza». A quest’anno risale anche l’esordio di uno dei più grandi geni della settima arte: Robert Bresson, che debutta con Les Anges du péché (La conversa di Belfort), un film che mostra già quell’estetica minimalista - che si avvicina a Dreyer nella qualità delle inquadrature ed al giapponese Yasujirō Ozu per la costante ricerca dell’essenzialità - che contraddistinguerà poi tutto il suo operato.
Intanto in Italia avviene, con Ossessione, il «battesimo di fuoco» di un regista che sarà uno dei protagonisti indiscussi della scena cinematografica e teatrale del dopoguerra: Luchino Visconti. Il lungometraggio, finanziato in gran parte dallo stesso Visconti, viene girato con una troupe messa in piedi grazie ai contatti che il futuro cineasta intrattiene con gli intellettuali antifascisti della rivista Cinema. Il soggetto del film si ispira al romanzo The Postman Always Rings Twice dell’americano James M. Cain, che Visconti aveva letto pochi anni prima in Francia durante la sua esperienza come aiuto regista di Jean Renoir e racconta la storia di due amanti, un vagabondo ed una barista, che decidono di uccidere il marito di lei pagandone amaramente le conseguenze. Nella sua visione, a tratti estremamente carnale ed animalesca, di un’umanità disperata, Ossessione si pone come una rivoluzione assoluta nella cinematografia italiana dei così detti «telefoni bianchi», ovattata e lontana dalla realtà, e segna l’inizio di un cinema che, come disse il grande regista Francesco Rosi, rappresentava «i problemi dell’uomo», e che si sarebbe poi evoluto nella corrente del Neorealismo.
In Giappone, invece, l’astro nascente Akira Kurosawa comincia a brillare e, con Sugata Sanshirō (Sanshiro Sugata), inaugura una prolifica carriera che si staglierà nell’arco dei successivi cinquant’anni. La storia è ambientata alla fine dell’Ottocento e si ispira alla vita del celebre campione di judo Saigō Shirō. Molti storici del cinema giapponese definiscono Sugata Sanshirō un film fresco e dinamico per l’industria cinematografica nipponica del periodo, che trova il suo punto di forza in un montaggio ritmato e conciso e «nella capacità kurosawiana di animare la natura», come nella scena del duello finale dove, «in un fremito cosmico di erbe e di nubi spazzate dal vento», trionfa la spiritualità ed il substrato mitopoietico dei suoi poemi filmati.
NC-94
18.02.2022
È possibile riassumere un anno di cinema in poche righe? Cosa è successo nel…? è una rubrica in cui proveremo a darvi una panoramica, per quanto sintetica, di ciò che è accaduto in un anno solare nel mondo del cinema. In questo sesto episodio vi raccontiamo il 1943.
Questo è un anno segnato da ritorni, esordi, cambiamenti e, per quanto il secondo conflitto mondiale causi gravi difficoltà a livello produttivo e realizzativo, la settima arte va incontro ad un grande mutamento. In questo frangente di guerra l’industria cinematografica americana decide di mettersi a servizio dello Stato, impiegando il suo potere mediatico nella realizzazione di film di aperta propaganda. I grandi registi hollywoodiani, come William Wyler, Michael Curtiz e Robert Florey forgiano il «cinema interventista americano», che si pone come la risposta statunitense ai fenomeni del «documentarismo britannico» e del «film di guerra sovietico».
Sulla scia di questo nuovo genere Lewis Milestone, grande regista di war movies fin dai tempi di All Quiet on the Western Front (All’ovest niente di nuovo, 1930), realizza Edge of Darkness (La bandiera sventola ancora) e The North Star (Fuoco a oriente), esempi perfetti di un cinema che, attraverso la sua potente voce, lancia un inno alla resistenza. Costruite appositamente per far simpatizzare il pubblico statunitense con il popolo norvegese e gli alleati sovietici, queste pellicole furono in seguito, durante il Maccartismo (1951 - 1954), accusate di apologia comunista. Anche Billy Wilder, alla sua terza regia, decide di sposare la causa e realizza Five Graves to Cairo (I cinque segreti del deserto), un vero gioiellino che amalgama il genere «propagandistico» con il giallo e la commedia. Il film mischia figure storiche reali - come il generale Erwin Rommel interpretato dal grande Erich von Stroheim - con personaggi fittizi, calando l’azione durante il ritiro dell’armata britannica da Tobruk in Libia. Wilder si serve della finzione per fare attualità e tenere informati, seppur in una maniera idealizzata, gli spettatori americani sulle azioni di guerra che stavano avvenendo nel resto del mondo. Del medesimo filone è anche This Land is Mine (Questa terra è mia) del maestro francese Jean Renoir, giunto negli Stati Uniti da ormai due anni. Tramite la descrizione di un piccolo paese di provincia di cui non viene mai specificata l’area geografica, anche se è chiaro che esso sia una rappresentazione della Francia divisa, l’autore denuncia la follia dell’antisemitismo, la furia nazista e la gravità morale del collaborazionismo. Il cineasta sperimenta uno stile che si distanzia da quello delle sue opere francesi degli anni Trenta. Il risultato è che Renoir abbandona i lunghi e movimentati andamenti di camera a favore di un montaggio continuo, dove le inquadrature di ambientazione si alternano a rapide sequele di primi piani ed a riprese assai ravvicinate.
E mentre il «film propagandistico» trionfa, Hollywood sperimenta sui suoi generi. In questo periodo Ernst Lubitsch presenta la commedia Heaven Can Wait (Il cielo può attendere) dove i tratti fondamentali della sua opera, come l’immoralità e l’edonismo, vengono sfumati da una costante e percettibile malinconia, mentre William A. Wellman firma The Ox-Bow Incident (Alba fatale), un atipico e claustrofobico western girato interamente in interni che, attraverso gli stilemi del genere, mostra una visione dell’America violenta e realista dove i personaggi più deboli si fanno capri espiatori di una società che deve dare volto alle sue invisibili paure. Alfred Hitchcock invece esce con Shadow of a Doubt (L’ombra del dubbio), uno dei suoi indiscussi capolavori. Con la storia di una giovane coinvolta in un ambiguo rapporto con lo zio, che si scoprirà in seguito essere un killer di anziane vedove, Shadow of a Doubt è un thriller che attraverso una lettura freudiana e junghiana - le teorie dei due celebri psicanalisti stavano prendendo sempre più piede nelle sceneggiature hollywoodiane - presenta un nuovo concetto di personalità umana, in cui le zone di luce convivono inevitabilmente con quelle d’ombra.
Una grande rivoluzione avviene anche con I Walked with a Zombie (Ho camminato con uno Zombie) e The Leopard Man (L’uomo leopardo), entrambi del grande Jacques Tourneur creatore di film estremamente anomali per l’epoca. I due lungometraggi fanno parte, assieme a Cat People (Il bacio della pantera, 1942), di quella che lo studioso di cinema Francesco Ballo ha definito come «la trilogia del fantastico». I Walked with a Zombie (Ho camminato con uno Zombie) e The Leopard Man (L’uomo leopardo) si distaccano dalla classica produzione horror del periodo per attingere dalle raffinate atmosfere letterarie di Edgar Allan Poe, Cornell Woolrich e Dashiell Hammet. Le due pellicole vengono interamente costruite sulla rarefazione dei tempi e dell’immagine - Tourneur pretese che tutto sui set, dai costumi alle scenografie, virasse sul blu e il nero in maniera da dare l’impressione che i corpi degli attori galleggiassero costantemente nelle tenebre - per ribadire, in ogni sequenza, la supremazia dell’incubo e dell’inquietudine ancestrale.
Il 1943 è anche l’anno di Meshes of the Afternoon, della filmmaker Maya Deren, un cortometraggio che mostra come la regia possa trasformarsi in un «flusso di coscienza artistico» estremo e irrefrenabile. Il film, della durata di 14 minuti, ad oggi può essere pienamente considerato come una pietra miliare nella storia del cinema d’avanguardia statunitense. Realizzato con una cinepresa Bolex da 16 mm in grande scarsità di mezzi, è un viaggio onirico che, attraverso la sperimentazione tecnica, indaga le dinamiche della psiche femminile e mostra come la settima arte non si fermasse, già in quegli anni, esclusivamente alla produzione mainstream.
Oltre oceano, nel gelo dei paesi scandinavi, il maestro Carl Theodor Dreyer ritorna sulla scena cinematografica danese dopo un’assenza di undici anni - il suo ultimo film era stato il capolavoro incompreso Vampyr, Der Traum des Allan Grey (Il vampiro, 1932) - con l’elegiaco Vredens Dag (Dies Irae). In questo lavoro il cineasta porta il progetto formale della sua intera opera a livelli impeccabili. Attraverso una storia di stregoneria e superstizione, ambientata nella Danimarca del 1623, Dreyer ci dice che «il destino dell'uomo è un destino di morte, ma l’unica salvezza è l’amore. Non l’amore di Dio, giudice severo e inappellabile, ma quello carnale e terreno». Nella sua esplicita condanna dell’intolleranza e dell’aridità umana, molti lessero in Vredens Dag un j’accuse ai nazisti che in quel momento occupavano la Danimarca, elemento però sempre smentito dall’autore.
Intanto l’Inghilterra subisce continue offensive di guerra ma la sua industria cinematografica resiste stoicamente e, sotto i bombardamenti tedeschi, produce delle autentiche gemme. Lo storico duo di registi Michael Powell e Emeric Pressburger gira The Life And Death Of Colonel Blimp (Duello a Berlino) che, con il suo ricercato lavoro su colore ed intreccio, inaugura quello sperimentalismo che li lancerà nell’universo dei grandi. Leslie Arliss, invece, rinforza l’importante tradizione del dramma di costume britannico con The Man in Grey (L’uomo in grigio). Grande successo della casa produttrice Gainsborough Pictures (1924-1951), il film ricostruisce dettagliatamente l’Inghilterra dei primi dell’Ottocento con abiti di raffinata fattura ed elaborate scenografie.
Al di là della Manica la situazione politica non è delle migliori ma il cinema nazionale francese vive una paradossale stagione d’oro tanto che in seguito, fin dai tempi della liberazione, i cineasti, i critici ed i dirigenti dei cinema renderanno omaggio alle opere realizzate durante questo periodo. Jean Delannoy esce con il fiabesco L’éternel retour (L’immortale leggenda), mentre Claude Autant Lara firma il dramma Douce (Evasione) e Jean Grémillion presenta il suo Lumiére d’été (Luce d’estate). Henri-Georges Clouzot gira Le Corbeau (Il corvo), corrosivo attacco all’ipocrisia borghese, un noir feroce che presenta «protagonisti multisfaccettati, complessi ed originali» che fanno della «parola e dei dialoghi raffinati il loro punto di forza». A quest’anno risale anche l’esordio di uno dei più grandi geni della settima arte: Robert Bresson, che debutta con Les Anges du péché (La conversa di Belfort), un film che mostra già quell’estetica minimalista - che si avvicina a Dreyer nella qualità delle inquadrature ed al giapponese Yasujirō Ozu per la costante ricerca dell’essenzialità - che contraddistinguerà poi tutto il suo operato.
Intanto in Italia avviene, con Ossessione, il «battesimo di fuoco» di un regista che sarà uno dei protagonisti indiscussi della scena cinematografica e teatrale del dopoguerra: Luchino Visconti. Il lungometraggio, finanziato in gran parte dallo stesso Visconti, viene girato con una troupe messa in piedi grazie ai contatti che il futuro cineasta intrattiene con gli intellettuali antifascisti della rivista Cinema. Il soggetto del film si ispira al romanzo The Postman Always Rings Twice dell’americano James M. Cain, che Visconti aveva letto pochi anni prima in Francia durante la sua esperienza come aiuto regista di Jean Renoir e racconta la storia di due amanti, un vagabondo ed una barista, che decidono di uccidere il marito di lei pagandone amaramente le conseguenze. Nella sua visione, a tratti estremamente carnale ed animalesca, di un’umanità disperata, Ossessione si pone come una rivoluzione assoluta nella cinematografia italiana dei così detti «telefoni bianchi», ovattata e lontana dalla realtà, e segna l’inizio di un cinema che, come disse il grande regista Francesco Rosi, rappresentava «i problemi dell’uomo», e che si sarebbe poi evoluto nella corrente del Neorealismo.
In Giappone, invece, l’astro nascente Akira Kurosawa comincia a brillare e, con Sugata Sanshirō (Sanshiro Sugata), inaugura una prolifica carriera che si staglierà nell’arco dei successivi cinquant’anni. La storia è ambientata alla fine dell’Ottocento e si ispira alla vita del celebre campione di judo Saigō Shirō. Molti storici del cinema giapponese definiscono Sugata Sanshirō un film fresco e dinamico per l’industria cinematografica nipponica del periodo, che trova il suo punto di forza in un montaggio ritmato e conciso e «nella capacità kurosawiana di animare la natura», come nella scena del duello finale dove, «in un fremito cosmico di erbe e di nubi spazzate dal vento», trionfa la spiritualità ed il substrato mitopoietico dei suoi poemi filmati.