di Omar Franini
NC-129
09.11.2022
La stagione festivaliera sta giungendo al termine. Nel corso di questi mesi sono stati presentati in anteprima diversi film interessanti che, a nostro avviso, meritano di essere scoperti. Ci concentreremo quindi su sei opere che ci hanno particolarmente colpito per le tematiche affrontate e per le distintive visioni dei registi che le hanno dirette.
Il primo film che vorremmo segnalarvi è Subtraction del cineasta iraniano Mani Haghighi, un interessante thriller psicologico sul tema del doppio presentato al Toronto Film Festival. La pellicola segue il personaggio di Farzaneh, una donna con un passato di instabilità mentale che deve nuovamente fare i conti con il suo stato paranoico quando, un giorno, vede suo marito entrare nella casa di un’altra donna. Confrontatasi con l’uomo che ha appena visto, la protagonista si troverà davanti ad una scoperta scioccante: sia lei che il marito hanno dei doppelgänger. Un argomento già affrontato in passato da registi come Jordan Peele (Us, 2019) e Denis Villeneuve (Enemy, 2013), per citare qualche nome, ma con la differenza che Haghighi è più interessato ad analizzare la condizione psicologica dei suoi personaggi, piuttosto che dare delle spiegazioni sul motivo dell’esistenza dei doppelgänger. Con qualche twist interessante e le ottime interpretazioni di Taraneh Alidoosti e Navid Mohammadzadeh - i due attori sono in grado di portare efficacemente sullo schermo le due opposte «versioni» dei propri personaggi - Subtraction è un film che vi consigliamo di vedere e che speriamo possa trovare una distribuzione italiana nei prossimi mesi.
Presentato al Festival di San Sebastián Il Boemo di Petr Václav narra invece l’affascinante storia di Josef Mysliveček, compositore vissuto a Venezia nella seconda metà del 1700. Il film analizza gli episodi salienti della sua vita, dai difficoltosi inizi alla relazione con una giovane nobildonna, fino ad arrivare al momento più alto della sua carriera artistica: la scrittura di un’opera per il teatro San Carlo di Napoli. Colpisce la minuziosa ricostruzione del periodo, e la storia, di per sé, mantiene vivo l’interesse per tutta la durata del film. Bisogna però ammettere che Il Boemo è un’opera troppo semplice, ci si sarebbe aspettati da Václav un approccio maggiormente originale o comunque un film che si discostasse dai soliti stereotipi delle opere biografiche. Inoltre, il lungometraggio non è in grado di approfondire al meglio la caduta in disgrazia del compositore, dovuta ad una strana malattia che lo portò a una deformante paralisi facciale e alla perdita dell'olfatto. È in questi momenti che dovremmo sentire la condizione sofferente del protagonista, ma ne Václav, ne Vojtěch Dyk, l’attore che interpreta Mysliveček, sono riusciti a creare una connessione emotiva tra compositore e pubblico. Nonostante ciò, il film ha diversi pregi e consigliamo lo stesso una futura visione.
Lo scorso mese, Hong Sang-soo ha presentato, sia a Toronto che a San Sebastián, Walk Up, secondo film uscito quest’anno dopo The Novelist’s Film, opera con cui aveva vinto il Gran Premio della Giuria al Festival di Berlino. The Novelist’s Film ci aveva impressionato per l’approccio estremamente personale adottato dal regista coreano nell’affrontare le dinamiche tra una scrittrice e un’attrice. Walk Up invece riprende situazioni e tematiche simili ai precedenti The Day After (2017) e The Day He Arrives (2011), non solo per la presenza dell’attore Kwon Hae-hyo, ma anche per il modo in cui Hong analizza lo stato di smarrimento dei propri personaggi. Il film segue i vari incontri che Byung-soo, regista di mezz’età, ha all’interno di un edificio - unica ambientazione del film - nel corso di quella che sembrerebbe un’unica giornata. Hong sfrutta la struttura architettonica del palazzo per creare una sorta di ambiguità temporale. Ad esempio, una delle sequenze iniziali è ambientata nel primo piano e mostra il protagonista e sua figlia che, in cerca di un impiego per quest’ultima, iniziano a conversare con una vecchia amica. In una delle scene successive, ambientate nel secondo piano, rivediamo gli stessi personaggi parlare, ma non riusciamo a capire esattamente se questo evento sia una variazione della scena precedente o la continuazione della storia. Questo ambizioso punto di vista si discosta dalla tipica narrativa lineare del cinema di Hong dimostrando come il regista sia in grado di reinventarsi. Walk Up non è un’eccezione e conferma, ancora una volta, il suo grande talento.
Ulrich Seidl è uno dei registi austriaci più rinomati in circolazione, i suoi film sono sempre in grado di trasmettere una sensazione di disagio nello spettatore e non si nascondono dal mostrare i lati più scabrosi della società contemporanea. Quest’anno Seidl ha presentato due film strettamente connessi tra loro: Rimini e Sparta, cronache di una coppia di fratelli che conducono vite alquanto discutibili. Abbiamo visto e apprezzato Rimini al Festival di Berlino, soprattutto per il tono satirico con cui il cineasta analizza la figura problematica di Richie Maso, personaggio che prova a rimediare agli errori commessi in passato. Non sapevamo invece cosa aspettarci da Sparta - in competizione al festival di San Sebastián - vista la complessa tematica affrontata. La storia ruota intorno a Ewald, un uomo sulla quarantina che, cercando di scappare dalle sue disturbanti tendenze, decide di lasciarsi alle spalle la sua vecchia vita trasferendosi in un villaggio sperduto della Romania. Una volta arrivato decide, molto ambiguamente, di aprire una scuola di judo per bambini, consentendo al grave disturbo che lo affligge di mettere a dura prova il suo comportamento. È difficile giudicare un film come Sparta, vista la controversa figura del suo protagonista. Seidl mostra chiaramente il comportamento malato di Ewald senza mai oltrepassare un certo limite ed eliminando qualsiasi forma di empatia nei suoi confronti. Ma, nonostante tutto, la rappresentazione del protagonista potrebbe risultare problematica per qualche spettatore. Al di là della difficile materia trattata, Sparta rimane un discreto character study che apre un dibattito su come argomenti di questo genere debbano, e possano, essere elaborati sul grande schermo.
Something You Said Last Night, presentato al Toronto Film Festival, si segnala come il promettente debutto della regista canadese Luis De Filippis. La pellicola racconta di Ren, giovane scrittrice transessuale che decide di accompagnare la sorella minore Siena in vacanza con i genitori. Le due sorelle non sono esattamente entusiaste all’idea, soprattutto perché l’eccentrica personalità dei genitori - di origini italiane - le mette spesso a disagio. De Filippis parte da una premessa piuttosto semplice, quella della famiglia in vacanza, per mostrare il complesso rapporto tra le due protagoniste e mettere in luce alcuni dei problemi che Ren deve affrontare quotidianamente, come il disagio nel trovarsi in un paesino costiero estremamente conservatore. A differenza di svariate opere con protagoniste transessuali, Something You Said Last Night non vuole rappresentare Ren esasperando le sue difficoltà o utilizzando cliché melodrammatici, ma semplicemente raccontare la quotidianità della ragazza soffermandosi sui momenti intimi che condivide con gli altri personaggi, un approccio tematico simile a quello del film Monica (2022) di Andrea Pallaoro. L’opera merita di essere vista per la sensibilità con cui De Filippis rappresenta le dinamiche di un nucleo familiare e soprattutto per la performance di Carmen Madonia, interprete principale del film.
L’ultimo lungometraggio che oggi vi proponiamo presenta alcune caratteristiche in comune con il film precedente; è un’opera prima, si focalizza su una famiglia in vacanza e l’approccio stilistico adottato è privo di risvolti melodrammatici. Stiamo parlando di Aftersun di Charlotte Wells, presentato al Festival di Cannes in occasione della settimana internazionale della critica, dove si è rivelato uno dei debutti più impressionanti dell’anno. Il film narra di Sophie, una donna sulla trentina che sta diventando madre e che inizia a ricordare la vacanza, compiuta a undici anni, con il padre Calum. Ciò che segue è il resoconto di quella settimana che, dopo un primo, spensierato, momento, si trasformerà in una sofferta testimonianza del complesso, e non sempre gioioso, rapporto tra i due. Nel corso del film il comportamento distante del genitore non viene mai spiegato chiaramente, forse perché la visione dello spettatore è filtrata dal punto di vista della protagonista undicenne. La descrizione profondamente intima che Wells fa della relazione tra padre e figlia viene resa attraverso alcuni tocchi stilistici sublimi, dall’aggiunta di alcune sequenze girate con la MiniDV a una bellissima e toccante scena dove Calum balla Under Pressure dei Queen, fino a giungere alla struggente inquadratura finale. Con queste premesse si può affermare che la giovane regista abbia una carriera davvero promettente davanti a sé, e per questo vi consigliamo di recuperare il film nei prossimi mesi in occasione della sua uscita su MUBI.
di Omar Franini
NC-129
09.11.2022
La stagione festivaliera sta giungendo al termine. Nel corso di questi mesi sono stati presentati in anteprima diversi film interessanti che, a nostro avviso, meritano di essere scoperti. Ci concentreremo quindi su sei opere che ci hanno particolarmente colpito per le tematiche affrontate e per le distintive visioni dei registi che le hanno dirette.
Il primo film che vorremmo segnalarvi è Subtraction del cineasta iraniano Mani Haghighi, un interessante thriller psicologico sul tema del doppio presentato al Toronto Film Festival. La pellicola segue il personaggio di Farzaneh, una donna con un passato di instabilità mentale che deve nuovamente fare i conti con il suo stato paranoico quando, un giorno, vede suo marito entrare nella casa di un’altra donna. Confrontatasi con l’uomo che ha appena visto, la protagonista si troverà davanti ad una scoperta scioccante: sia lei che il marito hanno dei doppelgänger. Un argomento già affrontato in passato da registi come Jordan Peele (Us, 2019) e Denis Villeneuve (Enemy, 2013), per citare qualche nome, ma con la differenza che Haghighi è più interessato ad analizzare la condizione psicologica dei suoi personaggi, piuttosto che dare delle spiegazioni sul motivo dell’esistenza dei doppelgänger. Con qualche twist interessante e le ottime interpretazioni di Taraneh Alidoosti e Navid Mohammadzadeh - i due attori sono in grado di portare efficacemente sullo schermo le due opposte «versioni» dei propri personaggi - Subtraction è un film che vi consigliamo di vedere e che speriamo possa trovare una distribuzione italiana nei prossimi mesi.
Presentato al Festival di San Sebastián Il Boemo di Petr Václav narra invece l’affascinante storia di Josef Mysliveček, compositore vissuto a Venezia nella seconda metà del 1700. Il film analizza gli episodi salienti della sua vita, dai difficoltosi inizi alla relazione con una giovane nobildonna, fino ad arrivare al momento più alto della sua carriera artistica: la scrittura di un’opera per il teatro San Carlo di Napoli. Colpisce la minuziosa ricostruzione del periodo, e la storia, di per sé, mantiene vivo l’interesse per tutta la durata del film. Bisogna però ammettere che Il Boemo è un’opera troppo semplice, ci si sarebbe aspettati da Václav un approccio maggiormente originale o comunque un film che si discostasse dai soliti stereotipi delle opere biografiche. Inoltre, il lungometraggio non è in grado di approfondire al meglio la caduta in disgrazia del compositore, dovuta ad una strana malattia che lo portò a una deformante paralisi facciale e alla perdita dell'olfatto. È in questi momenti che dovremmo sentire la condizione sofferente del protagonista, ma ne Václav, ne Vojtěch Dyk, l’attore che interpreta Mysliveček, sono riusciti a creare una connessione emotiva tra compositore e pubblico. Nonostante ciò, il film ha diversi pregi e consigliamo lo stesso una futura visione.
Lo scorso mese, Hong Sang-soo ha presentato, sia a Toronto che a San Sebastián, Walk Up, secondo film uscito quest’anno dopo The Novelist’s Film, opera con cui aveva vinto il Gran Premio della Giuria al Festival di Berlino. The Novelist’s Film ci aveva impressionato per l’approccio estremamente personale adottato dal regista coreano nell’affrontare le dinamiche tra una scrittrice e un’attrice. Walk Up invece riprende situazioni e tematiche simili ai precedenti The Day After (2017) e The Day He Arrives (2011), non solo per la presenza dell’attore Kwon Hae-hyo, ma anche per il modo in cui Hong analizza lo stato di smarrimento dei propri personaggi. Il film segue i vari incontri che Byung-soo, regista di mezz’età, ha all’interno di un edificio - unica ambientazione del film - nel corso di quella che sembrerebbe un’unica giornata. Hong sfrutta la struttura architettonica del palazzo per creare una sorta di ambiguità temporale. Ad esempio, una delle sequenze iniziali è ambientata nel primo piano e mostra il protagonista e sua figlia che, in cerca di un impiego per quest’ultima, iniziano a conversare con una vecchia amica. In una delle scene successive, ambientate nel secondo piano, rivediamo gli stessi personaggi parlare, ma non riusciamo a capire esattamente se questo evento sia una variazione della scena precedente o la continuazione della storia. Questo ambizioso punto di vista si discosta dalla tipica narrativa lineare del cinema di Hong dimostrando come il regista sia in grado di reinventarsi. Walk Up non è un’eccezione e conferma, ancora una volta, il suo grande talento.
Ulrich Seidl è uno dei registi austriaci più rinomati in circolazione, i suoi film sono sempre in grado di trasmettere una sensazione di disagio nello spettatore e non si nascondono dal mostrare i lati più scabrosi della società contemporanea. Quest’anno Seidl ha presentato due film strettamente connessi tra loro: Rimini e Sparta, cronache di una coppia di fratelli che conducono vite alquanto discutibili. Abbiamo visto e apprezzato Rimini al Festival di Berlino, soprattutto per il tono satirico con cui il cineasta analizza la figura problematica di Richie Maso, personaggio che prova a rimediare agli errori commessi in passato. Non sapevamo invece cosa aspettarci da Sparta - in competizione al festival di San Sebastián - vista la complessa tematica affrontata. La storia ruota intorno a Ewald, un uomo sulla quarantina che, cercando di scappare dalle sue disturbanti tendenze, decide di lasciarsi alle spalle la sua vecchia vita trasferendosi in un villaggio sperduto della Romania. Una volta arrivato decide, molto ambiguamente, di aprire una scuola di judo per bambini, consentendo al grave disturbo che lo affligge di mettere a dura prova il suo comportamento. È difficile giudicare un film come Sparta, vista la controversa figura del suo protagonista. Seidl mostra chiaramente il comportamento malato di Ewald senza mai oltrepassare un certo limite ed eliminando qualsiasi forma di empatia nei suoi confronti. Ma, nonostante tutto, la rappresentazione del protagonista potrebbe risultare problematica per qualche spettatore. Al di là della difficile materia trattata, Sparta rimane un discreto character study che apre un dibattito su come argomenti di questo genere debbano, e possano, essere elaborati sul grande schermo.
Something You Said Last Night, presentato al Toronto Film Festival, si segnala come il promettente debutto della regista canadese Luis De Filippis. La pellicola racconta di Ren, giovane scrittrice transessuale che decide di accompagnare la sorella minore Siena in vacanza con i genitori. Le due sorelle non sono esattamente entusiaste all’idea, soprattutto perché l’eccentrica personalità dei genitori - di origini italiane - le mette spesso a disagio. De Filippis parte da una premessa piuttosto semplice, quella della famiglia in vacanza, per mostrare il complesso rapporto tra le due protagoniste e mettere in luce alcuni dei problemi che Ren deve affrontare quotidianamente, come il disagio nel trovarsi in un paesino costiero estremamente conservatore. A differenza di svariate opere con protagoniste transessuali, Something You Said Last Night non vuole rappresentare Ren esasperando le sue difficoltà o utilizzando cliché melodrammatici, ma semplicemente raccontare la quotidianità della ragazza soffermandosi sui momenti intimi che condivide con gli altri personaggi, un approccio tematico simile a quello del film Monica (2022) di Andrea Pallaoro. L’opera merita di essere vista per la sensibilità con cui De Filippis rappresenta le dinamiche di un nucleo familiare e soprattutto per la performance di Carmen Madonia, interprete principale del film.
L’ultimo lungometraggio che oggi vi proponiamo presenta alcune caratteristiche in comune con il film precedente; è un’opera prima, si focalizza su una famiglia in vacanza e l’approccio stilistico adottato è privo di risvolti melodrammatici. Stiamo parlando di Aftersun di Charlotte Wells, presentato al Festival di Cannes in occasione della settimana internazionale della critica, dove si è rivelato uno dei debutti più impressionanti dell’anno. Il film narra di Sophie, una donna sulla trentina che sta diventando madre e che inizia a ricordare la vacanza, compiuta a undici anni, con il padre Calum. Ciò che segue è il resoconto di quella settimana che, dopo un primo, spensierato, momento, si trasformerà in una sofferta testimonianza del complesso, e non sempre gioioso, rapporto tra i due. Nel corso del film il comportamento distante del genitore non viene mai spiegato chiaramente, forse perché la visione dello spettatore è filtrata dal punto di vista della protagonista undicenne. La descrizione profondamente intima che Wells fa della relazione tra padre e figlia viene resa attraverso alcuni tocchi stilistici sublimi, dall’aggiunta di alcune sequenze girate con la MiniDV a una bellissima e toccante scena dove Calum balla Under Pressure dei Queen, fino a giungere alla struggente inquadratura finale. Con queste premesse si può affermare che la giovane regista abbia una carriera davvero promettente davanti a sé, e per questo vi consigliamo di recuperare il film nei prossimi mesi in occasione della sua uscita su MUBI.